Civetteria femminile

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La cosmetica è per la donna la scienza del cosmo, non quella che dovrebbe  decifrare e spiegare le leggi della natura, bensì le leggi dell’apparire bella a tutti i costi. E a che costo! Scocciature  talvolta dolenti (leggasi  ceretta depilatoria) e fatiche immani in palestra, diete spossanti da esaurimento nervoso ( poco importa se poi non si ha più nemmeno la forza di stirare) e onerose per il portafogli. Le donne investono – a detta dei lui spendono- tanto in prodotti di bellezza, sin da adolescenti . Del resto in giovane età, hanno poca autostima e si vedono sempre brutte …così incominciano a nutrire la pelle del viso con creme idratanti, a colorare l’incarnato delicato con fondotinta e  terra di sole (quest’ultima sa di qualcosa di ustionante), a contornarsi labbra e palpebre. Tutto per apparire più belle,  o semplicemente diverse da come si vedono.

Qui casca l’asino e… l’intera stalla.

 Quando una donna si sente brutta, disordinata e mai abbastanza in tiro, magari invece suscita maggiore curiosità  o rivela un naturale sprizzo di autenticità. Saper truccarsi è un’arte, rispondente al detto “ stucco e pittura fan fare bella figura” divenuto poi il motto imperante degli imbianchini e delle estetiste. Ogni donna si allena per anni davanti allo specchio, si cimenta in  estenuanti prove  di rossetti e ombretti nell’immensa varietà policroma per trovare la combinazione più compatibile  al colore degli occhi e dei capelli oppure del vestito ( e vi pare nulla?). Occorrerebbe un software specifico per agevolarci in calcoli probabilistici di sfumature che fanno perdere tanto tempo e pazienza con esiti  talvolta deludenti, o comunque mai rispondenti alle aspettative iniziali.

 Vediamo un po’ chi delle gentili pulzelle non si identifica nei seguenti casi:

 

1. Risveglio da bradipo. Hai dormito le tue belle 6 ore ( 4 se hai passato una nottataccia e 9 se hai ghirescato) e nel rituale quotidiano davanti allo specchio ti accorgi che hai le occhiaie. Cominci a chiederti se sei stanca, se si avvicina il ciclo, responsabile di tutti i mali reali ed immaginari, se hai dormito male, se hai preoccupazioni. Nulla di nulla. E allora perché? Perché sì. Punto. Accettale, metti un po’ di correttore e non crocifiggerti inutilmente.

 

  2. Un malaugurato giorno, in cui sarebbe stato meglio non avere lo specchio, ti accorgi che qualche capello non è più in tinta con la chioma, o meglio è canuto. Apriti cielo! Anche a  16 anni, è una tragedia: è il sinonimo di vecchiaia incipiente, di  collettivo disgusto sociale e di presunta emarginazione e quindi decidi di entrare nel coloured Olimpo. A settimane alterne dovrai far fronte alla crescita ultrarapida, secondo me causata dalle stesse tinture, fertilizzanti del cuoio capelluto. La schiavitù è segnata per sempre: ti sottoporrai a periodici trattamenti fai da te, se sei abbastanza abile, o a tormentose e tormentate sedute dalla parrucchiera con conseguente sciroppamento di tutta la top twenty di  spettegulèss andanti a livello locale e nazionale.

 3. Le labbra: il tormentone recente. Non vanno mai bene, sono  troppo sottili o troppo carnose…e allora molto meglio le imbottiture artificiali che ti rendono simile ad una cernia? Dopo di che potresti ambire al ruolo di   protagonista in  una novella  Batracomiomachia ( la guerra dei topi, anzi delle tope,  e delle rane)

 4. Le mani o meglio le unghie. Forse Crudelia De Mon ha ispirato la  moda dilagante delle unghie artigliate e posticce…mi chiedo come si riesca a scrivere al pc con quelle cose ingombranti e sottili che sfregano sulla tastiera peggio di un gesso sulla lavagna o come si riesca ad effettuare più di tre lavaggi a mano e consecutivi  di stoviglie. Immagino una nutrita schiera di colf tuttofare  che supportano la bella rapace, impedita nelle mansioni domestiche e dedita a  contemplarsi  davanti allo specchio per lunghe interminabili ore in una sorta di narcisistico delirio.

 5. Quando la natura reclama il suo dazio e  se sei un’insicura, ossessionata dalla bellezza apparente, credi di poter  fermare il tempo ricorrendo a  forzature e rimedi artificiali per riempire le rughe e rimpolpare  forme e zigomi. Peccato che talvolta  si sfiori il ridicolo.

 Ma perché trasfigurarsi così tanto? E’ vero Cura il tuo aspetto: chi ha detto che l’amore è cieco? ma Se  Chiedete al rospo che cosa sia la bellezza, vi risponderà che è la femmina del rospo (Voltaire) e Lasciamo le belle donne agli uomini senza fantasia (Proust) anche perché la bellezza, dopo tre giorni, è tanto noiosa come la virtù. (George Bernard Shaw).

 

Forse l’aspetto esteriore suscita una prima impressione, quella che si basa sulla percezione dei sensi. In realtà valgono  di più uno sguardo, un sorriso, il portamento, lo stile, qualità speciali e diverse non sempre date in dotazione da Madre Natura, ma optional  acquisiti  nel tempo con artificiosa sapienza.

 

Valorizzarsi esteticamente senza eccessi può contribuire a sentirsi bene con se stessi, ma in fin dei conti  vale la pena di perdere la libertà di esser ciò che si è, omologandosi a canoni estetici imperanti?

 

 

Il mare: quant’acqua – Nico Orengo

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Il mare: quant’acqua
da millenni inquieta
capriola tra il fondale
e la riva, sgomitola
vele d’onde e piane,
strappandosi, da terra
all’orizzonte,
in voragine di viola
e veli azzurri,
respirando infantile
o in scoppi d’asma,
vivendo il ventre
di una madre, ampia.

 

Nico Orengo, Cartoline di mare vecchie e nuove, il mare: quant’acqua, 1999

 

Zucchine e carote alla scapece

Vi propongo due contorni appetitosi a base di carote e di zucchine , da consumare anche freddi.

Le zucchine alla scapece sono un piatto tipico della cucina napoletana. Scapece deriva dallo spagnolo escabeche  con il quale si indica l’ aromatizzazione degli ingredienti, in questo caso delle verdure, nell’aceto.

 

Zucchine alla scapece

Ingredienti

Zucchine

Agliozucchine alla scapece

Menta

Aceto

Sale

Olio per frittura

 

Preparazione

D’estate le zucchine, le zucche lunghe e le zucchette infestano gli orti.  Consiglio di usare quelle un po’ grandi ; lavarle e tagliarle a fette rotonde, friggerle in olio abbondante e scolarle quando hanno un bel colore dorato. Asciugarle con carta assorbente da cucina. Condirle con aceto o aceto balsamico, pezzetti di aglio  e foglioline di menta fresca. Per un’acidità leggera si può diluire un po’ di aceto con l’acqua, si lascia intiepidire sul fuoco e poi si versa sulle zucchine. Mettere in frigo e servire dopo qualche ora, almeno tre, perché le zucchine si aromatizzino bene .

 

 Carote alla scapece.

Ingredienti

Carotecarote alla scapece

Aglio

Peperoncino

Origano

Aceto

Olio d’oliva

 

Preparazione

Lavare e sbucciare le carote, tagliarle a bastoncini, lessarle in acqua, sale  e aceto ( due cucchiai di aceto), scolarle quando sono cotte, ma non scotte. Condirle con pezzetti di aglio e di peperoncino, un filo di olio d’oliva, aceto o aceto balsamico e una manciata di origano. Mescolare bene e servire fredde.

 

Grazie di cuore…

 cuore -folonUn post su luoghi di confine, che cambiano prospettiva di vita e di fede, per la seconda edizione del Carnevale della Letteratura ospitato da Il Coniglio mannaro” di Spartaco Mencaroni. Un doveroso omaggio a un bambino, che non dimentico, e alla ricerca scientifica.  

“Accadono cose che sono come domande. Passa un minuto, oppure anni, poi la vita risponde”(Alessandro Baricco).

Una chiamata improvvisa, inaspettata proprio quando avevo raggiunto un equilibrio vivendo in una sorta di standby, tra la rassegnazione e l’attesa con  l’inconscia rimozione dell’inevitabile.  

A volte ci sono cose difficili da narrare seguendo un filo logico. Proprio io, che cerco  una logica in ogni cosa, oggi mi arrendo  alla fatalità.

 

Il caso volle che, uscendo da una chiesa di Roma,  l’occhio mi cadesse di sfuggita su un’immagine e, tornata sui miei passi,  la scrutassi con attenzione ma non con gli occhi dell’arte. A quella santa degli impossibili rivolsi un pensiero, sempre lo stesso, prima svogliato poi  più intenso.

La domenica  successiva ripartii e tornai a casa in Liguria. Nel pomeriggio di  lunedì azzardai una scelta, combattuta, con la perplessità  del distacco, di una necessaria lontananza che complica tutto e che potrei ovviare solo con una clonazione per conciliare le esigenze della famiglia di origine e di quella acquisita. Mi frullava in testa da tempo e la rinviavo da  qualche anno. Nella notte di lunedì però  un cuore bambino  chiamò e lei  partì in fretta e furia per riceverlo. Era arrivato il momento tanto sperato e temuto da tutti noi. Col senno del poi, concludo che proprio  questo allenamento di prevedere e rimuovere dai miei pensieri  il rischioso evento risolutorio aveva indirettamente maturato  un sorprendente autocontrollo, necessario nel momento dell’emergenza quando  è inutile farsi prendere dal panico e non giova una qualsiasi decifrazione emotiva e razionale.

Avevamo programmato il da farsi: la valigia e le cartelle cliniche erano pronte, l’ambulanza era stata preavvisata, ma l’imprevisto c’è sempre e ci mise lo zampino un benzinaio che invece del pieno di benzina pensò bene (anzi non pensò affatto) di farne uno di diesel all’ auto di papà. Così  dopo aver lasciato le chiavi di casa ad un’amica per provvedere a Skip vero, che si fece volontariamente rapire e coccolare, inforcai la mia Kiki quattroruote e sconfinai in quel di Lombardia con papà, ripetendomi più volte di  guardare bene la strada  per non  distrarmi.  Beato il giorno in cui mi decisi di riprendere  a guidare!

Quel  verdetto di nove  anni fa  se da una parte ha aiutato a  comprendere i pregressi quarant’ anni di “forse, tentiamo, può darsi…”  e a ricomporre  la storia familiare di cuori indomiti, dall’ altra   ha innescato razionali meccanismi di autodifesa,  perché in certe circostanze  bisogna selezionare anche le paure per aggirare quelle più infondate   e prepararsi  a sbarcare sull’ unica riva possibile, cercando di cogliere gli approdi più dolci.

 

Talvolta le ore sembrano ritagli di eternità. Frastornata  la guardavo, stando  dietro una vetrata con i miei genitori, che d’un tratto mi apparvero carichi di tutti gli anni e delle  speranze riposte. Come noi anche  tanti altri sconosciuti, provenienti da ogni parte d’ Italia, in piedi e  in silenzio ad omaggiare la grandezza della scienza. Quanta solitudine  a volte si prova nelle proprie emozioni…

Abbassando lo sguardo sul marmetto di quel confine trasparente  vidi una figurella e poi altre, una distesa di figurelle, tutte allineate, tra le quali c’era anche un rosario in una scatoletta. Tributi di fede per gli intercessori di una grazia ricevuta, testimonianze di speranza. Parlavo mentalmente  all’ ignoto bambino del cuore e continuavo a pensare che avrebbe dovuto sempre custodire in vita  il proprio cuore e rincorrevo idealmente i suoi genitori, unicamente  grandi nella generosità di offrire nuove opportunità di vita. Non riuscivo e non riesco ad immaginare quel donatore se non col volto dei miei figli a dodici anni. La vita è strana: ruba e regala quando meno te l’aspetti. 

 

Quel cuore bambino ora palpita a nuovi compromessi, stillando in lei  tante  gocce, un flusso di vita, e lo penso spesso quando la osservo nei suoi  costanti progressi. Da qualche tempo si sta ambientando, batte più forte di un tamburo nella conquista di un nuovo ritmo per reclamare l’istinto alla vita. Quel cuore ha  rappresentato una svolta per scrostarci dalla zavorra di una vita intera. Per me è stato  quasi un nullaosta per  lasciare le  nostalgiche terre blu e rimettermi in gioco, tessere una nuova rete di interessi e di relazioni, perché ho finalmente potuto sentire il  bisogno di riappropriarmi dei miei desideri nella ricerca  del bello e del nuovo  in una città che mi affascina e mi  ha parlato sin dal primo momento. 

 

Tutto questo per confermare che l’Italia detiene un primato internazionale nel settore dei trapianti   e che alcune malattie sono diagnosticabili grazie ai  recenti progressi della ricerca sulla definizione degli aspetti diagnostici , decorso clinico della malattia e sviluppo  di nuove strategie terapeutiche. Pochi sono i ricercatori clinici che si occupano di malattie rare e collaborano intensamente a livello internazionale con centri di ricerca americani ed europei , nonostante i  limitati supporti finanziari. Convivere con malattie croniche per il  paziente e i suoi familiari significa fare i conti con un senso di imprevedibilità  e una mancanza di controllo sull’ignoto, induce a ripensare le priorità della vita  e a ristrutturare un nuovo ordine di  ruoli e valori. Impone una corazza  che scherma dalla leggerezza dell’essere, che sprona a cercare di vivere normalmente, per quanto possibile, e a trovare forza per trasmetterla e non fare perdere la speranza.

 

Accadono cose che sono come domande. Riemergono a tratti, poi ad un certo punto le zittisci per  guardare avanti. A volte le eccezioni fanno saltare andamenti lineari, fermano  il  tempo che per lei  si pensava scaduto e per lui che non avrebbe dovuto fermarsi in una staffetta ove punto di partenza e di arrivo coincidono nell’ineluttabile trionfo della fatalità che sconfigge ogni logica. L’unica certezza è una profonda riconoscenza  per coloro che hanno reso e rendono possibili i miracoli  con grande professionalità medica da una parte, ma soprattutto con un’ammirevole generosità dall’altra.

 

A quei genitori noi tutti  siamo vicini  e vogliamo esprimere la nostra gratitudine per averci consentito di adottare il loro cuore bambino  in una nuova vita.

 

 

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La nuotatrice

Con questo post partecipo alla seconda edizione del Carnevale della Letteratura  ospitato da “Il Coniglio mannaro” di Spartaco Mencaroni che ha  proposto il tema

“ i luoghi di confine”.  

Buona lettura! :)

 

Le prime ore di luce l’hanno sempre attirata, e lei le ha sempre rincorse. A quindici anni aspettava l’alba e alle cinque usciva di casa di nascosto per raggiungere il lungomare e osservare  il mare piatto che iniziava a svegliarsi sulla riva. Le piaceva scoprire a grandi passi il cammino retto, dritto, vuoto e nudo del litorale che scorreva a est verso l’infinito nelle sfumature del giorno.

Bottiglie vuote e carte, rigurgiti serali dei vacanzieri, stavano rannicchiate sul muretto o nei pressi di cestini e la distraevano da quella devozione per il giorno.  

Zampanò scendeva dalla panchina e le andava incontro fuseggiando . Era un vecchio gatto, forse uno spiritello incarnatosi in un felino dalla zampa tesa, calcificatasi male, che gli dava un’ andatura inconfondibile anche da lontano . Un soprannome  ben calibrato  per un gatto dalla spiccata personalità, resistente e sornione  nella sua placida esistenza, circoscritta ai pitosfori del sottopasso, e garbatamente ruffiano  di fronte a prodighe offerte  di pappatoria. Dopo il quotidiano rituale di coccole e saluti, attraversava il lungomare e scendeva nello stabilimento sottostante, forse con la speranza di trovare una colazione degna del suo felino appetito.

Qualche raro  pescatore era già sulla scogliera con la lenza tesa in mare e il cappello ben calato sulla testa,  immobile, chissà se in meditazione o dormiveglia. Lei procedeva a passo svelto, ripercorreva il lungomare e rientrava a casa prima che i suoi si alzassero, finché  un giorno il padre le chiese , dissimulando male  l’innata preoccupazione per le misteriose uscite mattutine. “È troppo presto uscire alle cinque del mattino.” Con quali parole  poteva spiegargli che il mare la chiamava, che quella luce rosata l’attendeva e non si accontentava di scorgerla dalla terrazza di casa ma  aveva bisogno di ritrovarsi e dirsi buongiorno nel silenzio rasserenante del mattino.

 

A quindici anni la vita inizia a pulsare forte con tante, contrastanti emozioni che morsicano il cuore, con un carico di energia che ha bisogno di venire fuori per non implodere dentro. A quell’età l’intuizione prevale ancora  sulla logica, che sgomitola fili ingarbugliati, e  non riesce a trovare risposte opportune ai quesiti sempre più incalzanti, alle perplessità e ai timori del domani. Al cambiamento apparente  del corpo e della voce si sovrappongono l’inquietudine, il dubbio, un senso di inadeguatezza e  una  latente insicurezza  di fronte a un presente in cui bisogna ripensarsi per ripensare nuove e più confortanti certezze. Troppa confusione e nostalgia di àncore e del futuro, mai messe a fuoco in maniera nitida, chissà come  riescono a rendere   possibile il miracolo della crescita perché la miopia dell’adolescenza in fondo è il motore della vita, la spinta alla ricerca, alla scoperta di sé e del mondo.

Forse per questa primordiale e  naturale danza  emotiva  iniziò a riprendere il nuoto,  prima  su brevi distanze, che via via divennero sempre più lunghe. Iniziò ad allenarsi sistematicamente da sola e d’estate, per  scaricare e incanalare energie perché sentiva che era necessario per sentirsi meglio, ignorando che avrebbe gradualmente conquistato  il coraggio di vivere.

 

Aveva imparato a galleggiare da sola a tre anni, stando prona  laddove si infrange l’onda , battendo i piedi come facevano i grandi, bevendo e sputando quando metteva la testa sott’acqua e, incoraggiata dalle risa di mamma e zia, si destreggiava in quel gioco. Un giorno  un’onda più lunga la risucchiò verso il mare e allora batté i piedi più forte che poteva  e per istinto mosse le mani a cagnolino nel tentativo di non affondare   e si trovò un po’ distante dalla riva. Nel mare. D’un tratto si accorse  che sotto i piedini non c’era più  il fondale di pietre e sabbia e allo stesso tempo vide arrivare a grandi falcate la madre   che  prima, con ansia,  le disse che era tremenda, poi divertita la lodò per la sua bravura mentre la sorreggeva sotto  con mano ferma quando la stanchezza la lasciava lentamente decantare tra le braccia vellutate delle alghe.

Da allora imparò ben presto a sguazzare e ad allontanarsi dalla spiaggia in un periodo divertentissimo per lei,  ma  molto movimentato per i suoi genitori che non riuscivano a godersi un po’ di sole in santa pace . Stavano  in piedi sulla battigia cercando di non perderla di vista e si tranquillizzavano solo quando era in un gruppo di bambini più grandi e  più consapevoli  dei pericoli del mare. Aveva  acquisito una buona acquaticità, nuotava con estrema facilità sia in superficie che sott’acqua dove con naturalità tratteneva  il fiato per  rilasciarlo un po’ alla volta e allargava  quanto più poteva le braccia per avanzare  tra gli scogli , mentre le gambe scalciavano in fretta dando direzione e velocità. A cinque anni il senso dello stupore fa scoprire il mondo e di sicuro quello nascosto del mare era una tentazione troppo forte per la sua innata curiosità, finché non subentrarono le paure, come  la paura di una mostruosa  murena che poteva sbucare all’improvviso tra gli scogli, del pescecane che sfrecciava in superficie e che invece risultò essere un motoscafo e causa   di incubi ricorrenti, del dolore all’orecchio dovuto ad una lesione del timpano che si era provocata grazie alla sua incoscienza. Cominciò allora a solcare in superficie  il mondo visibile ed  esperibile delle onde.

 

“Facciamo a chi arriva prima all’orizzonte” disse un giorno  il cugino più grande a una schiera di bambini. Tutti corsero in acqua e iniziarono a nuotare in avanti, sbattendo a caso mani  e piedi sull’acqua in uno slancio di grida  e di schizzi. Lei era tra i più piccoli e non riusciva a farsi largo in quel caos di spruzzi e di gambe scalcianti, ma non desistette. Man mano che gli altri si allontanarono sollevando  acqua e risa, smise di avanzare come un  cane e  iniziò a nuotare sul serio, a stile libero con la  testa ben dritta in avanti, come le aveva insegnato il  papà. Dopo un’iniziale resistenza e fatica, imparò a sentire il respiro, a coordinarlo con il movimento degli  arti, questi ultimi veloci, sempre più  veloci, le davano slancio, le bracciate divennero più regolari e così procedeva, avanzava senza rendersi conto di allontanarsi sempre più dalla riva . Non poteva fermarsi , né voleva fermarsi  per non darla vinta ai grandi e guardava davanti a sé l’orizzonte, quel traguardo sottile dove sprofondava  il sole. Poteva farcela. Ogni tanto trovava qualcuno fermo che aveva desistito dalla gara, che a volte la incitava, a volte l’esortava a fermarsi.

L’orizzonte però si spostava sempre più, era irraggiungibile per quanti sforzi potesse fare. Stanca si fermò, ritrovandosi al largo; sentì il cugino che a metà percorso la chiamava dicendole di tornare indietro. Aveva il fiatone  e   si mise a “fare  il morto” a pancia in su per riposarsi e con le braccia ben aperte e appoggiate sul mare scrutò  quel cielo  che le parve più azzurro, luminoso e vicino del solito. Sentiva l’affanno del respiro che pian piano scemava, le onde che la cullavano dolcemente  in una ripresa di forze e di respiri più calmi. Provava anche una grande soddisfazione perché era arrivata più vicina all’orizzonte, a quel confine tra mare e cielo, e per un po’ le sembrò che il proprio corpo fosse una linea di demarcazione tra gli abissi  del mare e l’infinito del cielo.

 Quel suo piccolo sogno di gloria si infranse ben presto quando riconobbe la voce del cugino che la indicava a don Peppe che avanzava  con remate energiche e veloci. Dove andrà così di corsa? Iniziò a pensare al famigerato pescecane che popolava le sue paure infantili grazie ai racconti degli adulti  che in tal modo pensavano di frenare la sua vivacità. Poi si accorse che don Peppe si dirigeva verso di lei, seguito a nuoto dal cugino, e  capì che erano lì per lei. Non sapeva se avere paura o andargli incontro. Cominciò a pensare di avere sbagliato in qualcosa, ma in che? Aveva partecipato ad una  gara e l’aveva vinta. Don Peppe si accostò con cautela, le porse  una mano  nodosa e forte alla quale si aggrappò e che  la issò  sulla barca “ Si’ proprio ‘nu pesciolino. Ma nun t’allontanà chiù ch’’a passano e’ motoscaf” … “e anche i pescecani” , aggiunse lei , memore delle raccomandazioni dei suoi. A riva trovò sua zia preoccupata  e sua madre sul piede di guerra. Le bastò guardare  i loro occhi per capire che l’aveva combinata grossa, e che questa sua bravata non sarebbe passata impunita. A sette anni però che si può capire dei pericoli del mare, se non che è popolato da murene  dai denti avvelenati e da famelici squali? In compenso anche gli altri cugini ebbero una bella ramanzina perché l’avevano istigata a sfidare chissà quali nefandezze  nel regno di Nettuno, invece di proteggerla.

 

Insomma da quel dì le fu consentito di fare bagni al mare, ma solo a tempo. Sì a tempo, non più un solo interminabile bagno che durava quanto tutta la permanenza in spiaggia. Il tempo era scandito dalla comparsa di  rughe che arricciavano i polpastrelli  e dal colore viola delle labbra , segnali di immediata e improcrastinabile risalita a riva, altrimenti  doveva subire  la mortificazione di essere prelevata a forza dalla madre, affronto insopportabile per uno spiritello libero. Sulla spiaggia aveva comunque  sempre qualcosa da fare, soprattutto cercare legnetti e pietrine colorate sotto i piloni dello stabilimento, provocando strenue contrattazioni, ora persuasive, ora minacciose, di mamma e zia perché ricomparisse  tra i più comuni  mortali  e smettesse di  giocare al minatore. Decorava con pietre e sabbia sgocciolata a mo’ di glassa immaginarie e  appetitose torte, con sassolini, pietre pomice e legnetti  i torrioni di un castello di sabbia circondato da un profondo fossato, nel quale si calava fino a  mezzo busto attirando l’attenzione di molti bambini della spiaggia e il disappunto del bagnino perché quella voragine poteva fare inciampare qualche distratto vacanziero del week end. Ma prova a “di’ a ‘o mar e sta’ quiet” ( prova a dire al mare di stare quieto). Era un’ondina selvatica. Era tutt’ uno col mare e  viveva con estrema naturalezza il  ritorno al liquido amniotico di sua madre e lo slancio verso l’ignoto con  l’intraprendenza di suo padre.

Carol Bennet

 

A quindici anni però  il mondo si capovolge. Il mare la iniziò a chiamare con una voce lusinghiera ma indecifrabile. Quell’orizzonte evocava il mistero della conoscenza  e  un timore reverenziale, seduceva la sua fantasia verso mondi lontani e civiltà remote, divenne la metafora della vita e dell’umana gente. Suscitava in lei  la malía dell’ignoto, il forte richiamo dei popoli sconosciuti di ogni tempo e luogo, il sudore e la nostalgia  di generazioni di naviganti e di emigranti.

La paura dei mutamenti della crescita, che trasformava il suo corpo e le rubava la spensieratezza, non ostacolò la sopita passione infantile.

Al mattino abbracciava il mare, madre e padre insieme, e con lunghe nuotate lo domava, esiliava  ogni dubbio e inquietudine, reclamando la dose quotidiana  di vitalità e di adrenalina per sedurre la speranza e il futuro. Quasi per gioco iniziò ad allenarsi per sfidare il mare,  ma in realtà sfidava   se stessa in una gara di resistenza, per caricarsi di volontà di potenza e sentirsi viva. Un allenamento gratificante, un modo inconsapevole per temprare anima e corpo con la forza concentrata  nella bracciata cadenzata e coordinata al respiro e alla battuta dei piedi, capace di  accelerare in sforzi graduali e a decelerare con rinunce e battute d’arresto altrettanto graduali. Solcava il mare come una freccia scagliata prima in lontananza e poi in parallelo  alla riva. Guardava i fondali e la costa, senza mai perdere di vista le boe che le davano il riferimento della distanza ma, soprattutto  quando nuotava verso est, volgeva il viso verso l’orizzonte, muta presenza in quel rituale di iniziazione.

Nuotare su lunghe distanze era per lei conoscenza dei propri limiti e potenzialità, valutazione dei rischi e regolazione delle forze, estenuante modellamento del corpo e della tenacia ,capacità di orientarsi con il sole e con la mente, di tagliare l’onda controcorrente, di esplorare silenzi, di ascoltare e di ascoltarsi, di fantasticare.  Quando iniziò la moda dei windsurf si tenne più vicina alla costa. Nuotare in stato di allerta era ancora più  faticoso, rischiava di  compromettere  il piacere del nuoto e di cedere all’insicurezza del pericolo che in ogni contesto frena entusiasmi e crea attriti.

 

A venti anni si accorse  che il mondo aspettava un suo qualsiasi  contributo ma l’umanità non era  come credeva, e ne era diffidente, se non ostile, era  troppo impegnata a respirare rabbia e desiderio, a condannarsi e ad assolversi, a ricreare un  nuovo ordine ed  equilibrio, a cercare  armonia, bellezza e  conferme da un dio qualunque e dalla sorte, a inseguire orizzonti, speranze e sogni, a oltrepassare confini  per definirne altri, a scoprire quella  semplice legge che “niente si distrugge, ma tutto si trasforma” nel mare di dentro.

“Quando crederai  in te stessa, non ti fermerà più nessuno”. Era l’indelebile e indigesta  sentenza di   un maestro di vita, uno di quelli che compare quando meno te l’aspetti e poi ti tradisce scomparendo troppo presto nell’ aldilà.

“Andiamo, te la senti?”  disse una mattina suo padre. “Tu vai fin dove vuoi, io ti seguo camminando sulla spiaggia e sul lungomare. Fermati quando sei stanca”. Sua madre stava per intervenire con la solita ansia protettiva , ma poi guardò il marito e tacque.

 Lei non capiva dove volesse andare a parare suo padre, come in fondo lei stessa.

 

Alle sette di mattina il mare palpitava  ancora con  il calmo respiro della notte e  a stento le onde  brucavano la riva. Si avvicinò pian piano a quel dio imprevedibile, si bagnò lentamente per ambientarsi nelle fresche lenzuola marine, scrutò a est l’aureola del giorno, sciolse un po’ i polsi e le caviglie mentre  valutava la traiettoria da seguire, e partì. Prima lentamente, poi  con  il proprio ritmo,  abbracciò ininterrottamente per circa tre chilometri quel suo mare con una padronanza, una libertà e un’euforia mai provate.

 Circa trent’anni dopo qualcuno ha detto che “Il nuoto è come la musica, non si vede ma si sente.”

Ed è vero.

Eric Zener

 

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Forse questo articolo aiuta a capire la mia insofferenza per l’affollamento estivo , comunque bisogna pur guadagnarsi le indulgenze e imparare a sopportare e inoltre anch’io sono stata una madre costretta a rincorrere il proprio figlio pestifero sulla spiaggia visto che si buttava in acqua pur non sapendo nuotare. Degno figlio di sua madre!

Premetto inoltre  che io e i miei cugini eravamo ben felici di sottoporci all’estivo addestramento spartano…quasi para militare.

puolo

 

Ogni anno torno alla “mia” spiaggia,a quel che resta di quella spiaggia perché lì è sorto un elitario stabilimento balneare con un comodo solarium frequentato da opulenti clienti ipergriffati, quelli che ostentano status symbol, strilli e un presunto esprìt de finesse . Ormai non è più prudente nuotare da una baia all’altra a causa dei motoscafi che sfrecciano di continuo lasciando puzzolenti scie di nafta. Non  ci sono più i vecchi pescatori, non ci sono tante stelle marine ma solo conchiglie e qualche granchietto , non ho più il coraggio di addentrarmi nelle grotte marine e di mangiare frutti di mare crudi appena pescati, ma  ogni volta che torno lì , penso a quanto sono stata fortunata .
Quando trascorrevo le vacanze estive a casa di mia nonna a Sorrento, desiderate per tutto l’anno perché ritornavo alle mie radici e ai miei affetti, andavo al mare con zii, zie e cugini. Arrivati a piedi ad un paese di pescatori che sorgeva sul mare, gli adulti prendevano una barca a remi sulla quale caricavano borse e bottiglie di acqua e noi bambini, sei cuginetti molto affiatati , dai 6 agli 8 anni, seguivamo la barca a nuoto per arrivare a una splendida baia, conosciuta da pochi. Lì c’era un mare caraibico con acque cristalline solcate soltanto da barche a remi di pescatori. Questi ci conoscevano, ci soccorrevano quando ci facevamo male, ci riportavano a riva se eravamo stanchi o in difficoltà . Era la “nostra” spiaggia fatta di sabbia e scogli dove  ci raggiungevano a nuoto o in barca gli amici e dove siamo cresciuti insieme per molte estati.

dal web

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Da bambini, ci divertivamo a esplorare grotte e a giocare nelle sorgenti di acqua sulfurea ( insomma facevamo una sorta di idromassaggio naturale!), a raccogliere stelle marine, conchiglie, a mangiare ricci di mare e patelle, senza timore di prendere l’epatite, a correre sugli scogli, a fare torte e castelli con la sabbia nera decorandoli con le pietrine colorate. Più tardi imparammo a costruire il vulcano cimentandoci per ore nello scavare pian piano il camino , facendo attenzione a non fare franare le pendici …e ci sentivamo soddisfatti quando alla fine di lunghe discussioni raramente pacifiche, per portare a termine il nostro Vesuvio in miniatura, riuscivamo ad accendere la carta sotto e a farlo fumare.
I nostri tatuaggi permanenti erano graffi e tagli sui piedi e sulle gambe, talvolta spine di ricci,  ma non piangevamo mai troppo perché sapevamo che se ci fossimo lamentati, saremmo tornati prima a casa . In compenso però, tornati a casa, la sola vista dell’ago bruciato, che serviva ad estrarre le spine dei ricci, bastava a farci improvvisare sceneggiate esagerate, per avere anche due coccole in più, e a turno ci confortavamo dicendoci che non era nulla , ben sapendo che prima o poi sarebbe toccato ad ognuno di noi perché tanto avremmo continuato a disubbidire ai grandi pur di scappare a giocare tra gli scogli.
Stavamo al mare per 5- 6 ore, anche perché andavamo in una spiaggia isolata e lontana dal paese e facevamo un solo bagno cha durava quanto la permanenza in spiaggia! Non avevamo mai fame perchè eravamo troppo indaffarati a scorrazzare liberi, per cui pranzavamo a casa al ritorno. Per tornare a casa dovevamo nuotare di nuovo fino al paese dei pescatori e poi fare circa un chilometro in salita sotto il sole del primo pomeriggio per raggiungere le auto parcheggiate all’ombra degli ulivi. Due miei cugini ambivano ad arrivare per primi e correvano avanti prendendo in giro me e le mie cugine che, preferivamo non replicare e camminare in silenzio ascoltando il frinire delle cicale. Un contadino ci aspettava in cima alla salita per offrirci un po’ di granita al limone.

 capo di sorrento

In quella spiaggia abbiamo trascorso anche le estati della nostra adolescenza: eravamo sempre più numerosi,a volte una quarantina tra ragazzi e ragazze .Ci conoscevamo tutti e giocavamo a pallanuoto e a pallavolo, facevamo gare di tuffi e di nuoto, senza distinzione tra maschi e femmine. Tutto  però diviene e muta, così finì la pace quando la spiaggia fu scoperta anche dai vacanzieri domenicali, amanti degli strilli e delle radio, quelli che sbarcavano dagli yacht con gli ombrelloni con la tenda intorno , simile a quelle dei beduini del deserto.Sorsero ben presto problemi di convivenza dal giorno in cui accidentalmente un pallone finì in un piatto di pasta e lenticchie che una mater matronissima reggeva inseguendo per tutta la spiaggia il piccolo destinatario che, ignudo, scappava di qua e di là per sottrarsi all’imboccamento forzato.

 Intanto la cava di pietra dietro la spiaggia fu venduta e quando iniziarono i lavori per lo sfruttamento turistico di quella zona, noi iniziammo ad emigrare. Io lo ero già da molti anni. Lo studio e il lavoro ci divisero: ognuno di noi ha poi preso la sua strada, ma d’estate ritorniamo alle nostre radici ed è sempre bello ritrovarsi lì coi propri figli, coniugi o compagni e continuare a ridere e a divertirci. Anche se la vita ci ha cambiati, i ricordi di quelle estati spensierate ci uniscono ancora e ci fanno recuperare con un po’ di nostalgia un senso di appartenenza.

Tutti al mare (prima parte)

Come è bello andare al mare!  Cercare di sdraiarsi al sole recuperando qualche centimetro di spiaggia in modo da non sentire l’odore degli abbronzanti e del sudore dei vicini ma, come sempre, non appena ho finito tutte le operazioni d’assetto da spiaggia,cioè la  sistemazione del telo da spiaggia e del libro o del quotidiano che leggo solo se la giornata non è ventosa, spalmatura dell’ olio ultraprotettivo che tanto non mi risparmia la scottatura di routine, attivazione del cellulare qualora decida di essere reperibile, arriva qualcuno che si piazza ai miei piedi. È il solito seguace dell’ aggregazionismo da luogo pubblico o aperto al pubblico . Questa è una sindrome che si manifesta in tutti i luoghi, aperti o chiusi, in cui si debba prendere posto: nei treni, nei cinema, su un prato, su una spiaggia. Non colpisce mai i primi arrivati, quelli veramente liberi che decidono di sedersi dove meglio credono, ma perlopiù i secondi arrivati e poi tutti gli altri, cioè quelli che, dopo vari tentennamenti, tendono sempre a sedersi nei pressi di chi li ha preceduti. Poiché mi pare brutto stare stesa al sole e dare i piedi in faccia a qualcuno, faccio una rotazione così se tutti sono allineati con la testa a nord e i piedi a sud, io ho una posizione divergente, da nord-ovest a sud –est.

 Poi cerco di concentrarmi sulla lettura. Di recente, grazie all’avanzare precoce di non so che per cui leggo automaticamente senza capire, ho scoperto che riesco a seguire di più la trama di un bel romanzo avvincente che a leggere un settimanale femminile che dovrei cercare di decodificare di continuo per i numerosi inglesismi  ma mi compiaccio che il livello medio culturale delle lettrici italiane sia in ascesa. Infatti ho l’impressione che le donne italiane stiano diventando “globalmente poliglotte”-ma forse sarebbe più corretto dire polliglotte ( linguaggio dei gallinacei e tipicamente femminile) .

Ad un certo punto desisto dalla lettura perché qualche mater matronissima inizia a sfoggiare con varie tonalità di voce il solito repertorio di raccomandazioni e  “ indicazioni educative da spiaggia pronte all’uso”, inefficaci dai tempi del nautilus ( provare per credere :) ).Quindi mi sforzo di rilassarmi in una sorta di training autogeno, durante il quale invece di ripetere mentalmente  “pensa al tuo corpo, estraniati da esso…” ripeto “ pensa ai fatti tuoi, che sono già abbastanza…”.

Poiché la curiosità è femmina, riesco sempre a captare qualche battibecco tra moglie e marito vacanzieri e mi auto discolpo dicendomi che può essere sempre utile la comprensione dei vari dialetti regionali . Gli argomenti più discussi riguardano le spese, il menu di mezzogiorno, il programma delle  vacanze e il carattere del coniuge.

 

Quando ormai la mia pelle fuma, inizio a osservare il mare per vedere se c’è almeno un metro quadrato libero per una piccola immersione. Di solito aspetto l’esodo delle 12.30. L’orologio biologico non perdona…mai! Allora assisto a  un repentino fuggi – fuggi di padri che smontano l’accampamento da bagnanti super attrezzati (ombrelloni, sedie, lettini, canotti , salvagenti) e di madri che raccolgono secchielli e palette, teli da spiaggia, ciabatte, maschere per poi svestire e rivestire bambini che piangono o scappano. Dopo queste frenetiche attività che durano almeno venti minuti, i vari nuclei familiari, finalmente ricomposti, sciamano sul lungomare per andare a rifocillarsi.

La spiaggia è più libera e posso osservare con calma la discesa dei bagnanti del secondo turno, cioè degli amanti della tintarella. Arrivano in gruppo o da soli: si spalmano per almeno mezz’ora con creme che emanano effluvi fino a  tre chilometri  di distanza e sanno resistere fermi al sole per ore, immobili come lucertole .Quando qualcuno inizia ad accendere la radio o a fumare, da buona discendente di Moby Dick, decido di andarmene a nuotare. È il momento più opportuno: mare – si spera – pulito, e sgombro da pedalò, canotti e da quelle signore che piuttosto si ustionano il cuoio capelluto ma non si bagnano mai i capelli e guai, se per caso, un po’ d’acqua osi sfiorare la loro messa in piega. Di solito quando risalgo a riva, provo a spostarmi in modo da non avere segnali di fumo nella mia direzione, decisa a prendere un po’ di sole finchè qualcuno nei paraggi comincia a parlare a voce alta dei fatti propri, di un lui o una lei di turno. Secondo me stare sdraiati sulla spiaggia induce le persone a rilassarsi e a comunicare, a fare una sorta di autoanalisi: è come se stessero su un lettino di uno psicanalista e via…vita morte e miracoli, storie di conquiste, tradimenti, sofferenze, riappacificazioni narrate a ruota libera, il tutto intervallato da una miriade di riferimenti a telefonate e conversazioni private o non. Altro che Beautiful !

Allora non mi resta altro da fare che una bella passeggiata fino alla doccia, di modo che al ritorno sposto nuovamente il telo.

 

Nonostante tutto continuo ad andare al mare, a lucertolare come tutti e mi consolo pensando che “la pazienza è la virtù dei forti” invece di ammettere che ho un’ incipiente forma di intolleranza estiva per quei rituali comuni a tanti, me compresa, tipici della fauna di qualsiasi spiaggia .

 

La sempre più emergente Street Art nel quartiere Ostiense (seconda parte)

Continua la passeggiata nel quartiere Ostiense di Roma alla scoperta dei murales.

I due sottopassi ferroviari del quartiere Ostiense regalano  opere di noti street artists che alleggeriscono pareti e piloni dal pesante grigiore del cemento, grazie a una iniziativa  promossa  dalla Provincia di Roma, ex Municipio XI, ex Municipio XV, dalla Fondazione Romaeuropa.

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Nel sottopasso di via Ostiense  si possono ammirare  i murales di  Moneyless, Martina Merlini, Andreco, 2501, Ozmo, Tellas e Gaia, tra i quali i ritratti di Shelley e Gramsci, le cui spoglie riposano nel vicino cimitero Acattolico al Testaccio ( di cui avevo raccontato qui).

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Nel  sottopasso di via delle Conce  ci si trova invece  immersi in  uno scenario naturalistico e fantastico popolato da draghi, uccelli, gatti e tralci  fioriti, realizzati da Lucamaleonte e Hitnes.

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Poco distante, sempre in via delle Conce, incuriosisce non poco  una lunga parete affrescata dal brasiliano Murale di Herbert Baglione, artista della biennale d’Arte di San Paolo che in occasione dell’Outdoor Festival  del 2011 ha dipinto il conflitto tra l’uomo e la città. 

murale herbert baglione

L’ho scoperto di notte, facendo quattro passi a piedi con marito e figli dopo avere cenato fuori,  e vi assicuro che le esili  figure bianche e nere erano  molto suggestive ( provate a cliccare sulle miniature sottostanti).

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Di fronte a questo murales, sempre in via delle Conce, si nota  il mega stencil di Lex & Sten sulla facciata del  “Rising Love”, uno spazio underground e di avanguardia musicale. Spero di riuscire ad andarci per vedere poster e graffiti sulle pareti interne.

Queste opere stanno valorizzando in modo originale  un’area che era industriale e che oggi offre ampi spazi alla creatività e al talento artistico degli street artist, trasformandola in una mostra a cielo aperto piacevole a vedersi.

 

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Il quartiere Ostiense di Roma si presta a una bella passeggiata a piedi per scoprire i numerosi murales, più o meno visibili, realizzati da artisti di fama internazionale.

fronte del porto blu

 

Qui ho parlato del mitico Blu che sta valorizzando l’ex caserma dell’aeronautica, detta  Fronte del Porto, e vi informo che, alquanto emozionata, sono riuscita a vederlo  all’opera mentre ne dipingeva il portone, bardato di occhiali da sole, cappuccio e  cappello. Posso solo dirvi che è giovane e longilineo, non l’ho immortalato per rispettare il suo anonimato. Nella foto sopra il murales è aggiornato da nuovi  personaggi, presenti sulla facciata del portone e  qui sotto da alcuni particolari coloratissimi. 

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via ostiense

 

Ho scoperto che anche queste auto incatenate  sono opera sua, da me fotografate  mesi fa  quando  avevo colto il talento artistico dell’autore, ignorandone però il nome. Questo palazzetto si trova in via Ostiense 122  e ospita il centro sociale Alexis, dedicato ad Alexis   Grigoropoulos, lo studente greco quindicenne ucciso nel quartiere Exarchia di Atene nel dicembre 2008. 

 

 

In via del Porto Fluviale, sulla pescheria Ostiense, domina il grande “Nuotatore” di Agostino Iacurci realizzato in occasione dell’Outdoor Festival nell’ottobre 2011.

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L’autore “cerca spazi che siano significanti oltre l’opera stessa”; la città è un acquario urbano ove “una figura nuota indisturbata in un vortice di pesci, in una sintonia perfetta che è metafora di pacifica convivenza.” Come è scritto in questa targa.

 

 

In Via dei Magazzini generali  non passa di certo inosservato the “Wall of fame” un muro rosso e lungo ben  60 metri, sul quale sono rappresentati personaggi famosi, gli idoli dell’artista JB Rock che li ha dipinti in ordine alfabetico da Dante Alighieri  a Zorro.  

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Di fronte invece spicca su fondo  blu una galleria di ritratti dal titolo “Black and White Power”,  opera permanente di Lex & Sten che si firmano alla fine nel logo di una donna pantera, simbolo della forza creativa controllata dalla mente. 

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Sono persone comuni, in verità a me una delle donne ritratte ricorda Grazia Deledda  😉

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Alla prossima passeggiata!

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La dama bianca

Mi piace esplorare con lo sguardo le grandi città che si raccontano nella solenne vastità delle piazze, nei monumenti solitari, sui portali di antiche  chiese, tra gli  sconfinati viali alberati  e gli  zampilli iridati delle fontane, e scrutare  con il naso all’insù le finestre, i balconi, i tetti di imponenti palazzi, muti testimoni di storia vissuta. In città  mi sento anonimamente libera di osservare con discrezione le  tante persone che incrocio per strada, sui mezzi pubblici o nelle stazioni affollate. Genova è una città particolarmente austera e poco caotica, a differenza di altre che stordiscono, e qualche tempo fa  ho avuto l’occasione di riscoprirla a tratti,  tra una corsa e l’altra.

 

 Unico imprevisto dell’afosa giornata è stata la coda alla biglietteria della stazione ferroviaria per cui ho  dovuto rinunciare all’ Intercity del ritorno. Il successivo era previsto dopo circa quattro ore, quindi non mi  restava altro da fare che prendere un treno regionale. Rassegnata al supplizio che mi attendeva,  mi sono seduta nella sala d’aspetto per riposare le zampe e finire di leggere il quotidiano, ingannando così l’attesa.

 

Ad un tratto ho intravisto una sagoma bianca e ho alzato gli occhi.

Fiera, ostentava un abitino bianco, che scopriva il ginocchio. Le bretelle erano fermate ai lati da due passanti dorati e sandali pitonati, con tacchi troppo alti e a spillo, slanciavano polpacci nervosi. Ha sfilato per un paio di volte avanti e indietro, come in passerella, conscia di non passare inosservata a causa del vestito aderente e trasparente. Dava l’impressione di aspettare un qualcuno che non c’era. Si è seduta ad un tavolino del bar, ha accavallato le gambe con spudorata disinvoltura mentre fumava  una sigaretta. Il rossetto acceso contrastava coi lunghi capelli rossi e grandi occhiali neri a maschera coprivano il volto, senza riuscire a  celare i segni dell’età  nelle pieghe laterali della bocca. Poi si è alzata. Indomita e inarrendevole ha aspettato a lungo, guardandosi intorno e continuando a volteggiare nei pressi del tabellone degli orari,  tra comitive di ragazzi con gli zaini in spalla e famiglie in partenza per le vacanze. Infine è andata via.

 

Dopo poco ho raggiunto con mia figlia il binario sotterraneo per prendere il treno che ci avrebbe riportate a casa. Lì sotto si incanalava una corrente d’aria fresca che faceva quasi rabbrividire. Un continuo via vai di turisti  con trolley voluminosi, stanchi pendolari, donne accaldate con bambini irrequieti al seguito  mi hanno distratta.

Per terra spiccava la macchia bianca. Era di nuovo lei. Stava rannicchiata, in modo composto, sulla borsa. L’appariscente e provocante dama ultrasessantenne non aveva più l’aria spavalda di prima. Sembrava delusa, quasi restia a mostrarsi. D’un tratto  mi appariva fragile nella sua sfida contro quel tempo in cui la natura reclama il suo dazio e cessa la stagione del bell’ apparire a ogni costo. In quell’angolo c’era una donna ridimensionata dalla sua solitudine, immobile nella sua inutile attesa, muta nel rumore circostante. Non dominava più un immaginario palcoscenico ma, assorta nei suoi pensieri, delusa pareva che lo stesse osservando da lontano.

La malinconia, confermata da movenze più naturali e discrete,  le restituiva la bellezza dei suoi anni.

 

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