Pizza di scarola

Questa è la ricetta napoletana di una pizza rustica da consumare tiepida o fredda. Si può quindi preparare con anticipo e lasciare pronta per quando, famelici, rientrate a casa  per pranzo o cena. Con le stesse dosi, invece della pizza,  è possibile preparare dei calzoni ripieni di scarola . La mia variante prevede l’aggiunta di formaggio grattugiato e semi di finocchietto .

 Ingredienti

 Per la pasta

 400g di farina

mezzo bicchiere di olio di oliva

un bicchiere di acqua

1 cucchiaino di sale

un cubetto di lievito di birra

 Disporre la farina a fontana e nell’ incavo centrale versare il lievito sciolto in acqua tiepida. Iniziare a impastare prendendo dai lati altra farina. Aggiungere pian piano l’olio, il sale  e l’acqua necessaria per ottenere un impasto piuttosto consistente .Lavorare la pasta in modo che risulti elastica e liscia. (esercizio tonificante per i bicipiti di ogni età). Lasciare lievitare per  un’ora circa.

 In alternativa  si può usare la pasta di pane già lievitata

 

 Per il ripieno

 3-4 scarole (piccole), altrimenti 2 grandi

1 spicchio di aglio

100g di olive ( 50g di olive verdi e 50g di olive  Gaeta)

1-2  acciughe salate

50 g  di capperi

70 g di uvetta sultanina

50g di pinoli

una manciata  di pecorino romano grattugiato

alcuni semi di finocchietto ( se piacciono)

olio di oliva

 

Preparazione

 Ammorbidire l’uvetta in acqua tiepida ,sciacquare e strizzare i capperi, snocciolare le olive, spezzettare le acciughe.

Lavare  le scarole, lessarle in una pentola larga e coperta con poca acqua ( la verdura rilascerà la propria) e scolarle bene. In un tegame dai bordi alti  versare l’olio d’oliva e soffriggere l’ aglio schiacciato , che sarà estratto e sostituito dai capperi, olive snocciolate, pinoli ,uvetta sultanina, acciughe. Lasciarli per pochi minuti sul fuoco, aggiungere le scarole stufate, i semi di finocchietto e il pecorino grattugiato. Mescolare per  amalgamare i sapori.

 In una teglia, unta con un filo di olio,  adagiare una sfoglia di pasta, versare il ripieno di scarole e ricoprire con un’altra sfoglia, bucherellata in  superficie. Cuocere al forno a 200° fino a quando risulterà dorata.

  Se preferite un piatto più semplice, potete “affogare” le scarole con gli stessi ingredienti (eccetto il formaggio) e servirle come contorno.

Sulla matofobia e altro

paura-della-matematica

 

“ L’esperienza scolastica di quegli anni ( Cinquanta) oltre all’istruzione non ha trasmesso sentimenti, né li ha educati. Ha inculcato una disciplina senza fierezza, un dovere senza bandiera, lasciando impronta sui nervi di una generazione di studenti, non sui loro slanci. Imparammo a governare le paure, a ragionare sulle ire. Altro che “ Cuore”: quella scuola ha arpeggiato e strimpellato sui nervi dei suoi alunni. Sarebbero esplosi un giorno.”

Così Erri De Luca conclude in Napòlide la descrizione di un terribile maestro di scuola elementare e   a queste parole ho pensato quando sento parlare o leggo di matofobia, paura o avversione per la matematica. In effetti questa paura non è la causa di mancato apprendimento ma la conseguenza di un approccio metodologico che non ha funzionato o di una relazione conflittuale col docente che segnano il percorso scolastico di chi ha paura della matematica ( ma ciò potrebbe riferirsi anche ad altre discipline, anche se è più diffusa la matofobia). Vi concorrono anche le convinzioni sociali che questa disciplina sia per  pochi eletti, come se le abilità matematiche fossero congenite.

 Mi chiedo quanti di quegli alunni degli anni Cinquanta- Sessanta  siano diventati insegnanti, portandosi dentro  la scuola che hanno vissuto. Sì perché un insegnante trasmette  conoscenze ma anche indirettamente parte di sé nel modo di relazionarsi e  di comunicare, che cambia con gli anni, con l’esperienza e con la formazione, sempre che non si oppongano resistenze al proprio cambiamento. L’insegnante non è tenuto a fare psicologia, ma è necessario che conosca la psicologia evolutiva per programmare  in modo efficace e mirato  gli apprendimenti e comprendere che spesso le sue aspettative e il suo modo di porsi  influiscono  sul rendimento dell’alunno. “L’apprendimento è possibile solo tenendo conto che non è un fatto esclusivamente intellettuale, né esclusivamente legato allo sviluppo delle strutture neurologiche, ma dipende, invece, direttamente dallo sviluppo delle emozioni, dei vissuti e delle fantasie che determinano la qualità del mondo interno dell’individuo e il tipo di incontro con gli oggetti del mondo” (Melanie Klein). Ogni atto di pensiero e conoscenza mantiene, in ogni fase della vita dell’individuo, una dimensione relazionale.

 L’insegnamento solleva continui problemi di relazione con caratteri diversi. Non ci sono indicazioni in merito al rapporto docente-alunno,  se non la sincerità di un comportamento da parte dell’insegnante, più liberale o più severo a seconda della sua personalità, e il farsi carico dell’alunno trasmettendogli un po’ di passione  per la materia. Gli allievi sentono questa sincerità e non accettano il rigore imposto se non sono messi in condizione di rispondere alle aspettative del docente. Non si può pretendere se non si rende accessibile la materia con un metodo efficace e un linguaggio comprensibile, se non ci s’adopra per colmare lacune, se non si sostiene l’alunno nelle difficoltà e si costruisce  autorevolezza sulla base di reciproca stima e fiducia, se non si incanala l’intelligenza e si potenziano le risorse dell’alunno, perché dietro la cosiddetta svogliatezza e rinuncia  possono esserci cause diverse. Partiamo dal postulato che tutti i ragazzi sono intelligenti, anche se in  modo diverso. Spesso alla  prontezza richiesta agli allievi di venti, trenta, quaranta anni più giovani del docente,  non corrisponde la prontezza di chi dovrebbe essere in grado di mettersi a loro livello e di riuscire a capire perché non apprendono . E di solito chi pretende di più è anche il meno incline a mettersi in discussione. Non è facile per un adulto  uscire da sé, ma è ancora più difficile per i più giovani crescere.

 Dall’accordo o dal disaccordo che si stabilisce tra l’insegnante e l’alunno ne deriva che il bambino o ragazzo trasferisca questa relazione alla materia insegnata perché in fondo  attrazione o rigetto si basano su dinamiche di comunicazione e di interazione. Esistono varie forme di intelligenza, più o meno mobilitate dalla personalità, che le tende o le rilassa, e  bisogna partire da quelle che l’alunno attiva di più per  agganciarsi metodologicamente a forme di sapere più ampie. La matematica lo consente perché è ovunque: nella vita pratica, nella natura, nella musica, nelle nuove tecnologie, nell’arte. Quando un alunno ha paura, è demotivato o rinuncia ad apprendere, è un brutto segno. Forse perché si è presentato un sapere come raro ed inaccessibile, ci si propone come antichi maestri autoritari e non autorevoli , perchè si è attirati dalla scienza più che dall’insegnamento, non c’è integrazione nella classe o subentrano condizionamenti familiari e socio culturali. “Comunque siano le ragioni che hanno determinato la scelta professionale dell’insegnante, l’atteggiamento nei confronti dell’allievo è sempre direttamente influenzato dalla personalità individuale. Ognuno ha la certezza che il suo atteggiamento sia perfettamente legittimo, se non il migliore: né potrebbe pensare altrimenti.” ( “Gli insuccessi scolastici” –André Le Gall) Spesso si dice “ altrimenti non sopravvivo”…

 

In ogni segmento dell’istruzione l’insegnante si trova di fronte a soggetti, in un particolare periodo dell’età evolutiva, dei quali è opportuno conoscere interessi, potenzialità, gradi e modalità di apprendimento per guidarlo verso abilità e comportamenti individuali e sociali, che sono alla base della graduale crescita, fisica ed intellettuale, come persone e cittadini.

 “Poiché i bambini hanno poco potere personale, spesso hanno poca fiducia nelle proprie capacità e sono  insicuri. I loro timori possono causare regressione ad una fase precedente in cui si sentivano più protetti e sicuri. Tacere le paure può essere scambiato come segno di maturità, ma  nasconderle non è metterci fine, cosicchè il bambino che non ha il coraggio di svelarle può sviluppare un sentimento profondamente radicato di inadeguatezza e di inettitudine, ansia. “ (da “Le paure dei bambini” di B. Wolman). Gli adulti, i genitori ma soprattutto gli  insegnanti-educatori, dovrebbero quindi riuscire a captare e ad  accogliere le sue sensazioni ed esperienze per individuare strategie idonee a rafforzare la sua autostima, cui ricorrere nei momenti critici, valorizzando altre sue capacità, dovrebbero spiegargli che si impara sbagliando e che un insuccesso può essere superato in quanto è il punto di partenza per rimediare e cercare di  riuscire, che i voti non sono né punizioni né  giudizi di valore sulla sua persona  ( semmai sulla professionalità del docente), ma una verifica per capire  se c’è stato apprendimento, progresso o da dove bisogna ripartire.  Occorre indirizzare l’allievo perché sia capace di rispondere  in modo razionale alle prove che servono a dare conferma di quanto appreso  o sul metodo di studio, così da non sopravvalutare, né sottovalutare i potenziali rischi, in modo che non affronti il compito impreparato. Lo studente impara che  non si può sempre riuscire e  che a volte insuccessi meritati, e non affidati alla luna storta del docente, possono essere un’occasione per migliorare. Quando le  battute d’arresto scoraggiano gli sforzi futuri e danneggiano la fiducia in se stesso, l’alunno non apprende e l’insegnante ha fallito su tutti i fronti.

 Torniamo alla matematica. A differenza dei programmi del 1955 che parlavano di istruzione aritmetica, coi Nuovi Programmi Didattici per la scuola primaria del 1985 si introdusse uno  spirito profondamente diverso nell’insegnamento della matematica. Essa venne intesa non più come disciplina dei numeri e dei calcoli, ma  come modalità di uso del pensiero, in rapporto alle funzioni cognitive del fanciullo, per  avviare alla capacità di esaminare scientificamente la realtà, di formulare ipotesi e verificare risultati. “ La matematica non è più intesa come un settore di studi limitato, ma nel pensiero matematico rientrano aspetti e concetti che sono propri del linguaggio, delle scienze, della logica, dell’analisi scientifica. Il valore del suo insegnamento è molto più ampio di un tempo, non più limitato alla risoluzione di problemi pratici, diviene un ponte tra una cultura umanistica ed una cultura tecnologica. In questo senso la matematica diviene una scienza creativa, progettuale e aperta, nella quale si opera per concetti, simboli, raffigurazioni, dove si considerano ipotesi, cause effetti, probabilità e non solo tecnica manipolatoria dei numeri …

Grazie agli studi di psicologia evolutiva, alla richiesta di educazione da parte delle famiglie e della società, alla necessità di migliorare la formazione e la preparazione culturale  degli alunni, alla rinnovata attenzione dei matematici verso la didattica, dopo il 1960 nella scuola elementare iniziò un rinnovamento radicale per conseguire obiettivi formativi. Un rinnovamento faticoso, non solo per la metodologia ma soprattutto per il nuovo scopo dell’insegnamento, che talvolta registrò equivoci e conseguenze negative più dannose forse degli errori che si volevano correggere. Talvolta si  continuò a privilegiare l’aspetto contenutistico a quello metodologico dell’insegnamento, proponendo il linguaggio matematico con netto anticipo rispetto alle capacità di comprensione e di uso, utilizzando a volte il materiale didattico non come mezzo ma fine a se stesso perdendo di vista la globalità di una corretta formazione matematica. Si parlava di  didattica della nuova matematica  invece che di nuova didattica della matematica” (da “il nuovo Maestri domani”- ed.  Le Monnier) che deve accostare il bambino al pensiero matematico attraverso un approccio concreto e diversificato perché, partendo dall’esperienza passi alla sua rappresentazione per giungere alla formalizzazione.

Fondamentale è stato ed è l’insegnamento della logica , che consiste nell’uso sistematico ed organizzato di un pensiero preciso, oggettivo e chiaramente formulato sul piano del linguaggio. Scegliere accuratamente attributi verbali, dare prime definizioni, proporre confronti, esaminare cause ed effetti e loro interazioni, riflettere con ordine sull’esperienza per argomentare, congetturare e risolvere problemi,  nella scuola primaria significa educare trasversalmente alla logica e gradualmente a pensare. In fondo dare ordine ai pensieri è il fine ultimo di tutta l’educazione intellettuale.

  Da allora ci sono state altre riforme scolastiche e indicazioni per l’insegnamento nella scuola primaria. Dagli anni Novanta  si è consolidata una didattica basata sull’acquisizione di  competenze generali, cui si giunge attraverso abilità specifiche, sempre in un’ottica di formazione globale dell’alunno.

L’educazione è però la risultante di tante variabili, perché il bambino matura esperienze non solo  a scuola, ma soprattutto nel contesto familiare e sociale in cui vive e col quale interagisce. Queste interazioni strutturano i suoi comportamenti, i modi di pensare, di percepire sé, gli altri e l’ambiente e concorrono al processo di crescita della sua personalità.

 

 L’apprendere è un fenomeno naturale perché esiste un’innata curiosità nell’essere umano. I bambini imparano in modo inconsapevole facendo, giocando, sperimentando nel loro mondo. I ragazzi  intelligenti imparano a prescindere dai “cattivi insegnanti” e per tutta la vita si continua ad apprendere, a cercare conoscenze anche se non soddisfano interessi prammatici.

Apprendere equivale a essere intellettualmente e affettivamente attivi ed è un continuum, un processo che connota l’esistenza di ciascuno e si integra nel proprio vissuto. L’insegnante deve motivare all’apprendimento, che richiede sforzo e cambiamento. Pensiamo a quanti cambiamenti fa e deve fare  un bambino nell’arco dei suoi primi dieci anni di vita, e poi l’adolescente negli anni successivi. Il mutamento implica autovalutazione e autocritica, perché ciò che prima pareva certo diviene confutabile  alla luce di nuove conoscenze e quindi necessita ripensamento e flessibilità, elasticità mentale e rassicurazione.

 

Quando un alunno si blocca e rinuncia ad apprendere, qualcosa si è incrinato, manca la curiosità, la spinta al nuovo, all’apertura. Cessa di ripensare e ripensarsi.  Se non è motivato e sostenuto, si appiattisce, regredisce o rivolge la sua intelligenza laddove si sente gratificato ( il rischio è la devianza con esplosione di rabbia). L’intervento didattico personalizzato è una  soluzione . L’allievo non è una macchina  ove è possibile sostituire un pezzo rotto, o da rottamare. Ogni allievo ha una personalità , attitudini, interessi che lo rendono simile ma non uguale agli altri, e spesso il programma didattico e la metodologia vanno adattati a quelle diversità, per poter  garantire  un insegnamento efficace. Questo è un caposaldo della scuola dell’obbligo. Le scuole secondarie di secondo grado hanno un impianto metodologico-culturale diverso perchè  l’ insegnamento efficace, che susciti interesse, motivazione all’apprendimento   e successo scolastico è di fatto affidato alla buona volontà, alla sensibilità, alla  formazione del singolo docente in quanto gli insegnanti tendono ad una valutazione selettiva e ad omogeneizzare la classe. Purtroppo però le statistiche sull’ abbandono e sulla dispersione scolastica dovrebbero indurre a riflettere sulle responsabilità individuali del docente e su quelle collegiali del Consiglio di Classe, sulla formazione psico-pedagogica degli insegnanti che molto probabilmente hanno svolto un percorso di studi più adatto alla ricerca che all’insegnamento. La professionalità docente si arricchisce e si cimenta con i ragazzi in difficoltà in quanto  gli altri riescono ad apprendere comunque.

 

“Il successo e l’insuccesso scolastico dipendono almeno tanto dal carattere- e, per suo tramite dall’ambiente- quanto dall’intelligenza. Perchè è soprattutto certo che l’uomo è un’unità e che non si può mobilitarne l’intelligenza se non mobilitandolo nel suo intero.” (“Gli insuccessi scolastici” di André Le Gall).

La scuola può fare molto, nel bene ma anche nel male. L’insuccesso e le  situazioni di disagio affettivo, sociale, culturale mettono alla prova e in alcuni casi  stoppano, precludendo opportunità non solo di formazione ma anche di vita.

Come diceva Don Milani “La scuola ha un problema solo. I ragazzi che perde… A questo punto gli unici incompetenti di scuola siete voi che li perdete e non tornate a cercarli.”

( Don Milani-da scuola di Barbiana, Lettera ad una professoressa) 

 

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Il fascino della matematica

 Lo zero scappato

 

I ricordi mi vedono – Tomas Tranströmer

Ukraine's Leafy Green Tunnel of Love is a Passageway for Trains and Lovers

 

 

I ricordi mi vedono

 

Un mattino di giugno, troppo presto
per svegliarsi, troppo tardi
per riprendere sonno.

Devo uscire nel verde gremito
di ricordi, e mi seguono con lo sguardo.
Non si vedono, si fondono totalmente
con lo sfondo, camaleonti perfetti.

Così vicini che li sento respirare
benché il canto degli uccelli
sia assordante.

 

Tomas Tranströmer

 

(da Poesia dal silenzio, Crocetti, 2008 – Traduzione di Maria Cristina Lombardi)

La sempre più emergente Street Art (Urban Contest Gallery 2012)

 

 

Beniamino Leone

Non potevo perdere  l’Urban Contest Gallery, una grande mostra internazionale dedicata alla Street Art, e così tempo  fa  sono partita alla ricerca – confesso- non facile dell’ex Lanificio  Luciani in Via Pietralata a Roma  che è un centro di creazione e di  esposizione delle varie forme di arte contemporanea.

A ottobre  nello stabilimento industriale dismesso sono state esposte una cinquantina di opere di writers di diversa fama e  provenienza, che poi sono state  messe all’ asta all’ inizio di dicembre.

 

Dryve

L’Urban Contest è una community , nata due anni fa  ad opera di tre giovani creativi ,Gabriele Bondanini, Rocco Schiavone e Laura Matarazzo, per promuovere sviluppo socioculturale attraverso  i luoghi fisici delle città e i luoghi virtuali (web, socialnetworks, mass media).

Una community  che si propone come  “colorata”, perché monitora tutte le forme di arte contemporanea; “consapevole”, perché segue con attenzione l’attualità; “impegnata”, perché promuove iniziative di solidarietà e di no-profit; “spensierata”, perché informa e suggerisce idee per il tempo libero; “multipiattaforma”, perché condivide, interagisce e partecipa sui vari livelli di comunicazione.

Zuk Club

Le opere della sempre più emergente Street Art sono state realizzate con tecniche diverse: pittura tradizionale e digitale, spray painting,  l’OSB (Oriented Strand Board, scaglie incollate e pressate in diversi strati  su un pannello).

Di seguito la mia galleria fotografica .

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La Street Art di Blu a Roma

cinodromo roma- particolare murales blu

Nel 2001 The Observer annoverò  Blu tra i dieci street  artists più bravi del mondo.  Blu ha lasciato traccia un po’ ovunque: a partire dal 1999 a Bologna ha poi  dipinto a Roma, Milano, Grottaglie, Modena, Prato, Linares, Londra, Berlino, Barcellona, Praga, New York, in Palestina  e nel centro e sud America. Da iniziali graffiti illegali con bomboletta spray è passato ad usare rulli su bastoni telescopici riuscendo a valorizzare enormi superfici, spesso abbandonate e insignificanti, e a  riqualificare angoli fatiscenti, se non anonimi e  brutti  delle città.

murales blu 2 cinodromo

Ho ammirato l’ex cinodromo presso ponte Marconi a Roma: sembra un antico palazzo romano decorato con imponenti quadri simbolici delle varie e potenti forme di corruzione che investono la politica, le forze dell’ordine, i mass media, il Vaticano. È inevitabile il riferimento ai gravi  scandali e alle notizie di cronaca degli ultimi anni.

murales di blu cinodromo romacinodromo romaparticolare murales blu

Giorni fa sono passata per  via del Porto Fluviale, nella zona Ostiense di Roma dove si possono trovare molte tracce della sempre più emergente Street Art. Ho subito notato  i grandi murales della  facciata dell’ex caserma dell’aeronautica, da anni occupata e detta Fronte del Porto. Sono corsa a fotografarli e dallo stile ho intuito  che potevano essere di Blu. Mi piacerebbe tanto vederlo all’opera.

Blu- fronte del Porto

La facciata dell’edificio è popolata da esseri diabolici, in tuta mimetica o alieni dallo sguardo imperscrutabile in finestre che sembrano schermarne gli occhi. Una denuncia del gravissimo problema della casa e strenua difesa degli occupanti l’edificio? Blu ripensa e reinterpreta spazi pubblici in un contesto urbano o industriale non avulso dalla gente che vi abita. Con la sua arte dialoga con gli abitanti delle zone prescelte e con coloro che  hanno  il piacere di apprezzarla, suscitando sempre riflessioni su temi di rilevanza politica e sociale.  ( Qui alcune delle sue opere più famose).

blu -fronte del porto 5

 

Aspetto pazientemente che regali altri personaggi a Fronte del Porto per condividerli con voi.

Strega

Alla fine eravamo arrivati in cima, anche se Triora era in realtà il punto di avvio per salire ancora più in alto,verso la tesa della Nava e il Collardente, verso il passo del Pellegrino, il Carmo del Corvo e la Croce dei Campi,che si alzavano come muraglie azzurre alle spalle dell’abitato. Come descriverla? 

Da lontano sembrava solo una cresta dentata,un grumo di pietra e d’ardesia che faceva da cappello ad un picco. Da vicino era piuttosto un merletto grigio: le mura della cinta si alzavano e si abbassavano seguendo il contorno del terreno,in cima a una gradinata di terrazze e di fasce che salivano dalla valle come lo scalone di un gigante.

All’interno poi le case si accatastavano e s’incastravano una dentro l’altra,e quando un viottolo le separava in basso allora si univano fra loro più in alto,con arcate di mattoni e di sassi. Il paese aveva un aspetto solido,compatto, sembrava girare le spalle al mondo, dal quale venivano soltanto rogne, guai e vento gelido,e si avvolgeva intorno ai vicoli che gli si infilavano dentro,entravano nelle case, sfondavano gli atri, si aprivano all’improvviso in loggiati e piazzette, e tornavano a immergersi nel buio dei sottopassi,in un continuo su e giù che il sole riusciva a illuminare soltanto quando era a picco, sul mezzogiorno.” (da Strega di Remo Guerrini)

La storia di Battistina, una ragazza ritenuta diversa, è ambientata nella città di Triora al tempo dell’ Inquisizione. Nel 1588 nell’ antica rocca della città arriva una spedizione organizzata dalla Repubblica di Genova, composta dall’arguto e spietato Giulio Scribani, Commissario straordinario deciso a debellare le streghe, dall’esperto Juan Ferdinando Centurione, che con la sua logica preveggente intuisce le cause della stregoneria contro l’ottusità dei vicari dell’Inquisizione, e da Niccolò, giovane scrivano che scoprirà nella piccola strega dodicenne un’attrazione per la vita . La caccia alla “setta abominevole di donne” descritta , di fatto è avvenuta. I personaggi sono realmente esistiti e furono condannati a supplizi dei quali restano traccia nel Museo delle streghe di Triora .La vicenda è documentata storicamente dall’autore, Remo Guerrini, che ha ricreato un’atmosfera calata nella civiltà contadina tra superstizioni e credenze popolari, riti e cerimonie infernali, condanne e torture dell’epoca. Un libro di alta poesia sia nelle descrizioni paesaggistiche che in quelle caratteriali dei protagonisti. Una storia particolare e avvincente, a volte amara, a volte delicata dove la piccola Battistina si muove in una natura alla quale scopre di appartenere più di quanto immagini, mossa dalla curiosità e dalla saggezza pratica di chi impara presto a sopravvivere tra gli stenti che incattiviscono gli uomini. Inizialmente afferma la sua innocente e spontanea vitalità , libera da ogni schema, poi, braccata dal pregiudizio, fa della sua diversità una prerogativa individuale da difendere con precoce determinazione femminile contro le ottuse, brutali e dogmatiche certezze di quel tempo. La piccola strega colpevole , come tante altre sorelle, di comprendere i misteri e parlare il linguaggio della natura, rivendica la libertà di essere ciò che è . Nell’orgoglio trova la forza di non cedere al supplizio e con orgoglio si ricongiunge alla madre Terra, che con le sue erbe, acque,vite,venti, rocce ha sempre dolcemente cullato i sensi e il cuore di una bambina straordinaria.

“Fu anche un inverno strano (a cavallo tra il 1587 e 1588), soprattutto perché Battistina completò la sua istruzione in modo che mai si sarebbe aspettata ,visto che i suoi maestri furono un vecchio gipeto, una giovane lontra e una volpe distratta.

Il gipeto fu il primo. Era grande quasi quanto lei, aveva una barbetta lunga e nera sotto il becco, gli occhi gialli e un bel paio di calzoni di piume candide. Da lui Battistina imparò a sbattere contro una pietra le ossa dei cervi e delle capre morti da poco, proprio come contro un’incudine, e a nutrirsi con il midollo che c’era dentro. La prima volta le fece un po’ schifo, poi si accorse che, dopo aver succhiato, le veniva un gran caldo nello stomaco e una gran forza nelle gambe.

Decise così che da quell’uccello saggio e silenzioso c’era molto da imparare. Il gipeto, ora che era avanti negli anni e d’inverno gli era venuta meno la voglia di accoppiarsi, se ne stava su uno spuntone del bricco di Borniga, appeso sul precipizio, e passava il tempo con lo sguardo perso nel cielo grigio. Ma quando in quella sterminata lavagna compariva un minuscolo punto nero allora arruffava le piume, allargava le ali grandi come lenzuola e si lasciava cadere nell’abisso. Solo dopo un po’ Battistina si accorgeva che quel punto nero era in realtà un altro rapace, magari un’aquila che ritornava al nido con una preda fa gli artigli. Allora il gipeto si avvicinava all’aquila con la sua ombra immensa, e le andava addosso finchè l’altra non mollava il coniglio o l’agnello, che però precipitavano solo per poco, visto che il gipeto li riprendeva al volo e se li portava sul suo bricco. Dal gipeto Battistina imparò l’arte di starsene seduta a guardare il mondo dall’alto, e la facilità con la quale si ruba ai ladri, che mise in pratica più volte facendo sparire una pagnotta a un contadino che ne aveva portate via due al fornaio di Verdeggia, e prendendosi il mantello d’orbace di un giovanotto che se l’era tolto per infilarsi in un pollaio d’altri, appena fuori Realdo.

La giovane lontra l’incontrò invece più in basso,dove il torrente che scende da Verdeggia s’incrocia con il rio Infernetto, e insieme formano un torrente un po’ più grande che, più a valle ancora, va a immettersi nel Capriolo. L’acqua era gelida, ma la lontra non se ne curava. Giocava da sola:si tuffava, raccattava un sasso dal fondo, lo portava a galla tenendolo sulla pancia, poi se lo metteva sul muso e con un colpo secco dal collo lo scaraventava in aria. Se la pietra, invece che finire sulla riva, ricadeva in acqua la lontra si lanciava rapidissima, per recuperarla prima che toccasse il fondo. Battistina restò accucciata su uno scoglio per un’intera mattinata, e per un’intera mattinata la lontra giocò davanti a lei. Battistina imparò che la solitudine non è nemica del divertimento, e imparò anche altre cose: che per entrare nell’acqua è meglio adoperare uno scivolo d’erba piuttosto che rovinasi i piedi sulle rocce, che se si vuol catturare un pesce con le mani bisogna aver pazienza e avvicinarsi da sotto e da dietro, e perfino che si può scoprire il rango di un animale o di una persona dai suoi escrementi. Quelli della lontra, per esempio, puzzavano di pesce e contenevano le squame di quello che aveva mangiato.

Che la volpe fosse distratta Battistina lo stabilì, invece, quando l’inverno prese ad addolcirsi: mentre a dicembre e a gennaio era infatti impossibile trovar tracce del suo passaggio, a febbraio la volpe cominciò a lasciare in giro il suo pelo, a ciuffi e batuffoli dorati, appesi ai rami più bassi delle piante, impigliati agli arbusti e ai rovi, perfino dentro ai cespugli. Come se l’approssimarsi della primavera le avesse fatto perdere la testa.

Dalla volpe imparò a non perdersi nei boschi. E come la volpe segnava le piante che voleva riconoscere strofinandogli contro il culo e lasciandoci sopra odore di mandorle ( il che era segno di grandissima stregoneria), così Battistina iniziò a segnare tronchi e sentieri togliendo le foglie a un ramo basso sempre nello stesso modo, tre da una parte e tre dall’altra. E imparò pure che spesso è meglio fingersi morti e seppellirsi nell’erba piuttosto che scappare ( e così sfuggì a un gruppo di gendarmi che andava dietro a un contrabbandiere verso il passo di Collardente), che quando una preda è troppo difficile da maneggiare è meglio lasciarla perdere ( a dire il vero la volpe faceva di peggio ai ricci e ai rospi velenosi che non riusciva ad azzannare:gli pisciava addosso), e che nella stagione dell’amore c’è una cosa che fa diventare matto il maschio, leccargli il muso (ma questo si promise di verificarlo più avanti).

In realtà, perché gipeto, lontra e volpe distratta le consentissero di gironzolare intorno e la considerassero come una specie di parente tonta da sopportare con benevolenza, non se lo chiese mai. Pensò che per una strega come lei , fosse naturale vivere da bestia fra le bestie. Mangiò ghiande e castagne raccolte fra le radici degli alberi prima che arrivassero i legittimi proprietari, sfilò le uova di sotto alle chiocce e le bevve ancora tiepide, arrostì di nascosto nei seccatoi ormai freddi i pesci avanzati dalla lontra e andò di notte a mungere le vacche di Greppo e Bregalla, tanto che i contadini continuarono per settimane a immaginarsi, per via di quelle mammelle improduttive,nuove maledizioni scagliate contro le loro stalle.”

 

Da “Strega” di Remo Guerrini. Ed.Interno Giallo .

Vi informo che di recente il libro è stato ristampato nella collana Time Crime e si può trovare anche on line

 

La violenza sulle donne: da patologia a fenomeno socio-culturale che si manifesta in varie forme e stereotipi.

Negli anni Sessanta  psichiatri e psicologi studiarono gruppi clinici di uomini violenti: l’aggressività maschile fu spiegata o  con caratteristiche psicologiche del soggetto, devianti dalla norma, oppure fu considerata come una reazione dell’uomo ad un comportamento della donna “non sufficientemente femminilizzato” perché poco remissivo e disponibile. Insomma il  fenomeno della  violenza fu addebitato ad  una patologia e l’aggressione maschile fu quasi giustificata perché si tendeva a colpevolizzare la donna  per la violenza subita ( della serie:“ se l’è cercata”- che ancora sopravvive).

Dagli anni Settanta in Europa e dieci anni più tardi  in Italia, la violenza sulle donne è stata riconosciuta  come un fenomeno dovuto alla relazione tra i sessi ed  è venuta allo scoperto grazie anche all’attività dei Centri Antiviolenza che sostengono in vario modo  le donne offrendo ascolto, consulenza, assistenza giuridica, accoglienza in strutture a tutela di donne e bambini maltrattati.  Da anni si creano reti a sostegno delle donne in cui istituzioni ed associazioni cooperano ciascuno nel proprio ambito di competenze per fronteggiare il fenomeno con interventi mirati .Ciò non solo quando il fatto è già avvenuto e viene denunciato, ma anche a scopo di prevenzione con progetti finalizzati alla diffusione della cultura di genere grazie ad operatori dei servizi sociali e delle forze dell’ordine, dei servizi sanitari e della scuola.

La donna sta acquisendo consapevolezza: dalla considerazione di una donna,  fragile e passiva vittima “predestinata”, si passa sempre più a quella di una donna come soggetto attivo, credibile, forte, che reagisce per proteggere se stessa e i  figli dalle varie forme di prevaricazione.

 Esistono vari tipi di violenza  sulle donne e molti stereotipi e luoghi comuni su questo fenomeno, a partire da quello che sia una moda parlarne, giusto per fare audience. Riprendo le definizioni dal portale antiviolenzadonna.it, Presidenza del Consiglio dei Ministri- Dipartimento  per le  Pari Opportunità, che invito a visitare per ulteriori approfondimenti. È importante conoscere i vari aspetti del fenomeno perché  la donna in difficoltà rischia di cadere in un ciclo di violenze, sempre più frequenti e gravi, a seconda della risposta che riceve alla sua prima richiesta di aiuto all’esterno, del sostegno o del mancato sostegno che trova nei familiari non abusanti, nelle amiche o nei professionisti. È quindi necessario che come cittadini comprendiamo il fenomeno per essere in grado di sostenere la donna maltrattata, indirizzandola verso specialisti che possano supportarla a livello psicologico e fornirle protezione ed assistenza, altrimenti il percorso di ricerca di aiuto diventa lungo e difficile e può concludersi in un tragico epilogo. Ogni donna reagisce in modo diverso di fronte alla violenza, ha diverse capacità di sopportazione e consapevolezza: c’è chi reagisce al primo episodio, chi aspetta che lui cambi, chi chiede aiuto solo quando si giunge a violenze aberranti ed insopportabili. L’iniziale coscienza che si è di fronte ad un problema irrisolvibile da soli, già crea nella donna una profonda sofferenza.

 

Tipi di violenza. 

Violenza sessuale

È ogni imposizione di pratiche sessuali non desiderate: coercizione alla sessualità, essere umiliata o brutalizzata durante un rapporto sessuale, essere obbligata a ripetere scene pornografiche, essere prestata ad un amico per un rapporto sessuale.

 

Maltrattamento fisico

È ogni forma d’intimidazione o azione in cui venga esercitata una violenza fisica su un’altra persona. Comprende comportamenti quali: spintonare, costringere nei movimenti, sovrastare fisicamente, rompere oggetti come forma di intimidazione, sputare contro, mordere, tirare i capelli, gettare dalle scale, picchiare, bruciare con le sigarette, privare di cure mediche o del sonno, sequestrare, strangolare, ferire, uccidere.

 Maltrattamento economico

È ogni forma di privazione e controllo che limiti l’accesso all’indipendenza economica di una persona. Include comportamenti quali: privare delle informazioni relative al conto corrente e alla situazione patrimoniale e reddituale del partner, non condividere le decisioni relative al bilancio familiare, costringere la donna a spendere il suo stipendio nelle spese domestiche, costringerla a fare debiti, tenerla in una situazione di privazione economica continua, rifiutarsi di pagare un congruo assegno di mantenimento o costringerla ad umilianti trattative per averlo, licenziarsi per non pagare gli alimenti, impedirle di lavorare, sminuire il suo lavoro, obbligarla a licenziarsi, a cambiare tipo di lavoro oppure a versare lo stipendio sul conto dell’uomo.

 Maltrattamento psicologico

La violenza psicologica accompagna sempre la violenza fisica ed in molti casi la precede. È ogni forma di abuso e mancanza di rispetto che lede l’identità della donna. Il messaggio che passa attraverso la graduale violenza psicologica è che chi ne è oggetto è una persona priva di valore e questo può determinare in chi lo subisce la successiva accettazione di altri comportamenti violenti. Il maltrattamento psicologico procura una grande sofferenza e si manifesta in vario modo: disistima, distorsione della realtà oggettiva, comportamento persecutorio (stalking),eccessiva attribuzione di responsabilità e colpe, indurre senso di privazione e paura cronica.

 

Sono tanti gli stereotipi e i luoghi comuni  sulla violenza.

Si crede che…

 

la violenza verso le donne sia un fenomeno poco diffuso. Invece è un fenomeno esteso, anche se ancora sommerso e per questo sottostimato. Ci sono molte donne che hanno alle spalle storie di maltrattamenti ripetuti nel corso della loro vita.

 la violenza verso le donne riguardi solo le fasce sociali svantaggiate, emarginate, deprivate. Invece è un fenomeno trasversale che interessa ogni strato sociale, economico e culturale senza differenze di età, religione e razza.

 le donne siano più a rischio di violenza da parte di uomini a loro estranei.Invece i luoghi più pericolosi per le donne sono la casa e gli ambienti familiari, gli aggressori più probabili sono i loro partner, ex partner o altri uomini conosciuti: amici, familiari, colleghi, insegnanti, vicini di casa.

 solo alcuni tipi di uomini maltrattino la propria compagna.Invece, come molti studi  documentano, non è stato possibile individuare il tipo del maltrattatore; né razza o età o condizioni socioeconomiche o culturali sono determinanti. I maltrattatori non rientrano in nessun tipo specifico di personalità o di categoria diagnostica.

 la violenza non incida sulla salute delle donne. Invece la violenza di genere è stata definita dall’OMS come un problema di salute pubblica che incide gravemente sul benessere fisico e psicologico delle donne e di tutti coloro che ne sono vittima.

 la violenza verso le donne sia causata da una momentanea perdita di controllo. Invece la maggior parte degli episodi di violenza sono premeditati: basta solo pensare al fatto che le donne sono picchiate in parti del corpo in cui le ferite sono meno visibili.

 i partner violenti siano persone con problemi psichiatrici o tossicodipendenti. Invece credere che il maltrattamento sia connesso a manifestazioni di patologia mentale ci aiuta a mantenerlo lontano dalla nostra vita, a pensare che sia un problema degli altri. Inoltre la diffusione della violenza degli uomini contro le donne esclude che si tratti di la possibilità della devianza, dell’eccezionalità.

 gli uomini violenti siano stati vittime di violenza nell’infanzia. Invece il fatto di aver subito violenza da bambini non comporta automaticamente diventare violenti in età adulta. Ci sono infatti sia maltrattatori che non hanno mai subito o assistito a violenza durante l’infanzia, sia vittime di violenza che non ripetono tale modello di comportamento.

 alle donne che subiscono violenza “piace” essere picchiate, altrimenti se ne andrebbero di casa.Invece paura, dipendenza economica, isolamento, mancanza di alloggio, riprovazione sociale spesso da parte della stessa famiglia di origine, sono alcuni dei numerosi fattori che rendono difficile per le donne interrompere la situazione di violenza.

 la donna venga picchiata perché se lo merita. Invece nessun comportamento messo in atto dalle donne giustifica la violenza da loro subita ed inoltre gli episodi di violenza iniziano abitualmente per futili motivi.

 i figli abbiano bisogno del padre anche se violento. Invece gli studi a questo riguardo dimostrano che i bambini crescono in modo più sereno con un genitore solo piuttosto che in una famiglia in cui il padre picchia la madre.

 anche le donne sono violente nei confronti dei loro partner.Invece una significativa percentuale di aggressioni e di omicidi compiuti dalle donne nei confronti del partner, si verifica a scopo di autodifesa e in risposta a gravi situazioni di minaccia per la propria sopravvivenza. Inoltre, quando esiste si configura in modo diverso e raramente assume le caratteristiche di sistematicità e lesività che caratterizzano il maltrattamento maschile.

  Che fare quando si subiscono o si viene a conoscenza di situazioni ad  alto rischio di letalità? Rivolgersi a Centri Antiviolenza  presenti sul territorio o comunque  telefonare a numeri di pubblica utilità che offrono un servizio di accoglienza telefonica per le vittime di violenza e  da una Rete nazionale Antiviolenza approdano a referenti locali degli Ambiti territoriali di rete (cioè  Comuni, Province o Regioni, con le quali il Dipartimento per le Pari opportunità stipula un Protocollo d’Intesa per  sensibilizzare e contrastare la violenza di genere – Progetto Arianna)

 Il numero  1522 ANTIVIOLENZA DONNE offre :

 –          un Servizio di Accoglienza Telefonica multilingue, attivo 24 ore su 24 per tutti i giorni dell’anno e garantisce l’anonimato di chi telefona. A tutte le chiamate provenienti dal territorio nazionale dà informazioni  ed un corretto accompagnamento guidato ai servizi operanti sul territorio.

–          un Servizio di Accoglienza Specialistico attivo nei giorni lavorativi, che dà una consulenza specialistica a donne in specifiche situazioni di difficoltà (mancanza di servizi territoriali di supporto, condizione di grave isolamento, criticità emotiva etc.)

Per emergenze più specifiche vedere qui  e chiamare ai seguenti numeri

800 290 290 ANTITRATTA

800 300 558 CONTRO LE MUTILAZIONI GENITALI FEMMINILI 

 

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Nel 2008 una nota della Presidenza del Consiglio dei Ministri inviata dal Sottosegretario di Stato per i diritti e le pari opportunità invitava le scuole a riflettere su un fenomeno che sembrava assumere sempre più caratteri di “emergenza sociale”.

“ In Europa  tra le cause di morte delle donne  di età compresa tra i 16 e 44 anni, le brutalità commesse tra le mura domestiche  sono in testa alle statistiche , prima degli incidenti stradali e del cancro. In Italia  i  dati di un’indagine ISTAT pubblicata lo  scorso febbraio, stimano in quasi 7 milioni (31,9% delle donne di età tra i 16 e 70 anni)  le donne che hanno subito violenza fisica o sessuale nel corso della vita ( il 23,7% violenze sessuali, il 18,8% violenze fisiche, più del 10% entrambe). Nell ’ultimo anno un milione 150mila donne hanno subito violenza.  Circa un milione stupri o tentati stupri ad opera del partner o conoscente. Quasi un milione e mezzo di donne hanno subito violenze sessuali prima dei 16 anni e in un quarto di casi ad opera di un parente. In due terzi dei casi è stata ripetuta. Alla violenza fisica e sessuale si associa spesso quella psicologica. Dalle interviste risulta che il 95% dei casi di episodi di violenza non sono stati denunciati e un terzo delle donne non ne ha parlato con nessuno.

L’AOGOI (Associazione ostetrici ginecologi ospedalieri italiani) denuncia  che le violenze domestiche sono la seconda causa di morte in gravidanza, dopo l’emorragia, per le donne dai 15 ai 44 anni.

Il Ministero delle pari opportunità, impegnato  da tempo in  una politica di contrasto, ritiene che si debba affrontare il fenomeno sul piano culturale per incidere sui modelli di identità di riferimento: è un’emergenza per un paese come il nostro che vuole essere civile e democratico. La scuola come comunità educante, nella costruzione di percorsi formativi , può fare molto perché i ragazzi e le ragazze crescano insieme nel rispetto reciproco  delle proprie identità.”

 Dopo questo bollettino di guerra tra i sessi, percepii allarmismo sociale che però mi pare ancor oggi confermato dai sempre più frequenti fatti di cronaca.Scrissi  questo post nel settembre del 2008, ma  esitai a lungo a pubblicarlo in quanto  molto personale e triste perché si riferisce a fatti e persone che ho conosciuto sia  in piccoli paesi di provincia  che in  una metropoli, capitale delle contraddizioni dove alla devianza e all’arte di arrangiarsi fanno da contrappasso la vivacità culturale, l’umanità e l’ironia della sua gente . In questi anni l’elenco delle donne maltrattate si è allungato, includendo anche  ragazze e donne che mai avrei immaginato così in difficoltà. Decisi di aprire un blog e di scrivere sulla violenza contro le donne , per raccontare, argomentare, sensibilizzare e purtroppo ne vedo  ancora confermata  la necessità.

 Ricordo   una compagna di classe sempre silenziosa e assorta, principessa di un talamo proibito, e  una ragazzina rimasta vedova a diciassette anni  con  un bambino di diciotto mesi di cui era madre e sorella; quest’ultima fu convinta a  sposare un ragazzo poco più grande di lei, morto ammazzato dopo un anno di matrimonio. Ripenso a  R. di cinquant ’ anni  sottratta dal figlio adolescente  ai calci e pugni di un marito manesco, a  M .scappata lontano dalle botte del compagno,con due dei tre figli, forte  del miraggio di un nuovo amore, a  S.  picchiata sistematicamente dal marito anche quando era incinta…la rabbia e la consapevolezza  di un’età più matura l’hanno cambiata e, dopo quasi venti  anni di matrimonio, lei aspetta un lavoro fisso per  troncare col passato e quell’ uomo che oggi piange dicendo che è cambiato anche lui. Rivedo S., che è riuscita a rifarsi una vita dopo anni con un marito che la ossessionava, e M. che nel figlioletto ha trovato la forza di lasciare il marito che la mandò all’ospedale per avere leggermente scostato il lenzuolo mentre di notte allattava il bambino. Cito E., un uomo, che ha deciso di amare, ridare il sorriso e  un nuovo figlio a L . e sostenere lei e i suoi  quattro figli dopo che lei osò  denunciare l’ex marito, uomo  e padre  violento.

Non dimentico  una ragazza dell’est in una caotica  stazione ferroviaria: il volto completamente viola, troppo tumefatto per essere caduta dalle scale, e due trolley  enormi  per contenere quanto più possibile, compreso  il mio tacito  augurio di buona fortuna.

Ricordo una ragazzina allo sbando tra  droga, sesso e rock’n roll per sfuggire ad una situazione di grave disagio familiare; voleva continuare a studiare e si preoccupava che  la sorellina più piccola non facesse le sue scelte. Indelebili nella memoria le ragazzine dai 10 ai 15 anni  che il Tribunale dei Minori  di una grande città aveva tolto alle famiglie e che aiutavo durante le attività del doposcuola. A volte in contesti “particolari” l’abiezione  è vissuta come  normale perché non si ha l’opportunità di conoscere alternative di vita veramente normali , compresa la  specificità  dei ruoli parentali .

Anni fa  una madre ventenne mi disse  “mio figlio deve studiare, non deve crescere disgraziato come me, né essere fetente come suo padre”. Aveva occhi azzurri, profondi e un po’ duri, lineamenti delicati, il viso tirato e stanco, tacchi alti e  calze a rete smagliate.

Scrivo però per A. che frequentava una stazione ferroviaria. La vedevo spesso di sera quando tornavo a casa perché  prendeva il  mio treno. Una volta la vidi  implorare una dose a  un ceffo  che la  derideva e la molestava davanti ad un gruppo di derelitti per mostrare quanto lei  fosse incapace di reagire, scheletrica e  senza denti. Una sera A. si sedette vicino a me e iniziò a raccontarsi. Mi chiese  se fossi  sposata . Le risposi che non ci pensavo nemmeno e che  studiavo; avevo 22 anni, lei due meno di me. Mi raccontò una storia purtroppo comune, priva di affetti familiari, fatta di degrado , di un amore sbagliato che la iniziò alla tossicodipendenza e alla prostituzione, di un figlio sottrattole alla nascita, di tentativi inutili di smettere e  di una deriva   inarrestabile in una periferia troppo povera. Se ne andò appoggiandosi ad un ragazzo per raccogliere quanto rimaneva nelle siringhe abbandonate lungo i binari. Pareva una di quelle farfalle che hanno perso la polvere magica dalle ali e annaspa per terra. Qualche sera più tardi  A. volò via ai piedi della scalinata della stazione, finalmente libera dalla dipendenza e dalle mortificazioni.

 È stato un caso incontrarla? Due solitudini diverse: io impegnata a costruirmi un futuro mentre lei voleva dimenticare un passato ingombrante e sopravvivere al presente.

 E ancora adesso penso a quelle ragazzine, ormai  donne.  Alcune stavano prendendo coscienza  di quanto subìto, altre non accettavano il distacco da quella che era comunque la loro famiglia, anche se degenere , la cui costante fissa  era l’assenza o latitanza della madre e  l’istinto del possesso brutale da parte di familiari, spesso  la mancanza di consapevolezza, a volte  la solitudine e l’incapacità di reagire. Saranno riuscite a conciliarsi con se stesse  per sorridere ed amare ? Una volta un medico un po’ cinico mi disse: “Qui per cambiare le cose, certi neonati andrebbero soppressi nella culla o tolti subito alle famiglie”. In tutte queste donne ho sempre colto un grande disorientamento e  sofferenza. Certe storie e certi occhi non si dimenticano, mai.

 Dopo tanto tempo  mi chiedo come  mai sia cambiato ben poco. Quasi ogni giorno i mass media  denunciano  casi di violenza , tentata, episodica, sistematica su bambine e donne …testimonianze delle  ragioni della forza, del disprezzo, della frustrazione inconscia, di una rabbia e bestialità indomabili, di una mentalità arretrata e irrispettosa.

 

Nel 2008 decisi di aprire un blog  anche per  dare voce a voi donne che a fatica avete acquisito o state acquisendo consapevolezza, al vostro  silenzio, al vostro   isolamento, al senso di  impotenza e di vergogna…perché ognuna di voi   aveva diritto a quella  parte di cielo che vi è stata  negata durante quelli che dovevano essere gli anni più belli e spensierati, e perchè qualcuno   riesca a capire che c’è violenza e abuso anche quando si approfitta consensualmente  della   giovane età , della miseria o della disperazione e riesca a vedere un’anima oltre le ali di farfalla.

 

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La cosa più importante è che si continui ad agire perché i poveri contino. Ci incontreremo ancora. Ci incontreremo sempre. Ci incontreremo in tutto il mondo, in tutte le chiese, le case, le osterie. Ovunque ci siano uomini che vogliono verità e giustizia (Don Andrea Gallo)

 

È stato per cinquant’anni un prete di strada e da quaranta ha fondato la Comunità di San Benedetto al Porto di Genova. È stato un salesiano, un  missionario in Brasile, cappellano  alla nave scuola della Garaventa , riformatorio di minori. Più tardi diventò agli occhi della Curia un prete scomodo che per decenni  ha operato in Italia, soprattutto a Genova, sempre vicino ai poveri, alle prostitute, ai tossicodipendenti, agli emarginati di quelle zone ghetto dove si annidano tristi storie di degrado ma a volte può germogliare un’umana solidarietà.

Chi riesce per tutta la vita a praticare in concreto il messaggio del più grande rivoluzionario della storia , cioè Cristo, e anche a ergersi contro corrente è un uomo di  straordinario spessore e  di grande umanità , di fede e giustizia . Uomini di tal fatta sono rari, sono  un esempio di vita per tutti, per chi crede e chi non crede. Don Andrea Gallo credeva in Dio ma soprattutto nell’uomo, e ha dato una mano,  una speranza e voce agli invisibili, cioè a  uomini, donne e ragazzi, di ogni età e provenienza, spesso ignorati .

Lo ricordo con un brano tratto dal suo libro “Così in terra come in cielo”, tratto da qui .

Grazie, Don Gallo.

 

“Mi hanno rubato il prete”.

Fui rimosso dall’incarico nel 1963. La motivazione ufficiale non la conosco ancora, però sospetto abbia a che fare coi miei metodi “licenziosi”. Nel gennaio 1965 mi spedirono come viceparroco alla Chiesa del Carmine, in pieno centro storico, sotto l’Albergo dei poveri. Era un quartiere popolare, di portuali e operai, con abitazioni inagibili e un mercato rionale quasi indecente. Giravo nei vicoli, sostavo fra i banchi, passavo in edicola, discutevo col salumiere che era convinto che mi piacesse il prosciutto ma comprassi la mortadella perché ero tirchio e volevo spendere meno. La zona era anche frequentata da famiglie borghesi in quanto vicinissima all’Università e al Liceo Colombo, dove nel ’68 nacque il movimento studentesco. Fu un periodo di grandi stravolgimenti: con il Concilio Vaticano II la Chiesa decideva di leggere i segni dei tempi, i giovani si impegnavano nel sociale, dibattevano sulla riforma scolastica e la guerra in Vietnam, nascevano piccole comuni, cresceva la partecipazione civile. Fu un risveglio e un contagio di idee, una primavera a tutti gli effetti. La mia parrocchia diventò un punto di riferimento, l’agape, un luogo di forte comunione e sinergia. Alla messa di mezzogiorno trattavo i temi di attualità, ero nettamente schierato al fianco degli ultimi, cominciai a tenere due leggii: da una parte il Vangelo, dall’altra il giornale. Evidentemente qualche zelante non approvava le mie omelie e avvisò la Curia. L’episodio che scatenò l’indignazione dei benpensanti fu la mia predica alla scoperta di una fumeria di hashish nel quartiere. Invece di inveire contro chi rollava qualche spinello ricordai quanto fossero diffuse e pericolose altre droghe, per esempio quella del linguaggio, talmente fuorviante che poteva tramutare “il bombardamento di popolazioni inermi” in “un’azione a difesa della libertà”. Apriti cielo.

Il parroco Don Emilio Corsi per ordini superiori dovette registrare di nascosto le mie prediche, poi mi chiese scusa, dimostrandomi tutto il suo affetto, e si rifiutò di continuare. Ma ormai la Curia aveva stabilito che promuovevo la politica e non il Vangelo e nel 1970 mi inviò un provvedimento di espulsione.

Addirittura il vescovo Chiocca telefonò a mia madre chiedendole di fare pressioni su di me affinché scegliessi “obbedienza o catastrofe”. Optai per l’obbedienza e per loro fu una catastrofe. Prima della mia partenza ci fu una sollevazione popolare inaspettata. Tutta la città reagì, tanto che della storia di questo pretino si dovettero occupare anche i quotidiani, perfino Le Monde seguì la vicenda e scrisse che “avevo il torto di essere stato fedele al Concilio.”

Le gente del quartiere inviò una lettera di protesta con 2370 firme (a cui non seguì alcuna risposta), organizzò una veglia di preghiera, occupò la chiesa per esprimere totale disapprovazione al mio allontanamento. Il 1 luglio 1970, mentre io stavo barricato in una trattoria, venni chiamato in piazza e lì trovai oltre duemila persone a manifestare. Rimasi colpito. Avevo deciso di non contestare il provvedimento, invece capitai nel bel mezzo di una mobilitazione popolare, dove il professore universitario teneva a braccetto lo spedizioniere, il fabbro la vecchietta, i figli delle prostitute alzavano i cartelli insieme ai figli dei grandi professionisti. Che commozione. Mi diedero un megafono e questo fu il mio saluto: “E’ vero, esiste un profondo dissenso fra me e la Curia, ma un dissenso di amore e di profonda, convinta ricerca della verità. La cosa più importante è che si continui ad agire perché i poveri contino. Ci incontreremo ancora. Ci incontreremo sempre. In tutto il mondo, in tutte le chiese, le case, le osterie. Ovunque ci siano uomini che vogliono verità e giustizia.

” Il 1 luglio 1970 un bambino piangeva sugli scalini della mia chiesa e quando il vigile gli chiese perché, lui rispose: “Mi hanno rubato il prete”. 

E fatevi ‘na risata

 

Gli antichi Greci credevano che  la risata destabilizzasse l’ordine costituito (Platone) per cui era vietata ai discepoli (Pitagora) o doveva essere moderata ( Socrate).Gli inglesi, famosi per l’humor sottile, vedevano nella risata un’espressione di  superiorità, potere e gloria. (Thomas Hobbes). Fu poi intesa come  “ percezione di un salto logico”. (Arthur Schopenhauer ) o meccanismo di difesa e valvola di sicurezza per sfogare energia repressa. (Sigmund Freud ).

Oggi è stata  definita patrimonio dell’umanità. In suo onore  hanno organizzato raccolte di risate, ricerca di risate smarrite nei centri commerciali , adozioni di risate  a distanza sottratte alla strada, represse nelle aule giudiziarie, nelle carceri e negli ospedali…furtive  nelle scuole  e nelle chiese, gradasse negli stadi e nelle caserme, sonore  nei teatri e  nelle piazze.

 

La risata è una risposta emotiva che esprime ottimismo, divertimento, piacere, spensieratezza…a volte  rabbia , disprezzo e umiliazione, più di rado  disperazione. Fa parte  di un linguaggio sociale universalmente compreso e proprio di ogni cultura; stabilisce un’ intesa empatica, un legame solidale, un consenso  o un’esclusione. Inoltre distingue l’uomo dalle bestie (Aristotele): infatti pare che  gli animali non ridano (sinceramente ho i miei dubbi, basta vedere la foto di Skip vero). Eccezion fatta per le scimmie confermandone la nostra affinità ( basti vedere gli ominidi  ridentes  fuori dei bar al passaggio di una pulzella :) ) . I primati ridono per giocare, per finta lotta e solletico… insomma in seguito a contatto fisico. Tra gli umani  questo atteggiamento, invece che una fragorosa risata, può provocare una reazione contraria che si sostanzia in  un solenne schiaffone al rimbalzo, a mo’ di Anna Magnani .  

Tutti ridono e ad ogni  età: il bambino che ride è cuor contento, il ragazzo è sereno, il giovane è spensierato e fiducioso, l’uomo è ironicamente saggio soprattutto quando riesce  a ridere di sè stesso e a sdrammatizzare in ogni circostanza.. Insomma ,come diceva Leopardi che non era un campione di risate: “Chi ha il coraggio di ridere, e’ padrone del mondo.”

Quale fatto o episodio ha suscitato una vostra solenne risata?