“Ho semplicemente lottato per una causa che ho ritenuta santa: quelli che rimarranno si ricordino di me che ho combattuto per preparare la via ad una Italia libera e nuova.” (Lorenzo Viale, anni 27)

 

Da lettere di condannati a morte della Resistenza italiana – 8 settembre 1943-25 aprile 1945 Edizioni Einaudi.

 

Carissima Mamma adorata, e carissimi Fede, papà, Alberto, Stefano, zia e zio, Maria e tutti i miei cari, fra un’ora non sarò più in questo mondo. Mamma mia sii forte come lo sono io. Pensa mamma che tutta la forza viene da te che sei una “Santa”, tutta la tua  vita di dolore e di abnegazione ne è la testimonianza, mamma è il tuo bambino che ti supplica ma che ti dà un comando di moribondo, devi avere tanta, tanta forza, perdi il tuo bambino ma fra non molto te ne verrà restituito un altro, il mio caro fratello Stefano per lui devi vivere, a lui devi dare tutte le premure e le attenzioni che avresti date a me- è dunque un dovere quello che ti chiede il tuo Domenico nella certezza di questa missione che ti resta da compiere che io mi sento forte. È da mezzanotte che io prevengo la mia fine, ora sono le quattro e mezza e me ne viene data notizia, mamma affidati a Fede essa saprà come darti tanta forza. Fede cara ti chiedo perdono fa di esaudire tutti i miei desideri affido a te la mamma.

Da quattro ore, cara mamma non ho fatto che rievocare tutta la mia vita da quando ero bambino ed ora recrimino una cosa sola, tutto il tempo che non ti sono stato vicino, perdonami mamma: dì a papà che non beva più e ti stia più vicino, chiedo perdono anche a lui- mamma non ho una tua fotografia ma la tua visione non mi abbandona un attimo- l’ultimo mio anelito sarà per te, nel tuo nome di mamma vi è tutta la mia vita- se non ho saputo vivere, mamma, so morire, sono sereno perché innocente del motivo che muoio, vai a testa alta e dì pure che il tuo bambino non ha tremato. È quasi ora, perdono a tutti anche agli zii che ti assistano. Ciao mamma, Ciao Fede, papà, Stefano, Alberto, ciao a tutti.

Addio mamma tutto il mio bene a te e a tutti cari baci.

TUTTO È PRONTO. Mamma, mamma.

 

Domenico

 (Domenico  Cane- anni 30, artigiano decoratore. Fucilato il 2 aprile 1944 a Torino per rappresaglia)

  

Mimma cara,

la tua mamma se ne va pensandoti e amandoti, mia creatura adorata, sii buona, studia ed ubbidisci sempre agli zii che t’allevano, amali come fossi io.

Io sono tranquilla. Tu devi dire a tutti i nostri cari parenti, nonna e gli altri, che mi perdonino il dolore che do loro. Non devi piangere né vergognarti per me. Quando sarai grande capirai meglio. Ti chiedo una cosa sola: studia, io ti proteggerò dal cielo.

Abbraccio con il pensiero te e tutti, ricordandovi

la tua infelice mamma

 

(Paola Garelli (Mirka)-  anni 28, pettinatrice. Fucilata il 1°novembre 1944, senza processo, nel fossato della fortezza ex Priamar di Savona)

 

 Costa Volpino, 21 novembre 1944

Caro padre, sorella e cognato,

questo è il mio ultimo saluto e scritto che vi giunge, poiché fra minuti la mia vita sarà spenta, dovrete promettermi di non piangermi perché vano.

Sono contento che tra poco rivedrò la nostra cara mamma, e sarei contento di rimanervi sempre con lei.

Un saluto ancora e che questo vi giunga in segno di vittoria e di libertà per tutti gli italiani. Muoio per l’Italia!

Una stretta di mano e un bacio a te babbo, a te sorella e a te cognato e baci ai tuoi bambini. Tanti saluti a chi domanderanno di me. Arrivederci in cielo.

W l’Italia martoriata che presto rifiorirà libera e indipendente.

Andrea

 (Andrea Caslini -Rocco- anni 23, falegname. Fucilato il 21 novembre 1944 al cimitero di Costa Volpino (Bergamo)

 Carissima mamma. Ti scrivo queste mie ultime prole dalla mia cella dove ho trascorso le mie ultime ore contento e rassegnandomi di morire pensando sempre a te ed al mio piccolo nipotino e la mia sorellina, quando tornerai alla nostra bella  Napoli mi bacerai tanto papà e gli dirai che sono morto per l’Italia.

Cara mamma mi perdonerai per i dispiaceri che ti ho dato perché se ascoltavo le tue parole restavo vicino a te: ma Gesù ha voluto così, forse chi sa se il mio fratellino vuole che lo raggiunga lassù. Come tu pregavi per Lui così pregherai per me.

Finisco di scriverti pensando sempre a te fino alla fine, ed al mio nipotino ed alla mia sorella. Mi bacerai de Michele e gli dirai di fare le mie veci (quelle che non ho potuto fare io).

Ti bacio per sempre tuo figlio.

Salutami tutti.

 

Paolo Lomasto

 

(Paolo Lomasto-17anni, nato a Napoli. Non si conoscono le circostanze per le quali si trovò ad unirsi alle formazioni partigiane operanti nella zona di Pinerolo (Torino)

 

 12 luglio 1944

Mammina e Anne care,

è l’ultima lettera che vi scrivo. Tra poco non sarò più.Non nego che ci soffro, è umano.

Ma ho la precisa coscienza di essermi sempre comportato da buon italiano e buon figlio.mammina e te Anna eravate  e siete le persone che ho amato di più.

Vi sono vicino tanto tanto tanto.

Anna cara, sta vicino alla Mamma che avrà solo più te.

Era destino.

Ma di fronte ad esso bisogna che voi viviate.

Ho vissuto pure io per voi, per un ideale di libertà e di giustizia.

Non ho mai fatto male ad alcuno.

Sento ora come mai che vi voglio bene, tanto bene e sono in piedi.

Vostro per sempre.

 

Paolo

 

(Paolo Vasario-Diano- 33anni, tenente medico dell’esercito diventa poi medico partigiano nella 105a Brigata Garibaldi “C. Pisacane”. Fucilato  il 12 luglio 1944 da soldati tedeschi nel campo di aviazione di Airasca)

Sono Portentosi Questi Romani (2766 ° Natale di Roma)

Oggi Roma ha festeggiato il suo 2766° anno dalla fondazione che si fa risalire al 21 aprile del 753 a. C , quando  Romolo tracciò il solco del perimetro della città sulle pendici del Palatino. Lo storico Marco Terenzio  Varrone e l’astrologo Lucio Taruzio furono i primi a definire approssimativamente  le origini della città, che però in seguito si fecero coincidere con i festeggiamenti dei Palilia del 21 aprile. Tra storia e leggenda per secoli si è festeggiato il Natale di Roma, caduto in disuso dopo il crollo dell’Impero , recuperato poi dalla breve  Repubblica Romana del Risorgimento e dal fascismo. 

Anche quest’anno  una serie di mostre, visite guidate, manifestazioni e spettacoli serali  sul Natale di Roma  hanno voluto rendere omaggio alla Città eterna. Non potevo perdermi il corteo di ben 2000 figuranti di oltre sessanta  associazioni,  provenienti da 12 paesi europei, che  hanno rievocato e fatto rivivere i fasti della Roma imperiale.  Centurioni  e soldati di ogni parte del vasto Impero Romano, matrone, cortigiane, danzatrici, vestali, la dea Roma, sacerdoti, senatori, pretoriani, gladiatori si sono riuniti nel Circo Massimo per attraversare la città passando davanti   al Colosseo. 

 

L’anno scorso è stato interessante , a mio parere, lo scambio di doni tra  il Gruppo storico romano e  il sindaco Alemanno: il gruppo ricevette  una medaglia del Natale di Roma, dedicata  alla battaglia di Ponte Milvio di circa 1700 anni fa, e offrì al  sindaco ampolle piene d’acqua dei fiumi e dei mari d’ Italia e di  terra dei luoghi più significativi della penisola.  Quest’anno ha ricevuto una medaglia dal Presidente della Repubblica per la meritevole rievocazione storica  che, attraverso una fedele riproduzione  di  usi e costumi,   coinvolge gente di varia età e provenienza per  celebrare  Roma , caput mundi.  Oggi ci basta riconoscerla capitale d’Italia e centro delle istituzioni repubblicane . 😉

 

Cimitero Acattolico di Roma: quando la bellezza nobilita la morte

Il Testaccio è un colle che probabilmente deriva il suo nome dal latino “testa”, cioè anfora, perché si formò con l’accumulo dei cocci di anfore contenenti vino e olio e provenienti dal porto di Roma. Nel quartiere del Testaccio, vicino a Porta San Paolo, si trova un’oasi di pace eterna e serenità, cioè  il Cimitero acattolico ove riposano inglesi, tedeschi, americani, scandinavi, russi, greci, orientali, africani  ma anche italiani.  

Tanti sono i nomi che lo designarono: cimitero inglese, protestante, poi  dal 1921 in senso lato degli acattolici, ma anche degli artisti e dei poeti.
È “una mescolanza di lacrime e sorrisi, di pietre e di fiori, di cipressi in lutto e di cielo luminoso, che ci dà l’impressione di volgere uno sguardo alla morte dal lato più felice della tomba…”

(Henry James,1873)

 

Lunga è la storia di questo cimitero. Secondo le leggi ecclesiastiche  dello Stato pontificio nessun acattolico poteva essere sepolto in una chiesa cattolica  o in terra benedetta; inoltre le inumazioni erano consentite solo di notte per garantire l’incolumità dei partecipanti al rito funebre  ed evitare  il furore dell’ intollerante e fanatico popolino.

L’area dell’odierno cimitero faceva parte dell’Agro romano ed era detta “ i Prati del popolo romano” che  era una zona di bagordi da osterie e di feste campestri.

 Si sa con certezza che nel 1738 vi fu sepolto uno studente venticinquenne di Oxford, di nome Langton, la cui tomba fu scoperta nei pressi della Piramide Cestia.  Circa trent’anni più tardi  anche uno studente di Hannover vi trovò sepoltura perché, come riferito al papa, amava Roma e aveva espresso il desiderio di riposare presso la suggestiva Piramide di Caio Cestio. Così il papa fondò il cimitero.

Agli inizi dell’800 il ministro di Prussia presso la Santa Sede, Guglielmo Von Humboldt, ottenne la proprietà di un pezzo di terra ove seppellire due figli morti prematuramente. A inizio ‘800 però le tombe sorgevano in piena campagna tra greggi, agrifogli, fiori di campo, ed erano esposte al rischio di profanazione da parte di ubriachi e fanatici che così vendicavano l’espropriazione dei Prati romani. Ciò indusse  nel 1817 i diplomatici della Prussia, dell’Hannover e della Russia  a rivolgersi al cardinale Consalvi, segretario dello Stato pontificio, per poter recingere a proprie spese il cimitero. Soltanto quattro anni più tardi, dopo ulteriori sollecitazioni anche da parte di un principe danese e del Parlamento inglese, il cardinale provvide e concesse quella parte, detta zona antica, vicina alla piramide Cestia, ma vietò di piantare nuovi alberi. 

Nel 1894 l’Ambasciata di Germania acquistò 4300 mq in aggiunta all’area cimiteriale esistente, e la suddivise  in tre zone che si snodano in salita fino alle mura Aureliane tra cespugli, cipressi e tanti ciuffi di violette bianche e lilla che crescono spontaneamente. In  alto, lungo le mura, si scorgono iscrizioni di marmo con i nomi dei defunti perché fino al 1870 furono vietate epigrafi e croci con riferimenti alla beatitudine eterna in quanto per le autorità ecclesiastiche non poteva esserci salvezza per i non cattolici.

Dal 1822 il cimitero fu curato dal guardiano della Piramide, più tardi dai suoi discendenti e si iniziò ad inumare i defunti nella zona nuova. Il cimitero resistette ai combattimenti del 1849, alle cannonate del 1857 e ai bombardamenti della II Guerra Mondiale. 

Circa quattromila persone di tutte il mondo riposano in questo giardino; di alcuni non si conosce l’identità in quanto è andato perso l’Archivio in tempo di guerra. Vi sono  intellettuali, artisti, letterati, diplomatici, principi e nobili di varia provenienza e di fede diversa dalla cattolica o atei. Basti ricordare Keats e Shilley  le cui tombe sono meta di tantissimi turisti inglesi. 

Keats morì a Roma all’età di 26 anni e riposa accanto all’amico pittore Joseph Severn. Sulla lapide si legge:

“ Questa tomba contiene i resti mortali di un GIOVANE POETA INGLESE che, sul letto di morte, nell’amarezza del suo cuore, di fronte al potere maligno dei suoi nemici, volle che fossero incise queste parole sulla sua lapide: “Qui giace uno il cui nome fu scritto sull’acqua” Poco distante, una lastra marmorea, in risposta a questa frase mostra l’acronimo: Keats! Se il tuo caro nome fu scritto sull’acqua, ogni goccia è caduta dal volto di chi ti piange.”

 

 Shelley, morto a 29 anni  in un naufragio al largo della costa toscana, è in alto, sotto un torrione delle mura Aureliane. Una lastra custodisce le ceneri con la scritta “Cor cordium”(cuore di tutti i cuori”) e i versi della Tempesta di Shakespeare. 

Un angelo accoglie  dalle acque del Tevere Rosa Bathurst, una ragazza di sedici anni, ammirata per la sua bellezza, intelligenza e fascino. Nel 1824 il fiume la trascinò via mentre cavalcava con amici. La sua tragica fine scioccò Roma, anche perché  suo padre, giovane diplomatico inglese, era già scomparso durante una missione a Vienna.

 

Tra i tanti , quali il figlio di Goethe, il poeta della Beat generation Gregory Corso, la stilista Irene Galitzine, l’attrice Belinda Lee, il commodoro ed esploratore americano Thomas Jefferson Page la cui tomba è opera di Ximenes,ecc… si ricordi anche Naghdi Mohammed Hossein diplomatico iraniano e leader della Resistenza, ucciso a Roma nel 1993.

 

Nel cimitero acattolico ci sono anche italiani: Antonio Labriola, Carlo Emilio Gadda, Dario Bellezza, Luce Eramo, Bruno Pontecorvo,  Amelia Rosselli, i figli di Marconi, l’eroe risorgimentale Gavazzi e Antonio Gramsci.

 

Di Gramsci, esiliato in vita e  in morte, Pasolini scrisse :

“Uno straccetto rosso, come quello

arrotolato al collo ai partigiani

e, presso l’urna, sul terreno cereo,

diversamente rossi, due gerani.

Lì tu stai, bandito e con dura eleganza

non cattolica, elencato tra estranei

morti: le ceneri di Gramsci…”

Qui la morte non opprime né spaventa, semmai  induce a riflettere  serenamente  mentre si passeggia tra cipressi, pini e mirti  con lo sfondo di una svettante, suggestiva e bianca Piramide. Tra ciuffi di violette bianche e lilla, che spontaneamente crescono per terra, capita di scorgere uno dei tanti gatti della Piramide che dorme sornione o che si stiracchia godendosi il sole primaverile. 

 

Quanti  sono cullati dalla Città eterna, per caso o per scelta, a volte troppo presto! Tanti sono vegliati da mute presenze che  custodiscono destini ineluttabili, segreti indicibili, innocenze cristallizzate e restano lì ad espiare il dolore o in attesa.

Uomini, donne, ragazzi e bambini di paesi e lingue diverse sono accomunati dallo stesso silenzio, lontani da ogni affanno, da ogni fama, da ogni strada. Tra gli illustri c’è anche l’ossario per i Romeni Ortodossi Apolidi e tombe comuni della chiesa Ortodossa russa destinate ai non abbienti o a coloro che ebbero una sepoltura provvisoria. Qui scompaiono i confini di età, di cultura e di origine ma si coglie una  sola, pietosa accoglienza per una comune cittadinanza .

Qui si può piangere di commozione dinanzi all’ armoniosa e struggente bellezza dell’Angelo del Dolore, scolpito dallo scultore statunitense William Wetmore Story che ha ispirato decine di copie nel mondo. Qui si può respirare un po’ di eternità alzando gli occhi verso l’Angelo  della Resurrezione che s’erge tra i cipressi  nella sua elegante solennità. Immortali emblemi della purezza del dolore  e del riscatto dalla vita terrena. 

 

 

Quasi mortali uccelli dell’anima

……….Chi siete?

 

Felici primizie, prediletti del creato,

montagne, creste aurorali

di tutte le creazioni-, polline della divinità in fiore,

anelli di luce, vestiboli, scalinate, troni,

spazi di essenza, scudi di delizia, tumulti

di sensazioni tempestosamente incantevoli e di colpo,

singolarmente,

specchi: che ricreano nei loro volti

la propria sfavillante bellezza.

….

(da “La seconda Elegia”  di Rainer Maria Rilke)

Ciò che è bello è una gioia per tutte le stagioni, ed è un possesso per tutta l’eternità (Oscar Wilde)

 

Nel cortile di Palazzo Nuovo in Campidoglio Marforio, mordace interlocutore a distanza col sarcastico Pasquino, sorrideva beffardo mentre cercavo di immortalare ciò che sentivo come bello.

 

Per gli antichi il bello era proporzione e armonia di forme, rese ancor più pure dalla trasparenza del marmo. Ci sono opere che  a distanza di secoli hanno reso eternamente belle qualità esistite da sempre, colte in matrone, fanciulle, divinità, imperatori, guerrieri.

 

Uomini e donne, realmente esistiti o immaginati,  che ancora trasmettono forza, fierezza, fermezza, gentilezza, nobiltà, dolcezza, leggiadria, armonia, serenità.

 

 

“Per quanto viaggiamo in tutto il mondo per trovare ciò che è bello, dobbiamo portarlo con noi oppure non lo troveremo” (Ralph Wado Emerson).

Non saprei se si coglie il bello perchè è stato coltivato dentro di sè  o perchè è una proprietà insita oggettivamente nelle cose. Potremmo discutere a lungo sul carattere oggettivo o soggettivo  del bello. Sta di fatto che a Roma ovunque,  per strada, nei musei e nelle chiese, ci sono opere talmente sublimi che suscitano incanto e commozione.

 

Qui alcune  statue della classicità ammirate nei Musei Capitolini di Roma, che custodiscono una delle collezioni d’arte più prestigiosa e antica del mondo e hanno ispirato questo post.

Una goccia d’acqua

Una goccia scivola pian piano lungo un filo d’erba e assorbe frammenti di luce. Fragile perla  vibra a ogni soffio e riflette colori cangianti. A volte svanisce lievemente  per ricongiungersi a  un raggio di sole, a volte precipita pesantemente  e nutre la terra.

Rapida è la sua corsa per crescere, lenta è l’attesa del suo destino.Calmo lo stato di apparente quiete, in cui accoglie la vita intorno che vi si specchia.

Cristallo sospeso nel suo eterno splendore, palpita.

E dolcemente incanta.

Quanta fretta, ma dove corri?

Chi va piano, va sano e va lontano è la morale della favola di Esopo sulla lepre e la tartaruga.Oggi  quasi tutti, oberati da mille impegni, si  lamentano di non avere tempo sufficiente per riuscire a fare tutto. Si programma ogni cosa, compresi il tempo libero o le semplici pause pranzo, secondo una studiata ed inderogabile tabella di marcia:di corsa si va in palestra o in piscina, si pranza approfittando di vedere lui / lei o fissando appuntamenti di lavoro…

Si vive all’insegna del fast: fast food (pasti veloci) ai quali si è contrapposto lo slow food “per promuovere il diritto a vivere il pasto innanzitutto come un piacere di sensi assopiti, per  insegnare a gustare e a degustare”. Fast vacanze nel week end o veri e propri tour de force pianificati  nei minimi dettagli che poco rispondono all’esigenza di riposarsi. Fast nel consumismo imperante dell’usa e getti, nella mentalità della toccata e fuga anche nei rapporti interpersonali, sbrigativi e poco impegnativi. Del resto però anche il romantico colpo di fulmine trascinante e coinvolgente non scarseggiava di velocità, , chissà se per un sentimento più duraturo. Anche lo sviluppo delle tecnologie ha velocizzato la comunicazione, spesso svilendola della sua completezza, e soprattutto il pensiero e l’operatività. Ma  forse il vero problema non è tanto la velocità…quanto la fretta.

Non è detto che la fretta soddisfi la velocità, anzi, le azioni  svolte in fretta spesso implicano maggiori probabilità di errori che richiedono poi ulteriore dispendio di tempo ed energie per essere corretti.La fretta, o meglio l’aver fretta, è una dimensione interiore che fa percepire il poco tempo a disposizione,anche se a volte il tempo non manca.

La vita è una processione. Chi è lento la trova troppo veloce e si fa da parte; chi è veloce la trova lenta e si fa da parte. (Kahlil Gibran)

 Ma non si rinuncia a vivere. Si vive in base ai propri ritmi, lenti o veloci. Ritmi che a volte si possono regolare, a volte invece no.

Penso alle mamme acrobate, di cui hanno parlato recentemente i giornali, assillate da impegni di famiglia, casa e lavoro, dai loro molteplici ruoli pubblici e privati, che rischiano di andare in tilt,di dimenticare e di rimuovere responsabilità basilari come risposta inconscia a un carico a lungo andare troppo gravoso. Penso alla mobilità tipica di alcune professioni che richiede frequenti spostamenti ogni settimana, alla flessibilità oraria, a tutto ciò che impedisce di avere un ritmo di vita cadenzato, fisso e prestabilito. Ciò non significa disporre poi di più tempo libero, ma l’imprevedibilità, gravità o mancata conoscenza di eventi  e l’entità di adempimenti e responsabilità scatenano  battaglie contro l’orologio. E di qui si innesca un circolo vizioso: si diventa iperattivi, ci si lancia nel futuro più o meno immediato, perdendo di vista il presente, senza  osservarsi intorno e senza assaporare la quotidianità, si scandisce la durata di ogni attività in nome di un’efficienza ad ogni costo. Si corre anche quando si potrebbe farne a meno e si diventa stressati. Lo stress è una sindrome di adattamento alle molteplici e  varie sollecitazioni e ogni individuo vi reagisce in modo diverso, ma costante fissa è  la  fretta.Talvolta si è in grado di fronteggiare l’evento in sé ma non il suo esito diverso dalle proprie aspettative. Già perché chi corre, di solito pianifica, progetta ,velocizza il pensiero, cerca di prevedere sempre più cause ed effetti a livello razionale. Poi entrano in gioco  le risposte emotive, non sempre adeguate, sulle quali la persona  dall’orologio biologico accelerato rischia di franare.

 Che dire? La consapevolezza non basta…mi sento chiamata in causa in prima persona se considero quel proverbio africano: “Ogni mattina in Africa, una gazzella si sveglia, sa che deve correre più in fretta del leone o verrà uccisa. Ogni mattina in Africa, un leone si sveglia, sa che deve correre più della gazzella, o morirà di fame. Quando il sole sorge, non importa se sei un leone o una gazzella: è meglio che cominci a correre.Ma corrono entrambi per sopravvivere. E noi umani?

 Forse per non avere fretta occorrerebbe riuscire a ritagliarsi spazi e tempi per sé in cui poter ritrovarsi e fermarsi per riflettere, coltivare interessi propri, riuscire a esternare e a comunicare con altri per lasciar decantare l’ansia e ammortizzare l’affanno dell’inevitabile corsa della giornata.

Lo scrittore latino, il cui nome è già un bel biglietto di presentazione, cioè Gaio Svetonio Tranquillo diceva Festina lente. (Affrettati lentamente) cioè procedi riflettendo con calma e il poeta Orazio Carpe diem quam minimum credula postero (Cogli l’attimo fuggente confidando il meno possibile nel futuro) e Dona praesentis cape laetus horae  (Cogli felice i doni di questo momento).

Ma tra il dire e il fare c’è di mezzo un mare di fretta.

 

Grazie, grazie, grazie…

Io non so voi  ma  oggi  trovo questa immagine quando apro la pagina di Google . Ho pensato che qualcun altro condividesse con me quello che mia cugina aulicamente definisce  genetliaco  e che io, forse tardivamente,  solo da qualche anno ho scoperto  che significa  compleanno.

Poi ho spostato il mouse  per capire di chi era la festa  ed è inequivocabilmente apparsa la scritta “Buon compleanno maria!”. Ho  subito pensato che era diretto a me-modestia a parte-  perché i personaggi famosi sono festeggiati con tanto di nome e cognome e simboli della loro fama , e in google+  io sono maria  con la m minuscola e mi piacciono  i dolci  (ecco l’ho confessato).

 Allora non contenta ho preso i pad ho aperto pagina di Google e tac, ‘nata vota  (un’altra volta), “Buon compleanno maria!”  ( da leggere con voce di  monaciello ).

Qualche ignoto birbante  del web mi ha fatto uno scherzo innocente o forse è un automatico trucco tecnologico – non so-  , sta di fatto che per me è  una piacevole sorpresa , tanto gradita  da meritare un post e un pubblico ringraziamento.

E mo’ non mi dite che l’augurio non era per me  e l’ho sognato  😀

Un, due, tre…cinquantuno, pillicciò!

Ebbene sì, ci sono. Ci sono tutti e cinquantuno, tondi tondi. Sono nella traversata  dell’oltre  mezzo secolo, dei cinquant’anni. Caspita! Se li pronuncio lentamente,cin-quan-tu-no-an-ni  sembrano davvero tanti. Come mi sento? Come dagli -anta in su, forse solo più corazzata. Finalmente posso spaparanzarmi comodamente nella mezza età.

Ho sbirciato in un libretto sul linguaggio segreto delle date di nascita e riconosco che mi hanno “pittata” (dipinta) abbastanza bene.

Sono nata nel giorno dell’audacia (augh!). In pratica- come è scritto- ho il coraggio di essere me stessa (coraggio o incoscienza?) e di portare a compimento progetti ed idee (capatosta sono). Pur non avendo paura dell’opposizione altrui (dei figli pestiferi, vero?) o di dover combattere per affermare il mio modo di vita, non cerco quasi mai il confronto diretto (anche se a volte non è facile domare l’impulsività). La mia audacia non diventa mai temerarietà (meno male!): è piuttosto una forza morale basata su saldi princìpi e sul comune buon senso (almeno  ‘sti “-anta” servono a qualcosa). Ad un certo punto della vita, dovrò affrontare un radicale cambiamento di professione, quando l’insorgere della mia vera vocazione spazzerà via anni e anni di preparazione a un altro lavoro (vuoi vedere che mi ritirerò davvero in un convento senza preoccupazioni di casa, famiglia e lavoro , come auspico nei  momenti critici ?). Si tratta di un momento davvero importante nella mia vita (faciteme stà quiet che di recente ho cambiato città). Agli occhi altrui può sembrare che io corra troppi rischi (tranquilli, ho le spalle larghe), o che mi comporti in maniera sconsiderata (perché oso stanare?…lei mi capisce amme)

 È scritto che amo molto la mia professione (fin troppo…) e questo, insieme a una gran sete di indipendenza (chi fa da sé, fa per tre), rende alquanto difficile una normale vita familiare (le peregrinazioni lavorative del consorte ve le siete scordate?). Eppure paradossalmente avrei bisogno di sentirmi sistemata, per questo tenderò ad aggrapparmi a un homo comprensivo che dovrebbe sostenermi (mò appendo un cartello sul letto. “Consorte sostienimi” – ‘na parola sostenermi a cinquant’anni!  :D)

I nati nel mio giorno si distinguono in due tipi (mi ritrovo in entrambi, è grave?): il tipo solitario, che lavora da solo ai propri progetti, sviluppando uno stile, un’abilità, un talento tutto suo, in condizioni di relativo isolamento dagli altri (è vero perché ho bisogno di ritrovarmi nella solitudine); il secondo tipo è una luminosa stella sociale, un leader (direi piuttosto un panzer) animato da uno zelo missionario (e qui ricasca il convento…) che può galvanizzare gli altri attirandoli verso una comune grande impresa (di pulizia?). Benchè tenda a suscitare apprezzamento (o timore) e sia un po’ vanitosa (giàggià), da vera guerriera (augh!) conosco bene i miei limiti e anche se, per curiosità o desiderio di capire, mi spingo fino alla soglia del proibito (ehhhh?), raramente lo oltrepasso (ahhhhhh, volevo dire). Mi consigliano di:

calmare la mia intensità e tenere a freno il lato troppo ossessivo-costrittivo del mio carattere (posso uccidere il super ego?)

godere i semplici piaceri della vita (avete interrogato il mio frigorifero?)

seguire il cuore qualche volta, non sempre la testa (decapitatemi!), e imparare a spegnere, quando è necessario, il mio motore (quando lo spegnerò , vorrà dire che non ci sarà più tempo per nulla.)

Devo coltivare la capacità di rilassarmi (sante parole!), per non lasciarmi deprimere e debilitare da temporanei insuccessi (non mi arrendo! Doppio augh!).Sarà bene avere un’area privata e personale in cui rifugiarmi periodicamente per ricaricarmi (già fatto: ho tempi e interessi miei).

 Come arietina sono governata dal potente ed energico Marte (Er belligerante), sono fiera e dinamica, ostinata (e ci credo, oltre alle corna di sfondamento dell’ariete mi trovo pure quelle di attacco dell’ ascendente toro!) e curiosa (una vera scimmia).  Non la prendo molto bene quando vengo fraintesa (aprite bene le ‘recchie, no?) o scambiata per qualcosa che non sono (e ci credo!).

Avrei la forza di procedere nello sviluppo dei miei progetti (poi mi spiegate ch’aggia progettà di così importante), anche se non vengo notata (meno male!) prima o poi alcuni si accorgeranno della mia personalità (poveri loro) e delle mie doti (scarsette in verità) e quasi con devozione (è scritto proprio così…) saranno pronti ad adorarmi e a venerarmi (ma dico io, pure santa mi fanno diventare? Aspettate prima che vada in convento, no?). Non è detto che sia un’egocentrica (bontà vostra), è più facile che insegua i miei sogni ( o i sogni inseguano me, che dormo sempre meno) e tenda ad esteriorizzare le mie sfide personali e interiori (a cinquant’anni e più  non ho pudore di parlare di me). Di fronte a difficoltà che non prevedono la possibilità di soluzioni esterne, posso cercare risposte all’interno di me (scusate ma quale altra chance avrei ?), accettando una necessaria modificazione della personalità (la donna è mobileee…)

 E come quando si giocava a nascondino, si faceva la conta e si gridava trentuno pillicciò, che non so cosa significhi, oggi aggiorno il post e mi va di scrivere cinquantuno pillicciò, per scovare non i tanti  anni della mia vita, ma per rivedere la vita dei miei, tanto cari, cinquantun anni.

La signora Gioconda

Gioconda si chiamava così in onore della famosa opera del Ponchielli, tanto amata  da suo padre.  Sua madre era una donna molto bella ma forse anche un po’ agguerrita: ebbe infatti tre mariti. Rimasta vedova dei primi due, osò ripudiare il  terzo, che aveva preferito volar dietro ai commerci e alla bella vita, e diventò un’abile amministratrice. Gioconda era la figlia tanto attesa, nata dall’ ultimo matrimonio, ma ben presto divenne la  testimone dell’ennesima solitudine affettiva; ne pagò quindi le conseguenze con un’infanzia trascorsa sì nell’ agio, ma anche in solitudine e in un  ruolo troppo stretto, dettato dalla società dell’epoca. Era figlia del suo tempo anche nella sottomissione alla volontà materna e nella precoce saggezza,  frutto della rigida educazione che le fu impartita. L’intima sofferenza dell’anima spesso rende perspicaci: percepì sempre la colpa di esser figlia di un uomo, a lei descritto come ingrato, che le lasciò il nome e un vago ricordo.Il suo più grande atto di ribellione quindi consistette nel parlarne di rado.

 La sua giornata scorreva nell’ alternanza di un rosario, lettura di libri, che uno zio le prestava di nascosto, e sporadiche visite a parenti. Ogni tanto si interrompeva per soffermare lo sguardo davanti a sé, verso le colline cosparse di aranceti che si intravedevano dalla finestra, in cerca di nuovi orizzonti. Forse ripeteva mentalmente qualche verso o inseguiva qualche pensiero ed emozione dentro di sé. Probabilmente gli stessi che non sfuggivano a quella bambina, nata nel suo stesso giorno  ma circa sessant’anni più tardi, che riposava sul suo lettone e la osservava furtivamente, con discrezione. La piccola spostava poi lo sguardo verso i dolci profili del tondo della Sacra Famiglia, non a caso il quadro preferito di Gioconda.

 In età avanzata la signora non era bella, come dicevano fosse stata in gioventù, ma conservò  un sorriso dolcemente contagioso e una pronta ironia che la rendevano aggraziata ed interessante. Le stesse qualità che anni prima catturarono il cuore di un giovane, tanto ambito dalle ragazze del luogo. Lui aveva occhi azzurri, un sorriso sincero, un  portamento sicuro e un’aria distinta che non passavano inosservati. La notò e iniziò a scriverle dopo aver chiesto il permesso a sua madre. Tra i due iniziò una fitta corrispondenza con missive che  riassumevano gli impegni della giornata. Ogni lettera, sigillata da una promessa d’ amore e da una dichiarazione di fede nella Provvidenza, era accompagnata da una foglia di edera in quelle di lui e da una rosellina o un fiore di campo in quelle di lei. Lo scambio epistolare si svolgeva grazie al fidato mulattiere o qualche fornitore che avvicinava la tata di Gioconda. Le giornate trascorrevano nella trepida attesa di quelle lettere,  finchè furono annunciate le nozze. Un grande e atteso evento, cui parteciparono anche gli zii lontani, compreso quello che viveva a Londra.

 Così Gioconda finalmente potè uscire da sola e iniziò a sperimentare l’amore e la vita, anche quando lui partì per la seconda volta per  il fronte. Altre parole scritte custodivano un legame profondo che nessuna vicenda personale e storica poteva scalfire. Tra le due guerre ebbero sette figli ma sopravvissero solo le ultime quattro figlie. Durante la seconda guerra lui fu richiamato alle armi, ma per poco tempo perché, ammalatosi, fu mandato a casa dove  ben presto decise di occuparsi anche dei tanti nipoti, rimasti orfani di entrambi i genitori. Gioconda, all’insaputa del marito che era al fronte, vendette il corredo ricevuto in dote e i gioielli di famiglia che non indossava mai. Inoltre dovette cedere il suo appartamento al comando angloamericano, mentre aitanti giovanotti dormivano giù  nel deposito che, prima dello smantellamento, era riservato ai cani da caccia e agli attrezzi agricoli. Insieme alla cognata vigilava quando i soldati sbirciavano le ragazze più grandi, ostentando sorrisi maliziosi e smaglianti senza osare più di tanto. Le sue figlie erano ancora bambine e la più temeraria  un giorno osò dire “ no meat (to) dogs, meat to me” perché la fame si faceva sentire, più del freddo e della mancanza di abiti e scarpe. La spontanea “sfrontatezza” le procurò un piatto di polpette. Gli ufficiali  stimavano quelle donne energiche che in tempi difficili fronteggiarono in silenzio i lutti, le difficoltà e gli stenti della guerra, industriandosi  come potevano tra figli piccoli da accudire, faccende domestiche  e parenti sfollati dalla città colpita dai bombardamenti.

Nell’atrio del portone montagne di divise e cappotti smessi giacevano a testimoniare giovani vite spezzate. Un giorno anche quei ragazzi partirono, lasciando l’eco di parole straniere e di risa sonanti. A Montecassino la storia interruppe il corso della loro vita. La guerra finì. L’azienda di famiglia, già caduta in bassa fortuna durante il fascismo, naufragò  insieme ai velieri dediti al commercio marittimo oltreoceano.

 Gioconda aveva il suo da fare quotidiano e acquisì senso pratico e determinazione, più per necessità che per scelta.  Con il marito si impose perché tutti i nipoti e le figlie studiassero, e possibilmente in scuole  pubbliche. Egli non si oppose per gli studi classici, teologici, tecnici e magistrali ma ebbe qualche resistenza per il liceo artistico in città dove poi iscrisse una delle figlie. Del resto anche uno zio era pittore e i suoi  quadri di scene e cani da caccia ne erano testimonianza. Apparentemente distaccato, con quella figlia era in sintonia anche se  la rimproverava perché troppo esuberante ed estroversa, perché andava sempre in bicicletta e giocava a tamburello meglio dei ragazzi del paese, che facevano a gara per sfidarla nel gioco e conquistarla in amore. Quella figlia straordinaria, formatasi in città, in seguito con ironia e sobrietà dimostrò che la vera libertà  non necessita né di conferme affettive né dei consensi  di una società all’epoca limitante, se non quelli della propria coscienza; preferì non sposarsi e trasmettere ad alunni e nipoti l’amore per le arti, il bello, la natura, il nuoto, la vita nella sue varie sfaccettature. E Gioconda, se si rammaricava per le sue mancate nozze, in fondo si compiaceva dell’anticonformismo di quella figlia, con la quale visse in simbiosi fino alla fine.

 Sin da ragazza  amava la musica e il canto, che le permettevano di interpretare emozioni sul fluire delle note. Anche in età avanzata si concedeva il lusso di andare ai concerti serali di Ravello con la figlia e la bambina, che  trascorreva le vacanze estive a casa sua. Per l’occasione indossava uno scialle e il vestito buono, poco difforme da quello solito, sempre a piccoli pois o fiorellini azzurri su fondo nero o blu. La bambina contemplava davanti a sé le sfumature violacee che univano mare e cielo nel crepuscolo, poi congiungeva le stelle in disegni immaginari ispirati dalla musica . “ La musica si ascolta a occhi chiusi. Vibra dentro e trascina” e così si rannicchiava sotto il suo scialle. Rientravano a notte fonda con la 500 dalla capote abbassata. Talvolta cantavano, finchè la bimba si addormentava sul sedile posteriore, cullata dalle curve tortuose della costiera amalfitana. 

 Gioconda credeva. Chissà se per convinzione o  per bigottismo. Aveva comunque approfondito  la dottrina .Ogni settimana contattava un prete per le messe da celebrare nella  cappella, che divenne un punto di riferimento per tutto il vicinato, amici e parenti. La fede non le tolse mai il sorriso e la capacità di accettazione, anche quando dovette affrontare la lunga malattia del marito e lutti prematuri. Se la fede fu per lei un sostegno costante, invece la generosità divenne una regola di vita verso chi le chiedeva consiglio o si trovava in difficoltà e non osava chiedere. Divideva quel poco che aveva: un pacco di zucchero, pasta e caffè, a volte un piatto di frittelle di fiori di zucca, ortaggi appena raccolti nell’orto, accompagnati dall’immaginetta di qualche santo e Madonna, che di buon ora la bambina consegnava a persone sconosciute, percependo il significato di quel gesto da cordiali saluti e ringraziamenti o da sguardi tacitamente riconoscenti.

 La sua casa era il ritrovo di tanti… delle figlie, dei nipoti, pronipoti  e cognate/i partiti per le missioni, per mare e terre lontane in cerca di fortuna nel dopoguerra, per scelta o vocazione. Quella casa era sempre aperta a tutti e la  porta non era mai chiusa a chiave. La domenica mattina gli uomini si riunivano per discutere di politica con suo marito, costretto a letto; di pomeriggio i  bambini giocavano in cortile fino a sera inoltrata, quando qualche mamma non li chiamava dal balcone. Allora la grande sala da pranzo si animava  di donne, che improvvisavano la cena, e di uomini che rientravano dal lavoro. Intanto Gioconda ascoltava dai più piccoli il resoconto della giornata oppure organizzava con due figlie le attività di ricamo per la mostra di  beneficenza.

  La gente del paese andava periodicamente a farle visita . La bambina disponeva su un vassoio i bicchieri che poi portava camminando pian piano per timore di farli cadere. Offriva sciroppo di amarene, nocino, amaro di mirto o giulebbe di limone che aveva aiutato a preparare, selezionando i frutti migliori, filtrando e travasando più volte con garze sottili. Mentre giocava  con uno dei tanti gatti di casa, osservava gli occhi e i gesti degli ospiti. Ascoltava i loro aneddoti, racconti, i frammenti di saga familiare cercando di districarsi nella sua mente infantile tra gli intrecci genealogici, in cui spesso si smarriva, e di ricostruire logicamente  la storia dei fatti e degli affetti .

 In tarda età Gioconda usciva di rado ma a un rituale estivo non rinunciò mai. Ogni estate doveva fare sette, otto bagni  al mare. Quando la 500 gialla, con la capote sempre alzata, arrivava nel borgo marinaro, i vecchi pescatori uscivano dai munazeni e le andavano incontro per salutarla. Le ricordavano i figli, ormai uomini e perlopiù naviganti, e le presentavano le nuore e i nipoti.

La bambina rideva  quando assisteva ai preparativi per l’immersione in mare perchè Gioconda non indossava un normale  costume da bagno, ma una palandrana di cotone nero, lunga fino al ginocchio, abbottonata sul davanti e con le mezze maniche. Mutandoni neri, una sorta di bermuda, completavano l’abbigliamento da spiaggia. Come riuscisse a  galleggiare, era un mistero! Teneva il mento in alto e la testa diritta, cercando di non bagnare i capelli raccolti, e muoveva le mani in fuori per spostare leggermente l’acqua. Si beava  nel mare  limpido e fresco sotto i costoni rocciosi ed esortava la bambina a tenersi a distanza, forse perché temeva di bere o di affondare trascinata giù dalla pesante palandrana. La piccola  la precedeva, nuotava sott’acqua fingendo di cercare conchiglie e stelle marine sul fondale. In realtà era incuriosita da quella specie di elegante manta nera che avanzava lentamente .Un giorno un anziano pescatore volle portarle in barca a remi . La superba costa alta che si stagliava nel cielo terso, le acque cristalline e la nostalgia indussero Gioconda a  rivivere un passato ormai remoto nella rievocazione ironica di famiglie e personaggi, che con i loro soprannomi e aneddoti popolano la storia di ogni paese.

  L’estate trascorreva placidamente tra persiane socchiuse per mantenere un po’ di fresco nell’antica casa durante la siesta pomeridiana. La bambina giocava tra le ante a specchio dell’armadio: si divertiva a congiungerle quanto più poteva per vedere la propria immagine riflessa per decine di volte, all’infinito. Correva alla finestra non appena sentiva suonare il campanello, sperando di dover calare giù il cestino. Aveva imparato, dopo qualche disastro, a mollare pian piano la corda arrotolata e a tirarla su ancor più lentamente per non farla oscillare e rovesciare  la bottiglia di latte fresco che una vicina consegnava ogni sera. Altri passatempi consistevano nella preparazione di infusi di erba e petali di fiori nell’alcool per ottenere miscele colorate o nell’usare il macinino per tritare i chicchi di caffè. Appena poteva, sgattaiolava con il cane in giardino per andare su una bicicletta sgangherata e giocare con i cugini, contendendo poi l’amaca per riposarsi. Il divertimento più spassoso però era nell’orto: trascinava  a fatica la pompa lungo il viale e poi innaffiava tutto. Bagnata e sporca di terra, fiera rientrava in casa portando un cesto pieno di pomodori, basilico, prugne ammaccate e trovate in terra,  fiori freschi recisi maldestramente (…tanto i santi non avrebbero notato questo particolare). Gioconda non la sgridava ma l’ aiutava a ripulirsi. Se invece era esausta per una giornata trascorsa al mare, alle prodezze domestiche la bambina preferiva il riposo sul lettone e, dietro un giornalino,  spiava sottecchi . Lei stava seduta al tavolo tondo intarsiato mentre lavorava all’uncinetto; all’improvviso con tono teatrale improvvisava uno spiritoso dialogo con il  Signor Gatto di turno che partecipava miagolando, fuseggiando e spingendo la testa sotto la sua mano per farsi accarezzare. Entrambi alludevano  alla bambina e le facevano  capire che l’avevano scoperta. Nell’ultimo periodo interrompeva il lavoro, stava immobile e osservava in silenzio davanti a sè. Forse si smarriva in una preghiera, un ricordo o un presentimento…

La Signora Gioconda capiva più di quanto non desse a vedere, non si adirava mai e quando doveva dire qualcosa di importante o serio, affrontava con indiretta ironia l’argomento, ricorrendo a  metafore, aneddoti e domande. Con la sua presenza trasmetteva una serena fermezza e con la sua compostezza un  apparente distacco dalle umani passioni.

Pareva che vivesse in un mondo suo, dipinto dalla garbata gentilezza, da una taciuta  forza d’animo, dalla coerenza e fede ai principi, dalla discreta e  pudica ritrosia a esternare impulsivamente le emozioni più forti e i pensieri più profondi.Un mondo fermo ed immutabile nel tempo, in una casa senza orologi. Tempo scandito dai fiori di stagione e tralci di edera raccolti in giardino, dai racconti, dai quadri, dai mobili, dagli affetti.

Un mondo di radici mai strappate che mi appartiene, come il patrimonio interiore di  cose semplici e belle che mi ha donato nonna Gioconda.