Simbolismo del presepe: luoghi e personaggi.

 

Sacro e profano, fede e superstizione, realtà ed immaginazione, costante celebrazione di vita e di morte  sono ingredienti ben amalgamati nel presepe napoletano che si apprezza non solo per la raffinata manifattura, ma anche se si comprende la  valenza simbolica dei suoi elementi e dei suoi personaggi.

 La grotta ,simbolo del grembo materno, offre riparo al Bambino, ai pastori e agli animali e segna il confine tra la nuova luce e le tenebre . Le ripide  montagne e le salite rendono arduo il cammino per raggiungere  il Salvatore, come difficile è la redenzione dal male. L’anacronistico castello, non a caso posto in alto e difeso da un soldato romano rappresenta il  potere e richiama la strage degli Innocenti, mentre la chiesa e le edicole votive esprimono la religiosità collettiva. 

Benino dormiente  è colui che s’incammina  verso la verità  e la sua capanna rappresenta una vita semplice e precaria . Il pastore adorante è arrivato alla fine del percorso e può finalmente contemplare il divino. L’acqua dei ruscelli, dei laghetti, delle fontane e dei pozzi simboleggia sia la vita che la morte, rigenera e purifica (acquaiolo e  lavandaia ),ma può anche distruggere e rapire come quella della  fontana e del pozzo che collegano col misterioso ed insidioso mondo  sotterraneo  degli Inferi (Maria Manilonga), mentre  il ponte su corsi d’acqua o tra i monti agevola il passaggio dal mondo dei vivi a quello dei morti.

 

La  taverna è un luogo di “perdizione”, ove regnano i vizi di gola, lussuria, gioco ed ubriachezza;  a volte vi compaiono anche un monaco ubriaco, che rappresenta la corruzione temporale della chiesa, e i giocatori di carte, detti Zì Vicienzo e Zì Pascale che  hanno poteri divinatori.  La varietà di  prodotti alimentari e ortofrutticoli, in bella mostra nelle botteghe o sui carretti, sono l’ abbondanza e la ricchezza della natura che può appagare l’atavica fame e la miseria del popolo spesso rappresentate da Pulcinella o dal mangiatore di maccaroni.

Gli alberi simboleggiano conoscenza, sapienza e crescita, il fuoco è energia vitale,  il mulino e la vecchia che fila la lana scandiscono il tempo che passa, la macina simboleggia morte e purezza. Anticamente nel presepe, soprattutto sulle montagne, era presente anche un diavolo , poi soppiantato dal  macellaio, dall’oste e dal barbiere  che rievocano simbolicamente il male e il sangue. I numerosi mendicanti, spesso deformi (guercio, zoppo, storpio, la contadina col gozzo,  la vedova rapata) rappresentano le anime purganti o pezzentelle che invocano preghiere di suffragio sulla terra. 

 

La zingara preannuncia profezie non sempre serene, Ciccibacco ‘ncopp’a votte (Cicci Bacco sulla botte), su un carro simboleggia Dioniso, accompagnato da pastori e caprai, è l’umanità gaudente e festosa, la vecchia che dà mangime alle galline è il simbolo di Demetra che nutre Kore, Core cuntento ‘a loggia (Cuor contento sulla loggia) è l’allegria, la donna col bambino, cioè Stefania, rappresenta la maternità.

Gli animali hanno molti significati: il cane rappresenta la  fedeltà e la promiscuità, la gallina indica fertilità, le pecore invece la morte, il maiale sia la lussuria che la parsimonia, i pappagalli, le scimmie e gli  elefanti sono il gusto per l’esotico.

Vita e morte sono complementari nel presepe napoletano, scrigno prezioso non solo di storia, fede e tradizioni, ma anche di un’ intramontabile filosofia della vita.

 

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A Eduardo direi: “Sì, mi piace il presepe” 

Fanno la fantasia volare, nella magica notte di Natale.

Ogni anno, nella notte del 24 dicembre, Comet, Dancer, Dasher, Prancer, Vixen, Donder, Blitzen, Cupid attraversano la cupola stellata. In  italiano i loro nomi corrispondono a Cometa, Ballerina, Fulmine, Donnola, Freccia, Saltarello, Donato, Cupido. Chi sono? Le renne di Babbo Natale che hanno l’onore e l’onere di trainare la slitta carica di doni, come recita la seguente  filastrocca.

 

“Non solo fanno la slitta volare

e in ciel galoppano senza cadere
Ogni renna ha il suo compito speciale
per saper dove i doni portare.

 
Cometa chiede a ciascuna stella
Dov’è questa casa o dov’è quella.
Fulmine guarda di qui e di là
Per sapere se la neve verrà.

 

Donnola segue del vento la scia
schivando le nubi che sbarran la via.
Freccia controlla il tempo scrupoloso
ogni secondo che fugge è prezioso.

 
Ballerina tiene il passo cadenzato
per far che ogni ritardo sia recuperato.
Saltarello deve scalpitare
per dare il segnale di ripartire.

 
Donato è poi la renna postino
porta le lettere d’ogni bambino.
Cupido, quello dal cuore d’oro
sorveglia ogni dono come un tesoro.

 
Quando vedete le renne volare

Babbo Natale sta per arrivare.”

  Qui però ho scovato una leggenda che narra in una versione fantasiosa e suggestiva la storia delle renne di Babbo Natale.

 

Nella notte dei tempi Babbo Natale  vide spuntare tre code d’oro da un mucchio di neve. Rimase sorpreso quando scoprì che c’erano due , e non tre, cuccioli di renna dal manto dorato. Erano renne gemelle e una di esse, Vixen, aveva due code. Mamma renna li aveva salvati dai cacciatori nascondendoli sotto la neve. Pare che Babbo Natale raccolga i loro crini d’oro per regalarli ai più bisognosi. Dixen ( Blitzen?) invece è sempre raffreddata e le gocce, che dal suo naso cadono a terra, magicamente si trasformano in bellissimi fiori.

 Comet attraversa velocissima l’universo, come una stella cometa,  e capta i desideri espressi dai bambini per poi  riferirli a Babbo Natale.

Donder è nata cantando e dall’inizio ha rotto  i timpani ai suoi genitori. Poi ha imparato a modulare la voce per cantare tutte le canzoni del mondo, imitando sia le voci maschili che quelle femminili. Controlla i bambini e li rimprovera quando combinano qualche marachella, imitando la voce dei loro genitori. Si accompagna con la ballerina Dazzle (Dancer) che conosce tutti i ritmi del mondo. Ai bimbi tristi  suggeriscono i movimenti giusti per imparare a danzare e a cantare con allegria.

Cupid ha una macchia rossa a forma di cuore sul petto, che sembra pulsare forte forte quando il vento freddo smuove il pelo. È la renna più tenera e docile, che desidera stare sempre vicino a Babbo Natale. Ha un fiuto incredibile nel trovare in una montagna di letterine quella del bambino più buono per consegnarla prontamente a Babbo Natale.

Prancer è la renna più timida, ma così timida che, per non essere vista, di giorno stava sempre nascosta dentro un albero cavo. E’ stata l’ultima renna ad essere trovata da Babbo Natale che la fece avvicinare dalla dolce Cupid. Prancer rimase stupita che nessuna renna l’avesse derisa per la sua timidezza , ma Babbo Natale le spiegò che nessuno è perfetto e che anche le altre renne avevano qualcosa di speciale. Da quel giorno Prancer lasciò il nascondiglio e tutta rossa in muso si unì in volo alle altre renne.

Dasher è la più coraggiosa del branco. Quando nacque aveva denti da castoro per cui la sua mamma la nutrì con carote perché era difficile allattarla. Dasher rafforzò la dentatura e ancor oggi vola dietro Rudolph per mettere in fuga, a suon di morsi, qualche uccellaccio malintenzionato e  pronto a rubare un sacco pieno di doni.

 Le renne poi divennero nove grazie a Rudolph, la renna dal luminoso naso rosso che a lungo fu oggetto di scherno da parte delle sue compagne. Il giorno precedente la  vigilia di Natale, Babbo Natale era molto preoccupato perché  una fitta nebbia oscurava il cielo e, se persistente, l’indomani avrebbe impedito la consegna dei doni ai bambini di tutto il mondo. Nel vederlo piangere Rudolph si intristì e il suo naso cominciò a brillare ancora di più, con grande imbarazzo della piccola renna. Babbo Natale però iniziò a fare salti di gioia, mentre le altre renne lo guardavano incredule. Quando Babbo Natale comunicò la decisione di affidare a Rudolph il compito di illuminare il cielo e guidare il branco, le renne festeggiarono  e si resero conto che a volte ciò che può sembrare un difetto, in realtà è un pregio.

 La storia di Rudolph fu scritta nel 1939 da Robert May, che lavorava in un grande magazzino di Chicago. Memore di tutte le derisioni subite da ragazzo perché considerato troppo alto e magro, inventò questo racconto che  intenerì tanti e divenne molto popolare. Circa dieci  anni più tardi  Johnny  Marks scrisse la canzone “Rudolph, the Red-nosed Reindeer (la renna col naso rosso)”  che negli anni ’50, grazie alla radio, diffuse ovunque la leggenda di Rudolph. Ancor oggi è cantata  in occasione delle feste di Natale per ricordarci la buffa renna che ha salvato la magia del Natale nella fantasia di grandi e piccini. 

A Eduardo direi: “Sì, mi piace il presepe” .

Mio papà dedicava un intero fine settimana per allestire il  presepe in un camino, ovviamente non funzionante . Preparava  la colla con acqua e farina, che  cospargevamo su carta da pacchi marrone cui davamo la forma di montagne, dipinte poi  con le tempere. Mi dava indicazioni per  costruire casette di cartone di varie dimensioni: le più piccole erano le più lontane. Il cielo era stellato, di quelli già pronti invece. Le montagne ostili, rigorosamente innevate, erano cosparse di agglomerati urbani surreali, illuminate da lucine interne che papà, armeggiando a lungo, riusciva a posizionare.

Ogni anno creavamo la grotta in un punto diverso dello scenario…a volte era arroccata, a volte in pianura. Un anno quei poveri Re  Magi, che spostavamo giorno per giorno, dovettero inerpicarsi tra stretti sentieri montani per raggiungerla. Povero soprattutto il cammello al seguito, che a stento ci passava e il più delle volte precipitava facendo una strage di pastori. Nel muschio affondavano greggi immensi di pecorelle di varia grandezza. Il laghetto era uno specchietto sovrappopolato di paperelle tra le quali spiccava pure un cigno gigantesco, che vi aveva sconfinato emigrando da un’altra collezione di animaletti.

Un giorno mia madre portò a casa nuove statuine: una vecchina che filava, un ciabattino, un pescivendolo col banchetto del pesce e una statuina mai vista prima di allora. La più affascinante di tutte. In verità era una coppia di personaggi: un uomo che portava un orso legato ad una fune. Sembravano due compari. L’orso, massiccio ed enorme, era in piedi e stava a fianco dell’uomo. Non ci azzeccava nel presepe ma forse, libero, poteva ambientarsi tra le montagne. Ne fui conquistata. Divenne la mia statuina preferita, quella che mettevo in bella mostra suscitando la curiosità di chi si trovava a contemplare il mio presepe.

Perchè fare un presepe è un rituale divertente per grandi e piccoli…ma è rigorosamente d’obbligo ammirarlo ed esprimere giudizi positivi, anche se è poco artistico o non si rispettano le proporzioni, non per altro per riverire  la fatica sostenuta e il suo intrinseco significato. 

L’allestimento di un presepe è  una vera e propria arte, molto viva a Napoli.Ogni anno mi piace visitare quelli permanenti dei Musei  ( merita di essere visitata la sezione presepiale del museo di San Martino , oppure all’entrata della chiesa di  Santa Chiara) o allestiti temporaneamente nelle chiese o nelle varie mostre della città che espongono pezzi di collezioni private. Molto originali quelli in miniatura o di terracotta protetti da bacheche e campane di vetro, incisi  con abile e creativa maestria. Quando posso, visito la via dei presepi a San Gregorio Armeno, nel centro storico di Napoli. Qui ci sono solo  botteghe artigianali rinomate per l’assortimento di  statuine che  rappresentano sia i personaggi tradizionali, sia quelli profani( pare che quest’anno siano molto richiesti (Steve Jobs, Monti, il principe  William e la consorte Kate ). Mi incanto a vedere le sfaselle (ceste) in miniatura piene di ortaggi e frutta, i cesti ricolmi di uova o formaggi, le cassettine dei pesci, polpi, crostacei e frutti di mare,  le ‘nserte (trecce) di pomodorini e  cipolle, i meloni di Natale  in rete che adornano le facciate delle tipiche case napoletane riprodotte nei presepi, le botteghe del fruttivendolo, del fabbro, del  fornaio e del vinaio, le  stalle con armenti e pecore. 

Nel presepe napoletano, gli elementi fisici e antropici dei paesaggi hanno una collocazione talvolta non  casuale ed assumono un significato simbolico. Per esempio i venditori rappresentano i dodici mesi dell’anno (il macellaio o salumiere rappresentano gennaio, il venditore di ricotta e formaggio febbraio, il  pollivendolo marzo, il venditore di uova aprile, la venditrice di  ciliegie maggio, il panettiere giugno, il venditore di pomodori luglio e quello di cocomeri agosto, il contadino settembre, il vinaio ottobre, il venditore di castagne novembre, il pescivendolo dicembre).

Il presepe è un connubio di sacro e profano, espressione di rigorosa progettualità spaziale e creatività  nella celebrazione costante di vita e morte (l’acqua del fiume e del pozzo assumono duplici significato, il ponte), del regno dei cieli (pescatore), della terra (cacciatore) e degli inferi(fiume che ricorda il traghettamento dei dannati), di realtà e immaginazione ( fontana e Benino che sogna il presepe), di eternità e tempo (le pale del mulino indicano il fluire inesorabile del tempo, il cavallo bianco  dei Magi indica l’aurora, quello rosso il mezzogiorno,e il nero la sera e la notte). Spesso La Natività è sospesa su una piccola altura, tra le schiere degli angeli e  il livello sottostante ove si muove un’umanità di popolani dalle mille smorfie e nobili compassati finemente vestiti, di umili e potenti, di gaudenti peccatori (Meretrice, Cicci Bacco col fiasco in mano) e devoti fedeli ( Stefania che si finse madre avvolgendo  una pietra nelle fasce per arrivare dal bambin Gesù e il giorno dopo la pietra fu tramutata in bambino, Santo Stefano, festeggiato il 26  Dicembre), di animali esotici e domestici.

Un popolo che coralmente avanza  verso il nuovo sole, quel Bambino che rappresenta non solo una  volontà soprannaturale, ma anche  il trionfo naturale della vita. Una vita venuta al mondo senza nulla e nonostante tutto, adorna soltanto di amore e della luce delle stelle, accolto dalla mansuetudine di un bue e di un asino, riconosciuta nel suo valore assoluto e divenuta poi un punto di riferimento per tanti. Ogni anno si rivive un po’ la magia del Natale nel suo significato di rinascita interiore forse perché, a prescindere dalla condivisione di fede, il presepe è la sintesi dell’umanità di sempre che tra arti e mestieri, stagioni, scorci di case, mari, valli e montagne, gioia e dolore (zi’ Vicienzo e zì Pascale, simboli del Carnevale e della morte), piacere e spiritualità è tutta protratta al festeggiamento della vita, quella più semplice e innocente di un bambino, sospesa tra terra e cielo, prodigio della natura o magia divina. E’ difficile definire luce e amore. Ma quel bambino ne incarna il concetto. Suscita tenerezza ed evoca la fase iniziale di un percorso, dalla quale siamo partiti tutti. 

Natale è anche questo, forse soprattutto questo: riscoperta di una dimensione che ci appartiene comunque, un richiamo a  quell’originaria  purezza d’animo che si rivive con una gioia un po’ malinconica man mano che avanzano le nostre stagioni.

Auguri di luce e serenità a tutti. Buon Natale!

 

Di che pasta sei?

… fra questo ceto c’è il maccheroncino,

Riccio di foretana e tagliarello

Cannarone di prete e fidelino

Cappelluccio, spaghetto e vermicello;

Lingua di passero e paternostrino

Di prete orecchio e scorza di nocello,

Lagana, tagliolino e stivaletto

Lasagna grossa e piccola, e anelletto:

Poscia le punte d’aghi, le stelline,

Che van più di mille in un boccone,

E le grate a mangiar rose marine

Li ditali e semenze di mellone,

Li tacchi e di scarola le semine,

Lo gnocchetto e di zita il maccherone

Acinetti di pepe e laganelle,

Seme di peparoli e tagliarelle.

Ma però, come diss’io, il primo vanto

Porta fra tutti quanti il maccherone.

 

(Antonio Viviani,  “ Li maccheroni di Napoli”- 1824)

 

Ebbene sì, lo confesso: dopo aver letto questi versi, in piena notte fortissimamente resistetti  alla tentazione di preparare  un piatto di pasta… mi sarei accontentata anche di  un po’ di pastina, sciuè sciuè.

 Quante curiosità sulla storia della pasta !

I pastai producevano un nuovo formato di pasta in onore di  re, regine, nobili e personaggi illustri che andavano a Gragnano per visitare i pastifici.

Nel luglio del 1845 re  Ferdinando II con moglie, figli e corte al seguito, scortati da ben quaranta cavalieri, visitò gli opifici di paste lunghe e  gradì molto i maccheroni, così dispose che durante il suo soggiorno nel Real sito di Quisisana (presso Castellammare di Stabia)  i pastai di Gragnano gli fornissero la pasta, che per l’occasione fu detta  “  i maccheroni del Re” 

Nel 1885 il re Umberto I di Savoia e la Regina Margherita inaugurarono una  linea ferroviaria che avrebbe agevolato l’esportazione  della pasta collegando Gragnano con Castellammare di Stabia, quindi con Napoli e Caserta. Per l’occasione i pastai di Gragnano crearono le margherite ( pasta minuta) e  le tagliatelle  smerlate di diversa larghezza dette mafalde e le mafaldine .

 

I vari formati di pasta hanno nomi di curiosa derivazione  che rispecchiano l’inesauribile  fantasia  dei pastai .

Orecchiette, linguine, gomiti, occhi, capellini, ricci richiamano il corpo umano.

Oggetti di uso comune hanno dato origine a ruote e rotelline, anelli, crocette, quadretti,  puntine, penne (lisce e rigate), spaghetti e candele, mentre il coltello è indirettamente ricordato nei maltagliati, tagliatelle e tagliolini. L’abbigliamento ha ispirato il nome di fettucce, trenette, maniche e mezze maniche ( mancano gli scamiciati), nocchette, creste, stivaletti, perline, fiocchi, pennacchi, fibbie, guanti e  cappelletti.

Dal cilindro o dall’idraulica sono derivati i tubetti, i tubettoni e  i cannelloni,  dalla forma attorcigliata le eliche, i fusilli, gli stortini,i tortiglioni. I solchi esterni hanno dato il nome alla famiglia di  rigatoni, rigatoncelli  e millerighe.

Fatti storici sono ricordati in tripoline, assabesi, bengasini, mentre la famiglia Savoia  fu onorata con le succitate  mafalde,  mafaldine e margherite.

Paternostri e  avemarie furono prodotti per i devoti  in quanto il loro  tempo di cottura bastava  giusto giusto per recitare una preghiera. I fidelini non s’ispirarono alla fede, bensì al verbo arabo fâd che significa crescere.

Flora e fauna si sono riversate in tanti formati di pasta. Basti pensare alle lumache, farfalle, galletti,  conchiglie, corallini,  calamarata, occhi di lupo, di elefante e di pernice ( da non confondere coi calli), acini di pepe, semi di melone e di mela, risi e risoni, gramigna, sedani.

 Della lasagna , dei vermicelli e  degli ziti o maccheroni della zita, cioè della sposa,  ne avevo parlato qui. Mi fa sorridere l’etimologia  dei paccheri,  che sono maccheroni giganti. In napoletano i  paccheri indicano  i sonanti  schiaffoni a mano aperta ( pare che il nome derivi dal greco “ pan” e  “keir” , cioè tutto e mano) . Per alcuni  il rumore prodotto da un solenne ceffone  richiama quello dei paccheri gustosamente “schiaffeggiati” dalla salsa quando sono rimescolati nella zuppiera, per altri  i paccheri , ben  conditi e magari pure farciti di ricotta, stordiscono  i sensi .

 

Dopo questa indigestione di pasta lunga, corta e minuta, vorreste aggiungere qualche altro formato di pasta? E quale  preferite?

 

Sulla storia della pasta

La pasta ha origini  remote e si può fare risalire a  quando l’uomo riuscì a  mantenere compatto nell’acqua bollente l’impasto di acqua e farina; inizialmente la pasta, strappata in piccoli pezzi, veniva aggiunta a minestre di legumi e verdure, poi  iniziò ad essere modellata con le dita. Nel I sec a. C.  si cuocevano in acqua o in olio i lagana, strisce di schiacciata di farina , citate da Cicerone e Orazio, da cui discendono le lasagne.

Di antica origine sono anche  i vermicelli e gli ziti . I primi, fatti a mano, erano corti, storti e simili a vermiciattoli ,  invece gli ziti , detti anche zite o maccheroni della zita ( cioè della sposa) erano preparati per il pranzo nuziale. Controversa è l’origine dei maccheroni, derivante dal genovese macaròn o dal siciliano maccaruni. In verità maccheroni e vermicelli erano prodotti in Liguria, Sardegna e poi in Campania, ma si ritiene che fino al XV secolo fossero una produzione siciliana acquisita  tramite gli arabi che fecero conoscere la pasta secca ai popoli coi quali commerciavano. Ben presto la pasta fu apprezzata come alimento non deteriorabile e facilmente trasportabile. Sin dal Medioevo la pasta era un piatto riservato ai  ricchi ma, viaggiando da Nord a Sud e viceversa, si esportavano anche cibi e ricette così i  maccheroni  trionfarono  a Napoli  come piatto tipico, gradito quotidianamente dai lazzari, borghesi e nobili .

All’inizio del Cinquecento maccheroni e vermicelli erano largamente  diffusi nel napoletano per cui si resero necessari interventi  legislativi per  regolamentarne la produzione e la vendita e per riconoscere le categorie  dei vermicellari, poi dei maccheronari.

Nel Seicento i napoletani attuarono una vera e propria rivoluzione gastronomica e da mangiafoglie (mangiatori di minestre di verdure)  divennero mangiamaccheroni. La pasta, importata dalla Sicilia e dalla Sardegna che coltivavano grano duro, nella prima metà del Seicento fu prodotta a Napoli e dintorni (Gragnano, Torre Annunziata e località costiere le cui condizioni climatiche ne favorivano l’essiccazione) . Nella Valle dei Mulini , presso Gragnano, sorgevano  trenta mulini ove si macinava il grano e si produceva la semola. Poichè i mulini erano distanti dalle abitazioni, le donne di casa  preparavano i  maccheroni e tutti insieme, padroni e lavoranti, li consumavano a pranzo . Ben presto una clientela sempre più allargata iniziò a recarsi ai mulini per  comprare i maccheroni . Dalla macinazione del grano si passò quindi ad  una produzione artigianale e poi industriale della pasta. Dal primo pastificio , fondato da Montella e Garofalo nel 1789, Gragnano  arrivò ad averne  un centinaio nell’Ottocento, grazie anche al  re Francesco I che promosse lo sviluppo dell’industria pastaria  con sistemi che rendevano più organizzata e igienicamente sicura la produzione della pasta.

 

 

Il popolo  prediligeva i maccheroni “vierdi vierdi”, cioè duri come i frutti acerbi , a differenza dei nobili che li lasciavano cuocere anche per un paio di ore per consumarli scotti, fino a quando in “Cucina teorica-pratica”  del 1837 il nobile gastronomo napoletano Ippolito Cavalcanti Duca di Buonvicino ufficialmente sancì la regola della cottura al dente. Se i ricchi potevano permettersi di condire la pasta con burro, zucchero, cannella e spezie, il popolo mangiava i maccheroni in bianco, poco sgocciolati, con un po’ di pepe, a volte formaggio (pecorino o caciocavallo), oppure un filo d’olio d’oliva o strutto. Solo nel Seicento nel Regno di Napoli si iniziò ad usare il pomodoro come condimento per la pasta , superando pregiudizi radicati in molti paesi fino al Settecento perché si riteneva che lo sgargiante  pomodoro fosse velenoso ed utilizzabile solo per decorazioni o preparati medicinali. Nell’Ottocento il sugo al pomodoro fu finalmente apprezzato come condimento ideale per la pasta,  insaporito anche con olio, cipolla, aglio,basilico, peperoncino.

Re Ferdinando IV, (poi I), amava la pasta e molto poco la formalità tant’è  che soprannominò “lasagnone” il figlio Francesco. Alla sua  corte si consumavano di frequente ravioli, vermicelli al burro , tagliolini e maccheroni con salsicce o pomodoro e ad ogni pranzo di gala non mancava l’ ipersostanzioso timballo di maccheroni, che tutt’oggi vale per primo, secondo e contorno.

Il re sposò la plebea  consuetudine di mangiare i  maccheroni portandoli alla bocca con le mani e rivolgendo gli occhi al cielo  perché “ ‘O maccarone se magna guardanno ‘ncielo!” . In verità questo gesto era  quasi un invito a ringraziare Dio per la bontà concessa, sebbene suscitasse lo sdegno della raffinata sua consorte, la regina Maria Carolina.  Ben presto questa pratica da unti e bisunti  si trasformò in   un’attrazione turistica (della serie:  vedi un po’ ch’a s’adda fa’ pe’ campà) e i “maccaroni eaters” ( mangia maccheroni)  guadagnarono con la loro fame cronica una fama internazionale.  Comunque sia, grazie ad attori napoletani, maccheroni e vermicelli sbarcarono in Francia con  la maschera popolare dell’affamato Pulcinella, esperto “abbrancatore” di pasta.

La pasta però si diffuse all’estero anche  per merito di grandi cuochi come  Francesco Leonardi che, dopo avere servito  re e nobili del Bel Paese e non solo, con le sue ricette a base di pasta conquistò la corte  di Caterina II Imperatrice di tutte le Russie.

“I maccheroni sono un’acuta invenzione della miseria. Essi costituivano la più semplice, la più razionale, la più essenziale utilizzazione del grano. Si mangiavano verdi e sciularielli.

Se ne prendeva un ciuffo con tre dita e si facevano cadere in bocca: la bocca li assorbiva, li succhiava, quasi senza colpo di dente ( ecco perché  in napoletano si dice sciularielli )…

 

Il maccaronaro era lo snack -bar dei lazzari…

 

Lo stato di animo di Pulcinella, il suo permanente stato di animo, è la fame; il suo sogno costante, e mai del tutto appagato, i maccheroni; i maccheroni che erano già nel sei, nel sette e nell’ottocento il piatto unico, la pietanza nazionale dei napoletani…

 

I maccheroni sono la spina dorsale della gastronomia della libertà. I maccheroni chiedono una salsa o un complemento”

 

(Alberto Consiglio, Sentimento del gusto ovvero della cucina napoletana)

 

La pasta al pomodoro ormai è un piatto conosciuto in tutto il mondo. Oggi la fantasia culinaria di piatti a base di pasta si sbizzarrisce in sempre nuovi abbinamenti con salse ed alimenti di origine animale o vegetale che sono una nutriente ed energetica tentazione gastronomica, ma anche una conquista dell’estro creativo che amalgama sapori,colori, odori e buon gusto  senza porre limiti alla storia della pasta.

Notizie tratte da “Maccheronea” di Lejla Mancusi Sorrentino- Grimaldi & C.  Editori ( un libro da divorare!), immagine dal web.

 

“Il Sanguanelo della Valle del Ciòn”

Si racconta che il mitico folletto vestito di rosso  col cappellino a sonagli, si aggirasse di notte  per  fare dispetti gli uomini e agli animali e che si divertisse ad andare nelle stalle ad intrecciare le code dei cavalli, a rubare i panni rossi stesi ad asciugare nelle corti, a sostituire i bambini nelle culle e  a far perdere la strada di notte a chi malauguratamente si fosse messo a seguire le sue impronte.”

 È una  leggenda delle valli dell’Altopiano di Asiago , ricostruita e narrata dall’amica  Filo nel libro “Il Sanguanelo della Valle del Ciòn”, pubblicato di recente.

Il personaggio burlone nacque da una còrnola, forse “da quella più grossa e lucida di quel ramo che spiava il torrente, un po’ isolata dalle sue sorelle…

Toc-toc-toc tre salti ammorbiditi dalla sabbia per fermarsi vicino al bordo della pozza di acqua stagnante. La cornola rimase in terra per qualche tempo, come in attesa dell’evento che di lì a poco sarebbe avvenuto. L’acqua infatti pian piano, quasi in risposta a un irresistibile richiamo, cominciò con lieve movimento ad avvicinarsi alla cornola solitaria, accarezzò il frutto e l’avvolse nel suo dolce abbraccio cullandolo dolcemente. 

Passò il giorno e arrivò la notte. La luna spuntando dietro la cresta dei Ronchi, fece la sua comparsa nel cielo stellato e limpido e si mise all’opera per completare l’impresa iniziata dall’acqua. Con la sua straordinaria forza di gravità capace di alzare e abbassare le acque dei mari e degli oceani, come una misteriosa alchimia, mescolò le molecole dell’acqua con le vitamine della cornola dando così origine a una nuova forma di vita sconosciuta sulla terra.”

Nei racconti di Filo, tra suggestive descrizioni ed un’apparente semplicità narrativa che fanno decollare la fantasia e pensieri più profondi, vivono personaggi reali ed immaginari dei monti e dei boschi ,come  le magiche Anguane , accomunati  dall’improvvisa apparizione dello gnometto rosso. 

“Te vedessi Cati, da soto al paion xè scapà fora un ometo picolo e tuto rosso.”

Salta fuori Checo del Ciòn, con voce ancora più alta:

-Te vedessi come ch’el corea, el ga traversà el Ciòn e l’è ‘ndà su par i Ronchi come un ghiro.-

-El gera rosso come ‘na cornola- borbottò Piero È.

-Come el sangue!- aggiunse infervorato Checo.

I due si guardarono con gli occhi ancora fuori dalle orbite per la sorpresa e dissero:

-Podaria essere el Sanguanelo!” 

 “Ora che i nostri figli stanno perdendo il ricordo dell’originaria armonia in cui tutti gli esseri erano interconnessi e il magico serviva a spiegare l’ignoto, vorremmo anche noi, con l’aiuto del Sanguanelo contribuire a salvare la memoria dei vecchi lavori, degli antichi nomi dei nostri nonni, dei toponimi e delle magiche creature che accompagnavano i giorni dei nostri antenati, creature nate dalla loro accesa fantasia, o forse, da occhi più attenti dei nostri…”

Una ragione in più per farlo rivivere nella nostra fantasia. 

“Il Sanguanelo della Valle del Ciòn”

di Fiorella Lorenzi, illustrato  con le opere di Severino Abriani

 ed. La Serenissima

Lu munaciello

‘O munaciello ( piccolo monaco) è uno spiritello irrequieto, irriverente e beffardo che  si nasconde, appare o si fa solo sentire, ride e diverte, piange e immalinconisce. Un piccolo e bizzarro folletto che  fa sparire oggetti o li fa cadere di mano, disturba il sonno del malcapitato o lo fa inciampare, inaridisce le piante, inacidisce il vino, spaventa gli animali, innervosisce i bambini, provoca sbalzi d’umore nelle fanciulle e pensieri vogliosi nel coniuge. Spesso è dispettoso come un bambino capriccioso, talvolta aiuta l’infelice o il bisognoso. Pare che abbia in simpatia le donne, le belle donne, alle quali lascia ricompense o regali. Animella vagante, triste e rabbiosa, divertente e spiritosa, è di buon augurio se indossa un cappuccio rosso, preannuncia mala sorte se invece ha un cappuccio nero.                                  

Una schiera di creature misteriose, magiche e soprannaturali  popola  caverne, foreste, montagne, pianure, campi, stagni e fiumi nelle tante leggende europee e in quelle delle nostre regioni italiane ( in Puglia un personaggio simile è detto scazzambrèidde, a Potenza ‘u munaciedd, in Basilicata  monacchicchi, in Calabria augurielli o fuddettu, in Sicilia spiritu ‘nfullettu, in Veneto mazacal, in Toscana linchetto, in Emilia Romagna barabanen, in Piemonte sarvanot, nelle Marche mazamuriello).

 

 

Il monaciello appartiene invece alla tradizione napoletana: la sua esistenza è stata tramandata tra storia e leggenda, come racconta  Matilde Serao in “Leggende napoletane” precisando che “ il discernere cose vere dalle false, lo speculare quale sia la favola, quale verità, lo lascio e lo raccomando alla prudenza ed alla saggezza del lettore”. 

 

La quale istoria fu così. Nell’anno 1445 dalla fruttifera Incarnazione, regnando Alfonso d’Aragona, una fanciulla a nome Caterina Frezza, figlia di un mercante di panni, si innamorò di un nobile garzone, Stefano Mariconda. E com’è usanza d’amore, il garzone la ricambiò di grandissimo affetto e di rado fu vista coppia d’amanti egualmente innamorata e fedele. E ciò non senza molto loro cordoglio, poiché per la disparità delle nascite che proibiva loro il nodo coniugale, grande guerra ferveva in casa Mariconda contro Stefano – ela Catarinella, in casa sua, era con ogni sorta di tormenti dal padre e dai fratelli torturata. Ma per tanto e continuo dolore, che si può dire mangiassero veleno e bevessero lagrime, avevano ore di gioia inestimabile. A tarda notte, quando nei chiassuoli dei mercanti non compariva viandante veruno, Stefano Mariconda avvolto dal bruno mantello, che mai sempre protesse ladri ed amanti, penetrava in andito nero ed angusto, saliva per una scala fangosa e dirupata, dove era facile il pericolo della rottura del collo, si trovava sopra un tetto e di là scavalcando, terrazzo per terrazzo, con una sveltezza ed una sicurezza che amore rinforzava, arrivava sul terrazzino dove lo aspettava, tremante dalla paura, Catarinella Frezza. Lettor mio, se mai fremesti d’amore, immagina quei momenti e non chiederne descrizione alla debole penna. Ma in una notte profonda, quando più alle anime loro si schiudeva la celestiale beatitudine del paradiso, mani traditrici e borghesi afferrarono Stefano alle spalle, e togliendogli ogni difesa, dalla ferriata lo precipitarono nella via, mentre Catarinella gridando e torcendosi le braccia, s’aggrappava ai panni degli assassini. Il bel corpo di Stefano Maricorda giacque, orribilmente sfracellato, nella fetida via per una notte ed un giorno: fino a che lo raccolse di là la pietà dei parenti, dandogli onorata sepoltura. Ma invero fu quella morte ignobilmente violenta; e perché vi è dubbio sul destino di quell’anima, strappata dalla terra e mandata innanzi all’Eterno carica di peccati, e perché a gentiluomo non conviensi altra morte violenta che di spada.

 La Catarinella fuggì di casa, pazza di dolore, e fu piamente ricoverata in un monastero di monachelle. In un giorno, quando ancora il tempo assegnato dalla ragion divina e dalla ragion medica non era scorso, ella dette alla luce un bimbo piccino piccino, pallido e dagli occhi sgomentati. Per pietà di quel piccolo essere, le suore lasciarono la madre a nutrirlo e curarlo. Ma col tempo che passava, non cresceva molto il bambino e la madre, cui rimaneva confitta nella mente la bella ed aitante persona di Stefano Maricorda, se ne crucciava. Le suore la consigliarono di votarsi alla Madonna perché desse una fiorente salute al bambino; ed ella votossi e fece indossare al bimbo un abito nero e bianco da piccolo monaco. Ma ben altro aveva disposto il Signore nella sua infinita saggezza ela Catarinella non s’ebbe la grazia chiesta.

Il figliuoletto suo, crescendo negli anni, non crebbe che pochissimo nel corpo e fu simile a quei graziosi nani di cui si allietano molte corti di sovrani potenti. Sibbene ella continuò a vestirlo da piccolo monaco; onde è che la gente chiamava in suo volgare il bambino; ‘o munaciello. Le monache lo amavano, ma la gente della via, ma i bottegai delle strade Armieri, Lanzieri, Cortellari, Taffettanari, Mercanti, si mostravano a dito il bambino troppo piccolo, dalla testa troppo grande e quasi mostruosa, dal volto terreo in cui gli occhi apparivano anche più grandi, anche più spaventati, dall’abituccio strano: e talvolta lo ingiuravano, come fa spesso la plebe contro persona debole ed inerme. Quando ‘o munaciello passava innanzi la bottega dei Frezza, zii e cugini uscivano sulla soglia e gli scagliavano le imprecazioni più orribili. Non è dato a me indagare quanto comprendesse ‘o munaciello degli sgarbi e delle disoneste parole che gli venivano dirette, ma è certo che egli riedeva alla madre triste e melanconico. A volte un lampo di collera gli balenava negli occhi e allora la madre lo faceva inginocchiare e gli dettava le sante parole dell’orazione. A poco a poco in quei bassi quartieri dove egli muoveva i passi, si divulgò la voce che ‘o munaciello avesse in sé qualche cosa di magico, di soprannaturale. Ad incontrarlo, la gente si segnava e mormorava parole di scongiuro. Quando ‘o munaciello portava il cappuccetto rosso che la madre gli aveva tagliato in un pezzetto di lana porpora, allora era buon augurio; ma quando il cappuccetto era nero, allora cattivo augurio. Ma come il cappuccetto rosso compariva molto raramente, ‘o munaciello era bestemmiato e maledetto.

Era lui che attirava l’aria mefitica nei quartieri bassi, che vi portava la febbre e la malsania; lui che, guardando nei pozzi, guastava e faceva imputridire l’acqua, lui che toccando i cani li faceva arrabbiare, lui che portava la mala fortuna nei negozi ed il caro del pane, lui che, spirito maligno, suggeriva al re nuovi balzelli. Appena ‘o munaciello scantonava, a capo basso, con l’occhio diffidente e pauroso, correndo o nascondendosi fra la folla, un coro di maledizioni lo colpiva. Il fango della via gli scagliavano a insudiciargli la tonacella; le bucce delle frutte troppo mature lo ferivano nel volto. egli fuggiva, senza parlare, arrotando i denti, tormentato più dall’impotenza della piccola persona che dal villano insulto di quella borghesia. Catarinella Frezza era morta; non lo poteva consolar più. Le monache lo impiegavano ai minuti servizi dell’orto; ma, anche esse, a vederlo d’improvviso, in un corridoio, nella penombra, si sgomentavano come per apparizione diabolica. S’avvalorava il detto della faccia cupa del munaciello, dal non averlo mai visto in chiesa, dal trovarlo in tutti i luoghi a poca distanza di tempo. Finché una sera ‘o munaciello scomparve. Non mancò chi disse che il diavolo lo avesse portato via pei capelli, come è solito per ogni anima a lui venduta. Ma per fede onesta di cronista, mi è d’uopo aggiungere che furono molto sospettati, e forse non a torto, i Frezza d’aver malamente strangolato ‘o munaciello e gittatolo in una cloaca lì presso, da certe ossa piccine e da un teschio grande che vi fu trovato. Il discernere le cose vere dalle false, e lo speculare quale sia favola, quale verità, lascio e raccomando specialmente alla prudenza e saggezza del lettore.

 Questa qui è la cronaca. Ma nulla è finito – soggiungo io, oscuro commentatore moderno – con la morte del munaciello. Anzitutto è ricominciato. La borghesia che vive nelle strade strette e buie e malinconicamente larghe senza orizzonte, che ignora l’alba, che ignora il tramonto, che ignora il mare, che non sa nulla del cielo, nulla della poesia, nulla dell’arte; questa borghesia che non conosce, che non conosce se stessa, quadrata, piatta, scialba, grassa, pesante, gonfia di vanità, gonfia di nullaggine; questa borghesia che non ha, non può avere, non avrà mai il dono celeste della fantasia, ha il suo folletto. Non è lo gnomo che danza sull’erba molle dei prati, non è lo spiritello che canta sulla riva del fiume; è il maligno folletto delle vecchie case di Napoli, è ‘o munaciello. Non abita i quartieri aristocratici di Chiaia, di S. Ferdinando, del Chiatamone, di Toledo; non abita i quartieri nuovi di Mergellina, Rione Amedeo, Corso Salvator Rosa, Capodimonte: la parte ariosa, luminosa, linda della città non gli appartiene. Ma per i vicoli che da Toledo portano giù, per le tetre vie dei Tribunali e della Sapienza, per la triste strada di Foria, per i quartieri cupi e bassi di Vicaria, Mercato, Porto e Pendino il folletto borghese estende l’incontrastato suo regno.

Dove è stato vivo, s’aggira come spirito; dove è apparso il suo corpo piccino, la testa grossa, la faccia pallida, i grandi occhi lucenti, la tonacella nera, la pazienza di lana bianca ed il cappuccetto nero, lì ricomparve; nella medesima parvenza, pel terrore delle donne, dei fanciulli e degli uomini. Dove lo hanno fatto soffrire, anima sconosciuta e forse grande in un corpo rattrappito, debole e malaticcio, là egli ritorna, spirito malizioso e maligno, nel desiderio di una lunga e insaziabile vendetta. Egli si vendica epicamente, tormentando coloro che lo hanno tormentato. Chiedete ad un vecchio, ad una fanciulla, ad una madre, ad un uomo, ad un bambino se veramente questo munaciello esiste e scorrazza per le case, e vi faranno un brutto volto, come lo farebbero a chi offende la fede. Se volete sentirne delle storie, ne sentirete; se volete averne dei documenti autentici, ne avrete. Di tutto è capace il munaciello…

 Quando la buona massaia trova la porta della dispensa spalancata, la vescica dello strutto sfondata, il vaso dell’olio riverso e il prosciutto addentato dalla gatta, è senza dubbio la malizia del munaciello che ha schiusa quella porta e scagionato il disastro. Quando alla serva sbadata cade di mano il vassoio ed i bicchieri vanno in mille pezzi, colui che l’ha fatta incespicare è proprio lui, lo spiritello impertinente; è lui che urta il gomito della fanciulla borghese che lavora all’uncinetto e le fa pungere il dito; è lui che fa traboccare il brodo dalla pentola ed il caffè dalla cogoma; è lui che fa inacidire il vino dalle bottiglie; è lui che dà la iettatura alle galline che ammiseriscono e muoiono; è lui che pianta il prezzemolo, fa ingiallire la maggiorana e rosicchia le radici del basilico. Se la vendita in bottega va male, se il superiore dell’uffizio fa una rimenata, se un matrimonio stabilito si disfà, se uno zio ricco muore lasciando tutto alla parrocchia, se al lotto vien fuori 34, 62, 87 invece di 35, 61,88, è la mano diabolica del folletto che ha preparato queste sventure grandi e piccole.

Quando il bambino grida, piange, non vuole andare a scuola, scalpita, corre, salta sui mobili, rompe i vetri e si graffia le ginocchia, è il munaciello che gli mette i diavoli in corpo; quando la fanciulla diventa pallida e rossa senza ragione, s’immalinconisce, sorride guardando le stelle, sospira guardando la luna, e piange nelle tranquille notti di autunno, è il munaciello che le guasta così la vita; quando il giovanotto compra cravatte irresistibili, mette il profumo nel fazzoletto, e si fa arricciare i capelli, rincasa a tarda notte, col volto pallido e stanco, gli occhi pieni di visioni, l’aspetto trasognato, è il munaciello che turba la sua esistenza; quando la moglie fedele si ferma a guardar troppo il profilo aquilino ed i mustacchi biondi del primo commesso di suo marito e, nelle fredde notti invernali, veglia con gli occhi aperti nel vuoto e le labbra che invano tentano mormorare la salvatrice Avemmaria, è il munaciello che la tenta, è il diavolo che ha preso la forma del munaciello, è il diavoletto che dà al marito il vago desiderio di dare un pizzicotto alla serva MariaFrancesca; è il folletto che fa cadere in convulsioni le zitellone. È il munaciello che scombussola la casa, disordina i mobili, turba i cuori, scompiglia le menti, empiendole di paura. È lui, lo spirito tormentato e tormentatore, che porta il tumulto nella sua tonacella nera, la rovina nel suo cappuccetto nero.

Ma la cronaca veridica lo dice, o buon lettore: quando il munaciello portava il cappuccetto rosso, la sua venuta era di buon augurio. È per questa sua strana mescolanza di bene e di male, di cattiveria e di bontà, che il munaciello è rispettato, temuto ed amato. È per questo che le fanciulle innamorate si mettono sotto la sua protezione perché non venga scoperto il gentile segreto; è per questo che le zitellone lo invocano a mezzanotte, fuori il balcone, per nove giorni, perché mandi loro il marito che si fa tanto aspettare; è per questo che il disperato giuocatore di lotto gli fa scongiuro tre volte, per averne i numeri sicuri; è per questo che i bambini gli parlano, dicendogli di portar loro i dolci e di balocchi che desiderano.

 La casa dove il munaciello è apparso è guardata con diffidenza, ma non senza soddisfazione; la persona che, allucinata, ha visto il folletto, è guardata compassionevolamente, ma non senza invidia. Ma colei che lo ha visto – apparisce per lo più a fanciulle ed a bimbi – tiene per sé il prezioso segreto, forse apportatore di fortuna. Infine il folletto della leggenda rassomiglia al munaciello della cronaca napoletana: è, vale a dire, un’anima ignota, grande e sofferente in un corpo bizzarramente piccolo, in un abito stranamente piccolo, in un abito stranamente simbolico; un’anima umana, dolente e rabbiosa; un’anima che ha un pianto e fa piangere; che ha sorriso e fa sorridere; un bimbo che gli uomini hanno torturato ed ucciso come un uomo; un folletto che tormenta gli uomini come un bambino capriccioso, e li carezza, e li consola come un bambino ingenuo ed innocente.

 

Il regno della teletta in “Fascino muliebre” di Matilde Serao

 

Mentre ero a spasso per il mercato  domenicale di Porta Portese, su una bancarella di stampe,di manifesti pubblicitari e giornali,  ho scorto la scritta “ Matilde  Serao” su un libretto nascosto tra vecchie  etichette e cartoline. Il nome della scrittrice è già di per sé garanzia di uno  stile ridondante in cui le descrizioni si snodano  dall’esterno per intrecciarsi  nella mente  del lettore , inconfondibile per le sfumature  lessicali e – cosa straordinaria delle grandi penne- per  le   riflessioni sempre attuali, forse perché attingono dall’animo umano e da un’intelligenza vivace. Il titolo del libricino è “Fascino Muliebre” e sinceramente credevo riservasse  argute frecciate alle dame dei salotti  che amavano spettegolare sull’anticonformismo della scrittrice.

L’ho letto d’un fiato e ho scoperto che i vari capitoli esplorano  l’universo  della bellezza femminile attraverso immagini storiche e mitologiche, osannano l’acqua , l’idroterapia e i rituali del regno della teletta, suprema arte feminea, svelano consigli e  segreti per esibire  belle mani, bei piedi nel capitolo intitolato “La bellezza di Cenerentola”, una splendida capigliatura in “ La chioma di Berenice”, il profumo di belle labbra. Da riferimenti storico letterari di partenza la Serao arriva a reclamizzare – qui la sorpresa-  prodotti chimico-farmaceutico- igienici della società A Bertelli di Milano , e in particolare modo  della linea di profumeria igienica Venus (acqua, estratti, brillantina, lozioni, olio, profumi, saponi, pomate) elencati in un prezzario nelle ultime pagine.

 Peccato che sul libretto non sia indicato l’anno di stampa . Presumo che fosse annesso a qualche altra pubblicazione, forse di un giornale dell’epoca?   

Eccone uno stralcio tratto dal capitolo  “Nel regno della teletta”

“La parola toilette– dicono i ricercatori delle origini delle parole- trasse la sua fortuna da un movente assai esiguo, come accade di quasi tutte le cose destinate ad una grande popolarità. Essa viene  da toile, tela, giacchè al principio del diciassettesimo secolo, le signore solevano portare in viaggio, in un sacchetto di tela, esternamente assai lavorato e leggiadramente adorno, gli oggetti per l’abbellimento del volto e dei capelli; il sacchetto era fatto per modo che, aprendolo, si distendeva come una tovaglietta, una piccola tela, una toilette, sovra un tavolino da lavoro, che si collocava avanti alla specchiera, e lì la signora, la sua camerista, la sua pettinatrice o l’azzimato parrucchiere dalla mano lieve comme des pattes de papillons, compivano quella mirabile opera di architettura, di polverizzazione, d’incipriamento, di miniatura, di ritocco e di dipintura minuziosa che assurse poi agli onori della massima illustrazione, un secolo dopo, sotto lo scettro di Madame de Pompadour, di Maria Antonietta e della principessa di Metternich.

Alcuni filologi hanno invocato anche l’origine dalla parola provenzale e italiana tavoletta, taoletta ,e quindi anche tailetta, toilette, teletta.

Che cosa diventò, poi, la teletta! Ve ne erano, per le dame francesi, due, e non più di tela, ma fisse avanti all’enorme specchio, che le avviluppava tutte nella sua ampiezza indiscreta: una era per la preparazione intima, la teletta privata, raccolta, discreta, l’altra, vero poema di merletti e di rabeschi, era per l’adornamento sontuoso, che la dama si faceva completare in presenza dei cortigiani e dei corteggiatori, in un  salone dorato e rabescato. Questo era il salotto- boudoir– dalla tradizionale spinetta che accompagnava il passo molle e carezzoso del minuetto; ivi si compiva l’incipriamento, la postura dei nèi finti, si dava l’ultimo tocco di minio, si appuntava l’aigrette, fra le lodi sussurrate e le ciance dolci e banali. Oh, cari, spirituali, frivoli e pur affascinanti boudoirs, ritratti dal pennello di Watteau, ove aleggiava la poesia sottile come la cipria e colorita come una tortuosa pavana! Ancora, ancora da quelle figure di donne per le quali il supremo studio della vita era l’arte di piacere, di ammaliare, l’arte d’ingentilire in un’onda d’incanti la loro bellezza, ancora come da esseri viventi e gorgheggianti si sprigiona un caldo sapore di vita, un’onda di armonie che raramente possono ritrovarsi ai giorni nostri!

Che cosa vi era, allora, su la teletta tutta avorii, ori e argenti della signora elegante, dove i più celebri miniaturisti, orafi, argentieri, incisori e scultori annidavano le carezze della loro arte delicata, tutta leggiadrie e profumi? Chiedetelo a gli scrittori che ricostruirono quel mondo così gaio e così interessante: ai Goncourt, che ne penetrarono l’anima; a Théophile Gautier, che ne dipinse con pennellate nobilissime la merlettata esteriorità. Erano arsenali di ninnoli, di fiale, di cofanetti, di boccette, di ordegni, di ampolle, il contenuto dei quali era una immensa varietà sortita di fantasie sempre fertili, sempre tormentate dall’idea fissa dell’originalità.

Oggi, la moda, il gusto diverso, i ritrovati nuovi hanno semplificato ogni cosa; ma il piccolo arsenale della teletta di una signora elegante, che segua le norme dell’igiene con la stessa scrupolosità con cui cura la sua bellezza, non è meno interessante. Il tipo è unico, e la donna d’altronde è conservatrice per eccellenza, anche quando sembra subire qualche evoluzione…” 

Seguono citazioni di prodotti Venus  , acqua da teletta, vellutina, brillantina, glicerina, lozione, crema cosmetici antisettici ricciolina, essenze profumate al gelsomino, mughetto, violetta rosata, rosa thea, ylang-ylang …

Usi, costumi e atmosfera di altri tempi, ma il piccolo arsenale, fisso e mobile, della  teletta esiste ancora, a ogni età e non solo per le donne. Una ragione in più per difendere a spada tratta  dalle critiche e dai tentativi di espropriazione le creme e le cremine idratanti, emollienti, struccanti, nutrienti, rigeneranti, antirughe, antistress, rassodanti, snellenti ecc…ben schierate  nei mobiletti e sulle mensole del bagno .

 

La Street Art di Zilda a Napoli

 

La bellezza rinascimentale   delle figure  dipinte  da   Zilda  è apparsa  a  Napoli. L’artista di Rennes  dipinge  nel suo studio poster che poi incolla  in angoli nascosti, abbandonati , scrostati e insignificanti  della città che,trasformati e abitati dai suoi angeli  e  dalle sue donne  angelicate, acquistano un aspetto completamente diverso. 

Zilda, mascherato da Pulcinella e nascosto dal cappuccio di una felpa, vaga per i vicoli captando i chiaroscuri di una bellezza a volte sublime, a volte decaduta, e ne trae ispirazione per impreziosirli con  figure straordinariamente belle e sensuali, ispirate da quella vena di sacro e profano che permea la cultura partenopea.

“Ogni cosa sembra coesistere con il suo perfetto contrario. Napoli è piena di contrasti, talvolta colorata ed esuberante, talvolta buia e infinitamente nascosta. Amo questa città e le sue contraddizioni. Amo i suoi chiaroscuri. Il suo odore di piscia e santità”.

 

qui una panoramica più completa e un bellissimo  video, qui altre splendide opere.

Sotto  una galleria dei suoi capolavori,  che mi riprometto di scovare, anche se  – prevedo-  non sarà per nulla facile.