Sonetto XVII – Pablo Neruda

 

Sonetto XVII

Non t’amo come se fossi rosa di sale, topazio      
o freccia di garofani che propagano il fuoco:
t’amo come si amano certe cose oscure,
segretamente, tra l’ombra e l’anima.

T’amo come la pianta che non fiorisce e reca
dentro di sé, nascosta, la luce di quei fiori;
grazie al tuo amore vive oscuro nel mio corpo
il concentrato aroma che ascese dalla terra.

T’amo senza sapere come, né quando, né da dove,
t’amo direttamente senza problemi né orgoglio:
così ti amo perché non so amare altrimenti

che così, in questo modo in cui non sono e non sei,
così vicino che la tua mano sul mio petto è mia,
così vicino che si chiudono i tuoi occhi col mio sonno.

 

Pablo Neruda – Tratto da cento sonetti d’amore

Io scelgo…e tu?

Un post di grande attualità , per tante ragioni.

Si dice che ciò che contraddistingue l’uomo è la capacità di decidere e di intraprendere  azioni che possano  trasformare la realtà e se stesso. Uomo ed azione sono correlati: l’azione dà origine all’essere umano e  l’attività principale dell’uomo è auto inventarsi e dare forma a se stesso. L’uomo è dunque co-creatore di se stesso ed inoltre  orienta al meglio le sue azioni . Per fare tutto ciò  deve scegliere, e scegliere implica  valutazione delle conoscenze, immaginazione e decisione nel campo del possibile.

Si è chiamati a scegliere sempre e dovunque. Ogni giorno si fanno inconsapevolmente scelte automatiche e silenziose …una tantum si fanno scelte importanti, fondamenti di vita.

 Si sceglie per uno scopo: per un’esigenza etica ( bene e male), per un bisogno individuale ( piacere), per ricercare una verità oggettiva (e il rinunciare ad essa significa sottomettersi alla soggettività di altri).

Si sceglie in politica  sperando di ottenere vantaggi sociali  oltre che di sviluppare un progetto di vita condiviso. Si sceglie di formare cittadini in grado di apprezzare la forza delle ragioni e non le ragioni della forza.

La scelta  implica una partecipazione, più o meno sofferta. Ogni volta che si sceglie si cambia un poco, si diviene.

 Si può non scegliere? In teoria sì: c’è chi sceglie di non scegliere… sono  gli ignavi di Dante, coloro che  apaticamente fluttuano  nel proprio mare trascinati dalla corrente, imperturbabili alle onde e ai vortici delle scelte altrui. Ne sono convinti? Sono felici? Non so.

Di sicuro non sono liberi, perché solo scegliendo  si è  liberi, si diviene consapevoli, si orienta la propria vita anche se  talvolta si è condizionati dall’ambiente, dagli affetti, dalla cultura di appartenenza.

 Scegliere significa essere liberi. 

Libertà…una di quelle detestabili parole che hanno più valore che senso. Che cantano piuttosto che parlare; che chiedono piuttosto che rispondere(Paul Valéry)

 

Omaggio ad Anna Magnani

L’attrice Anna Magnani, personaggio emblematico del neorealismo cinematografico, interprete di film e opere teatrali di grandi registi italiani e stranieri (quali De Sica ,Rossellini,Visconti , Pasolini, Zampa, Monicelli, Zeffirelli, Lumet, Mann, Cukor e tanti altri ) vinse numerosi premi cinematografici italiani e il premio Oscar come migliore attrice protagonista nel film “La rosa Tatuata” di Daniel Mann (1956). Da sempre fa parte della storia del cinema la drammatica scena di “Roma città aperta” di Rossellini (1945) , in cui l’attrice viene crivellata con una scarica di mitra di un soldato tedesco mentre rincorre un camion sul quale suo marito sta per essere deportato. «T’ho sentita gridare ‘Francesco’ dietro al camion dei tedeschi e non ti ho più dimenticata» scrisse di lei Giuseppe Ungaretti. Il personaggio da lei interpretato, la sora Pina , popolana schietta e volitiva, sicura nella difesa dei giusti valori, ricorda con crudo realismo la storia vera di Teresa Gullace, madre di cinque figli e incinta del sesto, che fu uccisa mentre cercava di parlare con suo marito incarcerato in una caserma di Roma.

La Magnani ebbe grandi riconoscimenti soprattutto dopo la sua morte tra i quali una retrospettiva con la proiezione dei suoi 14 film più significativi nel Museum of Modern Art di New York nel 2002, omaggio tributato a poche dive del cinema. È stata riconosciuta  tra le   donne che hanno fatto l’Italia in una bella retrospettiva sulle figure femminili più o meno conosciute, che direttamente ed indirettamente hanno influito sull’evoluzione culturale, sociale, economica e politica dell’Italia. 

Anna, era figlia di padre ignoto. In età adulta risalì al padre (un tale del Duce ma ,con la sua consueta ironia, diceva di essersi fermata nelle ricerche perché non voleva passare come “la figlia del Duce”.) Sua madre Marina si trasferì ad Alessandria d’Egitto per rifarsi una vita sentimentale e lì sposò un uomo austriaco molto facoltoso. Anna, “figlia della colpa” , visse un’infanzia povera e sin dalla più tenera età, fu accudita dall’amorevole nonna e dalle cinque zie. L’assenza e il vuoto affettivo della mamma però la segnarono e non potevano di certo essere colmati dai bei vestiti di seta che riceveva dall’Egitto. Aveva ormai nove anni quando conobbe la madre che, recatasi a Roma per vederla, decise di mandarla in un collegio di suore francesi perchè ricevesse una buona istruzione Anna rimase in collegio per pochi mesi perché, per punirla dello scarso rendimento scolastico, le suore le impedivano di vedere l’amata nonna che per lei rappresentava l’unico vero e forte legame affettivo. Tornata a casa si dedicò quindi allo studio del pianoforte e portò avanti gli studi fino alla seconda liceo. All’età di 15 anni si recò ad Alessandria in visita alla madre, ma l’esperienza si rivelò molto dolorosa .

Rientrata a Roma , decise di studiare recitazione (1927) e contemporaneamente cantava nei cabaret romani. Iniziò la sua carriera prima nell’avanspettacolo, soprattutto con Totò, poi nel cinema e nel teatro. Ebbe una vita sentimentale movimentata anche perché l’interiore senso di abbandono la rese morbosamente possessiva. Si sposò con il regista Goffredo Alessandrini che si rivelò fedifrago e superficiale; visse una forte passione con Massimo Serato da cui ebbe il figlio Luca, cui preferì dare il cognome proprio perché il giovane attore era insofferente di legami stabili.  Il figlio determinò una nuova rottura sentimentale ma in compenso fu per lei l’ amore costante della sua vita : inizialmente fonte di una grande gioia, poi di preoccupazione e dolore quando fu colpito dalla poliomielite. Ebbe alcuni amanti tra i quali Rossellini, ma anche questa vicenda sentimentale fu molto vissuta e sofferta.

Luca Magnani,ha dichiarato: ”Una certa ottusità e molti luoghi comuni su mia madre, e questo credo l’abbia molto intristita, soprattutto nell’ ultima parte della sua vita, quando lavorava meno. E’ stata messa da parte, per indifferenza… Mia madre era una persona di una modernità incredibile, che non ha mai seguito le mode ed ha precorso i tempi . Passava per sguaiata, per una che diceva le parolacce, ma in realtà era semplicemente una donna che agiva alla luce del sole”.

 

Anna fu l’antidiva per eccellenza. Ricordo una sua intervista in cui  raccontava della gallina Ciuffettina, sua compagna di gioco durante l’infanzia , di gatti e cani che amava, con cui parlava e si sentiva in sintonia. La Magnani, nota come Nannarella, viene spesso associata alle donne comuni e semplici di cui interpretava la spontaneità, le ambizioni, la voglia di riscatto , l’istinto di amare con passione, la sensibilità, la generosità, la forza d’animo. Attraverso i suoi personaggi poteva esprimersi come donna  vera,viva, sincera, imperfetta, appassionata, desiderosa di amare e di essere amata ( la sua canzone preferita era quella che le cantava la nonna , cioè “Regginella”: T’aggio vuluto bene a te /Tu m’hè vuluto bene a me/ Mo nun c’amammo cchiù/ Ma ‘e vvote tu/ Distrattamente /Pienze a me).Una persona, non un personaggio, un po’ dimenticata e sola negli ultimi anni della sua vita trascorsi nella lotta di un  male incurabile, assistita dal figlio. Una donna non bellissima, ma dagli sguardi più che eloquenti, dai sorrisi indimenticabili e dalle risate sonore e schiette. Un’attrice che non recitava, ma si immedesimava nei personaggi dai quali traspariva la sua forte personalità, l’intelligente ironia che la contraddistingueva, la spontanea veemenza mista a fragilità, la dolce e sofferta malinconia .Forse questa è la ragione per cui Anna Magnani è ancora nel cuore di tanti. 
Anna verrà
col suo modo di guardarci
dentro
dimmi quando questa
guerra finirà
noi che abbiamo un mondo
da cambiare
noi che ci emozioniamo
ancora
davanti al mare…

(“Anna verrà” di Pino Daniele)

 

Immagini tratte dal web

 

Reginella

Nei film degli  anni ‘50 la donnina era  di solito una ragazza un po’ sempliciotta e sprovveduta , sedotta e abbandonata dal mascalzone di turno, disonorata al punto tale da essere costretta a fuggire  dal paesello per  lavare l’onta subita dalla famiglia d’origine. Trovandosi  in difficoltà , in città veniva adescata da una marpiona esperta che la instradava con l’illusione di una vita agiata tra cuménda e palazzinari, viziosi ma benestanti, e finiva in una  casa di tolleranza  demonizzata dai politici e religiosi di ogni tempo,  ma in effetti tollerata nella consapevolezza dell’importante ruolo  svolto nel contesto sociale.

Lì  intere generazioni di uomini perseguivano  il piacere fine a se stesso , immerso e sommerso in arredi  e broccati barocchi,  tra statue neoclassiche e tendaggi pesanti. Le ragazze in  déshabiller apparivano come dee in cima a scalinate, audaci protagoniste dell’immaginario collettivo maschile molto represso e apparentemente castigato. Regine di  passerelle, maestose, formose, generose, stelle lucenti nella noiosa ed ipocrita monotonia borghese dove  la vita era scandita da rituali formali   e i sentimenti erano raramente sinceri .

I bordelli erano oasi felici in cui  la libido poteva scorrazzare indomita e l’istinto puro  si liberava dei freni  inibitori di mogli sconsolate e apatiche, sterili  di vive  emozioni, addestrate a ruoli sociali prestabiliti, necessariamente condivisi per poter appartenere all’élite. Un mondo basato su una sorta di  riscatto sociale, sull’etichetta anche se ipocritamente poco sentita, sulle maniere apparenti, sui cerimoniali castranti della spontaneità. Dall’altra parte c’erano le case del piacere popolate da seduttrici dagli spiccati accenti e inflessioni regionali, Veneri intriganti che facevano sognare. Tra  concessioni di favori , di  frizzi e lazzi, di sorrisi e di risate schiette, di sguardi sfrontati  e forme generosamente in mostra ruotava  un mondo  trasgressivo, un paradiso per iniziare ai piaceri della vita il giovincello e  soddisfare i robusti appetiti sessuali  di scapoli e ammogliati. Lì ogni tabù spariva dietro la porta chiusa e  nella  penombra di persiane accostate. Era  un mondo alternativo a quello reale dove talvolta nascevano amori veri dal lieto fine,  talvolta  tormentate passioni impossibili.

La legge Merlin ha fatto chiudere quelle case, segnando la fine di  un’epoca storica. Il mestiere più antico del mondo  ha però  continuato ad essere svolto per necessità,  per vocazione, a volte  per noia, spesso   per vero e proprio sfruttamento del sesso  di donne private di ogni dignità, rapite, ingannate, vendute, violate, sbattute sulla  strada, maltrattate da aguzzini e clienti.

 Donne senza  lacrime né poesia, senza  sorrisi sinceri. Lucciole che brillano a  intermittenza sui cigli delle strade provinciali, solitarie, squallide, buie. Falene  notturne infreddolite  vicino a piccoli falò, variopinti animali esotici, trampolieri in bella mostra  che danzano , che imitano, che interpretano un ruolo sempre uguale . Vite succubi  di avidi imprenditori.

 Esistono  però anche le professioniste  del sesso, quelle che  lavorano in proprio: vere  imprenditrici di loro  stesse e  arrampicatrici sociali. Investono  in titoli e  nel mattone per poter vivere di rendita quando la natura reclamerà il suo dazio e cesserà la stagione del bell’ apparire. Le signorine programmano il  loro futuro, non potendo vantare un passato; corrono  nel presente e non si voltano mai  indietro, guardano sempre avanti .Si  riscattano col  benessere materiale.

“Si dice che ad ogni rinuncia corrisponda una contropartita considerevole,

ma l’eccezione alla regola insidia la norma…

se è vero che ad ogni rinuncia corrisponde una contropartita considerevole,

privarsi dell’anima comporterebbe una lauta ricompensa”

(Carmen Consoli) 

Alla rinuncia del cuore per lo meno corrisponde  un buon tornaconto economico.

 Tempo fa  la Corte di  Cassazione ha ritenuto  che i  proventi dal meretricio sono da intendersi come  una «forma di risarcimento del danno» che la donna subisce alla sua dignità , vendendo se stessa. Ma  tutto cambia e diviene. Circa cinque anni fa  la  Commissione tributaria della Lombardia ha condannato una prostituta, proprietaria di sei appartamenti e di due auto, a pagare quasi settantamila euro tra tasse e sanzioni perché non ha dimostrato  la provenienza del suo reddito. Insomma  la signorina in questione  non è stata in grado di dimostrare come aveva accumulato tutti quei beni, esibendo magari un atto di donazione o regolare fattura, quindi risultava che  non aveva pagato le tasse su un gettito extra, non dichiarato.

Di qui il dilemma se le lucciole debbano pagare le tasse e debbano esser riconosciute come in tanti altri paesi. Hanno  un loro sindacato e  rivendicano  accoglienti strutture aziendali dove erogare ed espletare servizi ad un’utenza varia  per età e richieste, dove tutto sia scandito con precisione  secondo una tabella di marcia di appuntamenti quantificati e definiti per durata  e impegno. Come saranno qualificate? Consulenti sessuali, lavoratrici dello spettacolo o professioniste della grande distribuzione?  Madame del volontariato sociale, espletatrici di un  lavoro socialmente utile ? Non ci sarà  più  sfruttamento della prostituzione ma si passerà alla legalizzazione  del  commercio sessuale.Saranno garantiti minimi salariali e tariffari uniformi comprensivi di IVA in ogni  regione, a prescindere dalla qualità dell’ erogatrice del piacere o dell’ abilità mostrata , versamenti di contributi previdenziali e di quote assicurative in caso di infortunio o incidente sul lavoro . Sarà effettuato una sorta di censimento periodico che escluderà  le minori e assicurerà effettivi controlli  sanitari. Il  meretricio sarà un’occupazione provvisoria o definitiva come ogni altra, risponderà alla flessibilità organizzativa, sarà periodicamente monitorato  nel suo rendimento di mercato.

 Poco  importa se verrà meno la sensazione di trasgredire furtivamente per evadere dalla  quotidianità e  ricercare ebbrezze diverse, di  sottrarsi allo sguardo severo e vigile della propria coscienza .Basterà essere in regola col fisco!

La meravigliosa arte dei Brueghel

Fino  al 2 giugno  è possibile visitare  nel Chiostro del Bramante a Roma una splendida e inedita mostra dei capolavori  della dinastia dei Brueghel  che  operò per quasi due secoli tra il XVI e il XVII secolo . Oltre 100 opere narrano la storia familiare di cinque generazioni di  grandi artisti fiamminghi  che hanno lasciato un’indelebile traccia nella storia dell’arte con il loro indiscutibile talento e la visione un po’ grottesca dell’umanità, riuscendo a innovare e  a reinterpretare il vecchio alla luce del nuovo.

Le opere, alcune mai esposte,   provengono da collezioni private e  da musei nazionali ed esteri (Vienna, Tel Aviv, Milano, Napoli).  Se nel  ‘500 in Italia fiorisce l’arte rinascimentale di Michelangelo, Leonardo, Tiziano che rendono  l’uomo protagonista dell’opera d’arte,  nei Paesi Bassi, invece,  per effetto della riforma protestante e del calvinismo, l’attenzione si sposta verso la natura, che  da sfondo diviene il soggetto  principale.

 

Pieter  Brueghel  il Vecchio (1525/1530 circa – 1569), artisticamente ispiratosi all’ironico e grottesco  Hieronymus Bosch, della cui  scuola  è esposto il Ciarlatano, privilegia il paesaggio e  il rapporto uomo- natura  in scene di vita contadina e quotidiana  o in  proverbi figurati,  innovando la pittura fiamminga.  Di Pieter Brueghel   è rimasto poco ma le sue opere furono copiate  e completate  con maestria dai figli che continuarono le scelte artistiche del capostipite, come nelle  scene di  vita agreste della “Danza Nuziale all’aperto”  e del  villaggio dei Paesi Bassi delle “Sette opere di Misericordia”. 

Pieter Brueghel  il Giovane(1564 –1638), a differenza del padre che era  più ancorato al rigore morale, indulge però a una più  semplice e spontanea  gioia di vivere dei contadini  e a una padronanza di  tinte decise , tipiche del Barocco fiammingo, come si può  osservare nella splendida “Trappola per uccelli”(1605). 

Il raffinato ed elegante  Jan il Vecchio(1568 – 1625)  viaggiò in Italia, collaborò con Rubens e divenne celebre come “ il Brueghel  dei velluti” ;  le sue nature morte e i vasi di fiori, simboli della vanitas  e della caducità della vita,  propongono  un’innovazione stilistica  con  la morbidezza  cromatica del velluto. 

La sua tecnica e il suo stile furono ripresi dal figlio Jan il Giovane , autore di splendide e  raffinate allegorie quali L’ Allegoria della guerra, della Pace, dell’acqua, dell’Amore, dell’olfatto e dell’udito . Egli riprende l’idea del meraviglioso e dell’esotico che nel ‘600 doveva sorprendere sia i committenti, perlopiù della ricca borghesia mercantile , sia eventuali loro ospiti in un’opera che veniva orgogliosamente esposta nella cosiddetta Camera delle Meraviglie (Wunderkammer).

 

Incredibilmente belle anche le  opere di Jan Van Kassel il vecchio(1626 – 1679), nipote di Jan il Giovane, che si dedicò a minuziosi e dettagliati studi di insetti, farfalle e conchiglie, a volte realizzati su marmo o lastre di rame. Opere incantevoli, talmente particolareggiate da sembrare fotografie.

Vedere per credere! :)

 

Brueghel. Meraviglie dell’arte fiamminga.

Chiostro del Bramante

Arco della Pace 5

18 dicembre 2012- 2 giugno 2013 

Le frittelle di Carnevale alla veneziana

Carnevale è principalmente una festa pubblica, che si svolgeva e si svolge in comunità e  all’aperto ove  condividere nuove maschere  o l’abbandono di quelle più usuali.Come ogni festa prevede  dolci tradizionali, quasi sempre fritti e facili a farsi perché in origine si preparavano in strada. Essi richiamano un po’ le “frictilia”, dolci fritti nel grasso, conditi poi con miele e  offerti dai Romani al dio  Saturno .

Le frittelle di Carnevale imperversano in ogni regione d’ Italia, hanno diverso nome  e varia forma: sono  palline, a volte ripiene, come le castagnole, i tortelli , le fritole, oppure  a forma di ciambelle o più comunemente di nastro e ricordano un po’ pezzetti di stelle filanti, dette chiacchiere, bugie, frappe, fiocchi, stracci, cenci ecc…

 

Durante le  feste  rinascimentali del Carnevale veneziano, riservate ai nobili, non mancavano le frittelle alla veneziana , la cui ricetta ufficiale risale a Bartolomeo Scappi, cuoco del papa Pio V e autore di un corposo e famoso trattato di gastronomia del XVI secolo intitolato “Opera”. Solo nel Settecento le frittelle divennero dolce nazionale della Repubblica veneziana, grazie anche alla corporazione dei fritoleri che le cuocevano e  le vendevano , dopo averle esposte  su piatti di stagno o di peltro ben decorati  con a fianco  gli  immancabili ingredienti, cioè  i pinoli, l’uvetta, i pezzetti di cedro .

Frìtoe a la venessiana 

Ingredienti:

500g farina

2 bicchieri di latte

2 uova

130g uvetta

50g cedrini canditi

50g pinoli

100g zucchero

20g lievito di birra

½ bicchiere di grappa

 buccia grattugiata di un’arancia

1 bustina di vanillina

Sale q.b.

Zucchero a velo

Olio per frittura

 

Preparazione

Ammorbidire l’uvetta nella grappa per circa mezz’ora .

In una  ciotola fare un impasto morbido con la farina, un po’ di latte, le uova, lo zucchero; aggiungere poi un po’ di sale, il lievito sciolto nell’acqua tiepida, l’uvetta asciugata, i cedrini, i pinoli e la scorzetta di arancia e amalgamare bene  tutti gli ingredienti. Lasciare  lievitare il composto  per circa due ore in un luogo tiepido, lavorarlo  di nuovo, aggiungendo un po’ di latte, se poco fluido.  Friggerlo a cucchiaiate in abbondante olio bollente, facendo attenzione alla cottura. Asciugare bene  le frittelle su carta assorbente da cucina, spolverarle con zucchero a velo e servirle calde su un bel vassoio.

Don Liunàrd

Don Liunàrd era un personaggio particolare, noto da generazioni in tutta la  penisola.Un ex navigante che  pare avesse perso il senno in seguito alla prematura morte della moglie. Aveva una figlia, cresciuta ed educata  in un istituto di suore,  che lui vedeva periodicamente e che, quando si sposò,  provò invano ad accudire il padre.

Era di alta statura e aveva una  corporatura possente, con ampie spalle e muscolosi bicipiti, tipici di chi ha svolto lavori pesanti . Da sempre me lo ricordo calvo. Si rasava la testa e la barba sotto la fredda acqua corrente di una fontana pubblica.Si svegliava all’alba e girovagava per le strade, da quelle costiere a quelle più interne, a tutte le ore del giorno, anche sotto la fredda pioggia invernale o nella  canicola di agosto.E non s’ammalava mai.

 Non sapevo dargli un’età. So solo che molti anni fa si spostava in bicicletta, seguito da cani randagi , suoi compagni di vita. Più tardi invece iniziò a camminare a piedi, trascinando  la bicicletta per il manubrio , cercando di non perdere tutte le pezze appese sulla canna e il copricapo del giorno. Talvolta le sue pezze, cioè gli abiti smessi che gli venivano regalati, testimoniavano il suo passaggio perchè ,ordinatamente allineate, stavano ben stese ad asciugare sulle ringhiere dei giardini pubblici. Infatti, pur vivendo per strada, era molto pulito. Ogni giorno si lavava nei bagni pubblici, si radeva e faceva il bucato. Ma era uno spirito libero: non voleva vivere in una casa, nemmeno in quella che aveva donato a sua figlia. Preferiva continuare a navigare tra la gente e le strade del paese e dormire negli uliveti e aranceti dietro il cimitero.

Aveva l’abilità di stupire con fogge sempre diverse, talvolta quasi da scena. D’estate indossava un pesante cappotto e d’inverno girava a torso nudo, incurante della temperatura delle stagioni, di tutto e di tutti.Spesso indossava un elmetto tedesco, una camicia bianca e sventolava una sorta di bandiera  in segno di resa. A volte invece indossava una parrucca dai lunghi capelli biondi mettendo in mostra i pettorali. Non era per nulla femmineo, né volgare, anzi!Emanava l’innata fierezza di un guerriero in lotta contro i suoi fantasmi. Come quando nel bel mezzo di un comizio elettorale comparve con una casacca viola e un  elmo da vichingo dalle lunghe corna che,  chissà dove,  aveva trovato.

 Aveva sempre l’aria compita, anche quando la gente lo salutava scherzosamente chiamandolo per nome e sorrideva divertita del suo abbigliamento. Pareva  quasi compiaciuto di attirare l’attenzione e far ridere di sé , o meglio, far sorridere la gente regalando un po’ della sua stravaganza… ma non lo dimostrava eccessivamente. Non parlava mai e di rado rispondeva ai saluti con un cenno del capo o della mano. Solo i suoi  sguardi erano eloquenti.Non chiedeva nulla. A turno i  pasticcieri, i baristi , i fruttivendoli e  la gente del posto gli offrivano da bere, la colazione, la frutta, un pasto caldo. Lui accettava e ringraziava, ma  non entrava nelle case per non disturbare. Andava su una panchina o in un giardino per  consumare e dividere il pasto coi suoi cani, poi ripassava per restituire le stoviglie vuote.Non ha mai fatto male a nessuno. Anzi si raccontava che avesse messo in fuga dei ladri che aveva sorpreso di notte mentre cercavano di intrufolarsi in una casa.

Solo allo spuntar del sole e a  notte fonda  si sentiva riecheggiare la sua voce per le vie deserte. A volte cantava a squarciagola . All’alba, passando a piedi per la via principale e  agitando un barattolo di  latta dove bruciava incenso, urlava: “Scetatev, ch’a sorg!” (Svegliatevi, che sorge!) e  con gli occhi fissi a est continuava “Tu sì, ch’a si n’omm e’ parola”(Tu sì che sei un uomo di parola). Suscitava chiacchiere ed ilarità quando sotto le finestre , tra il serio e il faceto , gridava “Scetat’, cornuto!” oppure“ ‘Sta signora, nun è ‘na signora” (Svegliati cornuto!…Questa signora non è una signora).

Il paese è piccolo e pieno di devozione: tutti sanno tutto di tutti . Don Liunàrd più degli altri  perchè sotto la sua aria distratta, assente o assorta, celava un acuto spirito di osservazione. Chissà a cosa pensava, quando non recitava sul palcoscenico del proprio Io. Secondo me, capiva…e anche bene.

 In  una fredda mattina di febbraio, imbacuccata in un cappotto nero, lo incontrai su un ponte mentre andavo a prendere il treno . Eravamo solo noi due. Nessuna automobile o camion dei rifiuti in circolazione. Lui avanzava a piedi, seguito dai suoi cani, oscillando l’ incensiere e parlando in dialetto con gli occhi rivolti verso il sole nascente. Non so se avessi più paura o soggezione di quel vate fuori dal tempo avvolto da una camicia bianca. Sta di fatto che non attraversai. Proseguii sul suo stesso marciapiede cercando di mantenere una regolare andatura. Man mano che mi avvicinavo, declamava a voce sempre più forte col suo interlocutore immaginario, l’uomo di parola. Dentro avevo un po’ d’ansia , ma mi imposi di vincerla. Circa a  cinque passi da me, si fermò e ammutolì. Parve destarsi dal suo soliloquio. Avanzò , mentre i suoi cani trotterellavano festosi. Pure io, giovane e  testarda, continuai a camminare, temendo qualche improvvisa invettiva.

 Una fortuita coincidenza: due figure , una bianca e una nera in direzioni opposte sulla stessa scacchiera della vita. Forse entrambi in cerca di conferme, di promesse mantenute dalla sorte. Un ponte collegava la sua lucida follia alla mia lucida curiosità.

Quando ci incrociammo, mi disse con un tono di voce inaspettatamente pacato, quasi rassicurante : “Va’ sempr’ annanz co’ sole” (vai sempre avanti col sole). E mi benedisse con un’abbondante folata di incenso.

Anni fa ho saputo che Don Liunàrd se ne era andato solo e  in silenzio dall’uomo di parola. I suoi cani l’hanno cercato per giorni tra gli uliveti e gli aranceti, finchè qualcuno li ha accolti.E mi par di rivederlo ogni volta che passo nei pressi della fontana, dei giardini pubblici e sul ponte. La sua tacita presenza , quasi scenografica, le sue grida, i suoi rituali appartengono ormai ad una sorta di leggenda, a quegli aneddoti che la gente di paese continua a rievocare con un po’ di nostalgia. Come quando su uno specchio, appannato dall’alito, si dissolve  lentamente la traccia.

Ancor oggi in Liunàrd ognuno vede ciò che vuol vedere con una sorta di affettuosa riverenza per la sua diversità.

Come eravamo…a Carnevale

Da bambina mi travestivo sempre da pellerossa , armandomi di scudo e pugnale  rigorosamente finti, per rivendicare con i cugini e mia sorella l’appartenenza  alla Tribù dei Piedi Scalzi e la libertà, almeno a Carnevale, di urlare, correre a piedi nudi nel giardino e dipingermi il viso col rossetto e i tappi di sughero bruciati. Negli anni dell’adolescenza, in cui ero piuttosto disorientata sui miei naturali cambiamenti e sul mio futuro da grande, abbandonai l’usanza del travestimento per non complicarmi ulteriormente la vita col dilemma di un’identità carnevalesca.  

Ormai ventenne, apparentemente con le idee più chiare, iniziai ad accettare inviti a feste in maschera, pur non sapendo assolutamente come fare. Non  potendo  permettermi di noleggiare un costume, decisi di confezionarli  con ciò che trovavo negli armadi e con l’aiuto di una zia che sapeva cucire. La prima volta indossai  una giacchetta di raso rossa, ottenuta in prestito, pantaloni e top nero. Un cilindro o bombetta, il trucco e le pailettes  mi aiutarono a fare la mia sporca figura. L’anno successivo ero piuttosto agguerrita e quindi mi vestii da rivoluzionario francese, con tanto di mantello e tricorno nero, camicia extralarge bianca e  stivali fuori dai pantaloni. Il cerone bianco mi dava un’aria esageratamente pallida, se non funerea, ma anche  misteriosamente tenebrosa.La terza volta mi improvvisai  esploratrice in Africa: riciclai pantaloni estivi e sahariana beige, i soliti stivali e, dopo una supplica di giorni, riuscii ad indossare l’originale cappello da esploratore inglese appartenuto a nonsochi e scovato in uno dei tanti armadi della nonna. Ma non ci fu verso di completare il travestimento portando a spasso il fucile del nonno.

 Sono poi balzata ai Carnevali dei miei figli. Trasformai la primogenita in una paffuta Paperina dal becco arancione e candide piumotte, e più tardi in una tenera Primavera finchè, ormai in grado di intendere e volere almeno un costume carnevalesco, lei ne scelse uno da zebra. Sì, proprio da zebra,e lo indossò per un bel po’di anni. Anche quando divenne troppo piccolo, ne reclamò un altro che dovetti far cucire di proposito. Sin da piccola preannunciava lo spirito di tifosa giuventina e un’autostima altalenante dalle stelle alle stalle, dal bianco al nero senza sfumature intermedie.

 Il secondogenito, dopo una breve parentesi da Peter Pan, fedele sempre fu- taratàn zambù- all’Uomo Ragno. In tutto. Non solo nelle collezioni di pupazzetti e figurine, ma soprattutto nell’abilità ad arrampicarsi dappertutto. Imparò presto, ancor prima di camminare, a scalare  tutto ciò che poteva pregiudicare la sua incolumità. Il suo esordio fu sul tavolo con le rotelle, poi prudentemente smontate per evitare che slittasse nella cristalliera di fronte, per dare l’arrembaggio al porta bon bon che regalmente vi trionfava. In seguito passò alle sbarre del lettino che scavalcava di notte in cerca dei ghinghin , cioè i tre ciucciotti che misteriosamente sfuggivano dalla barriera dei paracolpi. Memorabile fu la conquista della vetta del pitosforo nel giardino della scuola materna sul quale rimase appollaiato un bel po’, fino a quando le maestre trovarono una scala e lo fecero atterrare tra i comuni bipedi umani.

Dopo una fase dark, semi reale, e un’altra horror, per fortuna solo carnevalesca, anche i figli hanno smesso di travestirsi. Guai se oso associare al Carnevale il loro estroso look serale. Meno male che ignorano il mio che, alla loro età, ne vantavo uno indescrivibile…tutti i giorni. 😉

 E voi che cosa ricordate del Carnevale?

 

Il Carnevale a Napoli ovvero come le allegre usanze dai salotti sconfinarono nelle piazze.

La festa di Carnevale ha radici molto antiche, che si diramano un po’ ovunque, sia in Italia che all’estero.

A Napoli il 17 gennaio segnava l’ingresso del Carnevale e, in occasione della festa di Sant’Antonio Abate, si dava fuoco- pratica molto diffusa- a cataste di roba vecchia ( i cippi).Al più comune Carnevale, immaginato come un personaggio grasso e dedito a grandi abbuffate , si affiancava la “ Vecchia ‘o Carnevale”, dalle giovani e prorompenti curve, che trasportava a cavalcioni o sulla gobba un piccolo Pulcinella.

 Giovan Battista del Tufo racconta le tradizioni carnevalesche di Napoli in “Ritratto o modello delle grandezze, delle letizie e meraviglie della nobilissima città di Napoli”. All’epoca degli aragonesi il Carnevale era sontuosamente festeggiato dai nobili che ambivano gareggiare in tornei e giostre e partecipare a  grandiosi ricevimenti, indossando sfarzosi costumi e fulgide armature. Nel XVI secolo il gaudente popolo partenopeo si appropriò di questa festa, inscenando sguaiati canti e rappresentazioni in maschera lungo Via Toledo e nel Largo di Palazzo (l’attuale piazza Plebiscito). La festa, sovvenzionata dai nobili che vi si intrufolavano volentieri, era organizzata dalle Corporazioni delle Arti e mestieri. Ben presto l’allegra usanza di mascherarsi  scavalcò barriere sociali e sconfinò nelle strade e nelle piazze. Memorabile fu la mascherata promossa dal principe di Tarsia che per le vie della città fece sfilare accanto ai paggi, riccamente vestiti, la corporazione dei pescivendoli ornati di gioielli, prestati dagli orefici in cambio di pesce fresco.

Nel 1656 si allestirono carri allegorici, addobbati anche con prodotti mangerecci. Usanza molto gradita che si perpetrò negli anni successivi, grazie alla generosità del re e delle Corporazioni. I carri – cuccagna, che accompagnavano le cavalcate e le quadriglie dei baroni, dei cavalieri e delle Corporazioni delle Arti, venivano poi presi d’assalto dal sempre affamato popolo napoletano. Le maschere al seguito dei carri si esibivano in cartelli carnevaleschi propri, cioè canzoni dialettali scritte su pezzi di carta o di stoffa che scherzosamente decantavano le attività e i  prodotti delle corporazioni e infine venivano lanciati al pubblico e al re.

 

Poiché a volte il saccheggio dei carri provocò gravissimi incidenti, nel 1746  re Carlo di Borbone stabilì che i carri –cuccagna, invece di attraversare la città, fossero allestiti nel largo di Palazzo e fossero presidiati da truppe armate fino all’inizio dei  festeggiamenti.  I carri furono poi sostituiti da  più stanziali  cuccagne, allestite in sei giorni da una schiera di architetti e artigiani e, addobbate con caciocavalli, prosciutti, pollastri, capretti, quarti di bue, agnelli e vino, venivano poi offerte alla plebe durante le quattro domeniche di Carnevale. Dopo pochi minuti dallo sparo del cannone che dava il via all’arrembaggio, delle cuccagne ovviamente non rimaneva nulla. Nel 1764 ci fu una grave carestia , e la cuccagna fu una tentazione troppo forte per il deperito popolo che quindi assalì i soldati e portò via ogni cosa prima dell’inizio dei festeggiamenti. Si rese necessario l’intervento della cavalleria  per riportare l’ordine dopo un inevitabile spargimento di sangue. Così la cuccagna fu sospesa fino al 1773; l’ultima festa si ebbe nel 1778  con saccheggi e tumulti a volte qualche ora, a volte giorni prima dell’inizio. L’anno dopo la Gazzetta Universale annunciò che l’eletto del popolo D. Ferdinando Lignola aveva deciso di abolire questa forma di divertimento rivelatasi troppo pericolosa. Il re pensò bene di devolvere per il matrimonio di  venti povere ragazze la somma destinata al Carnevale.

  Al tempo dei Borboni la festa era annunciata al popolo con il prolungato suono di grosse conchiglie, dette tofe. E via per le strade si riversavano festosi e baldanzosi cortei che danzavano al ritmo di strani e rumorosi strumenti  detti  ‘o putipù,  ‘o triccaballacche e  ‘o scetavaiasse ( quest’ultimo- come dice il nome-poteva addirittura svegliare le volgari vaiasse, che pare sprofondassero in un sonno ristoratore dopo estenuanti fatiche).Una folla chiassosa di uomini,donne e scugnizzi invadeva ogni luogo, circondava le carrozze e ossequiava con coriandoli e uova piene di farina  i malcapitati nobili o abati. Gli aristocratici quindi si limitavano a lanciare coriandoli e fiori da balconi addobbati a festa. I signori preferivano festeggiare partecipando al ballo e al pranzo nel teatro San Carlo, che veniva trasformato per l’occasione . In verità alcune dame e cavalieri approfittavano del Carnevale per travestirsi e mescolarsi al popolo e poter  compiere, indisturbati, lascive trasgressioni.

Nell’800 l’allegra fantasia carnevalesca straripò in idee e costruzioni originali. Basti ricordare  l’insolita e divertente cavalcata di struzzi, che annunciavano il passaggio dei carri allegorici in Via Toledo, oppure i carri con  il cavallo impennato, simbolo della città, con l’immancabile e sorridente popolana al balcone, o la cornucopia dell’Abbondanza o  la seducente sirena Partenope.

Pian piano i festeggiamenti del Carnevale si ridussero a feste rionali. Su un carro troneggiava un  grasso Carnevale , ornato di provoloni, salsicce e prosciutti . Al seguito sfilavano donne in lacrime per il suo cattivo stato di salute, che recitavano le infelici diagnosi dei medici dei tre rioni più popolari di Napoli ( il Mercato, il Pendino e il Porto)  alle quali si  contrapponevano un generale e buon augurio di lunga vita.

E vui ca l’avite visto st’anno/

lu puzzate vede’a ca a cient’anne

(e voi che l’avete visto quest’anno, possiate vedere da qui  a cent’anni).

Interveniva quindi O’ mast’ e festa ( il maestro della festa) che girovagava per le botteghe per  fare la questua in nome del Carnevale e  racimolare qualcosa come rimborso delle spese sostenute.

 Ormai  del Carnevale è rimasto ben poco, se non le mascherate perlopiù dei bambini, e qualche piatto tipico, come la lasagna e la pizza di Carnevale. Il sanguinaccio, gustosa crema di cioccolata fatta – ahimè- col sangue di maiale,  è stato vietato da recenti norme sanitarie e sostituito dal più comune cacao.

 

 

Pizza di Carnevale

La pizza di Carnevale appartiene alla tradizione gastronomica sorrentina e  si prepara nel periodo di Carnevale. È un piatto molto sostanzioso che prevede anche  l’uso di ricotta, ma preferisco non usarla e aggiungere più uova e uvetta per ottenere un sapore agrodolce.

 Ingredienti

 400 g di salsiccia

metà caciocavallo fresco, oppure 600 g di mozzarella o provola

5 uova

50 g di parmigiano grattugiato

uvetta passa

pasta sfoglia surgelata

  

Preparazione

 Ammorbidire una manciata di uvetta in una tazza d’acqua tiepida.Dopo aver tolto il budello, spezzettare e cuocere la salsiccia in padella ed infine lasciarla raffreddare. Tagliare a dadini il caciocavallo fresco, in alternativa la mozzarella ben sgocciolata o la provola. Sbattere a parte e a lungo le uova. In una terrina versare la salsiccia, aggiungere il formaggio, l’uvetta ben strizzata, le uova sbattute e il parmigiano. Mescolare  lentamente e lasciare riposare il composto ottenuto perché si amalgamino i sapori. Foderare con la pasta sfoglia una teglia leggermente  imburrata (uso quella di circa 30 cm di diametro), versarvi il ripieno livellando bene, coprire con altra pasta sfoglia. Punzecchiarne la superficie. Cuocere in forno a  180° C per circa un’ora. Lasciare intiepidire.

Si può servire come piatto unico o con  un contorno di  verdure cotte o grigliate.

 Conoscete altri piatti tipici?