Le anime pezzentelle del Cimitero delle Fontanelle di Napoli

Il Miglio Sacro è un itinerario restituito alla città di Napoli che parte dalle antiche catacombe di San Gennaro e arriva alla Cappella del Tesoro di San Gennaro  attraversando tutto  il Rione Sanità, un quartiere che può riscattarsi con  la storia millenaria di  un patrimonio artistico ed archeologico  poco reclamizzato.  Questa zona si può considerare la culla del culto dei morti, celebrato e consacrato attraverso funzioni, devozioni e rituali  che fondono religione e magia. Qui sorsero la necropoli greca,  in origine fuori dalle mura della città,  le catacombe paleocristiane ed infine, in una cava di tufo, l’immenso ossario del cimitero delle Fontanelle che di recente è stato riaperto.  

Tra il Seicento e il Settecento la cava fu utilizzata come cimitero per i poveri e soprattutto per le vittime della peste del 1656 che  a Napoli aveva causato circa 300000  morti e non pochi problemi di igiene  e di reperimento di spazi sufficientemente capienti per seppellirli, anche perché le catacombe avevano già accolto le vittime dell’epidemia del 1479.  Come riferisce il canonico Andrea De Jorio, verso la fine del Settecento persone abbienti chiedevano di essere sepolte nelle chiese ma, a funerali avvenuti, di notte i becchini trasportavano le salme nelle cave inutilizzate per evitare sovraffollamento nelle chiese.

Dopo un allagamento della cava, che  portò in superficie le capuzzelle ( piccole teste, cioè i teschi) in uno scenario apocalittico, le ossa vi  furono ricomposte e  furono  costruiti un muro e un altare nell’antro, riconosciuto ormai come ossario della città. In seguito all’editto napoleonico di Saint Cloud del 1804, che vietò le sepolture nelle città e nei luoghi pubblici, nell’ossario furono raccolti anche i resti umani  rinvenuti nelle terre sante delle tante chiese napoletane o durante gli scavi archeologici , come in Via Acton nei pressi del Maschio Angioino,oltre  le vittime del colera del 1836. Sono visibili decine di migliaia di  teschi e ossa lunghe ad eccezione delle due salme intatte e  vestite di Filippo Carafa, conte di Cerreto e di Maddaloni, e di sua moglie Margherita.

Alla fine dell’Ottocento padre Gaetano Barbati coordinò alcuni devoti per  riordinare le ossa in cataste e fece costruire la sobria chiesa di Maria Santissima del Carmine  nel sito delle Fontanelle.  Da allora sorse uno spontaneo e particolare culto popolare per gli ignoti defunti, che consisteva nell’adozione delle anime pezzentelle del Purgatorio, bisognose di cure e preghiere, in cambio di grazie e favori. Questo culto, ancor oggi limitatamente praticato, è una porta rituale tra il mondo dei vivi e dei morti: i morti chiedono ai vivi una preghiera  e i vivi, perlopiù donne, si rivolgono alle anime abbandonate che fanno da tramite tra la vita terrena e quella ultraterrena. Il limite tra la fede – tradizioni popolari e la superstizione è sottile, ma i devoti sentono più vicini a loro le anime pezzentelle di umili origini nelle quali ritrovano comuni miserie, sofferenze e solitudini.     L’adottante sceglieva  una capuzzella, la puliva e la lucidava, la poneva  su un fazzoletto ricamato ed infine, durante visite periodiche, le offriva lumini, fiori e preghiere “A refrische ‘e ll’anime d’o priatorio”.  Poi la circondava con un rosario e la adagiava su un cuscino, ornato di pizzi e ricami . Solo dopo questo rituale  pare che l’anima purgante apparisse in sogno , richiedendo “refrisco” ( cioè preghiere e cure per essere sollevata dalla sofferenza) e svelando la sua storia personale. Se la capuzzella iniziava a sudare, significava che si stava adoprando per intercessioni a favore del devoto o per concedergli la grazia . In realtà l’alto tasso di umidità della cava ancor oggi  provoca  la formazione di gocce di condensa sui teschi, facendoli sembrare sudati. A questo punto l’animella entrava a fare parte della famiglia e  veniva custodita in un tempietto di marmo o di legno, in una teca di vetro, a volte pure in una semplice scatola metallica di biscotti , sui quali si incidevano  il nome dell’adottante  e l’anno di ricevimento della  grazia. Se però non venivano esaudite le richieste, quali guarigioni, matrimoni,vincite al lotto, il devoto poteva rimpiazzare  la capuzzella con un’altra,  nella speranza che si rivelasse più benevola. Se il teschio non sudava, significava che l’anima pezzentella era in uno stato di sofferenza ed  impossibilitata ad elargire grazie, quindi bisognava confidare in entità celesti più potenti. Nel 1969 il cardinale di Napoli Ursi  vietò come pagana e superstiziosa questa forma di devozione, frutto della religiosità popolare.

 

Gli oltre 40000 resti, sistemati nei lunghi corridoi del cimitero delle Fontanelle, a volte formano macabre strutture come quella del Tribunale e della Biblioteca. Quest’ultima ricorda gli scaffali di una libreria,  formati da teschi e ossa lunghe, ben allineate e calcificate, che incorniciano l’edicola del  Sacro Cuore di Gesù. Inquietante è il Tribunale  con le sue tre croci su un Golgota di teschi, dinanzi al quale- così pare-  i camorristi  convenivano per lugubri rituali di affiliazione. Un’aria decisamente sinistra ha invece  il Monacone, la statua decapitata di San Vincenzo Ferrer.

L’anima purgante più famosa delle Fontanelle è il Capitano, probabilmente spagnolo, che ha aiutato molti devoti . Esistono varie leggende sul Capitano ma la più nota riguarda due sposi. Si narra di una giovane promessa sposa che venerava molto quest’anima pezzentella. Il suo fidanzato, ritenendo che le cure prestate ad ignote ossa fossero inutili, un  giorno accompagnò la futura consorte nell’ossario per veder da vicino il teschio. Infilò un bastone nella sua cavità orbitale e con modi provocatoriamente scherzosi lo invitò al matrimonio. Il giorno delle nozze  tra gli invitati comparve un carabiniere che nessuno conosceva . Quando lo sposo gli chiese da chi fosse stato invitato, questi rispose che proprio lui l’aveva fatto e, aprendo la divisa, si mostrò in tutta la sua nudità scheletrica  provocando la morte di crepacuore dei due sposi. La leggenda vuole che i resti degli sposi siano conservati presso la statua di Gaetano Barbati, mentre si pensa che essi siano stati dipinti sulle pareti delle catacombe di san Gaudioso. Non oso immaginare cosa sia potuto succedere nell’aldilà all’arrivo della promessa e mancata sposa che deve avere fatto una bella sfuriata sia al fantasma del Capitano che allo sprezzante fidanzato.  

Altra anima pezzentella , per la quale si nutre particolare devozione, è  la sposa Lucia, morta in naufragio col suo sposo o travolta da un’onda mentre lo attendeva su una scogliera. La sua capuzzella è ornata di velo nuziale ed omaggiata di  fiori, lumini e suppliche scritte. Si trova però in via dei Tribunali, precisamente nella  chiesa delle Anime del Purgatorio ad Arco, dall’ inconfondibile facciata barocca, realizzata da Cosimo Fanzago, adorna di  teschi e femori di bronzo. La Chiesa, comunemente detta d’e cape ‘e morte o d’e capuzzelle fu costruita nel 1638 ad opera di una  congregazione di nobili che dal 1604 raccoglieva  fondi per la celebrazione di messe in suffragio alle anime del Purgatorio. Qui è esposta la tela  la “Madonna delle Anime Purganti” di Massimo Stanzione (nel 1635) . Quando la chiesa fu chiusa in seguito al terremoto del 1980, molti devoti chiesero di potere accedere all’ipogeo in quanto spesso chiamati in sogno dalle anime purganti  ma  poterono riprendere le visite soltanto nel 1992.

Questo culto così particolare non solo è una sorta di misericordiosa alleanza e complice intesa tra i poveri vivi e i poveri morti per un aiuto reciproco, ma anche  un’occasione per riflettere sull’aldilà attraverso  i teschi, simboli di contemplazione dei santi nelle  opere dei grandi autori, quali Caravaggio, Jusepe de Ribera, El Greco, Van Dick, Georges deLa Tour, Rembrandt.

Il culto delle anime pezzentelle approda alla consapevolezza che in fondo  “all’ àutro munno simm tutte eguale” e “Simm tutt cape ‘e  morte”, cioè che  “la morte è la completa uguaglianza degli ineguali”, è “una livella”  a detta di  Totò: ciò che era visibile e rilevante in vita diviene invisibile ed irrilevante nella  dimensione sospesa (“queste pagliacciate le fanno solo i vivi: noi siamo seri…apparteniamo alla morte”,  proclama l’ombra del netturbino a quella del marchese che disdegnava di essere sepolto accanto a lui) .

Napoli si legge anche  tra i vicoli , negli usi e costumi e in ciò che a prima vista non appare, come una metafora tra le righe. Visitare questi luoghi di culto popolare  consente di esplorare il mistero, ove si confondono riti sacri e profani, religione e magia. L’iniziale incredulità o scetticismo  svaniscono man mano che nel rituale delle anime pezzentelle si riconoscono un generale  bisogno di essere ascoltati per ricevere conforto e sollievo, di ascoltarsi nel raccoglimento di una preghiera, per gli altri e per se stessi, di trovare conferme di protezione nei meandri della fede o della suggestione superstiziosa. Alla sensazione di profanare l’intimità della morte subentra la pietosa accoglienza  del silenzio delle anime purganti e proprio nelle tenebre, percependo il destino dell’umanità  di sempre, si intravede una speranza di redenzione dei vivi e dei morti per scattare in avanti nella vita terrena e ultraterrena.

“Questo guazzabuglio di fede e di errore, di misticismo e di sensualità, questo culto esterno così pagano, questa idolatria, vi spaventano? Vi dolete di queste cose, degne dei selvaggi? E chi ha fatto nulla per la coscienza del popolo napoletano? Quali ammaestramenti, quali parole, quali esempi, si è pensato di dare a questa gente così espansiva, così facile a conquidere, così naturalmente entusiasta? In verità, dalla miseria profonda della sua vita reale, essa non ha avuto altro conforto che nelle illusioni della propria fantasia: e altro rifugio che in Dio.”

(Da “Il ventre di Napoli” di Matilde Serao)

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Rione Sanità- le catacombe di Napoli

 

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Ai piedi della collina di Capodimonte si  estende il rione Sanità, un noto quartiere popolare di Napoli che nel 1898 diede i natali a  Totò in Via Santa Maria  Antesaecula e in seguito ha ispirato trame e personaggi di  numerosi film e opere teatrali. Qui hanno abitato popoli provenienti dal Sud e dall’Est del mondo, africani e cinesi, e sono passati  nobili, papi, re e cardinali. Qui è molto forte il senso di appartenenza ai vicoli, ai palazzi, agli usi e costumi, ai riti sacri e profani dettati dalla religione e dalla magia.

Napoli ha un cuore e un ventre, in cui è  dislocato un patrimonio nascosto, archeologico e artistico, da scoprire attraverso una stratigrafia che s’addentra  nelle viscere della terra.

L’invisibile Napoli sotterranea si articola  in un labirinto di cunicoli, pozzi e cisterne, ipogei e cave greche, catacombe,  gallerie di epoca romana, ossari e tombe scavati nel tufo. È una città oscura, luogo di passaggio e tramite tra il mondo conosciuto e quello sconosciuto e silenzioso  dell’Oltretomba,  dove si confondono storia e leggende, fede e superstizione. Un  mondo sommerso col quale i napoletani  si conciliano per esorcizzare la paura della morte e, seppur limitatamente ancor oggi, si alleano offrendo preghiere e cure ad ignoti defunti, anime pezzentelle del Purgatorio, in cambio di grazie e favori,  quali una guarigione, un matrimonio o numeri vincenti al lotto nella speranza di ingraziarsi la buona sorte per sopravvivere ad un’esistenza complicata, ad un atavico  destino reso avverso dalle epidemie di peste e colera, dalle alluvioni e terremoti, dalle dominazioni del dio o del potente di turno accettati con fatalistica rassegnazione.

Un universo buio, lugubre, sospeso in un sonno eterno, che porta al nulla o a qualcosa, ove si smarriscono le coordinate di spazio e tempo.

 Napoli è simbiosi di vita e di morte, entrambe celebrate e consacrate attraverso funzioni, devozioni e rituali  che confluiscono nel radicato culto dei morti.

I sepolcri più antichi sono gli ipogei greci della Sanità e dei Vergini, situati a  10-11 metri di profondità dal livello della strada.  Le necropoli risalgono al IV e II secolo a. C. e sono ricche di sarcofagi dipinti e scolpiti che ricordano le tombe anatoliche, macedoni ed alessandrine. Per lungo tempo rimasero sepolte  dalla “lava”, cioè dal fiume alluvionale di detriti e fango che fino agli anni ’60 ha  afflitto questa zona.  In effetti sin dal tempo dei greci si estraeva il tufo , impiegato per le costruzioni,  dando così  luogo a  immense grotte e cavità. Prima ancora che le cave di tufo fossero adibite ad ossari , le famiglie dell’aristocrazia greco-napoletana, che fuse elementi greci e sanniti, vi costruirono  eleganti sepolcri. Da qui il nome di “Valle delle tombe”. Nelle stesse aree sotterranee  dagli ipogei si è poi passati nel II secolo alle catacombe paleocristiane di San Gennaro, San Gaudioso e San Severo, che prendono nome dalle spoglie dei martiri.

Nelle vicinanze del santuario della Madonna del Buon Consiglio (zona di Capodimonte) si estende il vasto complesso cimiteriale delle catacombe di San Gennaro, nate tra il II e IV secolo  e articolate  su due piani e in più corridoi, a differenza di quelle romane. Divennero luogo religioso e di sepoltura quando accolsero i resti del vescovo Agrippino e nel V secolo furono dedicate a San Gennaro , il cui corpo pare sia stato collocato qui per lunghissimo tempo. Oltre a reperti e affreschi di interesse artistico sono un luogo suggestivo, cosparso di nicchie e loculi, grandi e piccoli. Pare che vicino al santo potessero riposare solo i puri di cuore, quali i bambini, e questo spiega la presenza di piccoli loculi sulle pareti. 

Fino all’XI secolo vi furono sepolti i vescovi napoletani, subirono saccheggi tra il XIII e XVIII secolo e infine furono  restaurate dopo il trasferimento dell’ossario nel Cimitero delle Fontanelle.

Dopo circa 40 anni di chiusura ora sono state riaperte al pubblico e vi si accede o dalla collina di Capodimonte, a fianco della  chiesa della Madre del Buon Consiglio, o  dalla Basilica di San Gennaro fuori le mura, situata all’interno dall’ospedale di San Gennaro dei Poveri nel rione Sanità.

 

L’intero quartiere Sanità è dominato dalla cupola della Basilica di Santa Maria della Sanità, rivestita di  maioliche smaltate gialle e verdi . Fu costruita dai  Domenicani  tra il 1602 e il 1613 , su progetto di Giuseppe Donzelli detto Fra Nuvolo. E’ nota come la chiesa di San Vincenzo,detto o’ Munacone in onore del domenicano Vincenzo Ferreri,  uno dei tanti santi protettori della città. Una sontuosa scala a tenaglia, che porta all’altare maggiore, incornicia la cripta dalla quale  si accede alle nascoste catacombe paleocristiane di San Gaudioso, risalenti al V sec. d. C. dove fu sepolto Settimio Celio Gaudioso, vescovo di Abitine, una località non identificata dell’Africa proconsolare.

 La catacomba di San Gaudioso è il secondo cimitero paleocristiano di Napoli per ampiezza e importanza, dopo quello di San Gennaro. Ha subito trasformazioni, per cui è difficile definirne l’estensione o  l’esistenza di locali più antichi di quelli attuali. Fu abbandonato  all’ incirca nell’anno mille e in seguito le “ lave” lo invasero nascondendone l’ingresso.

 

In un’edicola nell’angolo nord della cripta, nel 1579 si scoprì un’immagine della Madonna alla quale iniziarono ben  presto a rivolgersi  alcuni devoti. È la più antica raffigurazione mariana dell’arte paleocristiana di Napoli, forse del V o VI secolo. La pittura è quasi svanita e la si nota osservandola da lontano: la Madonna, seduta e velata,  ha in braccio il Bambino che stende il braccio destro spiegando le prime tre dita della mano quasi per benedire o indicarela Trinità, mentre la mano sinistra è sul globo sormontato dalla croce e appoggiato sul ginocchio della madre. A questa Madonna si attribuirono una serie di miracoli e divenne oggetto di culto popolare e meta di pellegrinaggi. Un frate domenicano, Antonino da Camerota, in poco tempo raccolse elemosine per  costruire una chiesa in onore della Vergine. Fu accusato di superstizione, idolatria, raggiro ed estorsione di denaro  ma il processo fu insabbiato e nel 1581 il frate fu scarcerato e riabilitato. Ripresero i lavori di costruzione della chiesa che fu ultimata in pochi anni.

Caratteristica  delle catacombe di San Gaudioso sono le nicchie a forma di sedile, dette “cantarelle” che  servivano per una particolare tecnica di inumazione : il morto veniva sistemato nella nicchia dotata di  un vaso a due manici sottoposto e ricavato nel tufo ( da kantharos , coppa greca a calice con due anse,  da cui cantaro che nelle basiliche cristiane era la vasca per le abluzioni e da cui è derivato più prosaicamente il vocabolo napoletano o’ cantaro, cioè il vaso da notte). Il defunto veniva messo a “scolare”  fino alla decomposizione, così poi i suoi resti venivano deposti in un ossario comune o in una tomba privata .Si pensa che gli “schiatta muort”  in origine fossero coloro incaricati di incastrare i defunti in questi sedili  e dalle cantarelle sia derivato l’imprecazione napoletana “Puozze sculà!”,  che di fatto è un pessimo augurio. 

Sulle pareti dei cunicoli ci sono dipinti del VI secolo  e particolari effigi funerarie  del XVII  secolo: sotto i teschi veri, incorporati nel muro nel Seicento, i corpi venivano dipinti  con le vesti e i simboli del rango del defunto. Ai lati del cranio si segnavano le iniziali del nome e cognome del defunto, accompagnati da una citazione biblica. Qui trovarono sepoltura frati domenicani e aristocratici come il magistrato Diego Longobardo, morto nel 1632, le nobildonne Maria De Ponte e la principessa di Montesarchio Sveva Gesualda. Uomini e donne erano separati anche nella sepoltura eccetto due personaggi  le cui mani si intrecciano sui rispettivi cuori. Una credenza popolare vuole siano gli sposi  che morirono di crepacuore alla vista del fantasma del Capitano spagnolo, ossequiato da lei e offeso da lui nel Cimitero delle Fontanelle, che si presentò alle nozze.

Unico “ borghese” dipinto  è il pittore Giovanni Balducci, al quale si attribuiscono gli affreschi delle catacombe, il cui nome compare per esteso e viene raffigurato con una riga nella mano destra e una tavolozza nella sinistra. 

La morte domina sul tempo, che scorre inesorabile come la sabbia nella clessidra, e sull’ effimero potere dei mortali rappresentato dalla corona e dallo scettro. 

A Napoli si dice “ Basta a’ salute, tira a’ campà” perché  in fondo “a tutto c’è rimedio, tranne alla morte”. Saggezza popolare che spiega l’inconfondibile  vitalità e ilarità partenopea maturata  tenendo gli occhi aperti anche nelle tenebre, dove lo sguardo guarisce dagli affanni del mondo.

 

“Sono nato in Rione Sanità, il più famoso di Napoli.

La domenica pomeriggio le famiglie napoletane usavano riunirsi nelle case dell’una o dell’altra, e là chi suonava la chitarra, chi diceva la poesia, e chi cantava. I giovanotti guardavano le ragazze, gli tenevano la mano, si innamoravano”

 

 Il Principe Antonio De Curtis, in arte Totò

 

La terza neve

Guardavamo dalle finestre, là

dove i tigli

si stagliavano neri

nella profondità del cortile.

sospirammo –

ancora, la neve non veniva,

ed era tempo, ormai,

era tempo…..

 

 

E la neve venne,

venne verso sera,

essa

giù dall’alto dei cieli

volava

a seconda del vento;

e nel volo oscillava.

A falde sottili come lamine,

fragili,

era confusa di se stessa.

La prendevamo nelle mani,

e stupivamo:

dunque, era quella la neve?

 

 

…. Dopo sette giorni

venne la neve nuova.

Non venne –

precipitò.

Cadeva così fitta, da non potere

tenere aperti gli occhi,

a tutta forza

vorticava in cerchio, mugliando.

… ma disperò di sé,

non resistette

e si diede per vinta.

E noi, ansiosi

sempre più spesso

scrutavamo l’orizzonte:

quando quella vera verrà?

Perché era tempo,

era tempo….

 

 

Ed un mattino

era davvero tanta

ed era davvero bella.

Cadeva e cadeva

nel baccano dell’alba

fra il rombo della macchine e lo sbuffare dei cavalli,

e sotto i piedi non si scioglieva,

anzi diventava più compatta.

Giaceva

fresca e scintillante

e ognuno ne restava abbagliato.

Ed era lei, la neve. La vera.

L’aspettavamo.

Era venuta.

 

Evgenij Aleksandrovič Evtušenko

Autismo : vivere dietro uno specchio

Difficile spiegare l’autismo  perché si manifesta in modi diversi e ha  cause controverse. Non è facile stabilire un contatto con un autistico, soprattutto con un bambino, ma quando si riesce non c’è nulla al mondo di più bello e gratificante perché  lo specchio si infrange e si vede l’altro.

Vi propongo uno scritto da Angel Rivière, professore di psicologia evolutiva presso l’Università Autonoma di  Madrid, scomparso nel 2000 dopo aver dedicato tutta la sua vita professionale all’autismo.

 SONO AFFETTO DA AUTISMO, ECCO CHE COSA CHE MI PIACEREBBE DIRTI

 1. Aiutami a capire, organizza il mio mondo ed aiutami ad anticipare quello che succederà. Dammi ordine, struttura, non il caos.

2. Non ti angosciare per me, perché anch’io mi angoscio, rispetta i miei ritmi. Avrai sempre l’opportunità di relazionarti con me se capisci i miei bisogni e la mia maniera così particolare di capire la realtà. Non ti buttare giù, è normale che io vada sempre avanti.

 3. Non mi parlare troppo, né troppo velocemente. Le parole non sono “aria” che non pesa come a te: per me possono essere un carico molto pesante. Molte volte non sono il miglior modo di rapportarsi con me.

 4. Come gli altri bambini, gli altri adulti, ho bisogno di condividere il piacere e mi piace fare bene le cose,anche se non sempre ci riesco. Fammi sapere in qualche modo quando le ho fatte bene e aiutami a farle senza errori. Quando faccio troppi errori, mi succede come a te, mi irrito e finisco per rifiutarmi di fare le cose.

 5. Ho bisogno di più ordine di te, di capire in anticipo le cose che mi accadranno. Dobbiamo patteggiare i miei rituali per convivere.

 6. Per me è difficile capire il senso di molte delle cose che mi chiedono di fare. Aiutami tu a capire. Cerca di chiedermi di fare delle cose che abbiano un senso concreto e decifrabile per me. Non permettere che mi annoi o che rimanga inattivo.

 7. Non  mi invadere eccessivamente.  A  volte  voi  persone  “normali”  siete  troppo  imprevedibili, troppo rumorosi, troppo stimolanti. Rispetta le mie distanze, ne ho bisogno, ma non mi lasciare solo.

 8. Quello che faccio non è contro di te; se mi arrabbio, mi faccio del male, distruggo qualcosa o mi muovo in eccesso,  è  perché  è  difficile  capire  o  fare quello  che  stai  chiedendo.  Già  faccio  fatica a capire  le intenzioni degli altri, quindi non attribuirmi delle cattive intenzioni.

 9. Il mio sviluppo non è assurdo, anche se è difficile da capire. Ha una sua logica. Molti dei comportamenti che voi chiamate alterati sono il mio modo di affrontare il mondo  con questa mia  speciale maniera di essere e di percepire. Fai uno sforzo per capirmi.

10. Voi siete troppo complicati. Il mio mondo non è né complesso né chiuso, anche se ciò ti sembra strano. Il mio mondo è talmente aperto, senza veli né bugie, così ingenuamente esposto agli altri, che sembra difficile  da  capire.  Io non  abito  in una  “fortezza  vuota”  ma  in  una pianura  talmente aperta  che può sembrare inaccessibile. Sono molto meno complicato di voi persone “normali”.

 11. Non mi  chiedere  di  fare  sempre  le  stesse  cose,  non esigere  sempre  la  solita  routine.  Non  diventare autistico per aiutarmi, sono io l’autistico! 

 12. Non sono soltanto un autistico, ma sono anche un bambino, un adolescente, un adulto. Condivido molte delle  cose dei  bambini,  degli  adolescenti  e degli  adulti  che  voi  chiamate normali.  Mi  piace  giocare, divertirmi, voglio bene ai miei genitori, sono contento se riesco a fare bene le cose. Ci sono molte più cose che ci possono unire che non dividere.

 13. E’  bello  vivere  con  me.  Ti  posso dare  tante  soddisfazioni,  come  le altre  persone.  Ci  può essere  il momento in cui io sia la tua migliore compagnia.

 14. Non  mi  aggredire  chimicamente.  Se  ti  hanno  detto  che devo  prendere dei  farmaci  fammi  controllare periodicamente da uno specialista.

 15. Né  i  miei  genitori  né  io abbiamo  colpa  di  quello  che  mi  succede.  Non  ce  l’hanno  nemmeno  i professionisti che mi aiutano.  Non serve a niente darsi le colpe l’un con l’altro. A volte le mie reazioni e i miei comportamenti possono essere difficili da capire e da affrontare, ma non è colpa di nessuno. L’idea di colpa produce soltanto sofferenza, ma non aiuta.

 16. Non mi chiedere in continuazione di fare cose che io non sono capace di fare. , ma chiedimi invece di fare cose che io sono in grado di fare. Aiutami ad essere più autonomo, a capire meglio, a comunicare meglio, ma non mi dare aiuto in eccesso.

 17. Non devi cambiare la tua vita completamente perché convivi con una persona autistica. A me non serve che tu ti senta giù, che ti chiuda in te stesso, che ti deprima. Ho bisogno di essere circondato da stabilità e di benessere emozionale per sentirmi meglio.

 18. Aiutami con naturalezza, senza che diventi un’ossessione. Per potermi aiutarmi devi avere anche tu dei momenti di riposo, di svago, di cose tue. Avvicinati a me, non te ne andare, ma non ti sentire costretto a reggere un peso insopportabile.

 19. Accettami così come sono, non mettere condizioni al tuo accettare che io non sia più autistico, lo sono. Sii ottimista ma senza credere alle favole o ai miracoli. La mia situazione normalmente migliora anche se non si potrà parlare di guarigione.

 20. Anche se per me è difficile comunicare e non posso capire le sfumature sociali, ho dei pregi rispetto a voi  che  vi  considerate  “normali”.  Per  me è difficile  comunicare,  ma non inganno.  Non ho  doppie intenzioni  né  sentimenti  pericolosi.  La  mia  vita  può essere  soddisfacente  se  semplice ed  ordinata, tranquilla, se non mi chiedi in continuazione di fare solo cose che sono difficili per me. Essere autistico è un modo di essere, anche se non è quello normale, la mia vita di autistico può essere così bella e felice come  la  tua  che  sei  “normale”.  Le  nostre  vite  si  possono  incontrare e possiamo  condividere  molte esperienze.

 Traduzione di Malèn Tortajada Caro. Da qui

 

Vi consiglio “Mon petit frère de la lune” (Il mio fratellino dalla luna) di Frédéric Philibert , un video molto poetico come le parole dei bambini, semplici, essenziali, dolci e chiare. 

“Dobbiamo essere pazienti per riuscire a catturare la luna con un filo d’oro e avvicinarla al nostro vecchio pianeta”

La lunga e incerta storia della pizza

E chi l’avrebbe mai detto che la pizza si ricollega alla guerra tra il bene e il male nell’antica mitologia greca? Quando  il dio delle tenebre Ade rapì la bella Persefone, figlia di Cerere, la dea afflitta  iniziò a cercarla e giunse in  incognito ad Eleusi. Qui il re Celeo e sua moglie Metanira piangevano per la triste sorte del loro  figlioletto Trittolemo che stava per morire perché privo del latte materno. Cerere donò  forza, vigore e immortalità  al piccolo per ricambiare dell’ospitalità ricevuta e, quando Metanira  le offrì una coppa di dolcissimo vino, chiese una bevanda fatta di farina e acqua aromatizzata con basilico.

 Pare che nel corso dei secoli questi ingredienti siano stati usati in dosi diverse e, con l’aggiunta di olio, abbiano poi dato origine alla plax , una sorta di focaccia.

Nell’antico Egitto si usava festeggiare il compleanno del faraone consumando una schiacciata condita con erbe aromatiche; nell’antica Grecia schiacciate e una sorta di focaccia di farina d’orzo, la cosiddetta maza, erano alimenti molto diffusi, come  nell’antica Roma focacce lievitate e non, tra le quali la placenta e l’offa impastata con acqua e farro. Proprio nelle botteghe di via dell’Abbondanza a Pompei furono scoperte scodelle per il cacio e la cuccuma per l’olio e addirittura una statuina del « placentario » conservata nel museo archeologico di Napoli. 

 In verità la pizza ha una lunga, complessa e incerta storia. La parola “pizza” risale al latino volgare di Gaeta nel 997 e di Penne nel 1200; nel ‘500 a Napoli si chiamava “ pizza” un pane schiacciato, dalla storpiatura della parola “pitta”. Tra il Cinquecento e il Seicento a Napoli si faceva una pizza soffice “alla mastunicola”, preparata con strutto, formaggio, basilico e pepe,  più tardi quella con i “cecenielli”, cioè bianchetti; mentre fu condita con il pomodoro forse a metà Settecento.

Più controverso ancora è l’arrivo dei bufali in Italia:per alcuni essi furono  importati  dall’Africa dai Romani e si ambientarono facilmente nella piana del Volturno e del Sele, per altri furono portati dai saraceni ma solo i longobardi li sfruttarono al meglio. Il pomodoro sbarcò a Napoli solo dopo la scoperta dell’America e presumibilmente nel 1550, in cucina anni dopo.

Sulle origini della pizza esistono diverse versioni, a volte un po’ fantasiose. In verità la pizza non ha un’unica paternità: si sa che è nata a Napoli dalle esperienze trasmesse di porta in porta, di vicolo in vicolo. Nel ‘700 la pizza veniva cotta in forni a legna per essere quindi venduta nelle strade e nei vicoli della città: un garzone di bottega, che portava in equilibrio sul capo una piccola stufa, consegnava a domicilio le pizze variamente condite, preannunciando il proprio arrivo con versi e richiami tipici. Tra il ‘700 e l’800 la pizza diventò un alimento largamente diffuso e apprezzato e quindi si affermò sempre più l’abitudine di gustarla presso i forni oltre che per strada o in casa. Nacquero quindi le pizzerie ove si cimentarono dinastie di pizzaioli. 

Prime notizie documentate sulle pizzerie risalgono alla fine del 1700: nel 1762 esisteva a Napoli, nella salita di santa Teresa degli Scalzi,  la pizzeria di “Ntuono Testa” frequentata anche dai  re Ferdinando I e Ferdinando II di Borbone.

Nel 1780 sorse nella salita S.Anna di Palazzo  la pizzeria “Pietro e Basta Così”, divenuta poi pizzeria Brandi , che ancora oggi è  una delle più famose pizzerie della città. Si trovava di fronte al palazzo Reale e da qui il cuoco Raffaele Esposito guardava spesso il tricolore con lo stemma sabaudo che sul balcone del palazzo informava della presenza dei reali. Il pizzaiolo, come l’intera città, si sentiva onorato della nascita del  piccolo Vittorio Emanuele III a Napoli ,voluta dal re Vittorio Emanuele II, e così decise di fare un dono alla regina Margherita  mettendo a frutto  la sua creatività gastronomica. Ispirato dai colori  del tricolore pensò di usare  il verde basilico, la bianca mozzarella e il rosso pomodoro  per condire  una pizza patriottica  alla quale diede il nome di  Margherita in onore della prima regina d’Italia.

Nel giugno del 1889 il pizzaiolo fu invitato alla reggia di Capodimonte perché preparasse le sue famose pizze alla regina che desiderava qualcosa di  nuovo. Una splendida occasione per fare conoscere la sua pizza margherita. Don Raffaele con la moglie Maria Giovanna Brandi si recò alla reggia su un carretto trainato da un asinello portando tutto il necessario per la sua nuova specialità. Preparò tre pizze: una bianca, con olio, formaggio e basilico, una con i cecenielle (pesciolini) e infine  una con mozzarella, pomodoro e basilico.

Tra lo stupore dei cuochi, inebriati dal profumo dei semplici e comuni ingredienti, la regina gradì molto la pizza tricolore, che in suo onore fu battezzata pizza margherita. Questa ottenne un certificato d’onore e ancor oggi la pizzeria Brandi in via Chiaia espone un documento firmato da Camillo Galli, capo dei servizi di tavola della reale casa dei Savoia, ove si attesta il merito della famosa pizza margherita.

 La più semplice e gustosa delle pizze, destinata a entrare nella tradizione culinaria di Napoli, nata per sopperire alla cronica fame del popolo napoletano conquistò ben presto una fama mondiale.

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L’incostante bellezza del rione Sanità: palazzo Sanfelice e palazzo dello Spagnolo

Già al tempo degli Angioini le scale erano un elemento importante dei palazzi napoletani ma  dall’inizio del XVII secolo il barocco straripò in forme incredibilmente originali anche nelle scale. A dir poco spettacolari sono quelle progettate da Ferdinando Sanfelice (1675- 1748),  figura straordinaria dell’architettura civile. Se la doppia scala a rampa della chiesa di san Giovanni a Carbonara sembra abbracciare il visitatore per accompagnarlo verso i portali, altra cosa sono le scale di palazzo Sanfelice e  del palazzo dello Spagnuolo. 

Qui la scala diviene un elemento architettonico  portante, quasi scenografico, più importante della facciata dei palazzi, che nel  gioco di trasparenza, di pieni e vuoti resi dall’intreccio di archi, rampe e volte a vista, come una trina cattura lo sguardo del visitatore.    

 

Tra il 1724 e il 1726 l’architetto Sanfelice costruì un palazzo per la propria famiglia nel rione della Sanità, famoso per l’aria salubre. In effetti  l’edificio consta di due corpi distinti, uniti dalla facciata principale sulla quale due ingressi si aprono  in via Arena alla Sanità, n. 2 e n. 6. Tra le  due coppie di sirene  che sorreggono i balconi del primo piano ci sono iscrizioni  di Matteo Egizio  che decantano l’opera del Sanfelice. I palazzi sono molto diversi all’interno.

 

Uno ha un cortile a pianta ottagonale dal quale parte una scalinata a doppia rampa. Purtroppo questo corpo ha subito antiestetici  rimaneggiamenti che fanno piangere il cuore. L’altro cortile è molto più ampio, e da qui parte una grande scala ad ali di falco con cinque arcate per piano che ricorda un po’ lo splendido palazzo dello Spagnuolo, che fa tutto un altro effetto. La scala prende luce anche dal giardino retrostante.  Si sa che all’interno del palazzo c’erano affreschi di Francesco Solimena  e nella cappella privata le quattro statue delle stagioni, andate perdute, attribuite alla scuola di Giuseppe  Sanmartino. 

 

Nello scoprire questi due palazzi  ho provato stupore ma allo stesso tempo impotenza di fronte allo sfregio dell’incuria per questo patrimonio architettonico ancora imponente, nonostante tutto, che ho associato alle pesanti occhiaie di un volto dai lineamenti delicati.  Qui furono ambientati anche “Questi fantasmi!” di Eduardo de Filippo. 

 

Una sensazione molto diversa si prova in via dei Virgini 19, sempre nel rione della Sanità,  accedendo al cortile del  palazzo dello Spagnuolo che mi ha strappato un “quant’è bbbello” in concomitanza ad un grido di meraviglia di  una turista, che poi mi ha chiesto di scattarle  una foto. 

Il palazzo fu costruito nel 1738 per volere del marchese Nicola Moscati e molte fonti ritengono che sia stato progettato dal Sanfelice. Nel 1759 fu ereditato da Giuseppe Moscati, il medico che non esitò ad investire ricchezze e patrimonio nella cura dei poveri. Ben presto i Moscati  persero  prestigio economico e così il tribunale  decise di vendere alcuni appartamenti ai loro creditori. Tra questi c’era don Tomaso Atienta, detto lo Spagnolo, che nel 1813 lo fece ampliare e lo arricchì di affreschi sulle pareti e sui soffitti e preziosi arredi, andati perduti. Più tardi il palazzo fu messo all’asta e a metà dell’ottocento era quasi tutto di proprietà della famiglia Costa. 

 

 

Nel 1925 fu dichiarato monumento nazionale in occasione della visita di  re Umberto di Savoia. Fu valorizzato da lavori di restauro  negli anni sessanta e dopo il terremoto del 1980, finchè dal 1997 lo scultore Perez, proprietario di  un appartamento, riuscì a recuperare antiche decorazioni nascoste dai vari e selvaggi rimaneggiamenti. La scala a doppia rampa con le cinque aperture per piano ricorda molto quella del palazzo Sanfelice. Essa separa due cortili, quello più interno è in pessimo stato. 

 

Lunette, stucchi, medaglioni con busti e motivi floreali, tipicamente roccocò, sono attribuiti ad   Aniello Prezioso che nel 1742 impreziosì  la scala . Il  palazzo ospita l’Istituto e il Museo delle guarattelle, cioè delle marionette, tradizione di origine spagnola che attecchì facilmente a Napoli. Al secondo e terzo piano si aprirà, chissà quando, un museo dedicato a Totò, nato nel rione Sanità.

Due palazzi  rappresentano lo stesso passato ma due diversi aspetti del presente. A questo pensavo mentre li osservavo per fotografarli e mi sono tornate in mente le parole del tassista che mi aveva detto: ” Signò, cà  nun ve succede niente”.  Poi ho capito perchè e ve ne parlerò in un altro post.

Chiesa di San Giovanni a Carbonara, Napoli

 

Via San Giovanni a Carbonara, in origine  aperta fuori dalle mura della città, fino alla fine del medioevo fu destinata alla raccolta e alla combustione dei rifiuti (storia vecchia!).Su un terreno donato dal nobiluomo Gualtiero Galeota  gli Agostiniani iniziarono a costruire nel 1343   una chiesa e un convento che furono ultimati all’inizio del XV secolo durante il regno di re Ladislao d’Angiò- Durazzo. Questo è uno dei complessi religiosi più particolari e  belli della Napoli del Quattro e del Cinquecento, realizzato in molteplici periodi.

 

Vi si accede da una scala ellittica a doppia rampa del 1707 , frutto dell’ingegno di Ferdinando Sanfelice, un  grande architetto che trasformò le scale in un elemento architettonico scenografico. La scalinata conduce alla cappella di Santa Monica (XIV secolo) ove si trova il sepolcro di Ruggero Sanseverino realizzato da Andrea da Firenze. La chiesa fu nascosta dalla costruzione della cappella Somma del XVI secolo e pertanto vi si accede dal portale laterale ornato da testine di animali e foglie, da stemmi angioini e dal sole splendente  dei Caracciolo.

 L’edificio consta di un’unica navata a croce latina con cappelle aggiunte e,  soprattutto nel presbiterio, conserva l’originaria struttura gotica. In fondo spicca il monumento funebre  del re di Napoli  Ladislao (1428), espressione artistica del primo Rinascimento, caratterizzato da logge, nicchie, sculture, figure allegoriche come le quattro Virtù poste alla base. È ornato dalle statue di Ladislao e di sua sorella Giovanna II, che gli successe e gli  dedicò l’imponente monumento funebre, alto 18 metri e sormontato da un re a cavallo che, cosa piuttosto rara da vedersi in una chiesa,  brandisce una spada. La parete laterale all’altare ospita la Crocefissione del Vasari. 

 

Oltrepassando il sepolcro del re, si accede all’abside che ospita la splendida cappella Caracciolo del Sole (1427) a pianta ottagonale. Qui si trova  un altro sepolcro, attribuito ad Andrea da Firenze (1443), eretto per  l’amante della regina Giovanna II, Ser Gianni Caracciolo, assassinato  nel 1432. Incantevole nelle tante sfumature del blu è il pavimento maiolicato di stile toscano , interessanti sono gli affreschi murali di Leonardo da Besozzo e Perinetto da Benevento raffiguranti le storie della Vergine e scene di vita eremitica. 

 

A lato del presbiterio si apre la cappella Caracciolo di Vico in puro stile rinascimentale (ultimata nel 1516). È a pianta circolare e  ricca di arcate, colonne, nicchie, sarcofagi, statue raffiguranti gli esponenti del casato Caracciolo. Di fronte all’entrata della chiesa si trova l’altare di Miroballo di scuola lombarda ,iniziato nel XVI secolo da Jacopo della Pila e terminato da Tommaso Malvito. Racchiude  un imponente gruppo di statue ed   è decorato con scene della vita di san Nicola da Tolentino, dipinte nel Quattrocento,  una Vergine con Bambino di Michelangelo  Naccherino (1601) e le statue di sant’Agostino e san Giovanni Battista di Annibale Caccavello. La cappella di Somma a sinistra dell’ingresso fu eretta tra il 1557 e il 1566 su disegno del D’Auria e dal Caccavello, che realizzarono rispettivamente la parte inferiore dell’altare (Assunta) e il sepolcro di Scipione di Somma  di fronte alla porta di accesso.

Scendendo a piedi dal rione Sanità,  mi ha attratto la scala monumentale  della Chiesa di San Giovanni a Carbonara che ho poi visitato.  Ogni volta che vado a Napoli, da turista fai da te, scopro sempre qualche raffinata bellezza nascosta, perciò mi affascina questa città che si concede un po’ alla volta nei suoi quartieri più popolosi e nelle oltre cinquecento chiese, nonostante altri clamori sviino l’attenzione su altri fronti.

Napoli si ama o si odia, senza mezze misure. Napoli meraviglia nel bene e nel male, è un sorriso compiaciuto e un pugno allo stomaco, una metropoli dalle emozioni contrastanti e contraddittorie che ti scaraventano dal buio alla luce quando meno te l’aspetti. Una città che ti fa abbassare lo sguardo per la vergogna e ti solleva lo spirito di fronte a capolavori dimenticati o repressi nel suo ventre, che meriterebbero altra memoria, e ti commuovono come quando riconosci un talento o un cuore gentile  in una persona che a prima vista appare insignificante. Quando arrivi a Napoli percepisci la confusione del rumore e del movimento,  quando te ne vai porti dentro il fascino intrigante delle razze miste, il languore di una gloria passata che la mala sorte non riesce a rovinare del tutto, come la sensazione di un bacio rubato.

 

 

Il gâteau di patate

Il “gattò” di patate non è un gatto al forno- giammai!-, ma uno sformato di patate, tipico della  Campania e della Sicilia, il cui nome deriva dal francese gâteau che significa torta .

 

Quando nel 1768 Maria Carolina d’Austria, figlia di Maria Teresa Lorena – Asburgo, sposò  il re delle Due Sicilie Ferdinando I di Borbone, Napoli divenne luogo di confronto delle grandi cucine europee. L’energica regina introdusse nella capitale il gusto francese ricorrendo  a cuochi d’alto rango, detti “monsieurs” che i napoletani ben presto chiamarono “monzù'” ed i siciliani “monsù”. Di conseguenza  alcuni piatti tipici assunsero denominazioni francesi,  come il succitato gattò , ma anche  i crocchè (da croquettes) e il  ragù(da ragoût).

Soltanto nella seconda metà del XVIII secolo nel “Traitè sur la culture et les usages des pommes de terre, de la patate et du topinambour”  di Antoine Augustin Parmentier e risalente al 1789 si propose, e quindi poi si diffuse, il vario uso delle patate in cucina al posto dei cereali.

Ecco la mia ricetta del “gattò”.

 

Ingredienti

 

1,5 Kg di patate

2-3 bicchieri di latte

100 g di burro

4 cucchiai di parmigiano grattugiato

2 cucchiai di pecorino grattugiato

4 uova

250 g di mozzarella ben sgocciolata

pangrattato

sale

pepe

 Volendo si può rendere più sostanzioso questo piatto unico aggiungendo alla mozzarella anche pezzetti di mortadella, salame  o prosciutto cotto, sia congiuntamente, sia usando un solo tipo di salume. In alternativa si può sostituire la  mozzarella con  la provola affumicata ( o usare entrambe, half and half), e il latte con  200 ml di  panna da cucina .

 

 Preparazione

 Accendere il forno a 180°.

Lessare le patate e passarle nello schiacciapatate.

Aggiungere un po’ alla volta il latte, il burro, il sale, il pepe, i formaggi grattugiati, i tuorli d’uovo e infine gli albumi, separatamente  montati a neve.

Mescolare  bene per amalgamare tutti gli ingredienti. Aggiungere il latte; se il composto risulta troppo consistente aggiungerne ancora.

Imburrare una pirofila e spolverizzare con pangrattato.

Versare metà del composto formando un  primo strato, distribuire la  mozzarella tagliata a dadini e  ricoprire con un altro strato di composto.

Livellare con un coltello.  Con i rebbi di una forchetta tracciare delle linee parallele ( se volete 😉 , giusto per dare un po’ di movimento alla piatta superficie ) .

Cospargere con qualche fiocchetto di burro e un velo di pangrattato.

Infornare a 200°   finchè non si forma una crosta dorata.

Lasciarlo  rapprendere e intiepidire  per circa 15 minuti prima di servire in tavola.

In fondo i gatti non differiscono troppo dagli umani

Tigro e Gri Gri fanno parte della mia tribù da oltre dieci anni e sono inseparabili compagni di Skip vero. Ogni tanto capita di ricordare quando ci recammo al canile e scoprimmo che c’era un reparto detto “gattile”, termine mai sentito, che ospitava mici abbandonati.

In una gabbia divisa in tre piani, una mamma gatta allattava due gattini, mentre altri tre a stento trotterellavano con la codina alzata. Ero andata lì coi miei figli con l’intenzione di sceglierne uno, ma ne portai a casa soltanto due 😉 , svezzati da poco. Tigro e Gri Gri appartenevano a due cucciolate diverse: la prima era stata affidata al gattile da una signora che non era riuscita a sistemarla diversamente; stessa sorte per Tigro e un suo fratello quasi gemello. La responsabile mi convinse a prendere due micetti perché, soprattutto da piccoli, non avrebbero sofferto la solitudine. Col senno del poi condivido che due gatti non solo si fanno compagnia ma sono uno spasso di scorribande, rincorse, nascondini, salti, fughe e capriole. Un’allegra associazione a delinquere 😀 . Erano talmente piccoli da stare nel palmo della mano e perdersi nel trasportino, enorme per loro. Pensare che adesso c’entrano a stento.

Impararono presto a esplorare la grande terrazza, a sconfinare sul tetto della casa a fianco, curiosando nelle abitazioni altrui, fino a raggiungere, con un’impervia arrampicata sui condizionatori d’aria, un’ anziana signora che li chiamava dal quarto piano offrendo loro croccantini. Conquistarono la stima dei vicini perché divennero presto il terrore dei piccioni che nidificavano sotto le tegole. Ogni tanto li scoprivo acquattati che puntavano possibili prede pennute, ma alla fine orgogliosamente impettiti si accontentavano di portare gusci di uova e qualche sparuta piumetta. Solo una volta dovetti intervenire tempestivamente, brandendo la scopa, per scacciare dall’antenna parabolica un gabbiano reale, con le ali spiegate, pronto  ad avventarsi su una temeraria ed incosciente Gri Gri che da dieci minuti si stava esibendo in miagolii e scodinzolamenti tipici del  rituale di caccia.

 Con il tempo sono cambiati anche i gattoni; hanno qualche chilo in più e sembrano gradire di più le coccole. In fondo non differiscono troppo dagli umani.

Tigro è diventato un placido gattone, elegante nel regale portamento di tigre in miniatura, impreziosito dalla pettorina e dai guanti bianchi. È il tipico gatto sornione che dorme o finge di dormire, sempre pronto a scattare non appena sente invitanti effluvi di pappatoria. Se non dorme, mangia. Cosa strana, si avvicina fuseggiando e fa gli onori di casa quando arrivano ospiti o persone a lui sconosciute.

Gri Gri invece è molto più vivace, ma timorosa e diffidente al punto tale che le basta sentire voci insolite per volatilizzarsi. È talmente furba che scova nascondigli sempre nuovi, anche perché sa aprire gli armadi con le ante scorrevoli. Cerca la nostra compagnia e si accoccola vicino a noi sul divano mentre guardiamo la tv o leggiamo. È tenera, ma diventa una furiosa  tigre in fuga non appena apro la fialetta antipulci: terrorizzata schizza in alto su un mobile non appena, credo, ne sente l’odore. Mi sono sempre chiesta cosa ci sia in quell’intruglio. Gri Gri è il peluche preferito di mio figlio, ormai “ piccolo” solo perché l’ultimo nato in famiglia, che mi sorprende non poco quando le parla dolcemente e la prende in braccio con delicatezza. Sono lontani i tempi in cui tagliò le vibrisse a Tigro che, saltando, perse l’equilibrio e volò dal terrazzo al piano di sotto miaolando così forte da fare affacciare diverse persone dei palazzi intorno. Un’avventura memorabile le operazioni di recupero del gatto spaventato e quelle di persuasione educativa per un figlio pestiferissimo.

 L’anno dopo adottammo Skip vero e all’inizio la convivenza con i gatti non fu facile.

Ancora ricordo lo storico incontro con le due tigri che con Skip avevano in comune solo la provenienza. Dal canile lui e dal gattile loro. I miei gatti non avevano mai visto un cane. Il cane non conosceva i gatti e fiducioso zompettò verso le belve spodestate. La loro immediata reazione fu una solenne soffiata, inarcata di coda e un repentino balzo su un mobile sul quale rimasero appollaiati per circa una settimana, scendendo solo di notte o quando la cosa rossa movente non era nei paraggi. Skip era più piccolo dei gatti, ma più robusto di corporatura e baldanzoso nei movimenti.

 Il famelico Tigro, pur di non rinunciare alla pappa, imparò presto a mantenerlo a distanza, soffiando e artigliando. Gri Gri invece ne era incuriosita, l’ osservava dall’alto e da lontano, finchè un giorno inavvertitamente si scontrò con il nuovo arrivato, che usciva trotterellando dalla cucina. Il cane, sorpreso, si fermò intimorito e si accucciò, come aveva ben presto imparato quando incrociava il signor Gatto. Gri Gri invece, con mia sommo stupore, non scappò via. Si sedette guardinga di fronte a lui. Stettero fermi a guardarsi per qualche minuto: lui con le orecchie basse e lei con le orecchie ben alzate, finchè  la guappa gatta  con nonchalance se ne andò. Quella notte Gri Gri annusò Skip che dormiva in una cesta ai piedi del letto, salì sulla vicina cassapanca e lì si addormentò. Da quel dì iniziò a vegliarlo, forse aveva capito che era piccolo e innocuo e il suo istinto materno vinse la diffidenza .

  In poco tempo sono diventati compagni di gioco e di malefatte. Ancor oggi lei si acquatta sulla sedia per allungare una  zampa sull’ ignaro amico che passa e si guarda intorno senza capire. C’è stato un periodo in cui i miei figli hanno subito ingiuste sgridate per le carte di caramelle o cioccolatini che trovavo sotto il tappeto o i cuscini del divano. Un pomeriggio, mentre guardavo la tv, sentii un rumore sulla credenza : Gri Gri spingeva una caramella con la zampa, giù verso il cane che, scodinzolando, stava in trepida attesa. Skip prontamente la ingoiò. La gatta continuò. Questa volta lui riuscì a scartarla e lei, come un pattinatore di hockey su ghiaccio, con l’involucro improvvisò uno slalom sul pavimento del salotto, finchè portò il suo trofeo sul divano. Quando osò tornare alla carica del porta bon bon fu paralizzata dal mio inatteso, urlato e  solenne “scendi giù” e si defilò di corsa. Occhio che non vede, cuore che non desidera: da quel giorno chiusi a chiave i dolci. 

Sono trascorsi circa quattordici anni, e i miei figli a 4 zampe ci hanno seguito nella nuova casa in città. Si sono adattati al nuovo ambiente anche se a volte scopro Gri Gri che, assorta, sbircia dietro la finestra. Forse rimpiange un po’ la terrazza dove amava sdraiarsi al sole.

Sì, in fondo i gatti non differiscono troppo dagli umani.

 

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 Non è facile conquistare l’amicizia di un gatto 

Non è facile conquistare l’amicizia di un gatto

 Il 17 febbraio sarà la Festa Nazionale del Gatto. Alle mie belve di casa, che hanno adottato Skip vero stringendo con lui un’affettuosa amicizia da associazione a delinquere, allietata da allegre  scorribande, ho  dedicato qualche post che pubblicherò volentieri. Oggi vorrei ricordare i  tanti gatti coi quali sono vissuta sin da bambina, prima a casa di nonna e poi a casa mia.

 Vediamo da dove posso cominciare questa lunga saga felina.

 La prima gatta della nonna, che ricordo, si chiamava Topa, però era una gatta. E io, a cinque anni, non riuscivo a capire perché mai si dovesse chiamare Topa; forse perché era colore orzo, mezza spelacchiata con occhi giallo senape. Amava molto ascoltare con il nonno le canzoni di Ornella Vanoni, trasmesse in tv.

La Gegia era  una gatta che non si può definire una bella gatta. Aveva un pelo di un nero che sfumava nel viola. Invece di miagolare gnaognalava con una voce straziante Era molto indipendente e incuteva soggezione coi suoi grandi occhi gialli che brillavano al buio. Secondo me incarnava qualche monaciello, perché compariva e scompariva all’improvviso. A quel tempo c’era pure il bellissimo Bijoux, dal mantello vellutato d’argento con due occhioni verde smeraldo e il Rosso, famoso non solo per le prodezze venatorie ma anche per l’abilità a saltare sulle maniglie ed aprire le porte. Suo compagno era Caribù,  cosiddetto per la folta  pelliccia invernale,bianca con chiazze a strisce. Era il tipico gatto sornione  che finge di non vedere e non sentire.  Un giorno si addormentò dentro il  focolare della cucina, che fungeva da inceneritore,  e ne schizzò fuori bruciacchiato quando la nonna vi accese un piccolo falò. Fortuna volle che i suoi miagolii la indussero ad aprire lo sportello evitando così di cuocere un gattò al forno.

Sandrino invece era un maestoso gattone dal pelo lungo. Amico inseparabile della nonna, sedeva sul tavolo tondo quando lei ricamava e pareva ascoltarla quando inscenava scherzosi dialoghi, chiamandolo Signor Gatto. Ogni mattina  condivideva con lei  il latte corretto con il whisky che lo faceva ondeggiare sul davanzale. Grazie a lui imparai molto presto a fare la spesa, perché la nonna non gli faceva mai mancare papponi di riso e alici.

Indimenticabile è Zigo Zago, una panterina  nera in miniatura con tondi occhi gialli, che mi  faceva intonare a squarciagola  il motivo “Ziiigo Zaaago , piccolo maaago”.

 Molto più tardi arrivò Biòs (vita), una dolce micetta  bianca. Fu chiamata così perché  sottratta da mia zia al regno dei morti del cimitero. In verità era molto viva perché ben presto sfornò tre mici. In contemporanea il destino portò Bissi Bissi ,un micino bianco e nero che io e mia cugina estraemmo da un bidone della spazzatura, incuriosite dai suoi flebili lamenti.  Temendo di portarlo a casa della nonna, già popolata di gatti, spesso abbandonati da ignoti sul portone di casa , lo nascosi  in un deposito del  giardino. Quando mia zia usciva per andare al lavoro, io andavo in giardino e gli somministravo latte diluito col contagocce. Il micetto poi imparò a camminare , seguendomi ovunque. Quando rientravo in casa, lo lasciavo nel deposito. Ma i piccoli mici crescono e quindi  iniziò a esplorare i dintorni, venendo allo scoperto. Io e mia cugina confessammo l’accaduto  e mia zia, apprezzando il nobile gesto, lo accolse nella tribù felina.  Una volta tornò col pelo non più bianco,ma sporco e unto di grassa fuliggine, perché forse era andato a dormire su una caldaia. Così pensai bene di lavarlo. Lo pulii con estrema cautela per timore di un’artigliata,  inizialmente con una spugna inumidita, poi  osai immergerlo in una bacinella , piena di acqua e bagnoschiuma. È stato l’unico gatto di mia conoscenza, che non solo amava fare il bagno ma anche essere asciugato col phon.

Rugiò ( si legge alla francese , ora lo scrivo Rougeau) , come rivela il suo  nome, era un gatto rosso. Una mattina vidi tre gatti rossi, allineati su un pergolato . Le tre civette di Ambarabàciccicoccò mi richiamano quell’immagine. Per due giorni la zia pensò che  avessi le traveggole perché parlavo continuamente di statuari gatti sul pergolato che lei non riusciva a vedere. Finalmente al terzo giorno i tre compari si degnarono di farsi scorgere e fu salva la mia reputazione. Le tre anime rosse erano state abbandonate nel giardino da una signora che si era trasferita in un’altra città.  Rougeau pian piano si fece accarezzare e arrivò in casa. Dopo un iniziale assedio alla Maina, un merlo indiano che in seguito ai miei lunghi tentativi di addestramento riuscì a pronunciare “Maina”, “Marì” ( che soddisfazione! Ma giuro che le parlavo in italiano doc) e Ciccià ( nome del cane), Rougeau si mise l’anima in pace e desistette dalle voraci ambizioni. Imparò presto a coricarsi per terra, ad allungare le zampe per aprire un mobile basso della cucina e a rovesciare la scatola dei croccantini.

Romeo era invece  uno dei tre figli di Biòs. Per un paio di anni si comportò come un indolente gattone domestico, fino a quando  madre natura lo portò a scoprire il seducente mondo delle gatte e si inselvatichì. Divenne il boss del rione e cambiò pure voce. Che potere hanno le gatte morte innamorate! La voce roca ben si addiceva allo sfregio sotto l’occhio  e all’ orecchia mozza, forse trofei  di duelli notturni con qualche rivale in amore. A volte lo  incontravo per strada e lo chiamavo. Si avvicinava ma non si lasciava più accarezzare. Ne perdemmo le tracce, ma lo ricordiamo sempre con ammirazione per la conquistata libertà di gatto randagio.

Dei gatti della casa della nonna è sopravvissuto Fusarello che gode ancora di ottima salute. Un giorno nascose una biscia viva in un cesto. Di sera  andò a scovarla e  scatenò un putiferio e un fuggi fuggi generale, simile a quello causato dalla fuiuta del capitone dalle vasche delle pescherie nel periodo natalizio. Un suo fratello, Gri Gri, detto Capucchione,  è venuto a mancare poco tempo fa. Un gatto strano. Era talmente timido che stava sempre nascosto dietro una cristalliera. Si lasciava  prendere e accarezzare solo dalla zia. Col tempo imparò a vincere la timidezza e a volte entrava pure in cappella e ascoltava (?) la messa. Un giorno si ammalò e mia cugina lo portò dal veterinario. Un’altra zia,  trovandolo addormentato, pensò che fosse morto e così lo seppellì in giardino. In verità  l’ignaro Capucchione era sotto l’effetto dell’anestesia e mia cugina corse a salvarlo. Dopo la drammatica, non voluta esperienza, il redivivo visse ancora felice e contento a conferma del detto che a volte si può “ nascere sotto una buona stella”.

Quando con la mia famiglia mi trasferii in Liguria, continuai a coltivare  il mio feeling felino. Un’unica e selvatica  gatta randagia approdò nel giardino di casa e da lei ebbe origine una lunga discendenza.

Ogni giorno Mamma Gatta si avvicinava al balcone della cucina in cerca di qualcosa da mangiare. Ogni sera la aspettavamo e ci impensierivamo se tardava a venire. A lei devo la più naturale lezione di educazione sessuale perché un pomeriggio , sentendola miagolare in modo strano, la vidi mentre partoriva un micetto. Grazie a lei capii che i gatti nascono dal culetto, mentre i bambini continuavano a nascere dalla pancia della mamma, perché gli umani non sono gatti. Beata ingenuità dei miei dieci anni che  mi faceva immaginare una straordinaria dilatazione dell’ombelico  dal quale uscivano i bebè. Non riuscivo a spiegarmi altrimenti l’utilità di quel buco che i gatti non avevano.

Mamma gatta non tornò più, quindi adottammo i suoi cuccioli. Pallino diventò  il raìs del rione. Lo inseguivo quando afferrava per la collottola i micini appena nati, cercando di avere per sé le attenzioni di mamma gatta. Un chiaro esempio di sciovinismo ed egoismo felino. Suo fratello, detto il Grigio, era molto diverso. Aveva  un pelo vellutato, color grigio scuro, e grandi occhi giallo-verdi,  come il più aristocratico  certosino,  e soffriva invece di  crisi di identità. Divenne l’ inseparabile amico del mio bassotto Dusky. Di sera lo aspettava sullo zerbino del portone e, camminandogli a  fianco, se ne andava a dormire con lui nella cuccia. Poi dicono “ cani e gatti…”

Celestina invece era una gattina dolcemente timorosa e molto silenziosa.  Mia madre aveva un debole per lei e le parlava di nascosto.  Alle 17. 30 Celestina si sedeva  sulla scala esterna e aspettava mio padre che rientrava dal lavoro. Riconosceva il clacson dell’auto e gli andava incontro, come fanno i cani. Poi lo seguiva fin sull’uscio di casa. Forse capiva che a breve avremmo cenato e le avremmo dato da mangiare. Chissà! Delle prodezze feline di quegli anni ricordo  un’insolita seduta di gatti in semicerchio. Sembravano ipnotizzati, quasi cementati per terra. All’interno dell’ assembramento c’era un riccio. Sì un porcospino ben avvoltolato, che era sconfinato nel mio giardino. Poveretto! Era circondato da una schiera di curiosi cacciatori che ci omaggiavano un giorno sì e uno no di cadaveriche prede ( uccellini, lucertole, insetti, gusci di uova, topolini, a volte pure qualche biscia). Dopo un quarto d’ora di silenzioso appostamento, l’incauto riccio osò  fare spuntare il naso. I gatti , sempre seduti,  concentrati  fissavano la nuova vittima. Non appena il riccio tirò fuori la testa, Celestina con un balzo gli si avventò sopra rimbalzando subito all’indietro, come se avesse ricevuto una scossa elettrica. Liberai la povera bestiola dall’assedio e la riportai nella pineta confinante col giardino.

 I gatti sono sempre stati i miei compagni di gioco e stavo ore intere a  osservarli, cercando di decifrare il linguaggio della coda e delle orecchie e  tentando di imitare i loro miagolii. Circa quattordici anni fa ho deciso di adottarne due, Tigro e Gri Gri. Pure il consorte ha vinto l’iniziale diffidenza e ha imparato a parlottare coi gatti. Mio figlio non va a dormire se prima non ha salutato Gri Gri, che poi quatta quatta si appallottola ai suoi piedi. Che dire? Fanno ormai parte della famiglia, trasmettono affetto, ci si rispecchia un po’ in loro, si acquattano nel trolley quando captano immediate partenze, ci vengono incontro quando rientriamo a casa, ci fanno compagnia con la loro silenziosa presenza, ci coccolano con le fusa e ci logorano con miagolii insistenti. Ma quando si nascondono, ci mancano.

 I gatti sono regalmente eleganti, misteriosi e istintivi; scelgono chi amare e non dipendono da nessuno. Sono semplici nei loro bisogni primari ma eternamente cuccioli nell’ entusiasmo e curiosità, affascinanti quando ci osservano e sembrano capire. Interlocutori attenti, muti eppur presenti, abitudinari ma non facilmente addomesticabili .

Un gatto è un gentiluomo. Sotto quel pelo morbido si trova ancora uno degli spiriti più liberi del mondo ( Eric Gurney ) perché Non è facile conquistare l’ amicizia di un gatto. Vi concederà la sua amicizia se mostrerete di meritarne l’ onore, ma non sarà mai il vostro schiavo. (Théophile Gautier ).