La casa

Scrissi questo post il 10 aprile 2009, nel giorno del mio compleanno, per i terremotati dell’Aquila pensando  tanto a una casa, punto di riferimento della mia vita tra le tante che ho abitato, strattonata dal  terremoto del 1980.

Oggi ripubblico questo post per tutti coloro che hanno vissuto e vivono ancora  gli effetti devastanti dei terremoti e delle alluvioni perché non siano dimenticati e trovino la forza di ricostruire, in tanti sensi.

 “Mai come quest’anno la Passione è tangibile negli sguardi che rivelano sgomento, muto dolore, disorientamento, fragilità emotiva, sofferenza dell’anima. Difficile recuperare quando si resta colpiti negli affetti e nelle radici più profonde, quando si perdono i punti di riferimento della propria storia personale, del senso di appartenenza collettiva, sia sociale che culturale. Tutto sembra ruotare intorno a quei feretri di pietre che svelano spudoratamente mobili rotti, piccole cose a ricordo di chi ha vissuto tra quelle mura, ormai violate e annientate.

Se i muri delle case potessero parlare, narrare saghe familiari,vicende personali, le tante passioni che vi hanno dato vita con amori, nascite, cambiamenti, abbandoni. La casa raccoglie il tempo vissuto. Nelle sue fondamenta e nei  muri portanti affondano le nostre radici. La casa non ruba mai. Nasconde nel perpetuarsi di generazioni la ciclicità delle stagioni della vita. Non importa se sia grande o piccola, modesta o lussuosa. È la casa. La casa che offre rifugio e sicurezza. Un punto di partenza e di approdo, quasi un padre adottivo che vincola, orienta, accoglie comunque. Si affaccia sulle strade di vite diverse, scalda cuori, culla sogni, speranze e riposi.

 Quando crolla una casa si perde parte di sè, di quel tempo trascorso, costato fatica, fede, gioia, entusiasmo e conquiste. È un lutto di radici, perdita di un qualcosa che appartiene più di quanto si creda e di cui ci si accorge quando non si possiede più. Con essa si perde una certezza, un testimone silenzioso della propria interiorità perché non è   solo un recinto di quattro mura, ma uno specchio dell’anima e della propria quotidianità,  visibili a chi ci si proietta dentro. Le sue voci e rumori accompagnano, la sua violazione ferisce come un’intima violenza, il suo danneggiamento è un’amputazione di parte di sè, la sua distruzione è uno strappo lancinante.

 Quando si cambia casa si ricomincia di nuovo. A volte dal niente, a volte recuperando un quadro, un mobile, oggetti utili o cari per mantenere un legame col passato e ció che rappresenta. A tutto c’ é rimedio tranne che alla morte. È vero. Una casa si ricostruisce, ma la precedente, quella che rappresenta l’infanzia o fasi della vita significative, non si dimentica. Mancano i suoi odori, le sue correnti d’aria, luci e ombre, silenzi e rumori, geometrie di leggere aperture e massicce chiusure, i suoi difetti e pregi che la rendevano unica e speciale, la spazialità delle piccole cose che le davano una dimensione e un ordine a volte illogico ma funzionale, un significato comprensibile a chi la viveva.

La casa cambia quando vengono a mancare le sue persone. Cessa quell’ empatia di passi, di discreta intesa, di intima dialettica. Perde la sua voce originaria per acquisirne e ricrearne una nuova.

 Una nuova casa svelerà arcani segreti in altro modo. Sprigionerà un’altra atmosfera, un altro calore,  un’ altra semplice e sicura certezza. Sì sicura certezza: perché la casa deve essere un tempio che custodisce la sacralitá della vita e degli  affetti che danno significato all’esistenza. Non dovrebbe mai essere una tomba di lacrime e sangue, come quelle macerie che hanno unito nel dolore tutta l’Italia.”

 

I frutti delle meraviglie

 

Frutti insoliti, abnormi, bernoccoluti, proboscidati, tentacolari.  Provengono dallo stesso albero del giardino di mia suocera.  Non nascono per innesti ingegnosi e nemmeno per effetto di sostanze inquinanti o strane alchimie. Sono detti limoni digitati, non da tastiere :) ,   bensì dall’acaro delle meraviglie. L’  Eriophyes sheldoni è  il nome scientifico dell’animaletto, invisibile a occhio nudo, artefice di queste  escrescenze, spesso simili a dita. Attacca le gemme del limone, portandole a sviluppare frutti multiformi quando queste devono ancora svilupparsi a legno o a fiore. Le gemme a legno danno poi  origine a una vegetazione di aspetto cespuglioso, a rosetta, con affastellamento dei rami. Le gemme a fiore, meta del meraviglioso intervento dell’acaro,  cadono oppure producono frutti dall’aspetto di un polipo.

Tali frutti vengono chiamati meraviglie o frutti delle meraviglie. E pensare che io li chiamavo affettuosamente mamuozzi   😉

 

 

Pioggia – Federico Garcia Lorca

 

Pioggia

La pioggia ha un vago segreto di tenerezza
una sonnolenza rassegnata e amabile,
una musica umile si sveglia con lei
e fa vibrare l’anima addormentata del paesaggio.
 
È un bacio azzurro che riceve la Terra,
il mito primitivo che si rinnova.
Il freddo contatto di cielo e terra vecchi
con una pace da lunghe sere.
 
È l’aurora del frutto. Quella che ci porta i fiori
e ci unge con lo spirito santo dei mari.
Quella che sparge la vita sui seminati
e nell’anima tristezza di ciò che non sappiamo.
 
La nostalgia terribile di una vita perduta,
il fatale sentimento di esser nati tardi,
o l’illusione inquieta di un domani impossibile
con l’inquietudine vicina del color della carne.
 
L’amore si sveglia nel grigio del suo ritmo,
il nostro cielo interiore ha un trionfo di sangue,
ma il nostro ottimismo si muta in tristezza
nel contemplare le gocce morte sui vetri.
 
E son le gocce: occhi d’infinito che guardano
il bianco infinito che le generò.
 
Ogni goccia di pioggia trema sul vetro sporco
e vi lascia divine ferite di diamante.
Sono poeti dell’acqua che hanno visto e meditano
ciò che la folla dei fiumi ignora.
 
O pioggia silenziosa; senza burrasca, senza vento,
pioggia tranquilla e serena di campani e di dolce luce,
pioggia buona e pacifica, vera pioggia,
quando amorosa e triste cadi sopra le cose!
 
O pioggia francescana che porti in ogni goccia
anime di fonti chiare e di umili sorgenti!
Quando scendi sui campi lentamente
le rose del mio petto apri con i tuoi suoni.
 
Il canto primitivo che dici al silenzio
e la storia sonora che racconti ai rami
il mio cuore deserto li commenta
in un nero e profondo pentagramma senza chiave.
 
La mia anima ha la tristezza della pioggia serena,
tristezza rassegnata di cosa irrealizzabile,
ho all’orizzonte una stella accesa
e il cuore mi impedisce di contemplarla.
 
O pioggia silenziosa che gli alberi amano
e sei al piano dolcezza emozionante:
da’ all’anima le stesse nebbie e risonanze
che lasci nell’anima addormentata del paesaggio!

 

Federico Garcia Lorca

 

Il significato e la tradizione delle uova di Pasqua

In tutto il mondo, ormai, l’uovo è il simbolo della Pasqua. Da sempre le uova sono il simbolo della vita che nasce, ma anche del mistero, quasi della sacralità.

In alcune credenze pagane il Cielo e la Terra venivano concepiti come due metà dello stesso uovo. Greci, Cinesi e Persiani usavano scambiarsi uova di gallina come doni per le feste primaverili, così come nell’antico Egitto le uova decorate erano regalate all’equinozio di primavera.

Con l’avvento del Cristianesimo, l’uovo si legò all’immagine della rinascita non solo della natura ma dell’uomo stesso, e di Cristo. Nel Medioevo le uova venivano regalate ai bambini e alla servitù per festeggiare la Resurrezione. Ancora oggi, in Germania e in Francia, vengono nascoste le uova nei giardini per poi invitare i bambini a trovarle. Nei Paesi Scandinavi le uova sono oggetto di giochi di abilità e assumono valenze particolari come, per esempio, andare in chiesa con in tasca un uovo nato il Giovedì Santo aiuterebbe addirittura  a smascherare le streghe.

 In occasione della ricorrenza dei morti, celebrata il venerdì successivo al giorno di Pasqua, gli ortodossi usano ancora colorare le uova di rosso e metterle sopra le tombe, quale augurio per la vita ultraterrena. Pare che questa tradizione sia legata a una leggenda su Maria. Si narra che la Madonna facesse giocare Gesù Bambino con delle uova colorate e che il giorno di Pasqua, tornata sul sepolcro del Figlio, vi trovasse alcune uova rosse sul ciglio. Si racconta, anche, che Maria Maddalena si presentasse all’imperatore Tiberio per regalargli un uovo dal guscio rosso, testimonianza della Resurrezione di Gesù e che Maria, Madre del Cristo, portasse in omaggio a Ponzio Pilato un cesto dorato pieno di uova per implorare la liberazione del Figlio.

 Già nei libri contabili di Edoardo I di Inghilterra si fa menzione di una spesa di 18 p. per 450 uova rivestite d’oro e decorate, da donare come regalo di Pasqua. Tra le più celebri uova sono sicuramente quelle realizzate da Peter Carl Fabergé.

Nel 1885 il   maestro orafo  russo, su commissione dello zar Alessandro III di Russia , realizzò un uovo di platino contenente preziosissime sorprese per la zarina Maria Fyodorovna. Nominato gioielliere di corte,  Fabergé divenne  famoso per la sfarzosa e originale  produzione di uova pasquali ma anche per l’idea della sorpresa interna all’uovo. 

Oggi permane la tradizione pasquale  di donare uova: vere ,come gallina le ha fatte J , oppure sode , dipinte o di cioccolata. Sono l’augurio di vita rinnovata, un dolce auspicio con  piacevoli sorprese, ma soprattutto un segno di amicizia e amore.

Auguri di  Buona Pasqua !  :)

 

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La colomba

 

Lo struscio : quando la gente elegante correva ai miserere per fare sfoggio di vestimenta.

Il rituale del giovedì  santo prevede la visita dei  sepolcri, cioè di un numero dispari di chiese, non inferiore a tre.  A  Napoli il giro dei  sepolcri si chiama “struscio”; letteralmente strusciare significa strofinare o trascinare qualcosa per terra, ma può anche significare lisciare, adulare. Di qui si pensa che struscio possa significare adulare i santi, in riferimento alle  adorazioni, oppure assumere un altro e più condiviso significato risalente  ai tempi di Fernández Pacheco de Acun͂a, viceré spagnolo nella Napoli del Settecento. Questi  emanò un bando nel 1704 per vietare  la circolazione di carrozze dal mezzogiorno del giovedì  fino al tempo della messa solenne del sabato santo inizialmente per le vie centrali della città, poi solo per via Toledo, la strada principale di Napoli. Qui  la famiglia reale in pompa magna,  con l’intera compagnia delle Real Guardie del Corpo e un corteo di cortigiani al seguito, dopo il vespro del giovedì santo si recava a piedi nelle vicine chiese per visitare i sepolcri. Ben presto i napoletani  considerarono lo struscio  come la festa della primavera  durante la quale non solo i nobili, ma anche i borghesi si esibivano in uno struscio di piedi per terra e di abiti nuovi, eleganti e fruscianti. Lo struscio divenne una sorta di gara di sfarzo tanto che nel 1781 il re Ferdinando IV intervenne per frenarla, come racconta Florio in   “Memorie storiche”.  Infatti in occasione della visita dei sepolcri durante la Settimana Santa  sia “nobili che  moltissimi del ceto civile, erano soliti vestirsi pomposamente  di velluto nero col soprabito ricco di bottoni d’oro e d’argento. Le Dame poi adornate con somma gala, portate dentro ricche sedie indorate a mano (essendo vietate le carrozze) giravano quasi tutte le chiese della città con volanti, servi, paggi, e tutta la loro corte, vestiti con le più  ricche livree, con estremo lusso, e con le teste artificiosamente accomodate. Ed in tal maniera camminavano la città e visitavano i sepolcri in giorni cotanto sacrosanti, dando qualche scandalo piuttosto che edificazione. Fu dunque sovranamente ordinato che andassero semplicemente ornate di veli, e senza scandalo e fu così eseguito.”

Il rito dello struscio sopravvisse durante la Repubblica Napoletana del 1799 e  il regno di Ferdinando II (1830-1859), divenendo sempre meno sfarzoso , seppure solenne.  Dopo i Borbone si distinse tra lo struscio del giovedì santo,  aperto al gaudente popolo che si riversava in via Toledo, e quello del venerdì  riservato ai nobili e  ai notabili della città.  Aitanti ed impettiti gentiluomini  indossavano la paglietta, cappello estivo, prontamente  tolta per ossequiare una bella dama che avanzava strusciando le vesti e i piedi . Le instancabili e “nferrùte” (tremende) mammà partenopee, di ogni estrazione sociale, agghindavano le figliole in età da marito e le accompagnavano in un interminabile struscio nella speranza di accasarle.

 Oggi per struscio s’intende il  prolungato passeggio, soprattutto serale,  per la via principale di un paese o di una  città, non solo  in occasione di feste. Spesso  i ragazzi passano e spassano per fare bella mostra di sé o conquiste  e non  necessitano più né di onnipresenti mammà , né dei miserere della Settimana Santa.

 

La mitica pastiera

La pastiera è un dolce di antiche e leggendarie origini, tipico della cucina napoletana e del periodo pasquale.

Si narra che in primavera la sirena Partenope emergesse dalle acque del Golfo di Napoli  per salutare con canti di gioia le genti della costa. Un giorno sette belle fanciulle furono inviate per omaggiarla  con  preziosi e semplici prodotti della terra e del lavoro dell’uomo: farina, ricotta, uova ( simbolo della vita), grano, inebriante acqua di fiori d’arancio, seducenti spezie del lontano Oriente e  infine zucchero. Partenope  pose questi doni ai piedi degli dei che la ringraziarono amalgamandoli magicamente in una pastiera, più  dolce del suo canto che incantava uomini e dei.

“L’antica pastiera dall’apparenza casalinga, onesta, sincera, color del legno stagionato, decorata col suo modesto traliccio incrociato di pasta frolla. Intanto è un dolce a metà. Il suo sapore è delicatissimo, composto come è dai chicchi di grano primaticcio ammorbiditi e ammollati, da una buona ricotta, da pezzetti di cedro, umida e fragrante d’acqua di fior d’arancio. È un dolce che sa di primavera e di nozze, di innocenza e d’infanzia, di sole e di serenità, un dolce d’altri e forse più felici, almeno più tranquilli tempi (da “Breviario della cucina napoletana” di Mario Stefanile)

 

Un dolce talmente  squisito, da ridare  il sorriso a tutti…

A Napule regnava Ferdinando

Ca passava e’ jurnate zompettiando;

Mentr’ invece a’ mugliera, ‘Onna Teresa,

Steva sempe arraggiata. A’ faccia appesa

O’ musso luongo, nun redeva maje,

Comm’avess passate tanta guaje.

“A Napoli regnava Ferdinando (Ferdinando II di Borbone) che passava le giornate “zampettando”; mentre invece sua moglie, donna Teresa ( Maria Teresa d’Austria) stava sempre arrabbiata. La faccia triste, il muso lungo, non rideva mai, come se avesse passato tanti guai…”( e ci credo… dopo 12 figli e un consorte allegramente zampettante al fianco)

 Finchè un giorno la cameriera propose alla regina un dolce nuovo, che piaceva a uomini , donne e bambini. La pastiera addolcì la regina tanto da strapparle un sorriso. Il re esclamò:

“E che marina!

Pe fa ridere a tte, ce vò a Pastiera?

Moglie mia, vien’accà, damme n’abbraccio!

Chistu dolce te piace? E mò c’o saccio

Ordino al cuoco che, a partir d’adesso,

Stà Pastiera la faccia un pò più spesso.

Nun solo a Pasca, che altrimenti è un danno;

pe te fà ridere adda passà n’at’ anno!”

“E che marina! Per farti ridere ti ci vuole una pastiera? Moglie mia, vieni qua, abbracciami. Questo è il dolce che ti piace? E ora che lo so, ordino al cuoco che, a partir da oggi, faccia più spesso ‘sta pastiera. Non solo a Pasqua, chè altrimenti è un danno: per farti ridere deve passare un anno!”

 Probabilmente la pastiera, come la conosciamo oggi, nacque dall’estro culinario di un’ignota suora, una delle tante dedite alla preparazione di dolci che allietavano le tavole imbandite  di nobili e ricchi borghesi.

 I piatti tipici della tradizione napoletana hanno il pregio o il difetto di non rispecchiare mai un’unica ricetta: sono spesso “insubordinati” nelle dosi e negli ingredienti. Non solo, ma ogni famiglia custodisce gelosamente quella variante che rende il piatto speciale e diverso dalla ricetta base. Come ad esempio la pastiera di cui si trovano ricette con uova e ricotta, con crema pasticcera oppure  con i tagliolini.

 La pastiera mi è cara perché l’ associo a mia madre. Premetto che a tutt’oggi non si cimenta nei dolci se non negli struffoli e nella pastiera, che merita effettivamente un plauso anche per le irregolari strisce incrociate di pastafrolla che sono la sua inconfondibile firma.Mamma dedica un’uscita speciale solo per acquistarne gli ingredienti. Qualche giorno prima di prepararla, mette il grano a mollo nell’ acqua. Il giorno successivo lo cuoce nel latte. E al terzo giorno assisto alla vera resurrezione di mamma. Per soddisfare le richieste di amici e conoscenti, per un giorno intero inforna e sforna dolci di vario diametro, e non vuole essere assolutamente  disturbata in un rituale che le appartiene e al quale ha rinunciato solo due volte in vita sua, a causa del  terremoto e di un grave lutto familiare.

Alla pastiera sono legati aneddoti indimenticabili nella storia della mia  famiglia.Una volta mamma mi telefonò chiedendomi  di ritirare la spesa nel negozio di fronte casa sua e la cosa mi parve alquanto strana perché ha sempre, ma sempre fatto tutto da sola. Non appena mi vide, il salumiere esclamò: “Signora, ho preparato le uova per sua madre. Mi scusi , ma a che cosa servono 60 uova?” Ignara di tutto, capii che erano iniziate le grandi manovre pasquali da pastiera. Fu così che anche il salumiere si guadagnò il suo piccolo e dolce tributo pastieresco.

Poiché le specialità gastronomiche di famiglia si trasmettono ancora di generazione in generazione  (ebbene sì), per anni le ho chiesto la ricetta  della pastiera. In effetti non l’ho mai ricevuta perché lei, come mia suocera, dosa tutto ad occhio e  io non potevo permettermi, in tempo e disponibilità, di cimentarmi in un dosaggio da 60 uova.

Finalmente un giorno ho scoperto la ricetta della bisnonna Sofia e ho imparato a cucinarla, finchè un  bel giorno mio padre in buona fede osò dire che la mia pastiera era buona quasi come quella di mamma. Non l’avesse mai detto! Si sfiorò un incidente coniugale dopo circa 40 anni di matrimonio perché  lei si adombrò; da allora le lasciai volentieri il primato e ancor più volentieri la fatica.Di recente ho ripreso a prepararla con  quel piccolo segreto di mamma che la rende speciale.

Per noi tutti,  la pastiera rappresenta un po’ l’energia, la sostanza e la dolcezza di mia madre. 

Pastiera della bisnonna Sofia.

  Ingredienti:

 

500 g di grano

½  l. di latte

100 g. burro

3 cucchiai di zucchero

1 bastoncino di cannella

100 g di cedro candito tagliato a pezzetti

1 kg di zucchero

1 kg di ricotta

12 uova

buccia  di limone grattugiata

un bastoncino di cannella

essenza di fior d’arancio (una fialetta)

 

Mettere il grano in acqua tiepida e sale per almeno mezza giornata, dopo averlo pulito e sciacquato a lungo.Calarlo in un litro e mezzo d’acqua fredda e lasciarlo bollire (altrimenti comprare il grano già ammorbidito).Cuocere a fuoco lento il grano, già ammorbidito, nel latte, burro, cannella, zucchero e un po’ di sale finchè non si scuoce .

In due terrine battere separatamente i tuorli e gli albumi d’uovo, poi unirli.In un’altra terrina lavorare la ricotta con lo zucchero e versarvi poi il grano cotto nel latte.Aggiungere le uova sbattute, il cedro a pezzetti, il bastoncino di cannella e la fiala di fior d’arancio. Lasciare riposare un po’.

 

Ingredienti per la crema pasticcera

 

300g zucchero

2 uova intere + 4 rossi d’uovo

1 l di latte

120 gdi farina o amido

 un bastoncino di vaniglia ( in alternativa uso una bustina di vanillina)

 buccia grattugiata di limoni verdi .

 

In una pentola lavorare le uova con lo zucchero.Aggiungere un po’ alla volta la farina continuando a mescolare, poi il latte, la buccia di limone e la vaniglia e amalgamare.Cuocere a  fuoco basso mescolando di continuo con un cucchiaio di legno per evitare che la crema si attacchi e si formino grumi. Fare addensare la  crema .

Versare  la crema nell’impasto precedente, lasciar raffreddare  e infine unirvi anche mezzo bicchierino di whisky e qualche goccia di angostura ( variante mia e di mamma che dà un po’ di colore). Mescolare delicatamente. Togliere i bastoncini di cannella.

 Pastafrolla ( ma di solito uso quella surgelata).
 250-300 g di farina

125-150 g di 

zucchero a velo

150 g di burro o strutto

3 tuorli d’uovo

un bicchierino di rum

Mescolare  e lavorare la  farina,lo zucchero e il burro. Aggiungere i tuorli e il rum, comprimendo delicatamente.Foderare una teglia con la pasta frolla, versare l’impasto della pastiera.Preparare strisce di pasta frolla, larghe1-2 cm, da incrociare sull’impasto.

Cuocere a 180° C per un’ora e un quarto circa. Lasciare raffreddare la pastiera e infine cospargere di zucchero a velo.

La colomba

Il re longobardo Alboino, fu un guerriero valoroso ma spietatissimo. Si pensi che durante una serata  di bagordi nella reggia di Verona,  bevve vino in una coppa ottenuta dal cranio del padre di Rosmunda ( un tale  Cunimondo) e costrinse perfino la moglie a imitarlo pronunziando  la storica frase “Bevi Rosmunda dal teschio di tuo padre!” 

Firmò così la sua condanna a morte: infatti l’amata Rosmunda ordì una congiura per vendicarsi . Come? Legò al suo fodero la spada del marito, che all’arrivo dei congiurati cercò invano di difendersi con uno scranno…fu poi sepolto a Verona e allora, secondo me, nacque il detto  “chi è causa del suo mal, pianga se stesso”.L’orda dei barbari, guidati da Alboino, calò nell’Italia settentrionale nel 568 d.C.  In  fretta e furia i  longobardi, con famiglie e  mandrie di bestiame al seguito ( insomma una sorta di migrazione …ma all’ epoca  non c’era ancora Borghezio),  conquistarono prima Aquileia, Vicenza e Verona, poi nel 569 d. C.  Milano e Pavia. 

 

Si narra che la città di Milano dovesse  rendere al conquistatore un considerevole tributo: oro, gioielli, stoffe pregiate, oggetti dell’artigianato locale, cibi prelibati e dieci giovani fanciulle, scelte tra  le più belle, di cui il re potesse disporre a suo piacimento ( mica scemo!). A Pasqua però, dopo la consueta offerta dei preziosi doni, i milanesi offrirono al re un dolce nuovo, inventato poco tempo prima da un fornaio. Il dolce era simile al panettone ma con l’aggiunta di mandorle e granella di zucchero e aveva la forma di una colomba, simbolo cristiano della pace. Il re apprezzò molto quella squisitezza e proclamò che si sarebbe impegnato a rispettare e far rispettare la colomba come simbolo della pace e della Santa Pasqua. Poi impaziente attese la presentazione dell’ultimo dono: le dieci leggiadre giovinette che sarebbero state sacrificate, come  agnelli, alle sue voglie di lupo famelico e zozzone. Le ragazze dovettero sfilare dinanzi ai dignitari di corte, convenuti per l’occasione. Erano  state  ornate con vesti finissime e profumate con essenze , perché riuscissero gradite al re marpione. Alboino si avvicinò alla prima  fanciulla e, accarezzandole la guancia, le chiese come si chiamasse. La fanciulla, intuendo il suo destino ingrato dallo sguardo bramoso del re, prontamente rispose: “Colomba!”…e così fecero anche tutte le altre. Alboino, che nonostante tutto era un re, non potè  venir meno all’impegno poco prima proclamato. Non solo, ma liberò  le fanciulle dopo averle premiate con una cospicua dote. Quell’anno potè assaporare solo la colombella candita e zuccherata, che diventò il prelibato e tipico dolce  di Pasqua  prima a Milano poi in tutta Italia.

Le palme di confetti

Durante una domenica delle Palme  del XVI sec., mentre i sorrentini si avviavano a benedire i rami d’ulivo, le campane risuonarono e diedero l’allarme per la presenza di  navi saracene all’orizzonte, pronte ad assalire la costa per l’ennesima volta. Il prete quindi invitò i presenti a benedire l’ulivo in chiesa, prima di correre a difendersi.

Un pescatore, fatto il segno della croce,  non partecipò al rito della benedizione, ma  andò sulla spiaggia di Marina Grande. All’ improvviso scoppiò una provvidenziale tempesta che affondò le navi nemiche. Al naufragio sopravvisse soltanto una schiava che, trascinata a riva dalle onde, prima fu tratta in salvo dal pescatore, poi fu accolta dai sorrentini. In segno di gratitudine la giovane  regalò una manciata di  confetti portati dalla sua terra e custoditi in un sacchetto legato al collo.   

Da questo gesto di pace e  riconoscenza  sarebbe nata la tradizione delle palme di confetti, bianchi e colorati. Queste sono prodotti dell’artigianato locale e richiedono una complessa lavorazione e una precisa manifattura. Di solito intere famiglie si dedicano a quest’attività, che si svolge perlopiù in casa, e rischia di estinguersi perché è poco redditizia. Da qualche tempo si organizzano corsi per  imparare a creare le palme e mantenere viva la tradizione locale.

 

 

Dopo un’attenta selezione, i confetti sono infilati , uno alla volta , in fili di ferro riscaldati che  si lasciano ad asciugare sotto barattoli di vetro per almeno un giorno. Quindi i fili sono poi avvolti in apposite cartine e  infine sono adornati e assemblati  con merletti e foglie di carta in ramoscelli fioriti. Da bambina  ricevevo in regalo un alberello, una sorta di cono di confetti bianchi di varie dimensioni, costellato di confettini argentati…un piccolo e laborioso capolavoro artistico , soppiantato dai più diffusi e variopinti rametti.

Alcune composizioni decorative sono invece  create con un’altra tecnica che impiega e flette il midollo bianco della pianta di fico.

Di recente si sono organizzati concorsi su “Le palme di confetti” per valorizzare l’arte e l’artigianato femminile, tutelare un’espressione della cultura tradizionale locale, divulgare la memoria di un rito sacro e civile, promuovere economicamente la palma come prodotto tipico locale e trasferire la tecnica produttiva tipica della palma per la realizzazione di altri prodotti con diversa destinazione alla conquista di  mercati più ampi, oltre quello locale e il tempo pasquale.

 Ecco alcune creazioni!

 

 

Per Alda Merini, nata il 21 a primavera

Quando penso ad Alda Merini vedo uno spirito inquieto, consapevole della sua innata diversità, dovuta  a una straordinaria sensibilità e capacità di immergersi nell’ animo umano con uno sguardo profondo e appassionato.  Ha cantato la vita  nelle sue pieghe più sofferte , non immaginate ma vissute in prima persona, dalle quali seppe risollevarsi e di cui ha lasciato traccia in una vastissima produzione poetica. La ricordo  con le sue stesse parole, che restano profonde come impronte sulla terra, tenere , dolci e tormentate di vate solitario, talvolta incompreso nella sua genialità.

  “No, non mi importa molto della poesia: la poesia è una delle tante manifestazioni della vita. È un modo di parlare, e può essere cattiva, buona, iraconda, inutile. È un modo di far teatro, è un modo di mascherarsi. La poesia può essere una maschera greca, un carnevale. Può essere una dignità che non si ha, una dignità che si soffre. Sono tante le definizioni della poesia. Diciamo che la letteratura può essere anche un modo di sentirsi pazzi.

Un modo di parlare, di sentire e di sentirsi, di essere al mondo: ma modo irrinunciabile; investitura divina che non consente abiure; personalissimo, esclusivo esserci; condanna e dono insieme”

 

Lascio a te queste impronte sulla terra

Lascio a te queste impronte sulla terra
tenere dolci, che si possa dire:
qui è passata una gemma o una tempesta,
una donna che avida di dire
disse cose notturne e delicate,
una donna che non fu mai amata.
Qui passò forse una furiosa bestia
avida sete che dette tempesta
alla terra, a ogni clima, al firmamento,
ma qui passò soltanto il mio tormento.

 

Sono nata il ventuno a primavera

Sono nata il ventuno a primavera
ma non sapevo che nascere folle,
aprire le zolle
potesse scatenar tempesta.
Così Proserpina lieve
vede piovere sulle erbe,
sui grossi frumenti gentili
e piange sempre la sera.
Forse è la sua preghiera.

 “Si parla spesso di solitudine, fuori, perchè si conosce un solo tipo di solitudine. Ma nulla è così feroce come la solitudine del manicomio. In quella spietata repulsione da parte di tutto si introducono i serpenti della tua fantasia, i morsi del dolore fisico, l’acquiscienza di un pagliericcio su cui sbava l’altra malata vicina che sta più su. Una solitudine da dimenticati, da colpevoli. E la tua vestaglia ti diventa insostituibile, e così gli stracci che hai addosso perchè loro solo conoscono la tua vera esistenza, il tuo modo di vivere. In manicomio ero sola; per lungo tempo non parlai, convinta della mia innocenza. Ma poi scoprii che i pazzi avevano un nome, un cuore, un senso dell’amore e imparai, sì, proprio lì dentro, imparai ad amare i miei simili. E tutti dividevamo il nostro pane l’una con l’altra, con affettuosa condiscendenza, e il nostro divenne un desco famigliare. E qualcuna, la sera, arrivava a rimboccarmi le coperte e mi baciava sui corti capelli. E poi, fuori, questo bacio non l’ho preso più da nessuno, perchè ero guarita. Ma con il marchio manicomiale.”

(da L’altra verità  “Diario di una diversa”)

  

I poeti lavorano di notte

I poeti lavorano di notte

quando il tempo non urge su di loro,

quando tace il rumore della folla

e termina il linciaggio delle ore.

I poeti lavorano nel buio

come falchi notturni od usignoli

dal dolcissimo canto

e temono di offendere Iddio.

Ma i poeti, nel loro silenzio

fanno ben più rumore

di una dorata cupola di stelle

 

(in Testamento – Alda Merini)

Giornata mondiale della Poesia

Donne del Risorgimento: Anita Garibaldi

Il Gianicolo è un parco pubblico molto suggestivo sia  perché offre dall’alto una splendida veduta di Roma, sia perché è un  luogo della memoria, che nei grandi monumenti equestri di  Giuseppe e di Anita Garibaldi, negli 84  busti e nelle quattro  stele dedicati ai combattenti garibaldini, provenienti da ogni parte d’Italia , ricorda la strenua difesa della breve Repubblica Romana tra l’ aprile e il luglio del 1849.

Il monumento celebrativo di Anita Garibaldi , realizzato da Mario Rutelli ed inaugurato nel 1932, custodisce le ceneri di Ana Maria de Jesus Ribeiro da Silva, universalmente  nota come Anita Garibaldi (Morrinhos, 30 agosto 1821- Mandriole di Ravenna 4 agosto 1849).

 Anita stringe tra le braccia un bambino, molto probabilmente Menotti, il figlio appena nato, portato in salvo dalla madre che di notte scappò a cavallo per sottrarsi alle violente  truppe imperiali giunte a  San Simon nel 1840 .Garibaldi, che l’aveva lasciata a casa di amici per cercare vesti per lei e il piccolo, la ritrovò nella foresta mentre allattava il primogenito.  

Anita, l’unica donna veramente amata da Garibaldi, a diciotto  anni divenne la sua inseparabile compagna , condividendo fino alla fine una vita avventurosa e difficile tra stenti, rinunce e sacrifici, ideali e battaglie per terra e per mare, sia in Sud America che in Italia. È passata  meritoriamente alla storia come l’Eroina dei due mondi, emblema della donna combattente e leggenda vivente del Risorgimento Italiano.   

Da Garibaldi ebbe quattro figli:  Menotti (1840), Rosita (1843) morta all’età di due anni, Teresita (1845) e Ricciotti (1847) . Di umili origini, sin da ragazzina mostrò un carattere indomito, forte e determinato. Alta, fiera, dai grandi occhi scuri conobbe e  conquistò il cuore di Garibaldi nel1839 a Laguna, piccola città a sud del Brasile durante le lotte sudamericane per l’indipendenza repubblicana. Una giovane donna  “ il cui coraggio io mi sarei desiderato tante volte”- come scrisse di lei il marito  nelle Memorie autobiografiche- e che Anita mostrò   nella strenua difesa della breve Repubblica Romana. 

Dopo la resa di Roma  Garibaldi , con l’inseparabile Anita  e i suoi compagni, compì un disperato viaggio verso Venezia che ancora resisteva agli Austriaci. Sperava di  accendere l’insurrezione nell’Italia centrale ma, inseguito da truppe francesi, pontificie e poi austriache, nel luglio del 1849  si diresse verso la repubblica di San Marino.

 

Nelle sue “ Memorie” descrisse con   un’analisi umanamente schietta la criticità  del momento, le condizioni disperate di Anita, incinta di sei mesi,  e  la viltà dei  disertori “ codardi nell’ abbandonare vilmente la causa santa del loro paese, essi naturalmente scendevano ad atti osceni e crudeli cogli abitanti. Ciò sommamente mi straziava, peggiorava ed umiliava non poco la già sventurata posizione nostra! Come potevo io mandare dietro a quelle scellerate masnade, attorniato come mi trovavo dai nemici! Alcuni colti in flagrante erano fucilati;ma ciò poco rimediava,andando la maggior parte impuniti. La situazione divenuta disperata, io cercai d’arrivare a S. Marino.Avvicinatomi alla sede di quelli eccellenti Repubblicani, giunsemi una loro deputazione, ed avvendone avuto notizie, mi avvicinai per conferire con essa. E mentre io mi trovavo conferendo colla deputazione di S. Marino, un corpo di Austriaci comparì alla nostra retroguardia e vi cagionò confusione tale, che tutti presero a fuggire quasi senza veder nemici, almeno la maggior parte.Avvertito di tal contrattempo, retrocessi, trovai la gente fuggendo, e la mia valorosa Anita, che col colonnello Forbes facevano ogni sforzo per trattenere i fuggenti. Quella incomparabile donna incapace di qualunque timore aveva lo sdegno dipinto sul volto e non poteva darsi pace di tanto spavento in uomini che poco prima s’eran battuti valorosamente….”Giunti a S. Marino Garibaldi  scrisse su un gradino d’una chiesa al di fuori della città l’ordine del giorno:“ Militi, io vi sciolgo dall’ impegno d’accompagnarmi. Tornate alle vostre case;ma ricordatevi che l’Italia non deve rimanere nel servaggio, e nella vergogna!”  Dei circa 4000 uomini, partiti da Roma, rimasero solo 200 seguaci  coi quali  giunse a Cesenatico per poi imbarcarsi  su barche da pesca ( bragozzi)  alla volta di  Venezia. “Per parte mia, però, non avendo idea di depor le armi, con un pugno di compagni, io sapevo non impossibile aprirsi strada e guadagnar Venezia. E così s’era deciso. Un carissimo e ben doloroso impiccio era la mia Anita, avanzata in gravidanza, ed inferma. Io la supplicavo di rimanere in quella terra di rifugio( San Marino) , ove un asil almeno per lei poteva credersi assicurato, ed ove gli abitanti ci avevan mostrato molta amorevolezza. Invano! Quel cuore virile e generoso si sdegnava a qualunque delle mie ammonizioni su tale assunto, e m’imponeva silenzio, colle parole: “ tu vuoi lasciarmi”.   Gli Austriaci scorsero i  garibaldini e iniziarono a sparare da lontano cannonate e razzi.

“Io lascio pensare qual era la mia posizione in quei sciagurati momenti. La donna mia infelice, moribonda! Il nemico perseguendo dal mare, con quella alacrità che dà una vittoria facile. Aprodando ad una costa, ove tutte le probabilità di trovarvi altri, e numerosi nemici, non solamente Austriaci, ma papalini, allora in fiera reazione. Comunque fosse, noi aprodammo. Io presi la mia preziosa compagna nelle braccia, sbarcai e la deposi  sulla sponda. Dissi ai miei compagni, che collo sguardo mi chiedevano ciocchè dovevano fare:d’incamminarsi alla spicciolata, e di cercar rifugio, ove potrebbero trovarlo. In ogni modo d’allontanarsi dal punto ove ci trovavamo, essendo imminente l’arrivo dei palischermi nemici. Per [me] esser impossibile seguitar oltre, non potendo abbandonare mia moglie moribonda… 

Io rimasi nella vicinanza del mare in un campo di melica, colla mia Anita, e col tenente Leggiero, indivisibile mio compagno….Le ultime parole della donna del mio cuore erano state per i suoi figli! Ch’essa presentì di non poter più rivedere!” 

 Il tenente Leggero  andò in cerca di aiuto e tornò col colonnello Nino Bonnet, uno degli ufficiali più valorosi che, ferito a Roma nell’assedio, si era ritirato a casa, in quel di Comacchio, per curarsi. Egli propose di avvicinarsi ad una casupola  nelle vicinanze .Qui povera gente offrì acqua e primo soccorso ad Anita. Poi Garibaldi e i compagni trasportarono la donna in casa della sorella di Bonnet ed infine alla Mandriola per trovare un medico. “Guardate di salvare questa donna”!-  raccomandò al dottore ma “Nel posare la mia donna in letto, mi sembrò di scoprire sul suo volto, la fisionomia della morte. Le presi il polzo…più non batteva! Avevo davanti a me la madre de’ miei figli, ch’io tanto amava! Cadavere!…Io piansi amaramente la perdita  della mia Anita! Di colei che mi fu compagna inseparabile nelle più avventurose circostanze della mia vita!”

 A fatica il fedelissimo Leggero convinse il generale a riprendere la fuga per salvarsi  dalle truppe pontificie e dai soldati austriaci. “Generale, dovete farlo. Per i vostri figli, per l’Italia…”. Garibaldi raccomandò alla buona gente che lo circondava di seppellire Anita  e s’allontanò.

“Io, conobbi il gran male che feci, il dì, in cui sperando ancora di rivederla in vita io, stringeva il polso d’un cadavere: e piangevo il pianto della disperazione! Io, errai grandemente ed errai solo!”. 

Queste parole  sigillano un profondo rimorso, non spiegato, forse per avere cambiato la vita di quell’intrepida ragazza dai grandi occhi scuri, che a 28 anni è entrata a fare parte della storia come figura esemplare dell’amore romantico e del nostro Risorgimento.

 

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