In nome del padre

Con questo post partecipo alla prima edizione del Carnevale della Letteratura, ospitato da il Gloglottatore . 

La sera,velata da nubi di zucchero filato, cala lentamente con  sfumature violacee. Una a una si accendono le luci nei profili sempre più scuri  rivelando l’intimità inviolata di case e cuori. Il silenzio induce al riposo in un ritaglio finale di tempo che ammortizza gli affanni della giornata. Un cane si accuccia vicino al padrone, un gatto si raggomitola sul cuscino della sedia, un bambino si copre il viso con il lenzuolo e aspetta che qualcuno rimbocchi le coperte.

Io sono qui, custode di anime e testimone di eterna bellezza, appollaiato nelle preghiere ricorrenti, chiamato a vegliare sogni, silenzi, a volte lacrime in  quei momenti in cui si smarrisce ogni ruolo, ogni difensiva, ogni riflesso  specchiato del sè per cogliersi in un attimo di spudorata autenticità.

 

“Amore  mio , dormi, chiudi gli occhi e dormi.”

“Ho paura, resta qui. “

“Non sei solo, io sono vicina a te e , se non ci sono, c’è sempre un angelo custode vicino a ogni bambino, anche vicino a te.”

La luce degli occhi di mia madre e la dolcezza del suo sorriso sono sempre stati con me, mi hanno dato la certezza di un amore viscerale, senza riserve e aspettative. Oggi il suo viso mi appare ricamato dai segni della stanchezza e negli occhi vedo diluite le indelebili orme della solitudine. La vita a volte è ingiusta. In me ha trovato più di una ragione per guardare avanti e  investire ogni  risorsa interiore con  tutto l’amore possibile. Mamma, sarò sempre con te.

Queste luci mi danno fastidio. Che casino ho combinato, non dovevo, non dovevo per lei. Un altro dolore insopportabile, un’altra preoccupazione, come se non bastassero le altre. Mamma, perdonami…

Quegli  schiaffi mi bruciano ancora. Li hai presi per colpa mia. Lo ammazzo. A volte mi chiedo se troverò mai pace dentro. Potessi cancellarlo  da ogni poro della mia pelle, da ogni mio gene. Maledetto, grande uomo! Ha avuto l’abilità di rovinare la tua e la mia vita. Dove attecchiscono  la sua arroganza e  la sua invadenza non esiste null’altro se non il suo sé possessivo e straripante . Mi brucia ancora quel sarcasmo sferzante, inopportuno, offensivo. Non mi ha mai voluto. Non mi ha mai accettato. Non è colpa tua, mamma, ma mia. Non ce la faccio più.

 

 Un brusio continuo, a stento represso, anima la sala d’attesa. Ragazzi e  ragazze si stringono tra loro intorno agli insegnanti preoccupati . La professoressa  è ancora scossa, a stento trattiene le lacrime, in tanti anni non le è mai successo un fatto così grave. Parla animatamente con alcuni colleghi dall’aria preoccupata e accondiscendente “Ma come abbiamo  fatto a non intuire nulla?” Domande, che non troveranno mai risposta, rimbalzano di bocca in bocca per  esorcizzare la paura del peggio e lenire un po’ il senso di colpa e di impotenza degli adulti che si trovano di fronte a realtà imprevedibili, inimmaginabili, a voragini ben nascoste dalla presunta  e scontata normalità quotidiana.

Una  voce, attutita come il rumore di  un sasso  che cade sul fondale del mare, atterra pian piano nel  flusso disordinato dei miei pensieri  e di quei flash che abbagliano la memoria ,  “Ciao, come ti senti?”

Sento le sue lacrime sulla mia pelle, cadono con un ritmo sempre più veloce. Posso solo immaginarla. Non si vergogna di piangere, di incazzarsi.

“Non lo fare mai più. Passerà , passerà tutto… A scuola tanti, anche di altre classi,  mi hanno chiesto di te …”  Le sue parole inciampano in singhiozzi spontanei che  rivelano  preoccupazione mista a sincera solidarietà.

Una cascata di riccioli. Ecco, riesco  a mettere a fuoco il contorno del viso, gli occhi. Quanto sono grandi e lucidi! Le labbra, le osservo per comprendere meglio le sue parole, si ripiegano in una smorfia  imbronciata che pian piano si scioglie in un affettuoso sorriso.

Flavia, ha il sorriso di ogni donna. C’è una tacita complicità tra me e lei, mi ha sempre ascoltato , c’è sempre stata. Se penso all’amicizia, penso a lei.

“ Sto bene, sono solo stordito.” Non le confesso che mi sento  anche imbarazzato, a disagio…

“ Ci hai fatto prendere un bello spavento.”  Sento la sua mano calda sulle mie dita. Solo ora mi accorgo di avere le flebo e …non riesco a muovermi, un torpore, ecco sì i piedi non mi sento i piedi, a stento le gambe.

Cosa ho fatto!

 

Quando ero alle scuole elementari aspettavo la ricreazione per vederla. Sì, ero incuriosito da una bambola e aspettavo  quella che Lucia portava sempre per giocare con le sue compagne. Mi piaceva giocare con le bambine che, dopo  un’iniziale diffidenza, mi accolsero eleggendomi al ruolo di  papà quando giocavamo alla famiglia. Non mi piaceva fare il papà, ma era l’occasione per potere tenere in braccio quella bambola, così tenera, con le guance rosate, le labbra carnose, gli occhi spalancati su chissà quali sogni.

Il padre di famiglia. Il mio era di poche parole. Le mani nodose  squarciavano il pane, con forza, quasi con brutalità. Con gesto irruente si versava il vino nel bicchiere  e non mangiava ma divorava. Era sempre arrabbiato. Non osavo guardarlo in faccia e aspettavo il solito, il solito stizzito “mangia se vuoi diventare un uomo”. Unico latrato che interrompeva  quel silenzio asfissiante. Mamma sempre zitta, disapprovava quei modi bruschi  e  si alzava di continuo per servire o portare qualcosa in cucina. Aveva un’aria diversa dinanzi a lui,  tra la soggezione  e  la rabbia. Sì, forse rabbia repressa o insofferenza. Capivo che non lo sopportava e  che  nascondeva la sua vitalità a quell’uomo capace solo di trasmettere comandi e dominanza.

Mamma, quel  tuo sorriso dolce era solo per me, me lo regalavi di sera quando mi mettevi a dormire. A volte crollavi in un sonno profondo , mi accoglievi nell’incavo  caldo del tuo corpo e il tuo respiro, calmo e regolare, mi cullava. Quella sensazione di naturale  intimità è per me il rifugio più rassicurante della mia vita.

 Come è diversa la mia famiglia da quella della mia amica Flavia.  Mi è bastato andare solo qualche volta   a casa sua per avere l’ennesima conferma  di come  sia la  mia. Sarei andato volentieri e più spesso a casa sua, mamma però non poteva sempre accompagnarmi, perché da quando ci siamo trasferiti in città lei svolge due lavori per riuscire a provvedere a tutto. Qui non  c’è nessuno che possa aiutarla,  non  ci sono i nonni e le sue amiche, e non ha nemmeno tempo per farsene di nuove. Siamo andati via dalla nostra terra, dalle  nostre radici  quando  ha deciso di lasciarlo. Come se bastasse allontanarsi per riuscire a cancellare il passato e  un uomo  sbagliato. Mio padre. Non sarò mai, mai come lui. Ancora sento la puzza dell’alcool nel suo alito, quando mi toccava sotto perché si  vergognava di me. Mamma si è frapposta e le ha prese. Quegli schiaffi mi hanno marchiato a fuoco. Lei però non ha pianto, la pelle  del viso era livida e  tesa come quella di un tamburo, e si è riscattata in uno   sguardo  che non avevo mai visto prima: gli  occhi, stretti e taglienti, ostentavano un’ aria di sfida, una resistenza a oltranza, una fermezza che non avrei mai immaginato.

Non puoi saperlo, ma in quell’attimo ho svincolato la forza d’animo di tua madre, soffiando sul suo orgoglio ferito. Le donne hanno un’energia nascosta che può  scatenarsi  come una piena incontenibile d’acqua nel momento del bisogno, soprattutto in  difesa dei figli, la loro seconda pelle.

 “Dormi , dormi, vedrai che un giorno  andremo via, lontano. Sei il bambino più bello, angelo mio. Sei il  mio angioletto biondo.”

 Come il mio angelo immaginario, quello custode appollaiato sulla spalla, col quale parlavo da piccolo , mentre ora  parlo tra me e me. Dove sei, angelo maledetto, quando ho bisogno di urlare. Che devo fare? Tutti dicono che sono di poche parole. Sapessero quanto parlo e straparlo dentro di me. A volte ho mal di testa, mi stancano questi ragionamenti, mi opprimono questi pensieri. Troppe domande alle quali non so dare risposte, sentimenti che mi logorano. Ho provato a non deludere nessuno, a passare inosservato, a essere invisibile. Solo lui ho deluso. Non gli bastava che andassi bene a scuola, che fossi educato,  discreto. No. Non ero abbastanza robusto, gagliardo e forte . Come lui.

Colpevole, sì sono colpevole  da anni, da sempre , da quando giocavo con le bambole e non ne ho  mai potuto averne una , mia, solo mia.  Non mi ha mai concesso  il tempo di stringerla, mi ha deriso, lei era un ostaggio virtuale  nelle sue mani. Dopo poco io  sono diventato l’ ostaggio di una sua rabbia incontenibile. L’altra era la sua bambola in carne ed ossa.

Quella ragazza ha cercato di dissuaderlo, ma era un pazzo furioso. L’ha scaraventata per terra, lui  mi trascinava  mentre scalciavo, lei a un certo punto l’ha seguito remissiva. L’ha posseduta davanti a me, con pochi gesti violenti e meccanici. Ecco cosa fa un vero uomo. E io lì che non sapevo più dove guardare, mentre  lei mi sbirciava quasi vergognandosi, finchè ha chiuso gli occhi quasi per sottrarsi alla mia vista. Mi sono voltato verso la finestra. Ero terrorizzato, mi girava la testa, volevo vomitare . Ho sentito dei rumori provenire dal letto, non ho osato voltarmi, una mano mi ha tirato a sé e mi ha obbligato a girarmi. Mi spingeva verso il letto. Mi ha urlato di darmi da fare ,  le ha urlato di darsi da fare, di farmi diventare un uomo. E lei ha provato ad avvicinarsi. Io? Proprio io? Sono indietreggiato fino a raggiungere nuovamente  la finestra. Angelo, ANGELO dove sei?  Vorrei  volare via come te…nei vetri a  stento ho riconosciuto la mia immagine riflessa. Strano come la paura possa trasformare una persona.

 No, era  il male che  ti ha invecchiato di colpo, ha spento la tua innocenza.

 Mi ha chiamato per nome, mi sono voltato. Avrà una decina di anni  più di me, è bella. Ma che vuoi? La guardo sospettoso tra la paura e l’insofferenza. “Non toccarmi.” sibilo. Il suo corpo mi pare una striscia di fuoco, pericolosa, rovente, invadente.

“Fai finta , se no torna dentro.”  “Ma come puoi , cioè come riesci  a sopportare tutto questo?” “ Ci si abitua a tutto, alla fine non ci fai più caso, è come se indossassi una corazza” .E sottovoce mi ha detto cosa dovevo fare, mi ha spogliato e fatto distendere vicino a lei. Mi ha accarezzato  il profilo del viso, seguendo con le dita  il naso, il contorno delle labbra e il mento, ha  scostato con delicatezza i capelli dalla mia fronte sudata.

Mi pulsano le tempie. Mi ricorda qualcosa o qualcuno. Sì le labbra, rosse, della bambola. Il mio gioco proibito, il tabù indigesto per mio padre. Il  grande uomo. Dobbiamo essere tutti come vuole lui, a suo ordine e piacimento. A volte mi sembra febbricitante e più lo è , più mia madre sbianca e diventa piccola e, se potesse,  sparirebbe , si lascerebbe assorbire dalle pareti di casa. Come me.  Mamma  voliamo via insieme.

 

Siamo volati via, in una grande città dove è più facile smarrirsi e distrarsi. Qui puoi mimetizzarti in una  folla anonima e annullarti nell’ affascinante  bellezza dei tramonti tra le cupole che neutralizzano  ogni pensiero. I riflessi di luce nel fiume  vibrano lentamente , segnano un  pacato cammino ondeggiante   che infonde una   calma quiete.  La stessa che mi trasmette Flavia.

 Questa è la città degli angeli, quasi mortali uccelli dell’anima, solenni emblemi della purezza del dolore e del riscatto dalla vita terrena. Non è un caso che tu sia qui.

I ragazzi  però sono irruenti, caciaroni, rasati e con occhiali troppo grandi, sembrano cicale che friniscono al sole. Gridano, schiamazzano per mettersi in mostra, per attirare l’attenzione delle ragazzette. So’  sgallettati, sì sgallettati. Fingo sempre di non vederli, speriamo non mi fermino. A volte, quando ne vedo un gruppetto a metà corridoio durante la  ricreazione, torno indietro, vado di nuovo al bagno e poi aspetto il suono della campanella che segna la fine dell’intervallo per precipitarmi in classe. Durante le lezioni mi sento al sicuro e poi davanti a me c’è Flavia e dietro di me il muro. Me lo sono scelto proprio bene il posto quest’anno.

Da questa postazione strategica  posso guardare fuori la finestra. Arriva la primavera. Gli alberi intorno stanno fiorendo, i fiocchi dei pioppi volteggiano leggeri, impalpabili. La cornacchia è sempre sul ramo, mi guarda, ruota la testa. Che vuoi? Quant’è curiosa, però mi è simpatica. “Ehi sognatore” . Mi  connetto “ Di cosa stavamo parlando? Stai attento!”

Abbozzo un sorriso . Stare attenti a scuola  è quasi un piacere, in fondo. Se sapesse prof.!  Sto sempre attento a dove vado, a  vestirmi per non dare nell’occhio, a quel che dico. Meglio stare zitti, meglio non dire. Parlo solo con Flavia, di lei mi fido. Credono che abbia una cotta per lei.

Poi un giorno un cretino  ha esordito davanti a lei, per fare colpo “ ma che ce stai a  fa’ con ‘sta checca?” e sono arrossito, mi bruciava  tutta la faccia, mi veniva quasi da piangere. Mi sono sentito nudo,  nudo davanti a tutti, e  gli altri a poco a poco si sono voltati in un  silenzio irreale mentre Flavia cercava di difendermi da quelle derisioni  e gli gridava contro. Gli altri si sono avvicinati – ero lo sfigato di turno-  come se fiutassero la preda di un gioco troppo, troppo  pericoloso  e insopportabile per me.  Dio mio fa’ che non  mi leggano dentro. Lei non mi ha mai chiesto nulla e per questo l’ho sempre apprezzata. Cosa ho di diverso dagli altri, se non più sfiga, paure e incertezze.

 “Non lo fare più …” un silenzio, uno dei tanti, ma  non c’è solitudine in questo. “ Ti voglio bene”.

Le sorrido. Vorrei risponderle ma  ho un nodo in gola e non riesco ad aprire la bocca impastata  . “ Scusa mamma, non ce la faccio più. Ti prego perdonami” Solo questo sono riuscito a scrivere. Sono stanco, chiudo gli occhi. Vorrei tanto dormire, davvero .

 

 Mi ossessiona l’idea di doverlo rivedere. “La stima del padre si conquista gradualmente.” L’ho letto da qualche parte.” Il padre ti lancia in alto per farti sentire l’entusiasmo   della vita, e ti riprende con braccia forti e sicure per darti slancio verso il futuro .” Forse quello di Flavia. Il mio, possa crepare. Bestia! È una bestia anche se le bestie non vanno contro natura. Solo l’uomo è capace di tanto. Oggi gli spetta  vedermi, io non voglio, mamma non sa nulla , ma l’ultima volta che sono scappato sono stati guai con l’avvocato. Ma perché devo vedere ‘sto stronzo? Non ho nulla da dirgli, ho  paura di stare con lui.

La campanella. È ricreazione. Mi sento un peso dentro, non ce la faccio più, mi trascina giù. Le ali  sono rattrappite sotto le ascelle, voglio volare, via via via  senza affanni, senza più  ansie.  La luce, ho bisogno di aria, di luce, libero, libero, finalmente libero. 

Forza, chiudi gli occhi, chiudo gli occhi, un bel respiro. Apri la finestra, apro la finestra, fiuta l’aria. L’aria di primavera mi smuove un po’ i capelli, la sento sulla pelle.  La  mia primavera. Mi pulsano le tempie, sento il battito, i battiti, i battiti,  il cuore accelera, i battiti si rincorrono, li sento, sento il mio respiro sempre più veloce, respira forte, respiro, respiro, mi pulsano le tempie… Via, via  da un posto sbagliato, da una famiglia sbagliata, da un corpo sbagliato.

 

A volte la realtà supera ogni immaginazione, nulla è purtroppo più scandaloso della realtà. Figlio di un padre, figlio di tutti  forse non eri nel posto sbagliato. Ho cercato di attutire la tua caduta, affinchè tu possa presto  spiccare il volo verso un futuro sereno, il più in alto e lontano possibile da infondati  sensi di colpa, e  riconciliarti con te stesso e con la vita. C’è tempo per volare via con me.

 

La violenza sulle donne: da patologia a fenomeno socio-culturale che si manifesta in varie forme e stereotipi.

Negli anni Sessanta  psichiatri e psicologi studiarono gruppi clinici di uomini violenti: l’aggressività maschile fu spiegata o  con caratteristiche psicologiche del soggetto, devianti dalla norma, oppure fu considerata come una reazione dell’uomo ad un comportamento della donna “non sufficientemente femminilizzato” perché poco remissivo e disponibile. Insomma il  fenomeno della  violenza fu addebitato ad  una patologia e l’aggressione maschile fu quasi giustificata perché si tendeva a colpevolizzare la donna  per la violenza subita ( della serie:“ se l’è cercata”- che ancora sopravvive).

Dagli anni Settanta in Europa e dieci anni più tardi  in Italia, la violenza sulle donne è stata riconosciuta  come un fenomeno dovuto alla relazione tra i sessi ed  è venuta allo scoperto grazie anche all’attività dei Centri Antiviolenza che sostengono in vario modo  le donne offrendo ascolto, consulenza, assistenza giuridica, accoglienza in strutture a tutela di donne e bambini maltrattati.  Da anni si creano reti a sostegno delle donne in cui istituzioni ed associazioni cooperano ciascuno nel proprio ambito di competenze per fronteggiare il fenomeno con interventi mirati .Ciò non solo quando il fatto è già avvenuto e viene denunciato, ma anche a scopo di prevenzione con progetti finalizzati alla diffusione della cultura di genere grazie ad operatori dei servizi sociali e delle forze dell’ordine, dei servizi sanitari e della scuola.

La donna sta acquisendo consapevolezza: dalla considerazione di una donna,  fragile e passiva vittima “predestinata”, si passa sempre più a quella di una donna come soggetto attivo, credibile, forte, che reagisce per proteggere se stessa e i  figli dalle varie forme di prevaricazione.

 Esistono vari tipi di violenza  sulle donne e molti stereotipi e luoghi comuni su questo fenomeno, a partire da quello che sia una moda parlarne, giusto per fare audience. Riprendo le definizioni dal portale antiviolenzadonna.it, Presidenza del Consiglio dei Ministri- Dipartimento  per le  Pari Opportunità, che invito a visitare per ulteriori approfondimenti. È importante conoscere i vari aspetti del fenomeno perché  la donna in difficoltà rischia di cadere in un ciclo di violenze, sempre più frequenti e gravi, a seconda della risposta che riceve alla sua prima richiesta di aiuto all’esterno, del sostegno o del mancato sostegno che trova nei familiari non abusanti, nelle amiche o nei professionisti. È quindi necessario che come cittadini comprendiamo il fenomeno per essere in grado di sostenere la donna maltrattata, indirizzandola verso specialisti che possano supportarla a livello psicologico e fornirle protezione ed assistenza, altrimenti il percorso di ricerca di aiuto diventa lungo e difficile e può concludersi in un tragico epilogo. Ogni donna reagisce in modo diverso di fronte alla violenza, ha diverse capacità di sopportazione e consapevolezza: c’è chi reagisce al primo episodio, chi aspetta che lui cambi, chi chiede aiuto solo quando si giunge a violenze aberranti ed insopportabili. L’iniziale coscienza che si è di fronte ad un problema irrisolvibile da soli, già crea nella donna una profonda sofferenza.

 

Tipi di violenza. 

Violenza sessuale

È ogni imposizione di pratiche sessuali non desiderate: coercizione alla sessualità, essere umiliata o brutalizzata durante un rapporto sessuale, essere obbligata a ripetere scene pornografiche, essere prestata ad un amico per un rapporto sessuale.

 

Maltrattamento fisico

È ogni forma d’intimidazione o azione in cui venga esercitata una violenza fisica su un’altra persona. Comprende comportamenti quali: spintonare, costringere nei movimenti, sovrastare fisicamente, rompere oggetti come forma di intimidazione, sputare contro, mordere, tirare i capelli, gettare dalle scale, picchiare, bruciare con le sigarette, privare di cure mediche o del sonno, sequestrare, strangolare, ferire, uccidere.

 Maltrattamento economico

È ogni forma di privazione e controllo che limiti l’accesso all’indipendenza economica di una persona. Include comportamenti quali: privare delle informazioni relative al conto corrente e alla situazione patrimoniale e reddituale del partner, non condividere le decisioni relative al bilancio familiare, costringere la donna a spendere il suo stipendio nelle spese domestiche, costringerla a fare debiti, tenerla in una situazione di privazione economica continua, rifiutarsi di pagare un congruo assegno di mantenimento o costringerla ad umilianti trattative per averlo, licenziarsi per non pagare gli alimenti, impedirle di lavorare, sminuire il suo lavoro, obbligarla a licenziarsi, a cambiare tipo di lavoro oppure a versare lo stipendio sul conto dell’uomo.

 Maltrattamento psicologico

La violenza psicologica accompagna sempre la violenza fisica ed in molti casi la precede. È ogni forma di abuso e mancanza di rispetto che lede l’identità della donna. Il messaggio che passa attraverso la graduale violenza psicologica è che chi ne è oggetto è una persona priva di valore e questo può determinare in chi lo subisce la successiva accettazione di altri comportamenti violenti. Il maltrattamento psicologico procura una grande sofferenza e si manifesta in vario modo: disistima, distorsione della realtà oggettiva, comportamento persecutorio (stalking),eccessiva attribuzione di responsabilità e colpe, indurre senso di privazione e paura cronica.

 

Sono tanti gli stereotipi e i luoghi comuni  sulla violenza.

Si crede che…

 

la violenza verso le donne sia un fenomeno poco diffuso. Invece è un fenomeno esteso, anche se ancora sommerso e per questo sottostimato. Ci sono molte donne che hanno alle spalle storie di maltrattamenti ripetuti nel corso della loro vita.

 la violenza verso le donne riguardi solo le fasce sociali svantaggiate, emarginate, deprivate. Invece è un fenomeno trasversale che interessa ogni strato sociale, economico e culturale senza differenze di età, religione e razza.

 le donne siano più a rischio di violenza da parte di uomini a loro estranei.Invece i luoghi più pericolosi per le donne sono la casa e gli ambienti familiari, gli aggressori più probabili sono i loro partner, ex partner o altri uomini conosciuti: amici, familiari, colleghi, insegnanti, vicini di casa.

 solo alcuni tipi di uomini maltrattino la propria compagna.Invece, come molti studi  documentano, non è stato possibile individuare il tipo del maltrattatore; né razza o età o condizioni socioeconomiche o culturali sono determinanti. I maltrattatori non rientrano in nessun tipo specifico di personalità o di categoria diagnostica.

 la violenza non incida sulla salute delle donne. Invece la violenza di genere è stata definita dall’OMS come un problema di salute pubblica che incide gravemente sul benessere fisico e psicologico delle donne e di tutti coloro che ne sono vittima.

 la violenza verso le donne sia causata da una momentanea perdita di controllo. Invece la maggior parte degli episodi di violenza sono premeditati: basta solo pensare al fatto che le donne sono picchiate in parti del corpo in cui le ferite sono meno visibili.

 i partner violenti siano persone con problemi psichiatrici o tossicodipendenti. Invece credere che il maltrattamento sia connesso a manifestazioni di patologia mentale ci aiuta a mantenerlo lontano dalla nostra vita, a pensare che sia un problema degli altri. Inoltre la diffusione della violenza degli uomini contro le donne esclude che si tratti di la possibilità della devianza, dell’eccezionalità.

 gli uomini violenti siano stati vittime di violenza nell’infanzia. Invece il fatto di aver subito violenza da bambini non comporta automaticamente diventare violenti in età adulta. Ci sono infatti sia maltrattatori che non hanno mai subito o assistito a violenza durante l’infanzia, sia vittime di violenza che non ripetono tale modello di comportamento.

 alle donne che subiscono violenza “piace” essere picchiate, altrimenti se ne andrebbero di casa.Invece paura, dipendenza economica, isolamento, mancanza di alloggio, riprovazione sociale spesso da parte della stessa famiglia di origine, sono alcuni dei numerosi fattori che rendono difficile per le donne interrompere la situazione di violenza.

 la donna venga picchiata perché se lo merita. Invece nessun comportamento messo in atto dalle donne giustifica la violenza da loro subita ed inoltre gli episodi di violenza iniziano abitualmente per futili motivi.

 i figli abbiano bisogno del padre anche se violento. Invece gli studi a questo riguardo dimostrano che i bambini crescono in modo più sereno con un genitore solo piuttosto che in una famiglia in cui il padre picchia la madre.

 anche le donne sono violente nei confronti dei loro partner.Invece una significativa percentuale di aggressioni e di omicidi compiuti dalle donne nei confronti del partner, si verifica a scopo di autodifesa e in risposta a gravi situazioni di minaccia per la propria sopravvivenza. Inoltre, quando esiste si configura in modo diverso e raramente assume le caratteristiche di sistematicità e lesività che caratterizzano il maltrattamento maschile.

  Che fare quando si subiscono o si viene a conoscenza di situazioni ad  alto rischio di letalità? Rivolgersi a Centri Antiviolenza  presenti sul territorio o comunque  telefonare a numeri di pubblica utilità che offrono un servizio di accoglienza telefonica per le vittime di violenza e  da una Rete nazionale Antiviolenza approdano a referenti locali degli Ambiti territoriali di rete (cioè  Comuni, Province o Regioni, con le quali il Dipartimento per le Pari opportunità stipula un Protocollo d’Intesa per  sensibilizzare e contrastare la violenza di genere – Progetto Arianna)

 Il numero  1522 ANTIVIOLENZA DONNE offre :

 –          un Servizio di Accoglienza Telefonica multilingue, attivo 24 ore su 24 per tutti i giorni dell’anno e garantisce l’anonimato di chi telefona. A tutte le chiamate provenienti dal territorio nazionale dà informazioni  ed un corretto accompagnamento guidato ai servizi operanti sul territorio.

–          un Servizio di Accoglienza Specialistico attivo nei giorni lavorativi, che dà una consulenza specialistica a donne in specifiche situazioni di difficoltà (mancanza di servizi territoriali di supporto, condizione di grave isolamento, criticità emotiva etc.)

Per emergenze più specifiche vedere qui  e chiamare ai seguenti numeri

800 290 290 ANTITRATTA

800 300 558 CONTRO LE MUTILAZIONI GENITALI FEMMINILI 

 

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Nel 2008 una nota della Presidenza del Consiglio dei Ministri inviata dal Sottosegretario di Stato per i diritti e le pari opportunità invitava le scuole a riflettere su un fenomeno che sembrava assumere sempre più caratteri di “emergenza sociale”.

“ In Europa  tra le cause di morte delle donne  di età compresa tra i 16 e 44 anni, le brutalità commesse tra le mura domestiche  sono in testa alle statistiche , prima degli incidenti stradali e del cancro. In Italia  i  dati di un’indagine ISTAT pubblicata lo  scorso febbraio, stimano in quasi 7 milioni (31,9% delle donne di età tra i 16 e 70 anni)  le donne che hanno subito violenza fisica o sessuale nel corso della vita ( il 23,7% violenze sessuali, il 18,8% violenze fisiche, più del 10% entrambe). Nell ’ultimo anno un milione 150mila donne hanno subito violenza.  Circa un milione stupri o tentati stupri ad opera del partner o conoscente. Quasi un milione e mezzo di donne hanno subito violenze sessuali prima dei 16 anni e in un quarto di casi ad opera di un parente. In due terzi dei casi è stata ripetuta. Alla violenza fisica e sessuale si associa spesso quella psicologica. Dalle interviste risulta che il 95% dei casi di episodi di violenza non sono stati denunciati e un terzo delle donne non ne ha parlato con nessuno.

L’AOGOI (Associazione ostetrici ginecologi ospedalieri italiani) denuncia  che le violenze domestiche sono la seconda causa di morte in gravidanza, dopo l’emorragia, per le donne dai 15 ai 44 anni.

Il Ministero delle pari opportunità, impegnato  da tempo in  una politica di contrasto, ritiene che si debba affrontare il fenomeno sul piano culturale per incidere sui modelli di identità di riferimento: è un’emergenza per un paese come il nostro che vuole essere civile e democratico. La scuola come comunità educante, nella costruzione di percorsi formativi , può fare molto perché i ragazzi e le ragazze crescano insieme nel rispetto reciproco  delle proprie identità.”

 Dopo questo bollettino di guerra tra i sessi, percepii allarmismo sociale che però mi pare ancor oggi confermato dai sempre più frequenti fatti di cronaca.Scrissi  questo post nel settembre del 2008, ma  esitai a lungo a pubblicarlo in quanto  molto personale e triste perché si riferisce a fatti e persone che ho conosciuto sia  in piccoli paesi di provincia  che in  una metropoli, capitale delle contraddizioni dove alla devianza e all’arte di arrangiarsi fanno da contrappasso la vivacità culturale, l’umanità e l’ironia della sua gente . In questi anni l’elenco delle donne maltrattate si è allungato, includendo anche  ragazze e donne che mai avrei immaginato così in difficoltà. Decisi di aprire un blog e di scrivere sulla violenza contro le donne , per raccontare, argomentare, sensibilizzare e purtroppo ne vedo  ancora confermata  la necessità.

 Ricordo   una compagna di classe sempre silenziosa e assorta, principessa di un talamo proibito, e  una ragazzina rimasta vedova a diciassette anni  con  un bambino di diciotto mesi di cui era madre e sorella; quest’ultima fu convinta a  sposare un ragazzo poco più grande di lei, morto ammazzato dopo un anno di matrimonio. Ripenso a  R. di cinquant ’ anni  sottratta dal figlio adolescente  ai calci e pugni di un marito manesco, a  M .scappata lontano dalle botte del compagno,con due dei tre figli, forte  del miraggio di un nuovo amore, a  S.  picchiata sistematicamente dal marito anche quando era incinta…la rabbia e la consapevolezza  di un’età più matura l’hanno cambiata e, dopo quasi venti  anni di matrimonio, lei aspetta un lavoro fisso per  troncare col passato e quell’ uomo che oggi piange dicendo che è cambiato anche lui. Rivedo S., che è riuscita a rifarsi una vita dopo anni con un marito che la ossessionava, e M. che nel figlioletto ha trovato la forza di lasciare il marito che la mandò all’ospedale per avere leggermente scostato il lenzuolo mentre di notte allattava il bambino. Cito E., un uomo, che ha deciso di amare, ridare il sorriso e  un nuovo figlio a L . e sostenere lei e i suoi  quattro figli dopo che lei osò  denunciare l’ex marito, uomo  e padre  violento.

Non dimentico  una ragazza dell’est in una caotica  stazione ferroviaria: il volto completamente viola, troppo tumefatto per essere caduta dalle scale, e due trolley  enormi  per contenere quanto più possibile, compreso  il mio tacito  augurio di buona fortuna.

Ricordo una ragazzina allo sbando tra  droga, sesso e rock’n roll per sfuggire ad una situazione di grave disagio familiare; voleva continuare a studiare e si preoccupava che  la sorellina più piccola non facesse le sue scelte. Indelebili nella memoria le ragazzine dai 10 ai 15 anni  che il Tribunale dei Minori  di una grande città aveva tolto alle famiglie e che aiutavo durante le attività del doposcuola. A volte in contesti “particolari” l’abiezione  è vissuta come  normale perché non si ha l’opportunità di conoscere alternative di vita veramente normali , compresa la  specificità  dei ruoli parentali .

Anni fa  una madre ventenne mi disse  “mio figlio deve studiare, non deve crescere disgraziato come me, né essere fetente come suo padre”. Aveva occhi azzurri, profondi e un po’ duri, lineamenti delicati, il viso tirato e stanco, tacchi alti e  calze a rete smagliate.

Scrivo però per A. che frequentava una stazione ferroviaria. La vedevo spesso di sera quando tornavo a casa perché  prendeva il  mio treno. Una volta la vidi  implorare una dose a  un ceffo  che la  derideva e la molestava davanti ad un gruppo di derelitti per mostrare quanto lei  fosse incapace di reagire, scheletrica e  senza denti. Una sera A. si sedette vicino a me e iniziò a raccontarsi. Mi chiese  se fossi  sposata . Le risposi che non ci pensavo nemmeno e che  studiavo; avevo 22 anni, lei due meno di me. Mi raccontò una storia purtroppo comune, priva di affetti familiari, fatta di degrado , di un amore sbagliato che la iniziò alla tossicodipendenza e alla prostituzione, di un figlio sottrattole alla nascita, di tentativi inutili di smettere e  di una deriva   inarrestabile in una periferia troppo povera. Se ne andò appoggiandosi ad un ragazzo per raccogliere quanto rimaneva nelle siringhe abbandonate lungo i binari. Pareva una di quelle farfalle che hanno perso la polvere magica dalle ali e annaspa per terra. Qualche sera più tardi  A. volò via ai piedi della scalinata della stazione, finalmente libera dalla dipendenza e dalle mortificazioni.

 È stato un caso incontrarla? Due solitudini diverse: io impegnata a costruirmi un futuro mentre lei voleva dimenticare un passato ingombrante e sopravvivere al presente.

 E ancora adesso penso a quelle ragazzine, ormai  donne.  Alcune stavano prendendo coscienza  di quanto subìto, altre non accettavano il distacco da quella che era comunque la loro famiglia, anche se degenere , la cui costante fissa  era l’assenza o latitanza della madre e  l’istinto del possesso brutale da parte di familiari, spesso  la mancanza di consapevolezza, a volte  la solitudine e l’incapacità di reagire. Saranno riuscite a conciliarsi con se stesse  per sorridere ed amare ? Una volta un medico un po’ cinico mi disse: “Qui per cambiare le cose, certi neonati andrebbero soppressi nella culla o tolti subito alle famiglie”. In tutte queste donne ho sempre colto un grande disorientamento e  sofferenza. Certe storie e certi occhi non si dimenticano, mai.

 Dopo tanto tempo  mi chiedo come  mai sia cambiato ben poco. Quasi ogni giorno i mass media  denunciano  casi di violenza , tentata, episodica, sistematica su bambine e donne …testimonianze delle  ragioni della forza, del disprezzo, della frustrazione inconscia, di una rabbia e bestialità indomabili, di una mentalità arretrata e irrispettosa.

 

Nel 2008 decisi di aprire un blog  anche per  dare voce a voi donne che a fatica avete acquisito o state acquisendo consapevolezza, al vostro  silenzio, al vostro   isolamento, al senso di  impotenza e di vergogna…perché ognuna di voi   aveva diritto a quella  parte di cielo che vi è stata  negata durante quelli che dovevano essere gli anni più belli e spensierati, e perchè qualcuno   riesca a capire che c’è violenza e abuso anche quando si approfitta consensualmente  della   giovane età , della miseria o della disperazione e riesca a vedere un’anima oltre le ali di farfalla.

 

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Da Cicatrici di guerra: il Clan delle Cicatrici

 

La cosa più importante è che si continui ad agire perché i poveri contino. Ci incontreremo ancora. Ci incontreremo sempre. Ci incontreremo in tutto il mondo, in tutte le chiese, le case, le osterie. Ovunque ci siano uomini che vogliono verità e giustizia (Don Andrea Gallo)

 

È stato per cinquant’anni un prete di strada e da quaranta ha fondato la Comunità di San Benedetto al Porto di Genova. È stato un salesiano, un  missionario in Brasile, cappellano  alla nave scuola della Garaventa , riformatorio di minori. Più tardi diventò agli occhi della Curia un prete scomodo che per decenni  ha operato in Italia, soprattutto a Genova, sempre vicino ai poveri, alle prostitute, ai tossicodipendenti, agli emarginati di quelle zone ghetto dove si annidano tristi storie di degrado ma a volte può germogliare un’umana solidarietà.

Chi riesce per tutta la vita a praticare in concreto il messaggio del più grande rivoluzionario della storia , cioè Cristo, e anche a ergersi contro corrente è un uomo di  straordinario spessore e  di grande umanità , di fede e giustizia . Uomini di tal fatta sono rari, sono  un esempio di vita per tutti, per chi crede e chi non crede. Don Andrea Gallo credeva in Dio ma soprattutto nell’uomo, e ha dato una mano,  una speranza e voce agli invisibili, cioè a  uomini, donne e ragazzi, di ogni età e provenienza, spesso ignorati .

Lo ricordo con un brano tratto dal suo libro “Così in terra come in cielo”, tratto da qui .

Grazie, Don Gallo.

 

“Mi hanno rubato il prete”.

Fui rimosso dall’incarico nel 1963. La motivazione ufficiale non la conosco ancora, però sospetto abbia a che fare coi miei metodi “licenziosi”. Nel gennaio 1965 mi spedirono come viceparroco alla Chiesa del Carmine, in pieno centro storico, sotto l’Albergo dei poveri. Era un quartiere popolare, di portuali e operai, con abitazioni inagibili e un mercato rionale quasi indecente. Giravo nei vicoli, sostavo fra i banchi, passavo in edicola, discutevo col salumiere che era convinto che mi piacesse il prosciutto ma comprassi la mortadella perché ero tirchio e volevo spendere meno. La zona era anche frequentata da famiglie borghesi in quanto vicinissima all’Università e al Liceo Colombo, dove nel ’68 nacque il movimento studentesco. Fu un periodo di grandi stravolgimenti: con il Concilio Vaticano II la Chiesa decideva di leggere i segni dei tempi, i giovani si impegnavano nel sociale, dibattevano sulla riforma scolastica e la guerra in Vietnam, nascevano piccole comuni, cresceva la partecipazione civile. Fu un risveglio e un contagio di idee, una primavera a tutti gli effetti. La mia parrocchia diventò un punto di riferimento, l’agape, un luogo di forte comunione e sinergia. Alla messa di mezzogiorno trattavo i temi di attualità, ero nettamente schierato al fianco degli ultimi, cominciai a tenere due leggii: da una parte il Vangelo, dall’altra il giornale. Evidentemente qualche zelante non approvava le mie omelie e avvisò la Curia. L’episodio che scatenò l’indignazione dei benpensanti fu la mia predica alla scoperta di una fumeria di hashish nel quartiere. Invece di inveire contro chi rollava qualche spinello ricordai quanto fossero diffuse e pericolose altre droghe, per esempio quella del linguaggio, talmente fuorviante che poteva tramutare “il bombardamento di popolazioni inermi” in “un’azione a difesa della libertà”. Apriti cielo.

Il parroco Don Emilio Corsi per ordini superiori dovette registrare di nascosto le mie prediche, poi mi chiese scusa, dimostrandomi tutto il suo affetto, e si rifiutò di continuare. Ma ormai la Curia aveva stabilito che promuovevo la politica e non il Vangelo e nel 1970 mi inviò un provvedimento di espulsione.

Addirittura il vescovo Chiocca telefonò a mia madre chiedendole di fare pressioni su di me affinché scegliessi “obbedienza o catastrofe”. Optai per l’obbedienza e per loro fu una catastrofe. Prima della mia partenza ci fu una sollevazione popolare inaspettata. Tutta la città reagì, tanto che della storia di questo pretino si dovettero occupare anche i quotidiani, perfino Le Monde seguì la vicenda e scrisse che “avevo il torto di essere stato fedele al Concilio.”

Le gente del quartiere inviò una lettera di protesta con 2370 firme (a cui non seguì alcuna risposta), organizzò una veglia di preghiera, occupò la chiesa per esprimere totale disapprovazione al mio allontanamento. Il 1 luglio 1970, mentre io stavo barricato in una trattoria, venni chiamato in piazza e lì trovai oltre duemila persone a manifestare. Rimasi colpito. Avevo deciso di non contestare il provvedimento, invece capitai nel bel mezzo di una mobilitazione popolare, dove il professore universitario teneva a braccetto lo spedizioniere, il fabbro la vecchietta, i figli delle prostitute alzavano i cartelli insieme ai figli dei grandi professionisti. Che commozione. Mi diedero un megafono e questo fu il mio saluto: “E’ vero, esiste un profondo dissenso fra me e la Curia, ma un dissenso di amore e di profonda, convinta ricerca della verità. La cosa più importante è che si continui ad agire perché i poveri contino. Ci incontreremo ancora. Ci incontreremo sempre. In tutto il mondo, in tutte le chiese, le case, le osterie. Ovunque ci siano uomini che vogliono verità e giustizia.

” Il 1 luglio 1970 un bambino piangeva sugli scalini della mia chiesa e quando il vigile gli chiese perché, lui rispose: “Mi hanno rubato il prete”. 

Per Genova – 7 maggio 2013

Vasto, dentro un odor tenue vanito

Di catrame, vegliato da le lune

Elettriche, sul mare appena vivo

Il vasto porto si addorme;

S’alza la nube delle ciminiere

Mentre il porto in un dolce scricchiolìo

Dei cordami s’addorme: e che la forza

Dorme, dorme che culla la tristezza

Inconscia de le cose che saranno

E il vasto porto oscilla dentro un ritmo

Affaticato e si sente

la nube che si forma dal vomito silente.

 (da “Genova” – Dino Campana)

 

‘A fatica

È una necessità , un’ambizione, una passione, una vocazione, una missione, una fortuna . A volte frustrazione e rinuncia. Una sfida. Indipendenza e dipendenza, flessibilità, mobilità, sedentarietà, movimento, lontananza. Crescita, progresso, relazione, interesse, confronto, competizione, creatività, ingegno, manualità, talento, concentrazione, soddisfazione o scontento, ripetitività, alienazione, allenamento e resistenza. Operosità. Responsabilità.

Assorbe, sfibra, motiva, gratifica, stanca, logora, stressa, arricchisce, sfrutta, condiziona, orienta. Tempra. Mette in gioco… a volte in discussione. Costruisce un progetto di vita più ampio, dà dignità e identità sociale, nobilita, talvolta abbrutisce.

 Qualunque esso sia, è il lavoro: investimento di tempo, energie, risorse, capacità, competenze, potenzialità, impegno, costanza, fatica. Diritto della persona e dovere sociale.

Morire sul lavoro è cadere con onore sul fronte di una quotidianità che appartiene a tutti.La morte bianca assolve nel martirio ma ci condanna a un intimo dolore.

 Oggi aggiungo che  i suicidi dei nuovi martiri del lavoro  ci marchiano a fuoco  con un bruciante  senso di colpa di fronte a tanta impotenza e negazione di questo basilare diritto-dovere. Sono tempi difficili in cui c’è ben poco da festeggiare; è tempo di aiutare concretamente i disoccupati e coloro che vivono il lavoro in condizioni di precarietà e di sfruttamento. È tempo  di dare  risposte sociali più concrete, di garantire ‘a fatica. 

La casa

Scrissi questo post il 10 aprile 2009, nel giorno del mio compleanno, per i terremotati dell’Aquila pensando  tanto a una casa, punto di riferimento della mia vita tra le tante che ho abitato, strattonata dal  terremoto del 1980.

Oggi ripubblico questo post per tutti coloro che hanno vissuto e vivono ancora  gli effetti devastanti dei terremoti e delle alluvioni perché non siano dimenticati e trovino la forza di ricostruire, in tanti sensi.

 “Mai come quest’anno la Passione è tangibile negli sguardi che rivelano sgomento, muto dolore, disorientamento, fragilità emotiva, sofferenza dell’anima. Difficile recuperare quando si resta colpiti negli affetti e nelle radici più profonde, quando si perdono i punti di riferimento della propria storia personale, del senso di appartenenza collettiva, sia sociale che culturale. Tutto sembra ruotare intorno a quei feretri di pietre che svelano spudoratamente mobili rotti, piccole cose a ricordo di chi ha vissuto tra quelle mura, ormai violate e annientate.

Se i muri delle case potessero parlare, narrare saghe familiari,vicende personali, le tante passioni che vi hanno dato vita con amori, nascite, cambiamenti, abbandoni. La casa raccoglie il tempo vissuto. Nelle sue fondamenta e nei  muri portanti affondano le nostre radici. La casa non ruba mai. Nasconde nel perpetuarsi di generazioni la ciclicità delle stagioni della vita. Non importa se sia grande o piccola, modesta o lussuosa. È la casa. La casa che offre rifugio e sicurezza. Un punto di partenza e di approdo, quasi un padre adottivo che vincola, orienta, accoglie comunque. Si affaccia sulle strade di vite diverse, scalda cuori, culla sogni, speranze e riposi.

 Quando crolla una casa si perde parte di sè, di quel tempo trascorso, costato fatica, fede, gioia, entusiasmo e conquiste. È un lutto di radici, perdita di un qualcosa che appartiene più di quanto si creda e di cui ci si accorge quando non si possiede più. Con essa si perde una certezza, un testimone silenzioso della propria interiorità perché non è   solo un recinto di quattro mura, ma uno specchio dell’anima e della propria quotidianità,  visibili a chi ci si proietta dentro. Le sue voci e rumori accompagnano, la sua violazione ferisce come un’intima violenza, il suo danneggiamento è un’amputazione di parte di sè, la sua distruzione è uno strappo lancinante.

 Quando si cambia casa si ricomincia di nuovo. A volte dal niente, a volte recuperando un quadro, un mobile, oggetti utili o cari per mantenere un legame col passato e ció che rappresenta. A tutto c’ é rimedio tranne che alla morte. È vero. Una casa si ricostruisce, ma la precedente, quella che rappresenta l’infanzia o fasi della vita significative, non si dimentica. Mancano i suoi odori, le sue correnti d’aria, luci e ombre, silenzi e rumori, geometrie di leggere aperture e massicce chiusure, i suoi difetti e pregi che la rendevano unica e speciale, la spazialità delle piccole cose che le davano una dimensione e un ordine a volte illogico ma funzionale, un significato comprensibile a chi la viveva.

La casa cambia quando vengono a mancare le sue persone. Cessa quell’ empatia di passi, di discreta intesa, di intima dialettica. Perde la sua voce originaria per acquisirne e ricrearne una nuova.

 Una nuova casa svelerà arcani segreti in altro modo. Sprigionerà un’altra atmosfera, un altro calore,  un’ altra semplice e sicura certezza. Sì sicura certezza: perché la casa deve essere un tempio che custodisce la sacralitá della vita e degli  affetti che danno significato all’esistenza. Non dovrebbe mai essere una tomba di lacrime e sangue, come quelle macerie che hanno unito nel dolore tutta l’Italia.”

 

Il grande pi greco

 

La data  14 marzo richiama il 3,14 cioè il  ᴫ (pi greco) ed è un giorno dedicato all’affascinante Signor ᴫ

Il grande pi greco

 

 Degno di meraviglia è il numero pi greco

tre virgola uno quattro uno.

Le sue cifre seguenti sono ancora tutte iniziali,

cinque nove due, perché non ha mai fine.

Non si fa abbracciare sei cinque tre cinque con lo sguardo,

otto nove con il calcolo,

sette nove con l’immaginazione,

e neppure tre due tre otto per scherzo, o per paragone

quattro sei con qualsiasi cosa

due sei quattro tre al mondo.

Il più lungo serpente terrestre dopo una dozzina di metri s’interrompe.

Così pure, anche se un po’ più tardi,  fanno i serpenti delle favole.

La fila delle cifre che compongono il numero Pi greco

non si ferma al margine del foglio,

riesce a proseguire sul tavolo, nell’aria,

su per il muro, il ramo, il nido, le nuvole, diritto nel cielo,

per tutto il cielo atmosferico e stratosferico.

Oh come è corta, quasi quanto quella di un topo, la coda della cometa!

Quanto è debole il raggio di una stella, che s’incurva nello spazio!

Ed ecco invece due tre quindici trecento diciannove

il mio numero di telefono il tuo numero di camicia

l’anno mille novecento settanta tre sesto piano

numero di abitanti sessanta cinque centesimi

giro dei fianchi due dita una sciarada e una cifra,

in cui vola vola e canta, mio usignolo

e si prega di mantenere la calma,

e così il cielo e la terra passeranno,

ma il Pi greco no, quello no,

lui sempre col suo bravo ancora cinque,

un non qualsiasi otto,

un non ultimo sette,

stimolando, oh sì, stimolando la pigra eternità

a durare.

 

Wislawa Szymborska

Da Cicatrici di guerra: il Clan delle Cicatrici

Una delle tante ragioni per cui ho iniziato a scrivere riguarda  la violenza contro le donne per raccontare, commentare , indignarmi sulle tante forme di discriminazione, abuso, maltrattamento, intolleranza contro la donna, alcune abiette e lontane , altre più subdole e sottili . Pian piano riprenderò questo tema, purtroppo sempre attuale.

Il femminicidio in atto è più evidente e denunciato, e non bastano solo le parole per fermarlo e interventi giudiziari per reprimerlo. Occorre una cultura che promuova il rispetto dell’identità di genere,  basata sull’ affettività e sul riconoscimento delle rispettive diversità, emozioni e sentimenti,  che insegni a trasporsi nell’ altro, per prevenire la violenza non solo contro le donne, ma contro tutti coloro ritenuti diversi o comunque percepiti come contrapposti. La rabbia latente esplode con un’aggressività che rivela l’incapacità di gestire le proprie emozioni e riconoscere quelle altrui non solo  in fondamentali svolte di vita, ma anche  in occasione di una partita di calcio o di  un parcheggio negato.

 Spesso in  occasione della Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne ho esortato a uscire dal silenzio .Oggi parlo del segreto, di quelle cose che  le donne non riescono a  dire ma, se svelate, con consapevolezza e aiuto-  ascolto esterno, può consentire alle vittime di violenza a recuperare l’istinto alla vita, quello che Clarissa Pinkola Estés nel saggio “Donne che corrono coi lupi” ed Frassinelli , definisce la Donna Selvaggia intesa come forza psichica potente, istintuale e creatrice, a volte soffocata da paure, insicurezze e stereotipi.

Non basta segnalare il  crimine, occorre trovare dentro di sè la forza di svelare il segreto per poter reagire. Ci sono strutture e persone in grado di recepire e aiutare nei centri anti violenza. Tante sono le denunce ma  un’esigua percentuale di donne si presenta ai colloqui per una consulenza psicologica, sebbene sia tutelata la loro privacy, perché permane non solo la paura di ritorsioni ma soprattutto la remora di svelare il segreto, di rivivere l’esperienza dolorosa.  Parlare ed elaborare il lutto ci fanno risorgere dalla zona morta, ci consentono di lasciarci alle spalle il culto mortale dei segreti. Dal lutto usciremo bagnate dal pianto non dalla vergogna. Solo così forse si  potrà tornare a vivere, anche se cambiate. È un atto d’amore  verso noi stesse oltre che una testimonianza utile per tutti.

 Da Cicatrici di guerra:il Clan delle Cicatrici 

 Le lacrime sono un fiume che vi conduce a qualche parte. Il pianto crea attorno alla barca un fiume che porta la vostra vita- anima. Le lacrime sollevano la vostra barca al di sopra degli scogli, delle secche, portandovi in un posto nuovo, migliore.

Esistono oceani di lacrime che le donne non hanno mai pianto, perché sono state addestrate a portare i segreti della madre e del padre, i segreti degli uomini, i segreti della società, e i loro segreti giù nella tomba. Il pianto della donna è stato considerato piuttosto pericoloso, perché allenta le serrature e i chiavistelli sui segreti che porta. In verità, per il bene dell’anima selvaggia, è meglio piangere. Per le donne le lacrime sono l’avvio dell’iniziazione nel Clan elle Cicatrici, questa tribù eterna di donne di ogni colore, di tutte le nazionalità, di tutte le lingue, che attraverso le epoche hanno vissuto qualcosa di grande, e hanno conservato l’orgoglio.

Tutte le donne hanno storie personali ampie nella portata e possenti nel numen, come nelle favole. Ma c’è un tipo di storia, in particolare, connessa con i segreti delle donne, specie quelli legati alla vergogna; contengono alcune delle storie più importanti cui una donna possa dedicare il suo tempo.

Per la maggior parte delle donne queste storie segrete sono incastonate non come pietre preziose in una corona, ma come nera ghiaia sotto la pelle dell’anima.

…i segreti di un maggior numero di donne riguardano la violazione di un codice sociale o morale della cultura, della religione, o del sistema personale dei valori. Alcuni di questi atti, eventi, scelte, in particolare e connesse alle libertà femminile in tutti gli aspetti dell’esistenza, erano spesso considerati dalla cultura vergognosamente sbagliati per le donne, ma non per gli uomini.

Il problema delle storie segrete avvolte nella vergogna è che separano la donna dalla sua natura istintiva, che è prevalentemente gioiosa e libera. Quando nella psiche c’è un oscuro segreto, la donna non può avvicinarsi a esso, e anzi si protegge da qualunque contatto con ciò che potrebbe rammentarglielo o far sì che la sofferenza già cronica diventi ancora più intensa…..

 

Di solito i segreti presentano gli stessi temi che si ritrovano nei drammi…i segreti, come le fiabe e i sogni, seguono inoltre gli stessi modelli e le stese strutture del dramma. Ma i segreti, invece di seguire la struttura eroica, seguono la struttura tragica. Il dramma eroico  inizia con un’eroina in viaggio. Talvolta non è desta da un punto di vista psicologico. Talvolta è troppo gentile e non percepisce il pericolo. Talvolta è già stata maltrattata e si abbandona alle mosse disperate della creatura in cattività. Comunque inizi, l’eroina cade poi negli artigli di qualcosa o qualcuno, e viene amaramente messa alla prova. Poi, grazie alla sua intelligenza e alle persone che di lei si curano, viene liberata e si leva più alta.

Nella tragedia l’eroina è ghermita, costretta, o portata agli inferi e poi sopraffatta, mentre nessuno ode le sue grida,ovvero le sue implorazioni vengono ignorate. Perde la speranza, perde il contatto con la preziosità della sua vita, e crolla…Il modo per ritrasformare una tragedia in dramma eroico  è svelare il segreto, parlarne con qualcuno, scrivere un altro finale, esaminare la parte in esso avuta e i propri attributi nel reggerlo. Si scoprono in pari misura dolore e saggezza…

 La persona che ha conservato un segreto a proprio detrimento resta sepolta dalla vergogna. In questa condizione universale, il modello medesimo è archetipo:l’eroina è stata costretta a fare qualcosa oppure, per la perdita dell’istinto, è rimasta intrappolata in qualcosa. Tipicamente, è impotente di fronte alla triste situazione. È in qualche modo legata alla segretezza da un giuramento o dalla vergogna. Si adatta per paura di perdere l’amore, il rispetto, la sussistenza esistenziale. Le donne sono state avvertite che taluni eventi, scelte e circostanze della loro esistenza, di solito connessi al sesso, all’amore, al denaro, alla violenza e/o ad altre difficoltà imperversanti nella condizione umana, sono estremamente vergognosi e pertanto non degni di assoluzione….

Nell’archetipo del segreto, un incantesimo viene gettato come una rete nera su parte della psiche femminile, e lei viene spinta a credere che il segreto non dovrà mai esser rivelato, e inoltre deve credere che, se lo rivelerà, tutte le persone per bene con le quali avrà a che fare l’ insulteranno per l’eternità. Questa ulteriore minaccia, insieme alla vergogna, fa sì che la donna non porti un fardello solo ma due.

Questo minaccioso incantesimo è un passatempo solamente tra le persone che occupano uno spazio angusto e nero nei loro cuori. Tra le persone che provano amore e calore per la condizione umana, è vero il contrario. Aiuteranno a disseppellire il segreto, perché sanno che produce una ferita che non si rimarginerà finchè alla cosa non saranno dati voce e testimone…

 

La donna dai capelli d’oro. 

C’era una volta una donna strana ma assai bella dai lunghi capelli d’oro sottili come grano filato. Era povera, non aveva né madre né padre, e viveva da sola nei boschi e tesseva su un telaio fatto con rami di noce scuro. Un tipo brutale, che era figlio del carbonaio, cercò di costringerla al matrimonio, e lei nel disperato tentativo di comprarne la rinuncia, gli regalò una ciocca di capelli d’oro.

Ma lui non sapeva o non si curava del fatto che era oro spirituale, non denaro, quello che gli aveva dato, e quando volle vendere i capelli come una qualsiasi mercanzia al mercato, la gente lo canzonò e pensò che fosse pazzo.

 

In collera, di notte tornò alla capanna della donna, la uccise con le sue mani e ne seppellì il corpo accanto al fiume. Per molto tempo nessuno si accorse della sua assenza. Nessuno si curava del suo cuore e della sua salute.Ma nel sepolcro i capelli d’oro della donna presero a crescere e a diventare sempre più lunghi. I magnifici capelli ondulati si sollevarono in spire attraverso la terra nera, e crebbero sempre di più fino a ricoprire la tomba di un campo di ondeggianti giunchi d’oro.I pastori tagliarono i giunchi per farne flauti, e quando presero a suonarli, i piccoli flauti cantarono e non smisero più di cantare.

 

Qui giace la donna dai capelli d’oro

Assassinata e nel suo sepolcro,

uccisa dal figlio del carbonaio

perché desiderava vivere.

 

E così l’uomo che aveva tolto la vita alla donna ai capelli d’oro fu scoperto e portato in giudizio,e coloro che vivono nei boschi selvaggi del mondo, come facciamo noi, furono di nuovo al sicuro.

 Se il messaggio manifesto è l’invito a stare attenti quando ci si trova nei luoghi solitari del bosco, il messaggio profondo è che la forza vitale della bella donna solitaria, personificata nei capelli continua a crescere e a vivere e a emanare conoscenza conscia anche se tacitata e sepolta…Questo frammento è bello e prezioso, e inoltre ci parla della natura dei segreti e anche, forse, di che cosa viene ucciso nella psiche quando la vita di una donna non è tenuta nel debito conto. In questo racconto, l’assassino della donna che vive nei boschi è il segreto. Lei rappresenta una kore, quell’aspetto della psiche femminile che è la donna-che-non –si-sposerà-mai. La parte della donna che vuole stare in solitudine è mistica e solitaria in un modo bello, ed è occupata a selezionare e tessere idee, pensieri e imprese. È questa donna solitaria e ripiegata su se stessa che è soprattutto ferita da traumi o dal dover mantenere un segreto… questo senso integrale dell’io che ha bisogno di avere poco attorno per essere felice; questo cuore della psiche femminile che tesse nel bosco sul telaio di noce scuro, ed è in pace.

Nella favola nessuno indaga sull’assenza di questa donna vitale…Non è insolito nelle favole né nella vita reale…

Spesso la donna che ha dei  segreti incontra la medesima reazione. Sebbene la gente percepisca talvolta che al centro il suo cuore è trafitto, per caso o intenzionalmente chiude gli occhi sulla sua evidente ferita.

Ma in parte il miracolo della psiche selvaggia è che, per quanto una donna sia “uccisa”, sebbene sia ferita, la sua vita psichica continua , e risale in superficie, cresce, e nei momenti di pienezza canta, canta. Allora l’ingiusto male subito viene appreso a livello conscio, e la psiche inizia la ricostruzione.

 È interessante non vi pare? che la forza vitale di una donna possa continuare a crescere anche se lei è apparentemente senza vita. È la promessa che anche nelle condizioni più misere la vitale forza selvaggia manterrà vive e fiorenti le nostre idee, anche se, per un po’, sotto terra. Col tempo riusciranno a spuntare. Questa forza vitale non lascerà tutto quieto finchè non saranno rivelate le circostanze e il luogo del delitto.

Come per i pastori della storia, ciò implica respirare profondamente e liberare il respiro- dell’anima o pneuma attraverso le canne, per conoscere come stanno veramente le cose nella psiche e che cosa bisognerà fare. Occorre cantare. Il lavoro di scavo seguirà…

Quando una donna mantiene un segreto vergognoso, l’enorme quantità di auto biasimo e tortura che deve sopportare è tremenda a vedersi…La donna selvaggia ( con istinto alla vita) non può vivere così. I segreti vergognosi diventano ossessivi…sono come un filo spinato che le si stringe attorno alle budella se cerca di liberarsi. Sono distruttivi non soltanto per la sua salute mentale, ma anche per le sue relazioni con la DonnaSelvaggia. La Donna selvaggia scava, getta tutto per aria, mette in fuga. Non seppellisce né dimentica. Se per caso seppellisce, rammenta che cosa e dove, e ben presto si preoccuperà di dissotterrarla.

Questa favola e altre simili sono medicamenti da applicare a queste segrete ferite; sono un incoraggiamento, un consiglio e una risposta. Dietro alla saggezza della favola sta il fatto che, nelle donne come negli uomini,le ferite inferte all’io, all’anima e alla psiche con i segreti o altro, fanno parte dell’esistenza dei più. Né può essere evitata la cicatrizzazione. Ma esistono delle cure, ed è assicurata la guarigione…Reprimere il materiale segreto circondato dalla vergogna, dalla paura,dal senso di colpa o dall’umiliazione in effetti sbarra tutte le altre parti dell’inconscio prossime al luogo del segreto….Se tuttavia una donna desidera serbare i suoi istinti e la capacità di muoversi liberamente nella psiche, può rivelare il suo o i suoi segreti a un essere umano degno di fiducia, tutte le volte che lo ritiene necessario. Di solito una ferita non viene disinfettata e poi abbandonata a se stessa:viene pulita e medicata più volte mentre va guarendo… Chi lo ascolta lo fa col cuore aperto e trasale, rabbrividisce, prova quel dolore senza crollare…così una donna comincia a riprendersi dalla vergogna ricevendo il soccorso e le cure che le mancarono al momento del trauma…ma rimarrà certo una cicatrice. Al cambiare del tempo la cicatrice dorrà ancora. Questa è la natura del vero lutto… Quando un segreto non viene confidato il lutto continua, per tutta la vita. …Parlare ed elaborare il lutto ci fanno risorgere dalla zona morta, ci consentono di lasciarci alle spalle il culto mortale dei segreti. Dal lutto usciremo bagnate dal pianto non dalla vergogna.

 

Nel lutto,  la Donna Selvaggia sarà con noi. Lei e l’Io istintuale. Può sopportare le nostre urla, i nostri lamenti e il nostro desiderio di morire senza morire. Applicherà i migliori medicamenti là dove il dolore è più  insopportabile…Proverà dolore per il nostro dolore, e lo sopporterà, senza fuggire. Anche se molte saranno le cicatrici, è bene ricordare che, nella resistenza alla tensione e alla pressione, la cicatrice è più forte della pelle.

 

Un pezzo di una Napoli diversa, dove l’umanesimo o diventa umanità, o muore.

Il libro  “Rione Sanità”, storie di ordinario coraggio e di straordinaria umanità, di Cinzia Massa e Vincenzo Moretti- Ediesse, collana Cartabianca , è un  excursus di testimonianze, esperienze di vita, voglia di riscatto  in  tante iniziative che  nel tempo  possono davvero incidere  su un contesto  socio culturale complesso.

Napoli e provincia ( da Pozzuoli a Sorrento) consta circa di quattro milioni di abitanti e su cinque chilometri quadrati vivono i 50000 abitanti del Rione Sanità.  La Sanità non vive solo di storie di criminalità ma anche di storie belle non reclamizzate.  Il cimitero delle Fontanelle è stato riaperto grazie all’occupazione della gente del rione che si è anche “ appropriata” del parco di San Gennaro, destinato ai bambini,  che per lungaggini burocratiche  non veniva a aperto. 

 Da tempo qui  operano  associazioni molto attive di volontari  profondamente motivati,  che si sono  sentiti mortificati nelle proprie radici e hanno deciso di fare qualcosa per la propria città. Come  Ernesto Albanese che ha messo insieme alcuni napoletani, residenti  tra Roma e Milano, e ha  fondato  “L’Altra Napoli” investendo  competenze manageriali per attuare un progetto operativo in rete  sul territorio. Dove? Alla  Sanità che pur avendo tutti i problemi dei quartieri degradati, ha straordinarie potenzialità, non solo nel patrimonio  storico ed artistico che si sta valorizzando, ma soprattutto nell’antica umanità dei napoletani, purtroppo mai ricordata  perché non fa notizia , ed ormai scomparsa  nelle periferie suburbane dominate da  altri traffici. Così quest’associazione ha  procurato finanziamenti, si è coordinata con altre associazioni presenti nel rione, ha promosso il turismo, spettacoli, iniziative, ha  incentivato la formazione dei giovani e  dei giovanissimi cercando esperti, volontari, spazi di aggregazione, supportando le due  “istituzioni” più sentite , cioè la famiglia e la scuola. Le altre istituzioni sono latitanti e si ricordano dei  popolosi rioni solo come bacino elettorale.

Qui sono molto attivi  uomini di chiesa che operano cercando di responsabilizzare  i  giovani, dando loro orientamento e fiducia . Come  Padre Antonio Vitiello dell’Associazione Centro La Tenda che dal 1981 si occupa di coloro che vivono per strada, aiutato dalla gente del posto “che sa guardare al disagio non  solo con gli occhi di chi si difende , ma anche di chi sa compatire”, in un rione ove convivono tutti : il disoccupato, l’operaio, l’impiegato, l’artista, il nobile, il delinquente.

  Padre Alex Zanotelli di “La casa nel campanile”  promuove la cultura della solidarietà e una fede che porta ad un impegno concreto sul territorio contro un’atavica e passiva rassegnazione; la speranza sta nel mettersi insieme, di fare unione e rete tra tutte le realtà della Sanità per  autogestirsi laddove le istituzioni hanno fallito e sono percepite dall’altra parte della barricata  in una sorta di incomunicabilità. 

 Affetto, prendersi cura e in carico  di chi ha bisogno è la  ricetta perchè le nuove generazioni  crescano con un senso di identità e speranza . L’Associazione “ La Casa dei Cristallini”, nata grazie a padre  Antonio Loffredo , oggi opera anche con volontarie in un contesto ove esiste tutto il campionario del disagio sociale,  supportando la  genitorialità e accogliendo i bambini con attività ludiche e di doposcuola.  Sia  “La Casa dei Cristallini”  che “L’Altra Casa ” contattano e coinvolgono le famiglie, soprattutto le mamme, che giovanissime giocano per necessità con un bambolotto in carne ed ossa, spesso poi affidato alle nonne. Le aiutano ad acquisire consapevolezza, a formarle, ad accudire i piccoli, a conseguire  il diploma di scuola  media, a cercare lavoro,a scoprire  altre realtà affinchè  escano dal loro mondo  e riconoscano la loro ricchezza, come Vittoria  che, dopo avere iniziato a lavorare a otto anni  al seguito della mamma,  ha scoperto la fotografia che è diventata la sua professione. Il fine di queste associazioni è coinvolgere i ragazzi dandogli l’arma della parola, rendendoli protagonisti del cambiamento.

  Padre Antonio Loffredo nella basilica di Santa Maria la Sanità ha dato input a molte associazioni, ha incoraggiato “La Paranza”, una  cooperativa di giovani, che s’impegnano come guide turistiche, elettricisti, artigiani ed  assistenti, proponendosi come un piccolo esempio di legalità  per i più giovani. “ I giovani hanno capacità di fare e pensare, da loro partirà una rivoluzione di coscienze, dei cervelli, dei comportamenti in un processo di  liberazione e di autonomia” per una graduale crescita collettiva.

I risultati si vedono nell ‘Orchestra giovanile “Sanitansamble” , nata  col musicista   Maurizio Baratta che in tre anni  è riuscito ad appassionare 34 ragazzi, dai 7 ai 13 anni, allo studio di uno strumento musicale, affidato loro come un figlio, una persona cara cui pensare. Ragazzi che imparano regole e  affrontano i problemi in gruppo. Non riuscendo a rispondere alle numerose richieste di partecipazione all’orchestra, il maestro ha pensato di organizzare un coro con un centinaio di bambini e ragazzi .

Sott’o ponte” è  una compagnia teatrale di un centinaio di ragazzi, nata nel 1993 con don Sebastiano Pepe e dal 1999 diretta da Vincenzo Pirozzi che aveva mosso i primi passi in questa compagnia diventando poi attore e regista. “È importante che i ragazzi possano scegliere, non vedere vincere solo il male, ma avere l’opportunità di esprimersi  e tirare fuori ciò che hanno dentro attraverso la danza, il teatro, la cinematografia, la musica  per  conoscersi e  riconoscersi nei propri punti di debolezza e di forza,  imparando ad usarli.”

Tante altre sono le associazioni e le iniziative di una Napoli civile e solidale di uomini e donne che investono tempo, energie e passione in una impegnativa  scelta di vita per gli altri.

“Certo. Bisognerebbe parlare con tutti. Uno ad uno. Bisognerebbe chiamarli a uno ad uno per dire noi siamo questi. Siamo la semplicità, siamo le persone che la mattina si svegliano, portano i figli a scuola, vanno a lavorare, tornano, hanno sempre qualcuno a cui dare retta, sicuramente noi non siamo come quelli del mulino bianco, nella vita non funziona come nella pubblicità.

Se ne rende conto anche lei. E’ un sogno. Ma una volta il vento ha portato da un posto lontano una voce che diceva che quando si sogna da soli è un sogno. Quando si sogna in due comincia la realtà. Sinceramente, io un po’ ci spero.”

 L’umanità della Sanità può aiutare a sconfiggere la povertà, l ’ignoranza, la sfiducia e dare speranza di un cambiamento. Un cambiamento in atto che si deduce da quanto hanno scritto   i giovani della cooperativa La Paranza qui :

“Sanità, inafferrabile, incostante bellezza, uno di quei posti dove l’umanesimo o diventa umanità, o muore. Chi ama la Sanità ci resta. Qui è davvero Napoli, tremendum fascinans, qui una sottile magia ti trattiene, affatturato. Qui la gente bellissima e orgogliosa, ti discopre inattese tenerezze, così che, in fondo, ti spiacerebbe andartene. Qui potresti scrivere una storia, in bilico tra l’umile e il sublime, che forse nessuno leggerà, ma ti potrà accadere la ventura di essere capito, e t’ameranno”