La lunga e incerta storia della pizza

E chi l’avrebbe mai detto che la pizza si ricollega alla guerra tra il bene e il male nell’antica mitologia greca? Quando  il dio delle tenebre Ade rapì la bella Persefone, figlia di Cerere, la dea afflitta  iniziò a cercarla e giunse in  incognito ad Eleusi. Qui il re Celeo e sua moglie Metanira piangevano per la triste sorte del loro  figlioletto Trittolemo che stava per morire perché privo del latte materno. Cerere donò  forza, vigore e immortalità  al piccolo per ricambiare dell’ospitalità ricevuta e, quando Metanira  le offrì una coppa di dolcissimo vino, chiese una bevanda fatta di farina e acqua aromatizzata con basilico.

 Pare che nel corso dei secoli questi ingredienti siano stati usati in dosi diverse e, con l’aggiunta di olio, abbiano poi dato origine alla plax , una sorta di focaccia.

Nell’antico Egitto si usava festeggiare il compleanno del faraone consumando una schiacciata condita con erbe aromatiche; nell’antica Grecia schiacciate e una sorta di focaccia di farina d’orzo, la cosiddetta maza, erano alimenti molto diffusi, come  nell’antica Roma focacce lievitate e non, tra le quali la placenta e l’offa impastata con acqua e farro. Proprio nelle botteghe di via dell’Abbondanza a Pompei furono scoperte scodelle per il cacio e la cuccuma per l’olio e addirittura una statuina del « placentario » conservata nel museo archeologico di Napoli. 

 In verità la pizza ha una lunga, complessa e incerta storia. La parola “pizza” risale al latino volgare di Gaeta nel 997 e di Penne nel 1200; nel ‘500 a Napoli si chiamava “ pizza” un pane schiacciato, dalla storpiatura della parola “pitta”. Tra il Cinquecento e il Seicento a Napoli si faceva una pizza soffice “alla mastunicola”, preparata con strutto, formaggio, basilico e pepe,  più tardi quella con i “cecenielli”, cioè bianchetti; mentre fu condita con il pomodoro forse a metà Settecento.

Più controverso ancora è l’arrivo dei bufali in Italia:per alcuni essi furono  importati  dall’Africa dai Romani e si ambientarono facilmente nella piana del Volturno e del Sele, per altri furono portati dai saraceni ma solo i longobardi li sfruttarono al meglio. Il pomodoro sbarcò a Napoli solo dopo la scoperta dell’America e presumibilmente nel 1550, in cucina anni dopo.

Sulle origini della pizza esistono diverse versioni, a volte un po’ fantasiose. In verità la pizza non ha un’unica paternità: si sa che è nata a Napoli dalle esperienze trasmesse di porta in porta, di vicolo in vicolo. Nel ‘700 la pizza veniva cotta in forni a legna per essere quindi venduta nelle strade e nei vicoli della città: un garzone di bottega, che portava in equilibrio sul capo una piccola stufa, consegnava a domicilio le pizze variamente condite, preannunciando il proprio arrivo con versi e richiami tipici. Tra il ‘700 e l’800 la pizza diventò un alimento largamente diffuso e apprezzato e quindi si affermò sempre più l’abitudine di gustarla presso i forni oltre che per strada o in casa. Nacquero quindi le pizzerie ove si cimentarono dinastie di pizzaioli. 

Prime notizie documentate sulle pizzerie risalgono alla fine del 1700: nel 1762 esisteva a Napoli, nella salita di santa Teresa degli Scalzi,  la pizzeria di “Ntuono Testa” frequentata anche dai  re Ferdinando I e Ferdinando II di Borbone.

Nel 1780 sorse nella salita S.Anna di Palazzo  la pizzeria “Pietro e Basta Così”, divenuta poi pizzeria Brandi , che ancora oggi è  una delle più famose pizzerie della città. Si trovava di fronte al palazzo Reale e da qui il cuoco Raffaele Esposito guardava spesso il tricolore con lo stemma sabaudo che sul balcone del palazzo informava della presenza dei reali. Il pizzaiolo, come l’intera città, si sentiva onorato della nascita del  piccolo Vittorio Emanuele III a Napoli ,voluta dal re Vittorio Emanuele II, e così decise di fare un dono alla regina Margherita  mettendo a frutto  la sua creatività gastronomica. Ispirato dai colori  del tricolore pensò di usare  il verde basilico, la bianca mozzarella e il rosso pomodoro  per condire  una pizza patriottica  alla quale diede il nome di  Margherita in onore della prima regina d’Italia.

Nel giugno del 1889 il pizzaiolo fu invitato alla reggia di Capodimonte perché preparasse le sue famose pizze alla regina che desiderava qualcosa di  nuovo. Una splendida occasione per fare conoscere la sua pizza margherita. Don Raffaele con la moglie Maria Giovanna Brandi si recò alla reggia su un carretto trainato da un asinello portando tutto il necessario per la sua nuova specialità. Preparò tre pizze: una bianca, con olio, formaggio e basilico, una con i cecenielle (pesciolini) e infine  una con mozzarella, pomodoro e basilico.

Tra lo stupore dei cuochi, inebriati dal profumo dei semplici e comuni ingredienti, la regina gradì molto la pizza tricolore, che in suo onore fu battezzata pizza margherita. Questa ottenne un certificato d’onore e ancor oggi la pizzeria Brandi in via Chiaia espone un documento firmato da Camillo Galli, capo dei servizi di tavola della reale casa dei Savoia, ove si attesta il merito della famosa pizza margherita.

 La più semplice e gustosa delle pizze, destinata a entrare nella tradizione culinaria di Napoli, nata per sopperire alla cronica fame del popolo napoletano conquistò ben presto una fama mondiale.

Articoli correlati:

Sulla storia della pasta

L’incostante bellezza del rione Sanità: palazzo Sanfelice e palazzo dello Spagnolo

Già al tempo degli Angioini le scale erano un elemento importante dei palazzi napoletani ma  dall’inizio del XVII secolo il barocco straripò in forme incredibilmente originali anche nelle scale. A dir poco spettacolari sono quelle progettate da Ferdinando Sanfelice (1675- 1748),  figura straordinaria dell’architettura civile. Se la doppia scala a rampa della chiesa di san Giovanni a Carbonara sembra abbracciare il visitatore per accompagnarlo verso i portali, altra cosa sono le scale di palazzo Sanfelice e  del palazzo dello Spagnuolo. 

Qui la scala diviene un elemento architettonico  portante, quasi scenografico, più importante della facciata dei palazzi, che nel  gioco di trasparenza, di pieni e vuoti resi dall’intreccio di archi, rampe e volte a vista, come una trina cattura lo sguardo del visitatore.    

 

Tra il 1724 e il 1726 l’architetto Sanfelice costruì un palazzo per la propria famiglia nel rione della Sanità, famoso per l’aria salubre. In effetti  l’edificio consta di due corpi distinti, uniti dalla facciata principale sulla quale due ingressi si aprono  in via Arena alla Sanità, n. 2 e n. 6. Tra le  due coppie di sirene  che sorreggono i balconi del primo piano ci sono iscrizioni  di Matteo Egizio  che decantano l’opera del Sanfelice. I palazzi sono molto diversi all’interno.

 

Uno ha un cortile a pianta ottagonale dal quale parte una scalinata a doppia rampa. Purtroppo questo corpo ha subito antiestetici  rimaneggiamenti che fanno piangere il cuore. L’altro cortile è molto più ampio, e da qui parte una grande scala ad ali di falco con cinque arcate per piano che ricorda un po’ lo splendido palazzo dello Spagnuolo, che fa tutto un altro effetto. La scala prende luce anche dal giardino retrostante.  Si sa che all’interno del palazzo c’erano affreschi di Francesco Solimena  e nella cappella privata le quattro statue delle stagioni, andate perdute, attribuite alla scuola di Giuseppe  Sanmartino. 

 

Nello scoprire questi due palazzi  ho provato stupore ma allo stesso tempo impotenza di fronte allo sfregio dell’incuria per questo patrimonio architettonico ancora imponente, nonostante tutto, che ho associato alle pesanti occhiaie di un volto dai lineamenti delicati.  Qui furono ambientati anche “Questi fantasmi!” di Eduardo de Filippo. 

 

Una sensazione molto diversa si prova in via dei Virgini 19, sempre nel rione della Sanità,  accedendo al cortile del  palazzo dello Spagnuolo che mi ha strappato un “quant’è bbbello” in concomitanza ad un grido di meraviglia di  una turista, che poi mi ha chiesto di scattarle  una foto. 

Il palazzo fu costruito nel 1738 per volere del marchese Nicola Moscati e molte fonti ritengono che sia stato progettato dal Sanfelice. Nel 1759 fu ereditato da Giuseppe Moscati, il medico che non esitò ad investire ricchezze e patrimonio nella cura dei poveri. Ben presto i Moscati  persero  prestigio economico e così il tribunale  decise di vendere alcuni appartamenti ai loro creditori. Tra questi c’era don Tomaso Atienta, detto lo Spagnolo, che nel 1813 lo fece ampliare e lo arricchì di affreschi sulle pareti e sui soffitti e preziosi arredi, andati perduti. Più tardi il palazzo fu messo all’asta e a metà dell’ottocento era quasi tutto di proprietà della famiglia Costa. 

 

 

Nel 1925 fu dichiarato monumento nazionale in occasione della visita di  re Umberto di Savoia. Fu valorizzato da lavori di restauro  negli anni sessanta e dopo il terremoto del 1980, finchè dal 1997 lo scultore Perez, proprietario di  un appartamento, riuscì a recuperare antiche decorazioni nascoste dai vari e selvaggi rimaneggiamenti. La scala a doppia rampa con le cinque aperture per piano ricorda molto quella del palazzo Sanfelice. Essa separa due cortili, quello più interno è in pessimo stato. 

 

Lunette, stucchi, medaglioni con busti e motivi floreali, tipicamente roccocò, sono attribuiti ad   Aniello Prezioso che nel 1742 impreziosì  la scala . Il  palazzo ospita l’Istituto e il Museo delle guarattelle, cioè delle marionette, tradizione di origine spagnola che attecchì facilmente a Napoli. Al secondo e terzo piano si aprirà, chissà quando, un museo dedicato a Totò, nato nel rione Sanità.

Due palazzi  rappresentano lo stesso passato ma due diversi aspetti del presente. A questo pensavo mentre li osservavo per fotografarli e mi sono tornate in mente le parole del tassista che mi aveva detto: ” Signò, cà  nun ve succede niente”.  Poi ho capito perchè e ve ne parlerò in un altro post.

Chiesa di San Giovanni a Carbonara, Napoli

 

Via San Giovanni a Carbonara, in origine  aperta fuori dalle mura della città, fino alla fine del medioevo fu destinata alla raccolta e alla combustione dei rifiuti (storia vecchia!).Su un terreno donato dal nobiluomo Gualtiero Galeota  gli Agostiniani iniziarono a costruire nel 1343   una chiesa e un convento che furono ultimati all’inizio del XV secolo durante il regno di re Ladislao d’Angiò- Durazzo. Questo è uno dei complessi religiosi più particolari e  belli della Napoli del Quattro e del Cinquecento, realizzato in molteplici periodi.

 

Vi si accede da una scala ellittica a doppia rampa del 1707 , frutto dell’ingegno di Ferdinando Sanfelice, un  grande architetto che trasformò le scale in un elemento architettonico scenografico. La scalinata conduce alla cappella di Santa Monica (XIV secolo) ove si trova il sepolcro di Ruggero Sanseverino realizzato da Andrea da Firenze. La chiesa fu nascosta dalla costruzione della cappella Somma del XVI secolo e pertanto vi si accede dal portale laterale ornato da testine di animali e foglie, da stemmi angioini e dal sole splendente  dei Caracciolo.

 L’edificio consta di un’unica navata a croce latina con cappelle aggiunte e,  soprattutto nel presbiterio, conserva l’originaria struttura gotica. In fondo spicca il monumento funebre  del re di Napoli  Ladislao (1428), espressione artistica del primo Rinascimento, caratterizzato da logge, nicchie, sculture, figure allegoriche come le quattro Virtù poste alla base. È ornato dalle statue di Ladislao e di sua sorella Giovanna II, che gli successe e gli  dedicò l’imponente monumento funebre, alto 18 metri e sormontato da un re a cavallo che, cosa piuttosto rara da vedersi in una chiesa,  brandisce una spada. La parete laterale all’altare ospita la Crocefissione del Vasari. 

 

Oltrepassando il sepolcro del re, si accede all’abside che ospita la splendida cappella Caracciolo del Sole (1427) a pianta ottagonale. Qui si trova  un altro sepolcro, attribuito ad Andrea da Firenze (1443), eretto per  l’amante della regina Giovanna II, Ser Gianni Caracciolo, assassinato  nel 1432. Incantevole nelle tante sfumature del blu è il pavimento maiolicato di stile toscano , interessanti sono gli affreschi murali di Leonardo da Besozzo e Perinetto da Benevento raffiguranti le storie della Vergine e scene di vita eremitica. 

 

A lato del presbiterio si apre la cappella Caracciolo di Vico in puro stile rinascimentale (ultimata nel 1516). È a pianta circolare e  ricca di arcate, colonne, nicchie, sarcofagi, statue raffiguranti gli esponenti del casato Caracciolo. Di fronte all’entrata della chiesa si trova l’altare di Miroballo di scuola lombarda ,iniziato nel XVI secolo da Jacopo della Pila e terminato da Tommaso Malvito. Racchiude  un imponente gruppo di statue ed   è decorato con scene della vita di san Nicola da Tolentino, dipinte nel Quattrocento,  una Vergine con Bambino di Michelangelo  Naccherino (1601) e le statue di sant’Agostino e san Giovanni Battista di Annibale Caccavello. La cappella di Somma a sinistra dell’ingresso fu eretta tra il 1557 e il 1566 su disegno del D’Auria e dal Caccavello, che realizzarono rispettivamente la parte inferiore dell’altare (Assunta) e il sepolcro di Scipione di Somma  di fronte alla porta di accesso.

Scendendo a piedi dal rione Sanità,  mi ha attratto la scala monumentale  della Chiesa di San Giovanni a Carbonara che ho poi visitato.  Ogni volta che vado a Napoli, da turista fai da te, scopro sempre qualche raffinata bellezza nascosta, perciò mi affascina questa città che si concede un po’ alla volta nei suoi quartieri più popolosi e nelle oltre cinquecento chiese, nonostante altri clamori sviino l’attenzione su altri fronti.

Napoli si ama o si odia, senza mezze misure. Napoli meraviglia nel bene e nel male, è un sorriso compiaciuto e un pugno allo stomaco, una metropoli dalle emozioni contrastanti e contraddittorie che ti scaraventano dal buio alla luce quando meno te l’aspetti. Una città che ti fa abbassare lo sguardo per la vergogna e ti solleva lo spirito di fronte a capolavori dimenticati o repressi nel suo ventre, che meriterebbero altra memoria, e ti commuovono come quando riconosci un talento o un cuore gentile  in una persona che a prima vista appare insignificante. Quando arrivi a Napoli percepisci la confusione del rumore e del movimento,  quando te ne vai porti dentro il fascino intrigante delle razze miste, il languore di una gloria passata che la mala sorte non riesce a rovinare del tutto, come la sensazione di un bacio rubato.

 

 

Omaggio ad Anna Magnani

L’attrice Anna Magnani, personaggio emblematico del neorealismo cinematografico, interprete di film e opere teatrali di grandi registi italiani e stranieri (quali De Sica ,Rossellini,Visconti , Pasolini, Zampa, Monicelli, Zeffirelli, Lumet, Mann, Cukor e tanti altri ) vinse numerosi premi cinematografici italiani e il premio Oscar come migliore attrice protagonista nel film “La rosa Tatuata” di Daniel Mann (1956). Da sempre fa parte della storia del cinema la drammatica scena di “Roma città aperta” di Rossellini (1945) , in cui l’attrice viene crivellata con una scarica di mitra di un soldato tedesco mentre rincorre un camion sul quale suo marito sta per essere deportato. «T’ho sentita gridare ‘Francesco’ dietro al camion dei tedeschi e non ti ho più dimenticata» scrisse di lei Giuseppe Ungaretti. Il personaggio da lei interpretato, la sora Pina , popolana schietta e volitiva, sicura nella difesa dei giusti valori, ricorda con crudo realismo la storia vera di Teresa Gullace, madre di cinque figli e incinta del sesto, che fu uccisa mentre cercava di parlare con suo marito incarcerato in una caserma di Roma.

La Magnani ebbe grandi riconoscimenti soprattutto dopo la sua morte tra i quali una retrospettiva con la proiezione dei suoi 14 film più significativi nel Museum of Modern Art di New York nel 2002, omaggio tributato a poche dive del cinema. È stata riconosciuta  tra le   donne che hanno fatto l’Italia in una bella retrospettiva sulle figure femminili più o meno conosciute, che direttamente ed indirettamente hanno influito sull’evoluzione culturale, sociale, economica e politica dell’Italia. 

Anna, era figlia di padre ignoto. In età adulta risalì al padre (un tale del Duce ma ,con la sua consueta ironia, diceva di essersi fermata nelle ricerche perché non voleva passare come “la figlia del Duce”.) Sua madre Marina si trasferì ad Alessandria d’Egitto per rifarsi una vita sentimentale e lì sposò un uomo austriaco molto facoltoso. Anna, “figlia della colpa” , visse un’infanzia povera e sin dalla più tenera età, fu accudita dall’amorevole nonna e dalle cinque zie. L’assenza e il vuoto affettivo della mamma però la segnarono e non potevano di certo essere colmati dai bei vestiti di seta che riceveva dall’Egitto. Aveva ormai nove anni quando conobbe la madre che, recatasi a Roma per vederla, decise di mandarla in un collegio di suore francesi perchè ricevesse una buona istruzione Anna rimase in collegio per pochi mesi perché, per punirla dello scarso rendimento scolastico, le suore le impedivano di vedere l’amata nonna che per lei rappresentava l’unico vero e forte legame affettivo. Tornata a casa si dedicò quindi allo studio del pianoforte e portò avanti gli studi fino alla seconda liceo. All’età di 15 anni si recò ad Alessandria in visita alla madre, ma l’esperienza si rivelò molto dolorosa .

Rientrata a Roma , decise di studiare recitazione (1927) e contemporaneamente cantava nei cabaret romani. Iniziò la sua carriera prima nell’avanspettacolo, soprattutto con Totò, poi nel cinema e nel teatro. Ebbe una vita sentimentale movimentata anche perché l’interiore senso di abbandono la rese morbosamente possessiva. Si sposò con il regista Goffredo Alessandrini che si rivelò fedifrago e superficiale; visse una forte passione con Massimo Serato da cui ebbe il figlio Luca, cui preferì dare il cognome proprio perché il giovane attore era insofferente di legami stabili.  Il figlio determinò una nuova rottura sentimentale ma in compenso fu per lei l’ amore costante della sua vita : inizialmente fonte di una grande gioia, poi di preoccupazione e dolore quando fu colpito dalla poliomielite. Ebbe alcuni amanti tra i quali Rossellini, ma anche questa vicenda sentimentale fu molto vissuta e sofferta.

Luca Magnani,ha dichiarato: ”Una certa ottusità e molti luoghi comuni su mia madre, e questo credo l’abbia molto intristita, soprattutto nell’ ultima parte della sua vita, quando lavorava meno. E’ stata messa da parte, per indifferenza… Mia madre era una persona di una modernità incredibile, che non ha mai seguito le mode ed ha precorso i tempi . Passava per sguaiata, per una che diceva le parolacce, ma in realtà era semplicemente una donna che agiva alla luce del sole”.

 

Anna fu l’antidiva per eccellenza. Ricordo una sua intervista in cui  raccontava della gallina Ciuffettina, sua compagna di gioco durante l’infanzia , di gatti e cani che amava, con cui parlava e si sentiva in sintonia. La Magnani, nota come Nannarella, viene spesso associata alle donne comuni e semplici di cui interpretava la spontaneità, le ambizioni, la voglia di riscatto , l’istinto di amare con passione, la sensibilità, la generosità, la forza d’animo. Attraverso i suoi personaggi poteva esprimersi come donna  vera,viva, sincera, imperfetta, appassionata, desiderosa di amare e di essere amata ( la sua canzone preferita era quella che le cantava la nonna , cioè “Regginella”: T’aggio vuluto bene a te /Tu m’hè vuluto bene a me/ Mo nun c’amammo cchiù/ Ma ‘e vvote tu/ Distrattamente /Pienze a me).Una persona, non un personaggio, un po’ dimenticata e sola negli ultimi anni della sua vita trascorsi nella lotta di un  male incurabile, assistita dal figlio. Una donna non bellissima, ma dagli sguardi più che eloquenti, dai sorrisi indimenticabili e dalle risate sonore e schiette. Un’attrice che non recitava, ma si immedesimava nei personaggi dai quali traspariva la sua forte personalità, l’intelligente ironia che la contraddistingueva, la spontanea veemenza mista a fragilità, la dolce e sofferta malinconia .Forse questa è la ragione per cui Anna Magnani è ancora nel cuore di tanti. 
Anna verrà
col suo modo di guardarci
dentro
dimmi quando questa
guerra finirà
noi che abbiamo un mondo
da cambiare
noi che ci emozioniamo
ancora
davanti al mare…

(“Anna verrà” di Pino Daniele)

 

Immagini tratte dal web

 

Il Carnevale a Napoli ovvero come le allegre usanze dai salotti sconfinarono nelle piazze.

La festa di Carnevale ha radici molto antiche, che si diramano un po’ ovunque, sia in Italia che all’estero.

A Napoli il 17 gennaio segnava l’ingresso del Carnevale e, in occasione della festa di Sant’Antonio Abate, si dava fuoco- pratica molto diffusa- a cataste di roba vecchia ( i cippi).Al più comune Carnevale, immaginato come un personaggio grasso e dedito a grandi abbuffate , si affiancava la “ Vecchia ‘o Carnevale”, dalle giovani e prorompenti curve, che trasportava a cavalcioni o sulla gobba un piccolo Pulcinella.

 Giovan Battista del Tufo racconta le tradizioni carnevalesche di Napoli in “Ritratto o modello delle grandezze, delle letizie e meraviglie della nobilissima città di Napoli”. All’epoca degli aragonesi il Carnevale era sontuosamente festeggiato dai nobili che ambivano gareggiare in tornei e giostre e partecipare a  grandiosi ricevimenti, indossando sfarzosi costumi e fulgide armature. Nel XVI secolo il gaudente popolo partenopeo si appropriò di questa festa, inscenando sguaiati canti e rappresentazioni in maschera lungo Via Toledo e nel Largo di Palazzo (l’attuale piazza Plebiscito). La festa, sovvenzionata dai nobili che vi si intrufolavano volentieri, era organizzata dalle Corporazioni delle Arti e mestieri. Ben presto l’allegra usanza di mascherarsi  scavalcò barriere sociali e sconfinò nelle strade e nelle piazze. Memorabile fu la mascherata promossa dal principe di Tarsia che per le vie della città fece sfilare accanto ai paggi, riccamente vestiti, la corporazione dei pescivendoli ornati di gioielli, prestati dagli orefici in cambio di pesce fresco.

Nel 1656 si allestirono carri allegorici, addobbati anche con prodotti mangerecci. Usanza molto gradita che si perpetrò negli anni successivi, grazie alla generosità del re e delle Corporazioni. I carri – cuccagna, che accompagnavano le cavalcate e le quadriglie dei baroni, dei cavalieri e delle Corporazioni delle Arti, venivano poi presi d’assalto dal sempre affamato popolo napoletano. Le maschere al seguito dei carri si esibivano in cartelli carnevaleschi propri, cioè canzoni dialettali scritte su pezzi di carta o di stoffa che scherzosamente decantavano le attività e i  prodotti delle corporazioni e infine venivano lanciati al pubblico e al re.

 

Poiché a volte il saccheggio dei carri provocò gravissimi incidenti, nel 1746  re Carlo di Borbone stabilì che i carri –cuccagna, invece di attraversare la città, fossero allestiti nel largo di Palazzo e fossero presidiati da truppe armate fino all’inizio dei  festeggiamenti.  I carri furono poi sostituiti da  più stanziali  cuccagne, allestite in sei giorni da una schiera di architetti e artigiani e, addobbate con caciocavalli, prosciutti, pollastri, capretti, quarti di bue, agnelli e vino, venivano poi offerte alla plebe durante le quattro domeniche di Carnevale. Dopo pochi minuti dallo sparo del cannone che dava il via all’arrembaggio, delle cuccagne ovviamente non rimaneva nulla. Nel 1764 ci fu una grave carestia , e la cuccagna fu una tentazione troppo forte per il deperito popolo che quindi assalì i soldati e portò via ogni cosa prima dell’inizio dei festeggiamenti. Si rese necessario l’intervento della cavalleria  per riportare l’ordine dopo un inevitabile spargimento di sangue. Così la cuccagna fu sospesa fino al 1773; l’ultima festa si ebbe nel 1778  con saccheggi e tumulti a volte qualche ora, a volte giorni prima dell’inizio. L’anno dopo la Gazzetta Universale annunciò che l’eletto del popolo D. Ferdinando Lignola aveva deciso di abolire questa forma di divertimento rivelatasi troppo pericolosa. Il re pensò bene di devolvere per il matrimonio di  venti povere ragazze la somma destinata al Carnevale.

  Al tempo dei Borboni la festa era annunciata al popolo con il prolungato suono di grosse conchiglie, dette tofe. E via per le strade si riversavano festosi e baldanzosi cortei che danzavano al ritmo di strani e rumorosi strumenti  detti  ‘o putipù,  ‘o triccaballacche e  ‘o scetavaiasse ( quest’ultimo- come dice il nome-poteva addirittura svegliare le volgari vaiasse, che pare sprofondassero in un sonno ristoratore dopo estenuanti fatiche).Una folla chiassosa di uomini,donne e scugnizzi invadeva ogni luogo, circondava le carrozze e ossequiava con coriandoli e uova piene di farina  i malcapitati nobili o abati. Gli aristocratici quindi si limitavano a lanciare coriandoli e fiori da balconi addobbati a festa. I signori preferivano festeggiare partecipando al ballo e al pranzo nel teatro San Carlo, che veniva trasformato per l’occasione . In verità alcune dame e cavalieri approfittavano del Carnevale per travestirsi e mescolarsi al popolo e poter  compiere, indisturbati, lascive trasgressioni.

Nell’800 l’allegra fantasia carnevalesca straripò in idee e costruzioni originali. Basti ricordare  l’insolita e divertente cavalcata di struzzi, che annunciavano il passaggio dei carri allegorici in Via Toledo, oppure i carri con  il cavallo impennato, simbolo della città, con l’immancabile e sorridente popolana al balcone, o la cornucopia dell’Abbondanza o  la seducente sirena Partenope.

Pian piano i festeggiamenti del Carnevale si ridussero a feste rionali. Su un carro troneggiava un  grasso Carnevale , ornato di provoloni, salsicce e prosciutti . Al seguito sfilavano donne in lacrime per il suo cattivo stato di salute, che recitavano le infelici diagnosi dei medici dei tre rioni più popolari di Napoli ( il Mercato, il Pendino e il Porto)  alle quali si  contrapponevano un generale e buon augurio di lunga vita.

E vui ca l’avite visto st’anno/

lu puzzate vede’a ca a cient’anne

(e voi che l’avete visto quest’anno, possiate vedere da qui  a cent’anni).

Interveniva quindi O’ mast’ e festa ( il maestro della festa) che girovagava per le botteghe per  fare la questua in nome del Carnevale e  racimolare qualcosa come rimborso delle spese sostenute.

 Ormai  del Carnevale è rimasto ben poco, se non le mascherate perlopiù dei bambini, e qualche piatto tipico, come la lasagna e la pizza di Carnevale. Il sanguinaccio, gustosa crema di cioccolata fatta – ahimè- col sangue di maiale,  è stato vietato da recenti norme sanitarie e sostituito dal più comune cacao.

 

 

Diversità ovvero non fa la stessa viva sensazione il solletico a tutte le persone

Diverso è colui che si presenta con un’identità, una natura, una conformazione nettamente distinta rispetto ad altre persone. Si tende a riferire la diversità  all’ etnia, al sesso, alla religione, alla condizione sociale o personale. Diverso da chi?

 In genere diverso è chi si discosta dal gruppo prevalente che, con la sua precisa fisionomia ed intrinseca e distintiva omogeneità, dà un senso di appartenenza culturale e sociale.  La diversità più evidente può suscitare disagio in chi si identifica nei più: spesso suscita curiosità, perplessità, talvolta timore…mai comunque indifferenza. Di primo acchito si percepisce la diversità perché radicati alla propria identità, abituati e ancorati a fissi parametri di riferimento. Penso anche all’omologazione estetica che fa capo a modelli stereotipati, propinati dalla moda del momento, imposti sempre più dai media e tacitamente condivisi. In questa dominante uniformità, dettata da un senso di appartenenza e di sicurezza, in realtà esiste una diversità nella sfera emotiva e cognitiva dei singoli.

Nella collettività apparentemente uniforme dei più, ciascuno ha una propria specificità e individualità, che va oltre i dati anagrafici e  le proprie radici. Ne sono prova  la varietà di pensieri, sensazioni, emozioni, sentimenti: in parte sono universalmente sentiti, anche se generati da diversi contesti di vita, altri sono affini, ma non sempre uguali, altri ancora opposti, contrastanti o, per meglio dire, semplicemente diversi. Inoltre ciascuno  ha una propria indole e carattere, attitudini, convinzioni, fede, abitudini che lo contraddistinguono e influiscono o condizionano  scelte diverse.

 La diversità però non è solo tra i singoli, ma si sviluppa pian piano anche nel singolo.Col tempo la persona si arricchisce grazie alle diverse esperienze sociali, culturali, professionali e nelle varie fasi della vita cambia e diviene. Acquisisce capacità, competenze, responsabilità, potenzialità diverse. Nutre ambizioni, aspettative ed interessi diversi. Vive esperienze, occasioni di scontro, confronto e crescita diverse. I più evidenti mutamenti naturali sono accompagnati da cambiamenti più profondi, non sempre consapevoli, che riguardano il modo di pensare, di sentire e di rapportarsi, di aprirsi o chiudersi al mondo esterno e agli altri. La vita e l’età cambiano l’individuo in  un impercettibile talvolta ciclico divenire che fa parte del processo di maturazione della persona. Si diventa un po’ ibridi di se stessi, extracomunitari del proprio io originario.

In tenera età si parte da una visione egocentrica e gradualmente si costruisce prima la percezione di sé e della propria identità personale e collettiva, per poi cogliere la diversità altrui come un qualcosa di avulso da sé nelle sue molteplici forme, imparando pian piano a confrontarsi e, si spera, ad accettarla e rispettarla. Ciò non implica necessariamente condivisione, ma riconoscimento della diversità per poi passare ad un’eventuale e successiva volontà di conoscerla.

Chi reagisce con ferma e rigida chiusura è ancora agli inizi di un processo di maturazione, erge un muro senza spiragli dentro di sé. Mi è piaciuta molto l’immagine della porta scorrevole in  “L’eleganza del riccio” di Muriel Barbery, un romanzo eccezionalmente delicato sia nella forma che nel contenuto.

Rifacendosi ad un film giapponese, la protagonista riflette

“…ero rimasta affascinata dallo spazio vitale giapponese e dalle porte scorrevoli che rifiutano di fendere lo spazio in due e scivolano dolcemente su guide invisibili.

Giacchè quando noi apriamo una porta, trasformiamo gli ambienti in modo davvero meschino. Offendiamo la loro piena estensione e a forza di proporzioni sbagliate vi introduciamo un’incauta breccia…” A riguardo di una porta aperta “ nella stanza dove si trova, introduce una sorta di rottura… che spezza l’unità dello spazio. Nella stanza contigua provoca una depressione, una ferita aperta e tuttavia stupi

da, sperduta su un pezzo di muro che avrebbe preferito essere integro. In entrambi i casi turba i volumi, offrendo in cambio soltanto la libertà di circolare, la quale peraltro si può garantire in molti altri modi. La porta scorrevole, invece evita gli ostacoli e  glorifica lo spazio. Senza modificarne l’equilibrio, ne permette la metamorfosi. Quando si apre, due luoghi comunicano senza offendersi. Quando si chiude, ripristina l’integrità di ognuno di essi. Divisione e riunione avvengono senza ingerenze. Lì la vita è una calma passeggiata, mentre da noi è simile a una lunga serie di violazioni.”

 

Un equilibrato, pari, moderato, rispettoso scambio di aperture e chiusure, di simultaneo confronto all’ esterno e radicamento alla propria individualità. Forse per riconoscere la diversità basterebbe la fluidità di una porta scorrevole.

 

I bambini nascosti e Irena Sendler

Durante l’Olocausto furono assassinati circa due milioni di bambini. Si stima che circa venti, trentamila bambini di età inferiore ai quattordici anni, tra i quali molti neonati, siano sopravvissuti alla guerra perché affidati dai genitori a persone di buon cuore  e a istituzioni cristiane o perché rimasero a lungo nascosti in vari rifugi . Alcuni bambini nascosti sopravvissero da soli nelle foreste e nei fienili, vivendo in un continuo stato d’allerta.

“Non eravamo come gli altri. Nessun altro poteva capire il nostro passato. Noi, i bambini dell’Olocausto, eravamo stati ignorati, le nostre parole troppo deboli per essere ascoltate. Invisibili, portavamo il nostro fardello in silenzio e da soli.

Avevo 12 anni nel 1942 quando, nel pieno della notte, dei soldati tedeschi a Żabno, in Polonia, dove vivevamo, mi puntarono addosso una pistola e mi chiesero dove fosse mio padre. Dissi che non lo sapevo. scesero nello scantinato dove mio padre si nascondeva e gli spararono a morte. Mia madre, mia sorella Rachel e io dovemmo fuggire in un fattoria nelle vicinanze…

La proprietaria ci fece rimanere controvoglia, ignorandoci totalmente. Rimanemmo lì per due anni e mezzo.In tutto quel tempo non ci diede mai nemmeno un bicchiere d’acqua…Potevo uscire solo quando non c’era la luna. Se mi avessero visto sarei stata spacciata…dovevamo bisbigliare – per due anni e mezzo non parlammo mai con un tono di voce più alto del sussurro! Né potevamo uscire con la luce del sole. Eravamo attaccati alla vita con un filo sottile, sempre infreddoliti, con la paura delle ombre, di corsa, in ascolto. Ogni giorno, ogni notte, portava del nuovo terrore. Era un’esistenza veramente terribile ma, nonostante fossi così spaventata, non ho mai pensato di darmi per vinta “(Ann Shore (Hania Goldman), in seguito divenne presidente della Hidden Child Fundation).

Ci furono però anche persone che si esposero in prima persona per aiutare i più indifesi, cioè le migliaia di bambini che morivano di fame, freddo e tifo nel ghetto di Varsavia. Dal 1939 al 1942 nel ghetto furono trasferite dai villaggi centinaia di migliaia di ebrei; nel 1941 c’erano oltre 400.000 persone, tra le quali tanti bambini, che si pensava di sterminare lentamente per fame. I più piccoli impararono ad uscire dal ghetto, spesso attraverso le fogne, per raggiungere la zona ariana in cerca di qualcosa da mangiare per sé e per gli altri, sfidando tanti pericoli e la sorveglianza dei soldati. Quelli rimasti orfani furono abbandonati a loro stessi per le strade. In seguito furono deportati nei lager, perlopiù a Treblinka. (informazioni  tratte da “Il futuro spezzato- i nazisti contro i bambini”, di Lidia Beccaria Rolfi e Bruno Maida.)

Un‘infermiera ed assistente sociale, Irena Sendler, ebbe il permesso di lavorare nel ghetto di Varsavia; spesso si spacciò per tecnico di condutture idrauliche per collaborare con la Resistenza polacca e portare in salvo circa 2500 bambini ebrei, nascondendo i più piccoli nella cassetta degli attrezzi e i più grandi in un sacco di iuta. Si avvalse del prezioso aiuto di un cane addestrato a stare nel camion e ad abbaiare per avvisare dell’arrivo dei nazisti o per coprire il pianto dei bambini. Quando fu scoperta, Irena subì la violenza dei soldati tedeschi che le spezzarono braccia e gambe. A guerra finita cercò di rintracciare i genitori sopravvissuti di quei bambini, dei quali aveva scritto i nomi veri accanto a quelli falsi in elenchi ben nascosti in barattoli sepolti sotto un albero del suo giardino; sistemò molti orfani presso famiglie affidatarie ed istituti. Al parlamento polacco che nel 2007 la proclamò eroe nazionale, Irena scrisse “Ogni bambino salvato con il mio aiuto è la giustificazione della mia esistenza su questa terra, e non un titolo di gloria”

Tempo fa è stata proposta per il premio Nobel per la pace, ma non è stata nominata. Nel 2008 è volata via all’ età di 98 anni.

 

Le pietre d’inciampo per non dimenticare ( Giornata della Memoria)

“Foste i nostri liberatori, ma noi sopravvissuti, malati, emaciati, a malapena umani, fummo i vostri maestri. Vi insegnammo a comprendere il regno della notte” (Elie Wiesel, liberato a Buchenwald).

Il 27 gennaio ricorre la Giornata della Memoria in ricordo degli ebrei e di tutte le vittime dei campi di sterminio che hanno lasciato un segno indelebile nella coscienza civile. A Roma capita di imbattersi nelle pietre d’inciampo collocate dinanzi ad alcune abitazioni: si chiamano “Stolpersteine”, opere dell’artista tedesco Gunter Demnig realizzate su richiesta dei parenti di coloro che inciamparono in un tragico destino. Sono sampietrini ricoperti da una lastra di ottone sulla quale sono incisi il nome, la data di nascita e di morte, il luogo di deportazione di un perseguitato dai nazi-fascisti per motivi razziali, politici e militari. Inducono a fermarsi e a riflettere su un dolore profondo, di cui a stento si riesce a parlare.

La mattina di sabato 16 ottobre 1943 le SS irruppero nel ghetto di Roma e deportarono circa 1040 persone ad Auschwitz. Ne tornarono solo 17. Su 288 bambini e ragazzi da 0 a 15 anni, ne sopravvisse solo uno, Enzo Camerino nato nel 1928. Tra 288 giovanissimi c’erano 10 ragazzi di quindici anni, 15 di quattordici, 19 di tredici, 17 di dodici,16 di undici, 17 di dieci,10 di nove,16 di otto anni e 16 di sette,23 di sei,21 di cinque,24 di quattro,23 di tre,25 di due anni e 13 di un anno. Con loro muoiono 2 bimbi di 10 mesi, uno di 9, due di 8,due di 7,5 di sei, 2 di  cinque mesi, due di 4, tre di tre mesi, uno di 15 giorni e un neonato venuto alla luce poche ore dopo l’arresto della madre. Si aggiungano un bimbo e una bimba dei quali non si conosce l’età.

Di mattina presto un merciaio ambulante, Settimio Calò di 44 anni, abitante nel Portico d’Ottavia n 19 uscì da casa per fare la coda in una tabaccheria. Al ritorno trovò la casa vuota: i tedeschi avevano portato via la moglie, Clelia Frascati di 43 anni, e i 10 figli: Bellina di 22 anni, Esterina di 20, Rosa di 18, Ines di 16, Raimondo di 14, David di 13, Elena di 11, Angelo di 8, Nella di 6, Lello Samuele di circa 6 mesi. Con loro anche il cuginetto Settimio di 12 anni che quella notte per caso era stato ospitato dai Calò. Morirono tutti nelle camere a gas appena arrivati ad Auschwitz il 23 ottobre 1943. (informazioni  tratte da “Il futuro spezzato- i nazisti contro i bambini”, di Lidia Beccaria Rolfi e Bruno Maida. Libro dedicato alla piccola Sissel Vogelmann e a tutti i bambini assassinati.)

 

Ci sono libri che a volte possono cambiare la vita; nella loro documentazione storica sono un pugno allo stomaco, aiutano però a definire i valori fondamentali della vita. Ci sono descrizioni di obbrobri che una mente “normale” respinge nella sua capacità di immaginazione perché turbano troppo e lasciano dentro il monito “Mai più”, in nessuna parte del mondo, si ripeta quel delirante accanimento che non concedeva alcuna pietà, nemmeno nei riguardi dei bambini. Libri scritti perché “la condizione dei bambini non è una faccenda di lacrime o di buon cuore, ma il sintomo di un’umanità che, senza accorgersene, sta abdicando alla condizione della propria conservazione e alla conservazione della propria identità. Questa condizione si chiama trasmissione culturale che ha proprio nei bambini i loro destinatari. Dimenticarlo significa avviarsi rapidamente alla fine del mondo … “ (U. Galimberti  “Che cosa sono i bambini?”, in  la Repubblica ,24 marzo 1997).

 

Canta, canta la cicala…

 

La cicala depone uova negli steli d’erba dalle quali a settembre si schiudono le ninfe che sprofondano nella terra; le larve di cicala vivono circa quattro anni sottoterra e, dopo i sette stadi larvali, raggiungono la maturità e iniziano una nuova vita all’ aperto. La cicala si nutre della dolce linfa delle piante, perforandone lo xilema ( tessuto vascolare); invece le formiche, insetti iperattivi di una comunità sociale super organizzata ove ogni componente ha un ruolo specifico ben definito, spesso sono attratte dalla linfa scoperta dalla cicala e accorrono per sfamarsi, costringendola a spostarsi e a trivellare la pianta in altri punti .

La famosa favola di La Fontaine   narra invece di una formica laboriosa e provvida che faticava sotto il sole per accumulare provviste per l’inverno, mentre la cicala si dedicava all’ozio estivo e al canto. Quando arrivò il freddo, la cicala affamata chiese aiuto alla formica ma

“La Formica che ha il difetto
di prestar malvolentieri,
le dimanda chiaro e netto:
– Che hai tu fatto fino a ieri?
– Cara amica, a dire il giusto
non ho fatto che c
antare 
tutto il tempo.– Brava, ho gusto;
balla adesso, se ti pare.”

Trilussa ribalta il finale in

La Cecala d’oggi”

 Una Cecala, che  pijava er fresco

all’ombra der grispigno (insalata) e de l’ortica,

pe’ da’ la cojonella (per canzonare) a ‘na Formica

cantò ’sto ritornello romanesco:

“ Fiore de pane,

io me la godo, canto e sto benone,

e invece tu fatichi come un cane.

“ Eh! da  qui ar bel vedé ce corre poco:

– rispose la Formica –

nun t’hai da crede mica

ch’er sole scotti sempre come er foco!

A momenti verrà la tramontana:

commare, stacce attenta…”  

Quanno venne l’inverno

la Formica se chiuse ne la tana.

ma , ner sentì che la Cecala amica

seguitava a cantà tutta contenta,

uscì fòra e je disse:  “Ancora canti?

ancora nu’ l a pianti?”

“ Io? – fece la Cecala – manco a dillo:

quer che facevo prima faccio adesso;

mó ciò l’amante: me mantiè quer Grillo

che ’sto giugno me stava sempre appresso.

Che dichi? l’onestà? Quanto sei cicia!( di poco spirito)

M’aricordo mi’ nonna che diceva:

Chi lavora cià  appena una camicia,

e sai chi ce n’ha due? Chi se la leva.”

 Se la morale della favola di La Fontaine è “chi nulla mai fa, nulla mai ottiene”, nei versi di Trilussa i marpioni ottengono comunque, senza troppi sforzi e lunghe attese.

In verità in entrambi i casi la cicala vive spensieratamente  il presente senza troppi timori per il futuro… 

E voi, vi sentite più cicala o più formica? 

 

L’incubatrice di sogni …

Al tempo dei sumeri (4000 a.C.) era diffuso il rituale dell’incubazione. Questa pratica richiedeva che un sognatore scendesse in un luogo sacro sotterraneo, dormisse una notte sognando e andasse da un interprete a raccontare il sogno, che di solito rivelava una profezia. Nella Grecia arcaica il rituale fu ripreso anche dai sacerdoti di Esculapio che, svolgendo un’attività simile nei loro templi e santuari, assumevano un ruolo di cura e guida spirituale. Un noto interprete fu  Artemidoro di Daldi, autore di Onirocritica (Ὀνειροκριτικά) , opera in cinque libri sull’ interpretazione dei sogni in cui si discostò dalle pratiche magiche in voga al suo tempo, evitando di consigliare comportamenti futuri . Artemidoro fece una prima classificazione scientifica dei sogni distinguendo quelli legati a episodi storici, al passato e al presente e quelli, profetici e simbolici, relativi al futuro.

In epoca moderna  Freud riprese l’argomento e, proclamando “che  il sogno è la via maestra per esplorare l’inconscio”, diede quindi origine alla psicoanalisi, disciplina di profonda indagine psicologica che si sviluppò di pari passo con l’analisi e l’interpretazione  dei sogni.

I  napoletani, sognatori più pragmatici che tentano la fortuna, interpretano non solo i sogni,  ma anche i vari fatti quotidiani, traducendoli in numeri da giocare al lotto dopo averli ricavati dalla smorfia napoletana. Quando mi capitano fatti eccezionalmente strani o curiosi, mi ripropongo anch’io di giocare i  numeri corrispondenti con la speranza di azzeccare un terno secco…peccato però che immancabilmente me ne dimentichi e chissà cosa significhi in termini psicanalitici quest’inconscia rimozione di tentare la sorte.

In sintonia col mio bradipismo di fine settimana ( da non confondere col bradisismo, please  😉 ),  per me uno dei tanti piaceri della vita è dormire sognando. Nulla di più libero e liberatorio, imprevedibilmente sorprendente, allettante dove lasciare decantare se stessi. Non sempre sogno, o meglio, riesco a ricordare i sogni. In un fantascientifico futuro non disdegnerei di trasformarmi professionalmente in un’incubatrice di sogni, possibilmente piacevoli… una tantum vivrei qualche incubo a mo’ di horror sponsorizzato dall’ inconscio. Sicuramente il canale onirico sarebbe più vario, divertente e interattivo di  quelli televisivi e la ricostruzione dei sogni mi appassionerebbe più di un sudoku.

Talvolta i sogni sono ricorrenti, a volte premonitori: lasciano emergere tracce nascoste della vita psichica. Credevo che rivelassero  solo le proprie emozioni, paure, desideri, traumi inconsci. Anni fa però, quando nulla faceva presagire il viaggio improvviso di una persona a me molto cara, nello stesso istante in cui avanzava nell’Altro Infinito, lei mi apparve in sogno. Mi salutava con la mano mentre indietreggiava. Per la prima volta mi svegliai di soprassalto con un senso d’angoscia. Appena si fece mattina, telefonai ed ebbi conferma. Dopo aver vagliato una mia eventuale autosuggestione alla luce di un  precedente scetticismo, ho concluso che ci sono cose che sfuggono ad ogni logica umana e ragione e che si appellano o ad un sesto senso, sempre operante che fa presagire, oppure all’inspiegabile empatia che a volte nasce tra anime e che può  rivelarsi tra le misteriose pieghe dei sogni.

Vi è mai capitato?