La Resistenza a Roma e l’eccidio del Ponte dell’Industria

Un memorabile 25 aprile a Roma. Un grande corteo è poi partito dall’ Arco di Costantino  per confluire a Porta San Paolo. Tanti giovani e meno giovani  per festeggiare  e ricordare la Resistenza italiana che esordì proprio  a Roma, quando il 10 settembre 1943 militari e civili italiani si opposero all’ occupazione tedesca della capitale, iniziata dopo l’annuncio dell’armistizio dell’8 settembre e della ritirata del re Vittorio Emanuele III e di Badoglio che il 9 settembre avevano abbandonato gli italiani e lasciato l’esercito  allo sbando.

Sin dalla notte dell’8 settembre avvennero combattimenti alla periferia della città ma  i militari italiani furono costretti a ritirarsi. La mattina del 10 una parte di questi confluì a Porta San Paolo dove si erano radunati  i civili giunti spontaneamente od organizzati dai partiti antifascisti. Qui iniziò la battaglia contro le truppe tedesche, numericamente molto più forti, e s’innalzarono barricate rovesciando le vetture dei tram. 

Qui morirono circa 400 civili, tra cui 43 donne, e anche carabinieri e militari italiani. Tra questi l’operaio diciottenne Maurizio Cecati ,colpito a morte mentre incitava i suoi compagni alla lotta; il fruttivendolo Ricciotti, accorso dai mercati generali; il professore di  storia dell’arte del liceo classico “Visconti”, Raffaele Persichetti,  prima medaglia d’oro della Resistenza. Uomini, donne e ragazzi  combatterono  con i superstiti dei “Granatieri di Sardegna”, i Lancieri del battaglione “Genova Cavalleria” e alcuni reparti della divisione “Sassari”. Il generale Giacomo Carboni, comandante del Corpo d’armata motocorazzato, mandò i carabinieri a staccare i manifesti disfattisti, che annunciavano trattative con i tedeschi, e diffuse  la notizia dello sbarco degli alleati ad Ostia e dell’arrivo delle divisioni “Ariete “ e “Piave” a Roma. La gente accorse e seguì i rappresentanti dei partiti antifascisti, tra i quali combatterono Luigi Longo, Ugo La Malfa, Sandro Pertini e Bruno Buozzi. I mezzi corazzati tedeschi  segnarono poi la fine della drammatica ed eroica battaglia della Porta San Paolo. A Porta San Paolo, presso la piramide Cestia, nel  quartiere Ostiense è nata la Resistenza italiana.

Tornando a casa a piedi ho attraversato  il Ponte dell’Industria che ricorda altre tristi vicende della nostra storia.

Il 26 marzo 1944 il generale Kurt Maeltzer, comandante  della città di Roma , emise  un’ordinanza con la quale si riduceva da 150 a soli 100 grammi la razione quotidiana di pane per i civili. Così in alcuni quartieri, quali Ostiense, Portuense e Garbatella,  le donne protestarono davanti ai forni, soprattutto quelli che si credeva producessero pane bianco per le truppe di occupazione.

La gente affamata iniziò a ribellarsi: il 1° aprile fu assalito il forno Tosti, nel quartiere Appio, il 6 aprile invece fu bloccato e depredato a Borgo Pio un camion che doveva consegnare il pane alla caserma della Guardia Nazionale Repubblicana.  Il 7 aprile 1944, un venerdì di Pasqua,  sul Ponte  dell’Industria, detto anche “Ponte di ferro” nel quartiere Ostiense, truppe nazifasciste bloccarono dieci donne ,sorprese con pane e farina, e per rappresaglia contro gli assalti ai forni le fucilarono. Le vittime erano Clorinda Falsetti, Italia Ferracci, Esperia Pellegrini, Elvira Ferrante, Eulalia Fiorentino, Elettra Maria Giardini, Concetta Piazza, Assunta Maria Izzi, Arialda Pistolesi, Silvia Loggreolo.  Secondo alcune testimonianze, una delle dieci donne sarebbe stata condotta sotto il ponte e stuprata dai soldati tedeschi e da repubblichini fascisti, prima di essere assassinata con un colpo di pistola alla testa. Oggi una lapide, all’estremità del ponte, ricorda  il triste eccidio del Ponte dell’Industria .

Il 3 maggio 1944 Caterina Martinelli ,come altre donne esasperate dalla fame dopo un inverno di stenti, partecipò all’assalto di un forno nella borgata Tiburtino III. Mentre tornava a casa dai suoi sei figli, con una neonata in braccio e una pagnotta stretta al petto, fu assassinata in strada dai militari della PAI (Polizia Africa Italiana)con una raffica di mitra. La donna cadde sulla figlia, che si salvò ma ebbe la spina dorsale lesionata. Per attenuare il furor di popolo contro i restrittivi provvedimenti e le repressioni, le autorità nazifasciste decisero quindi alcune distribuzioni straordinarie di generi alimentari di prima necessità. Anche Radio Londra elogiò l’operato delle donne romane.

 È doveroso ricordare coloro che hanno reso possibile la liberazione dell’Italia e la nascita della Repubblica democratica.
W il 25 aprile!

“Ho semplicemente lottato per una causa che ho ritenuta santa: quelli che rimarranno si ricordino di me che ho combattuto per preparare la via ad una Italia libera e nuova.” (Lorenzo Viale, anni 27)

 

Da lettere di condannati a morte della Resistenza italiana – 8 settembre 1943-25 aprile 1945 Edizioni Einaudi.

 

Carissima Mamma adorata, e carissimi Fede, papà, Alberto, Stefano, zia e zio, Maria e tutti i miei cari, fra un’ora non sarò più in questo mondo. Mamma mia sii forte come lo sono io. Pensa mamma che tutta la forza viene da te che sei una “Santa”, tutta la tua  vita di dolore e di abnegazione ne è la testimonianza, mamma è il tuo bambino che ti supplica ma che ti dà un comando di moribondo, devi avere tanta, tanta forza, perdi il tuo bambino ma fra non molto te ne verrà restituito un altro, il mio caro fratello Stefano per lui devi vivere, a lui devi dare tutte le premure e le attenzioni che avresti date a me- è dunque un dovere quello che ti chiede il tuo Domenico nella certezza di questa missione che ti resta da compiere che io mi sento forte. È da mezzanotte che io prevengo la mia fine, ora sono le quattro e mezza e me ne viene data notizia, mamma affidati a Fede essa saprà come darti tanta forza. Fede cara ti chiedo perdono fa di esaudire tutti i miei desideri affido a te la mamma.

Da quattro ore, cara mamma non ho fatto che rievocare tutta la mia vita da quando ero bambino ed ora recrimino una cosa sola, tutto il tempo che non ti sono stato vicino, perdonami mamma: dì a papà che non beva più e ti stia più vicino, chiedo perdono anche a lui- mamma non ho una tua fotografia ma la tua visione non mi abbandona un attimo- l’ultimo mio anelito sarà per te, nel tuo nome di mamma vi è tutta la mia vita- se non ho saputo vivere, mamma, so morire, sono sereno perché innocente del motivo che muoio, vai a testa alta e dì pure che il tuo bambino non ha tremato. È quasi ora, perdono a tutti anche agli zii che ti assistano. Ciao mamma, Ciao Fede, papà, Stefano, Alberto, ciao a tutti.

Addio mamma tutto il mio bene a te e a tutti cari baci.

TUTTO È PRONTO. Mamma, mamma.

 

Domenico

 (Domenico  Cane- anni 30, artigiano decoratore. Fucilato il 2 aprile 1944 a Torino per rappresaglia)

  

Mimma cara,

la tua mamma se ne va pensandoti e amandoti, mia creatura adorata, sii buona, studia ed ubbidisci sempre agli zii che t’allevano, amali come fossi io.

Io sono tranquilla. Tu devi dire a tutti i nostri cari parenti, nonna e gli altri, che mi perdonino il dolore che do loro. Non devi piangere né vergognarti per me. Quando sarai grande capirai meglio. Ti chiedo una cosa sola: studia, io ti proteggerò dal cielo.

Abbraccio con il pensiero te e tutti, ricordandovi

la tua infelice mamma

 

(Paola Garelli (Mirka)-  anni 28, pettinatrice. Fucilata il 1°novembre 1944, senza processo, nel fossato della fortezza ex Priamar di Savona)

 

 Costa Volpino, 21 novembre 1944

Caro padre, sorella e cognato,

questo è il mio ultimo saluto e scritto che vi giunge, poiché fra minuti la mia vita sarà spenta, dovrete promettermi di non piangermi perché vano.

Sono contento che tra poco rivedrò la nostra cara mamma, e sarei contento di rimanervi sempre con lei.

Un saluto ancora e che questo vi giunga in segno di vittoria e di libertà per tutti gli italiani. Muoio per l’Italia!

Una stretta di mano e un bacio a te babbo, a te sorella e a te cognato e baci ai tuoi bambini. Tanti saluti a chi domanderanno di me. Arrivederci in cielo.

W l’Italia martoriata che presto rifiorirà libera e indipendente.

Andrea

 (Andrea Caslini -Rocco- anni 23, falegname. Fucilato il 21 novembre 1944 al cimitero di Costa Volpino (Bergamo)

 Carissima mamma. Ti scrivo queste mie ultime prole dalla mia cella dove ho trascorso le mie ultime ore contento e rassegnandomi di morire pensando sempre a te ed al mio piccolo nipotino e la mia sorellina, quando tornerai alla nostra bella  Napoli mi bacerai tanto papà e gli dirai che sono morto per l’Italia.

Cara mamma mi perdonerai per i dispiaceri che ti ho dato perché se ascoltavo le tue parole restavo vicino a te: ma Gesù ha voluto così, forse chi sa se il mio fratellino vuole che lo raggiunga lassù. Come tu pregavi per Lui così pregherai per me.

Finisco di scriverti pensando sempre a te fino alla fine, ed al mio nipotino ed alla mia sorella. Mi bacerai de Michele e gli dirai di fare le mie veci (quelle che non ho potuto fare io).

Ti bacio per sempre tuo figlio.

Salutami tutti.

 

Paolo Lomasto

 

(Paolo Lomasto-17anni, nato a Napoli. Non si conoscono le circostanze per le quali si trovò ad unirsi alle formazioni partigiane operanti nella zona di Pinerolo (Torino)

 

 12 luglio 1944

Mammina e Anne care,

è l’ultima lettera che vi scrivo. Tra poco non sarò più.Non nego che ci soffro, è umano.

Ma ho la precisa coscienza di essermi sempre comportato da buon italiano e buon figlio.mammina e te Anna eravate  e siete le persone che ho amato di più.

Vi sono vicino tanto tanto tanto.

Anna cara, sta vicino alla Mamma che avrà solo più te.

Era destino.

Ma di fronte ad esso bisogna che voi viviate.

Ho vissuto pure io per voi, per un ideale di libertà e di giustizia.

Non ho mai fatto male ad alcuno.

Sento ora come mai che vi voglio bene, tanto bene e sono in piedi.

Vostro per sempre.

 

Paolo

 

(Paolo Vasario-Diano- 33anni, tenente medico dell’esercito diventa poi medico partigiano nella 105a Brigata Garibaldi “C. Pisacane”. Fucilato  il 12 luglio 1944 da soldati tedeschi nel campo di aviazione di Airasca)

Sono Portentosi Questi Romani (2766 ° Natale di Roma)

Oggi Roma ha festeggiato il suo 2766° anno dalla fondazione che si fa risalire al 21 aprile del 753 a. C , quando  Romolo tracciò il solco del perimetro della città sulle pendici del Palatino. Lo storico Marco Terenzio  Varrone e l’astrologo Lucio Taruzio furono i primi a definire approssimativamente  le origini della città, che però in seguito si fecero coincidere con i festeggiamenti dei Palilia del 21 aprile. Tra storia e leggenda per secoli si è festeggiato il Natale di Roma, caduto in disuso dopo il crollo dell’Impero , recuperato poi dalla breve  Repubblica Romana del Risorgimento e dal fascismo. 

Anche quest’anno  una serie di mostre, visite guidate, manifestazioni e spettacoli serali  sul Natale di Roma  hanno voluto rendere omaggio alla Città eterna. Non potevo perdermi il corteo di ben 2000 figuranti di oltre sessanta  associazioni,  provenienti da 12 paesi europei, che  hanno rievocato e fatto rivivere i fasti della Roma imperiale.  Centurioni  e soldati di ogni parte del vasto Impero Romano, matrone, cortigiane, danzatrici, vestali, la dea Roma, sacerdoti, senatori, pretoriani, gladiatori si sono riuniti nel Circo Massimo per attraversare la città passando davanti   al Colosseo. 

 

L’anno scorso è stato interessante , a mio parere, lo scambio di doni tra  il Gruppo storico romano e  il sindaco Alemanno: il gruppo ricevette  una medaglia del Natale di Roma, dedicata  alla battaglia di Ponte Milvio di circa 1700 anni fa, e offrì al  sindaco ampolle piene d’acqua dei fiumi e dei mari d’ Italia e di  terra dei luoghi più significativi della penisola.  Quest’anno ha ricevuto una medaglia dal Presidente della Repubblica per la meritevole rievocazione storica  che, attraverso una fedele riproduzione  di  usi e costumi,   coinvolge gente di varia età e provenienza per  celebrare  Roma , caput mundi.  Oggi ci basta riconoscerla capitale d’Italia e centro delle istituzioni repubblicane . 😉

 

Cimitero Acattolico di Roma: quando la bellezza nobilita la morte

Il Testaccio è un colle che probabilmente deriva il suo nome dal latino “testa”, cioè anfora, perché si formò con l’accumulo dei cocci di anfore contenenti vino e olio e provenienti dal porto di Roma. Nel quartiere del Testaccio, vicino a Porta San Paolo, si trova un’oasi di pace eterna e serenità, cioè  il Cimitero acattolico ove riposano inglesi, tedeschi, americani, scandinavi, russi, greci, orientali, africani  ma anche italiani.  

Tanti sono i nomi che lo designarono: cimitero inglese, protestante, poi  dal 1921 in senso lato degli acattolici, ma anche degli artisti e dei poeti.
È “una mescolanza di lacrime e sorrisi, di pietre e di fiori, di cipressi in lutto e di cielo luminoso, che ci dà l’impressione di volgere uno sguardo alla morte dal lato più felice della tomba…”

(Henry James,1873)

 

Lunga è la storia di questo cimitero. Secondo le leggi ecclesiastiche  dello Stato pontificio nessun acattolico poteva essere sepolto in una chiesa cattolica  o in terra benedetta; inoltre le inumazioni erano consentite solo di notte per garantire l’incolumità dei partecipanti al rito funebre  ed evitare  il furore dell’ intollerante e fanatico popolino.

L’area dell’odierno cimitero faceva parte dell’Agro romano ed era detta “ i Prati del popolo romano” che  era una zona di bagordi da osterie e di feste campestri.

 Si sa con certezza che nel 1738 vi fu sepolto uno studente venticinquenne di Oxford, di nome Langton, la cui tomba fu scoperta nei pressi della Piramide Cestia.  Circa trent’anni più tardi  anche uno studente di Hannover vi trovò sepoltura perché, come riferito al papa, amava Roma e aveva espresso il desiderio di riposare presso la suggestiva Piramide di Caio Cestio. Così il papa fondò il cimitero.

Agli inizi dell’800 il ministro di Prussia presso la Santa Sede, Guglielmo Von Humboldt, ottenne la proprietà di un pezzo di terra ove seppellire due figli morti prematuramente. A inizio ‘800 però le tombe sorgevano in piena campagna tra greggi, agrifogli, fiori di campo, ed erano esposte al rischio di profanazione da parte di ubriachi e fanatici che così vendicavano l’espropriazione dei Prati romani. Ciò indusse  nel 1817 i diplomatici della Prussia, dell’Hannover e della Russia  a rivolgersi al cardinale Consalvi, segretario dello Stato pontificio, per poter recingere a proprie spese il cimitero. Soltanto quattro anni più tardi, dopo ulteriori sollecitazioni anche da parte di un principe danese e del Parlamento inglese, il cardinale provvide e concesse quella parte, detta zona antica, vicina alla piramide Cestia, ma vietò di piantare nuovi alberi. 

Nel 1894 l’Ambasciata di Germania acquistò 4300 mq in aggiunta all’area cimiteriale esistente, e la suddivise  in tre zone che si snodano in salita fino alle mura Aureliane tra cespugli, cipressi e tanti ciuffi di violette bianche e lilla che crescono spontaneamente. In  alto, lungo le mura, si scorgono iscrizioni di marmo con i nomi dei defunti perché fino al 1870 furono vietate epigrafi e croci con riferimenti alla beatitudine eterna in quanto per le autorità ecclesiastiche non poteva esserci salvezza per i non cattolici.

Dal 1822 il cimitero fu curato dal guardiano della Piramide, più tardi dai suoi discendenti e si iniziò ad inumare i defunti nella zona nuova. Il cimitero resistette ai combattimenti del 1849, alle cannonate del 1857 e ai bombardamenti della II Guerra Mondiale. 

Circa quattromila persone di tutte il mondo riposano in questo giardino; di alcuni non si conosce l’identità in quanto è andato perso l’Archivio in tempo di guerra. Vi sono  intellettuali, artisti, letterati, diplomatici, principi e nobili di varia provenienza e di fede diversa dalla cattolica o atei. Basti ricordare Keats e Shilley  le cui tombe sono meta di tantissimi turisti inglesi. 

Keats morì a Roma all’età di 26 anni e riposa accanto all’amico pittore Joseph Severn. Sulla lapide si legge:

“ Questa tomba contiene i resti mortali di un GIOVANE POETA INGLESE che, sul letto di morte, nell’amarezza del suo cuore, di fronte al potere maligno dei suoi nemici, volle che fossero incise queste parole sulla sua lapide: “Qui giace uno il cui nome fu scritto sull’acqua” Poco distante, una lastra marmorea, in risposta a questa frase mostra l’acronimo: Keats! Se il tuo caro nome fu scritto sull’acqua, ogni goccia è caduta dal volto di chi ti piange.”

 

 Shelley, morto a 29 anni  in un naufragio al largo della costa toscana, è in alto, sotto un torrione delle mura Aureliane. Una lastra custodisce le ceneri con la scritta “Cor cordium”(cuore di tutti i cuori”) e i versi della Tempesta di Shakespeare. 

Un angelo accoglie  dalle acque del Tevere Rosa Bathurst, una ragazza di sedici anni, ammirata per la sua bellezza, intelligenza e fascino. Nel 1824 il fiume la trascinò via mentre cavalcava con amici. La sua tragica fine scioccò Roma, anche perché  suo padre, giovane diplomatico inglese, era già scomparso durante una missione a Vienna.

 

Tra i tanti , quali il figlio di Goethe, il poeta della Beat generation Gregory Corso, la stilista Irene Galitzine, l’attrice Belinda Lee, il commodoro ed esploratore americano Thomas Jefferson Page la cui tomba è opera di Ximenes,ecc… si ricordi anche Naghdi Mohammed Hossein diplomatico iraniano e leader della Resistenza, ucciso a Roma nel 1993.

 

Nel cimitero acattolico ci sono anche italiani: Antonio Labriola, Carlo Emilio Gadda, Dario Bellezza, Luce Eramo, Bruno Pontecorvo,  Amelia Rosselli, i figli di Marconi, l’eroe risorgimentale Gavazzi e Antonio Gramsci.

 

Di Gramsci, esiliato in vita e  in morte, Pasolini scrisse :

“Uno straccetto rosso, come quello

arrotolato al collo ai partigiani

e, presso l’urna, sul terreno cereo,

diversamente rossi, due gerani.

Lì tu stai, bandito e con dura eleganza

non cattolica, elencato tra estranei

morti: le ceneri di Gramsci…”

Qui la morte non opprime né spaventa, semmai  induce a riflettere  serenamente  mentre si passeggia tra cipressi, pini e mirti  con lo sfondo di una svettante, suggestiva e bianca Piramide. Tra ciuffi di violette bianche e lilla, che spontaneamente crescono per terra, capita di scorgere uno dei tanti gatti della Piramide che dorme sornione o che si stiracchia godendosi il sole primaverile. 

 

Quanti  sono cullati dalla Città eterna, per caso o per scelta, a volte troppo presto! Tanti sono vegliati da mute presenze che  custodiscono destini ineluttabili, segreti indicibili, innocenze cristallizzate e restano lì ad espiare il dolore o in attesa.

Uomini, donne, ragazzi e bambini di paesi e lingue diverse sono accomunati dallo stesso silenzio, lontani da ogni affanno, da ogni fama, da ogni strada. Tra gli illustri c’è anche l’ossario per i Romeni Ortodossi Apolidi e tombe comuni della chiesa Ortodossa russa destinate ai non abbienti o a coloro che ebbero una sepoltura provvisoria. Qui scompaiono i confini di età, di cultura e di origine ma si coglie una  sola, pietosa accoglienza per una comune cittadinanza .

Qui si può piangere di commozione dinanzi all’ armoniosa e struggente bellezza dell’Angelo del Dolore, scolpito dallo scultore statunitense William Wetmore Story che ha ispirato decine di copie nel mondo. Qui si può respirare un po’ di eternità alzando gli occhi verso l’Angelo  della Resurrezione che s’erge tra i cipressi  nella sua elegante solennità. Immortali emblemi della purezza del dolore  e del riscatto dalla vita terrena. 

 

 

Quanta fretta, ma dove corri?

Chi va piano, va sano e va lontano è la morale della favola di Esopo sulla lepre e la tartaruga.Oggi  quasi tutti, oberati da mille impegni, si  lamentano di non avere tempo sufficiente per riuscire a fare tutto. Si programma ogni cosa, compresi il tempo libero o le semplici pause pranzo, secondo una studiata ed inderogabile tabella di marcia:di corsa si va in palestra o in piscina, si pranza approfittando di vedere lui / lei o fissando appuntamenti di lavoro…

Si vive all’insegna del fast: fast food (pasti veloci) ai quali si è contrapposto lo slow food “per promuovere il diritto a vivere il pasto innanzitutto come un piacere di sensi assopiti, per  insegnare a gustare e a degustare”. Fast vacanze nel week end o veri e propri tour de force pianificati  nei minimi dettagli che poco rispondono all’esigenza di riposarsi. Fast nel consumismo imperante dell’usa e getti, nella mentalità della toccata e fuga anche nei rapporti interpersonali, sbrigativi e poco impegnativi. Del resto però anche il romantico colpo di fulmine trascinante e coinvolgente non scarseggiava di velocità, , chissà se per un sentimento più duraturo. Anche lo sviluppo delle tecnologie ha velocizzato la comunicazione, spesso svilendola della sua completezza, e soprattutto il pensiero e l’operatività. Ma  forse il vero problema non è tanto la velocità…quanto la fretta.

Non è detto che la fretta soddisfi la velocità, anzi, le azioni  svolte in fretta spesso implicano maggiori probabilità di errori che richiedono poi ulteriore dispendio di tempo ed energie per essere corretti.La fretta, o meglio l’aver fretta, è una dimensione interiore che fa percepire il poco tempo a disposizione,anche se a volte il tempo non manca.

La vita è una processione. Chi è lento la trova troppo veloce e si fa da parte; chi è veloce la trova lenta e si fa da parte. (Kahlil Gibran)

 Ma non si rinuncia a vivere. Si vive in base ai propri ritmi, lenti o veloci. Ritmi che a volte si possono regolare, a volte invece no.

Penso alle mamme acrobate, di cui hanno parlato recentemente i giornali, assillate da impegni di famiglia, casa e lavoro, dai loro molteplici ruoli pubblici e privati, che rischiano di andare in tilt,di dimenticare e di rimuovere responsabilità basilari come risposta inconscia a un carico a lungo andare troppo gravoso. Penso alla mobilità tipica di alcune professioni che richiede frequenti spostamenti ogni settimana, alla flessibilità oraria, a tutto ciò che impedisce di avere un ritmo di vita cadenzato, fisso e prestabilito. Ciò non significa disporre poi di più tempo libero, ma l’imprevedibilità, gravità o mancata conoscenza di eventi  e l’entità di adempimenti e responsabilità scatenano  battaglie contro l’orologio. E di qui si innesca un circolo vizioso: si diventa iperattivi, ci si lancia nel futuro più o meno immediato, perdendo di vista il presente, senza  osservarsi intorno e senza assaporare la quotidianità, si scandisce la durata di ogni attività in nome di un’efficienza ad ogni costo. Si corre anche quando si potrebbe farne a meno e si diventa stressati. Lo stress è una sindrome di adattamento alle molteplici e  varie sollecitazioni e ogni individuo vi reagisce in modo diverso, ma costante fissa è  la  fretta.Talvolta si è in grado di fronteggiare l’evento in sé ma non il suo esito diverso dalle proprie aspettative. Già perché chi corre, di solito pianifica, progetta ,velocizza il pensiero, cerca di prevedere sempre più cause ed effetti a livello razionale. Poi entrano in gioco  le risposte emotive, non sempre adeguate, sulle quali la persona  dall’orologio biologico accelerato rischia di franare.

 Che dire? La consapevolezza non basta…mi sento chiamata in causa in prima persona se considero quel proverbio africano: “Ogni mattina in Africa, una gazzella si sveglia, sa che deve correre più in fretta del leone o verrà uccisa. Ogni mattina in Africa, un leone si sveglia, sa che deve correre più della gazzella, o morirà di fame. Quando il sole sorge, non importa se sei un leone o una gazzella: è meglio che cominci a correre.Ma corrono entrambi per sopravvivere. E noi umani?

 Forse per non avere fretta occorrerebbe riuscire a ritagliarsi spazi e tempi per sé in cui poter ritrovarsi e fermarsi per riflettere, coltivare interessi propri, riuscire a esternare e a comunicare con altri per lasciar decantare l’ansia e ammortizzare l’affanno dell’inevitabile corsa della giornata.

Lo scrittore latino, il cui nome è già un bel biglietto di presentazione, cioè Gaio Svetonio Tranquillo diceva Festina lente. (Affrettati lentamente) cioè procedi riflettendo con calma e il poeta Orazio Carpe diem quam minimum credula postero (Cogli l’attimo fuggente confidando il meno possibile nel futuro) e Dona praesentis cape laetus horae  (Cogli felice i doni di questo momento).

Ma tra il dire e il fare c’è di mezzo un mare di fretta.

 

Il significato e la tradizione delle uova di Pasqua

In tutto il mondo, ormai, l’uovo è il simbolo della Pasqua. Da sempre le uova sono il simbolo della vita che nasce, ma anche del mistero, quasi della sacralità.

In alcune credenze pagane il Cielo e la Terra venivano concepiti come due metà dello stesso uovo. Greci, Cinesi e Persiani usavano scambiarsi uova di gallina come doni per le feste primaverili, così come nell’antico Egitto le uova decorate erano regalate all’equinozio di primavera.

Con l’avvento del Cristianesimo, l’uovo si legò all’immagine della rinascita non solo della natura ma dell’uomo stesso, e di Cristo. Nel Medioevo le uova venivano regalate ai bambini e alla servitù per festeggiare la Resurrezione. Ancora oggi, in Germania e in Francia, vengono nascoste le uova nei giardini per poi invitare i bambini a trovarle. Nei Paesi Scandinavi le uova sono oggetto di giochi di abilità e assumono valenze particolari come, per esempio, andare in chiesa con in tasca un uovo nato il Giovedì Santo aiuterebbe addirittura  a smascherare le streghe.

 In occasione della ricorrenza dei morti, celebrata il venerdì successivo al giorno di Pasqua, gli ortodossi usano ancora colorare le uova di rosso e metterle sopra le tombe, quale augurio per la vita ultraterrena. Pare che questa tradizione sia legata a una leggenda su Maria. Si narra che la Madonna facesse giocare Gesù Bambino con delle uova colorate e che il giorno di Pasqua, tornata sul sepolcro del Figlio, vi trovasse alcune uova rosse sul ciglio. Si racconta, anche, che Maria Maddalena si presentasse all’imperatore Tiberio per regalargli un uovo dal guscio rosso, testimonianza della Resurrezione di Gesù e che Maria, Madre del Cristo, portasse in omaggio a Ponzio Pilato un cesto dorato pieno di uova per implorare la liberazione del Figlio.

 Già nei libri contabili di Edoardo I di Inghilterra si fa menzione di una spesa di 18 p. per 450 uova rivestite d’oro e decorate, da donare come regalo di Pasqua. Tra le più celebri uova sono sicuramente quelle realizzate da Peter Carl Fabergé.

Nel 1885 il   maestro orafo  russo, su commissione dello zar Alessandro III di Russia , realizzò un uovo di platino contenente preziosissime sorprese per la zarina Maria Fyodorovna. Nominato gioielliere di corte,  Fabergé divenne  famoso per la sfarzosa e originale  produzione di uova pasquali ma anche per l’idea della sorpresa interna all’uovo. 

Oggi permane la tradizione pasquale  di donare uova: vere ,come gallina le ha fatte J , oppure sode , dipinte o di cioccolata. Sono l’augurio di vita rinnovata, un dolce auspicio con  piacevoli sorprese, ma soprattutto un segno di amicizia e amore.

Auguri di  Buona Pasqua !  :)

 

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La colomba

 

Lo struscio : quando la gente elegante correva ai miserere per fare sfoggio di vestimenta.

Il rituale del giovedì  santo prevede la visita dei  sepolcri, cioè di un numero dispari di chiese, non inferiore a tre.  A  Napoli il giro dei  sepolcri si chiama “struscio”; letteralmente strusciare significa strofinare o trascinare qualcosa per terra, ma può anche significare lisciare, adulare. Di qui si pensa che struscio possa significare adulare i santi, in riferimento alle  adorazioni, oppure assumere un altro e più condiviso significato risalente  ai tempi di Fernández Pacheco de Acun͂a, viceré spagnolo nella Napoli del Settecento. Questi  emanò un bando nel 1704 per vietare  la circolazione di carrozze dal mezzogiorno del giovedì  fino al tempo della messa solenne del sabato santo inizialmente per le vie centrali della città, poi solo per via Toledo, la strada principale di Napoli. Qui  la famiglia reale in pompa magna,  con l’intera compagnia delle Real Guardie del Corpo e un corteo di cortigiani al seguito, dopo il vespro del giovedì santo si recava a piedi nelle vicine chiese per visitare i sepolcri. Ben presto i napoletani  considerarono lo struscio  come la festa della primavera  durante la quale non solo i nobili, ma anche i borghesi si esibivano in uno struscio di piedi per terra e di abiti nuovi, eleganti e fruscianti. Lo struscio divenne una sorta di gara di sfarzo tanto che nel 1781 il re Ferdinando IV intervenne per frenarla, come racconta Florio in   “Memorie storiche”.  Infatti in occasione della visita dei sepolcri durante la Settimana Santa  sia “nobili che  moltissimi del ceto civile, erano soliti vestirsi pomposamente  di velluto nero col soprabito ricco di bottoni d’oro e d’argento. Le Dame poi adornate con somma gala, portate dentro ricche sedie indorate a mano (essendo vietate le carrozze) giravano quasi tutte le chiese della città con volanti, servi, paggi, e tutta la loro corte, vestiti con le più  ricche livree, con estremo lusso, e con le teste artificiosamente accomodate. Ed in tal maniera camminavano la città e visitavano i sepolcri in giorni cotanto sacrosanti, dando qualche scandalo piuttosto che edificazione. Fu dunque sovranamente ordinato che andassero semplicemente ornate di veli, e senza scandalo e fu così eseguito.”

Il rito dello struscio sopravvisse durante la Repubblica Napoletana del 1799 e  il regno di Ferdinando II (1830-1859), divenendo sempre meno sfarzoso , seppure solenne.  Dopo i Borbone si distinse tra lo struscio del giovedì santo,  aperto al gaudente popolo che si riversava in via Toledo, e quello del venerdì  riservato ai nobili e  ai notabili della città.  Aitanti ed impettiti gentiluomini  indossavano la paglietta, cappello estivo, prontamente  tolta per ossequiare una bella dama che avanzava strusciando le vesti e i piedi . Le instancabili e “nferrùte” (tremende) mammà partenopee, di ogni estrazione sociale, agghindavano le figliole in età da marito e le accompagnavano in un interminabile struscio nella speranza di accasarle.

 Oggi per struscio s’intende il  prolungato passeggio, soprattutto serale,  per la via principale di un paese o di una  città, non solo  in occasione di feste. Spesso  i ragazzi passano e spassano per fare bella mostra di sé o conquiste  e non  necessitano più né di onnipresenti mammà , né dei miserere della Settimana Santa.

 

La mitica pastiera

La pastiera è un dolce di antiche e leggendarie origini, tipico della cucina napoletana e del periodo pasquale.

Si narra che in primavera la sirena Partenope emergesse dalle acque del Golfo di Napoli  per salutare con canti di gioia le genti della costa. Un giorno sette belle fanciulle furono inviate per omaggiarla  con  preziosi e semplici prodotti della terra e del lavoro dell’uomo: farina, ricotta, uova ( simbolo della vita), grano, inebriante acqua di fiori d’arancio, seducenti spezie del lontano Oriente e  infine zucchero. Partenope  pose questi doni ai piedi degli dei che la ringraziarono amalgamandoli magicamente in una pastiera, più  dolce del suo canto che incantava uomini e dei.

“L’antica pastiera dall’apparenza casalinga, onesta, sincera, color del legno stagionato, decorata col suo modesto traliccio incrociato di pasta frolla. Intanto è un dolce a metà. Il suo sapore è delicatissimo, composto come è dai chicchi di grano primaticcio ammorbiditi e ammollati, da una buona ricotta, da pezzetti di cedro, umida e fragrante d’acqua di fior d’arancio. È un dolce che sa di primavera e di nozze, di innocenza e d’infanzia, di sole e di serenità, un dolce d’altri e forse più felici, almeno più tranquilli tempi (da “Breviario della cucina napoletana” di Mario Stefanile)

 

Un dolce talmente  squisito, da ridare  il sorriso a tutti…

A Napule regnava Ferdinando

Ca passava e’ jurnate zompettiando;

Mentr’ invece a’ mugliera, ‘Onna Teresa,

Steva sempe arraggiata. A’ faccia appesa

O’ musso luongo, nun redeva maje,

Comm’avess passate tanta guaje.

“A Napoli regnava Ferdinando (Ferdinando II di Borbone) che passava le giornate “zampettando”; mentre invece sua moglie, donna Teresa ( Maria Teresa d’Austria) stava sempre arrabbiata. La faccia triste, il muso lungo, non rideva mai, come se avesse passato tanti guai…”( e ci credo… dopo 12 figli e un consorte allegramente zampettante al fianco)

 Finchè un giorno la cameriera propose alla regina un dolce nuovo, che piaceva a uomini , donne e bambini. La pastiera addolcì la regina tanto da strapparle un sorriso. Il re esclamò:

“E che marina!

Pe fa ridere a tte, ce vò a Pastiera?

Moglie mia, vien’accà, damme n’abbraccio!

Chistu dolce te piace? E mò c’o saccio

Ordino al cuoco che, a partir d’adesso,

Stà Pastiera la faccia un pò più spesso.

Nun solo a Pasca, che altrimenti è un danno;

pe te fà ridere adda passà n’at’ anno!”

“E che marina! Per farti ridere ti ci vuole una pastiera? Moglie mia, vieni qua, abbracciami. Questo è il dolce che ti piace? E ora che lo so, ordino al cuoco che, a partir da oggi, faccia più spesso ‘sta pastiera. Non solo a Pasqua, chè altrimenti è un danno: per farti ridere deve passare un anno!”

 Probabilmente la pastiera, come la conosciamo oggi, nacque dall’estro culinario di un’ignota suora, una delle tante dedite alla preparazione di dolci che allietavano le tavole imbandite  di nobili e ricchi borghesi.

 I piatti tipici della tradizione napoletana hanno il pregio o il difetto di non rispecchiare mai un’unica ricetta: sono spesso “insubordinati” nelle dosi e negli ingredienti. Non solo, ma ogni famiglia custodisce gelosamente quella variante che rende il piatto speciale e diverso dalla ricetta base. Come ad esempio la pastiera di cui si trovano ricette con uova e ricotta, con crema pasticcera oppure  con i tagliolini.

 La pastiera mi è cara perché l’ associo a mia madre. Premetto che a tutt’oggi non si cimenta nei dolci se non negli struffoli e nella pastiera, che merita effettivamente un plauso anche per le irregolari strisce incrociate di pastafrolla che sono la sua inconfondibile firma.Mamma dedica un’uscita speciale solo per acquistarne gli ingredienti. Qualche giorno prima di prepararla, mette il grano a mollo nell’ acqua. Il giorno successivo lo cuoce nel latte. E al terzo giorno assisto alla vera resurrezione di mamma. Per soddisfare le richieste di amici e conoscenti, per un giorno intero inforna e sforna dolci di vario diametro, e non vuole essere assolutamente  disturbata in un rituale che le appartiene e al quale ha rinunciato solo due volte in vita sua, a causa del  terremoto e di un grave lutto familiare.

Alla pastiera sono legati aneddoti indimenticabili nella storia della mia  famiglia.Una volta mamma mi telefonò chiedendomi  di ritirare la spesa nel negozio di fronte casa sua e la cosa mi parve alquanto strana perché ha sempre, ma sempre fatto tutto da sola. Non appena mi vide, il salumiere esclamò: “Signora, ho preparato le uova per sua madre. Mi scusi , ma a che cosa servono 60 uova?” Ignara di tutto, capii che erano iniziate le grandi manovre pasquali da pastiera. Fu così che anche il salumiere si guadagnò il suo piccolo e dolce tributo pastieresco.

Poiché le specialità gastronomiche di famiglia si trasmettono ancora di generazione in generazione  (ebbene sì), per anni le ho chiesto la ricetta  della pastiera. In effetti non l’ho mai ricevuta perché lei, come mia suocera, dosa tutto ad occhio e  io non potevo permettermi, in tempo e disponibilità, di cimentarmi in un dosaggio da 60 uova.

Finalmente un giorno ho scoperto la ricetta della bisnonna Sofia e ho imparato a cucinarla, finchè un  bel giorno mio padre in buona fede osò dire che la mia pastiera era buona quasi come quella di mamma. Non l’avesse mai detto! Si sfiorò un incidente coniugale dopo circa 40 anni di matrimonio perché  lei si adombrò; da allora le lasciai volentieri il primato e ancor più volentieri la fatica.Di recente ho ripreso a prepararla con  quel piccolo segreto di mamma che la rende speciale.

Per noi tutti,  la pastiera rappresenta un po’ l’energia, la sostanza e la dolcezza di mia madre. 

Pastiera della bisnonna Sofia.

  Ingredienti:

 

500 g di grano

½  l. di latte

100 g. burro

3 cucchiai di zucchero

1 bastoncino di cannella

100 g di cedro candito tagliato a pezzetti

1 kg di zucchero

1 kg di ricotta

12 uova

buccia  di limone grattugiata

un bastoncino di cannella

essenza di fior d’arancio (una fialetta)

 

Mettere il grano in acqua tiepida e sale per almeno mezza giornata, dopo averlo pulito e sciacquato a lungo.Calarlo in un litro e mezzo d’acqua fredda e lasciarlo bollire (altrimenti comprare il grano già ammorbidito).Cuocere a fuoco lento il grano, già ammorbidito, nel latte, burro, cannella, zucchero e un po’ di sale finchè non si scuoce .

In due terrine battere separatamente i tuorli e gli albumi d’uovo, poi unirli.In un’altra terrina lavorare la ricotta con lo zucchero e versarvi poi il grano cotto nel latte.Aggiungere le uova sbattute, il cedro a pezzetti, il bastoncino di cannella e la fiala di fior d’arancio. Lasciare riposare un po’.

 

Ingredienti per la crema pasticcera

 

300g zucchero

2 uova intere + 4 rossi d’uovo

1 l di latte

120 gdi farina o amido

 un bastoncino di vaniglia ( in alternativa uso una bustina di vanillina)

 buccia grattugiata di limoni verdi .

 

In una pentola lavorare le uova con lo zucchero.Aggiungere un po’ alla volta la farina continuando a mescolare, poi il latte, la buccia di limone e la vaniglia e amalgamare.Cuocere a  fuoco basso mescolando di continuo con un cucchiaio di legno per evitare che la crema si attacchi e si formino grumi. Fare addensare la  crema .

Versare  la crema nell’impasto precedente, lasciar raffreddare  e infine unirvi anche mezzo bicchierino di whisky e qualche goccia di angostura ( variante mia e di mamma che dà un po’ di colore). Mescolare delicatamente. Togliere i bastoncini di cannella.

 Pastafrolla ( ma di solito uso quella surgelata).
 250-300 g di farina

125-150 g di 

zucchero a velo

150 g di burro o strutto

3 tuorli d’uovo

un bicchierino di rum

Mescolare  e lavorare la  farina,lo zucchero e il burro. Aggiungere i tuorli e il rum, comprimendo delicatamente.Foderare una teglia con la pasta frolla, versare l’impasto della pastiera.Preparare strisce di pasta frolla, larghe1-2 cm, da incrociare sull’impasto.

Cuocere a 180° C per un’ora e un quarto circa. Lasciare raffreddare la pastiera e infine cospargere di zucchero a velo.

La colomba

Il re longobardo Alboino, fu un guerriero valoroso ma spietatissimo. Si pensi che durante una serata  di bagordi nella reggia di Verona,  bevve vino in una coppa ottenuta dal cranio del padre di Rosmunda ( un tale  Cunimondo) e costrinse perfino la moglie a imitarlo pronunziando  la storica frase “Bevi Rosmunda dal teschio di tuo padre!” 

Firmò così la sua condanna a morte: infatti l’amata Rosmunda ordì una congiura per vendicarsi . Come? Legò al suo fodero la spada del marito, che all’arrivo dei congiurati cercò invano di difendersi con uno scranno…fu poi sepolto a Verona e allora, secondo me, nacque il detto  “chi è causa del suo mal, pianga se stesso”.L’orda dei barbari, guidati da Alboino, calò nell’Italia settentrionale nel 568 d.C.  In  fretta e furia i  longobardi, con famiglie e  mandrie di bestiame al seguito ( insomma una sorta di migrazione …ma all’ epoca  non c’era ancora Borghezio),  conquistarono prima Aquileia, Vicenza e Verona, poi nel 569 d. C.  Milano e Pavia. 

 

Si narra che la città di Milano dovesse  rendere al conquistatore un considerevole tributo: oro, gioielli, stoffe pregiate, oggetti dell’artigianato locale, cibi prelibati e dieci giovani fanciulle, scelte tra  le più belle, di cui il re potesse disporre a suo piacimento ( mica scemo!). A Pasqua però, dopo la consueta offerta dei preziosi doni, i milanesi offrirono al re un dolce nuovo, inventato poco tempo prima da un fornaio. Il dolce era simile al panettone ma con l’aggiunta di mandorle e granella di zucchero e aveva la forma di una colomba, simbolo cristiano della pace. Il re apprezzò molto quella squisitezza e proclamò che si sarebbe impegnato a rispettare e far rispettare la colomba come simbolo della pace e della Santa Pasqua. Poi impaziente attese la presentazione dell’ultimo dono: le dieci leggiadre giovinette che sarebbero state sacrificate, come  agnelli, alle sue voglie di lupo famelico e zozzone. Le ragazze dovettero sfilare dinanzi ai dignitari di corte, convenuti per l’occasione. Erano  state  ornate con vesti finissime e profumate con essenze , perché riuscissero gradite al re marpione. Alboino si avvicinò alla prima  fanciulla e, accarezzandole la guancia, le chiese come si chiamasse. La fanciulla, intuendo il suo destino ingrato dallo sguardo bramoso del re, prontamente rispose: “Colomba!”…e così fecero anche tutte le altre. Alboino, che nonostante tutto era un re, non potè  venir meno all’impegno poco prima proclamato. Non solo, ma liberò  le fanciulle dopo averle premiate con una cospicua dote. Quell’anno potè assaporare solo la colombella candita e zuccherata, che diventò il prelibato e tipico dolce  di Pasqua  prima a Milano poi in tutta Italia.

Le palme di confetti

Durante una domenica delle Palme  del XVI sec., mentre i sorrentini si avviavano a benedire i rami d’ulivo, le campane risuonarono e diedero l’allarme per la presenza di  navi saracene all’orizzonte, pronte ad assalire la costa per l’ennesima volta. Il prete quindi invitò i presenti a benedire l’ulivo in chiesa, prima di correre a difendersi.

Un pescatore, fatto il segno della croce,  non partecipò al rito della benedizione, ma  andò sulla spiaggia di Marina Grande. All’ improvviso scoppiò una provvidenziale tempesta che affondò le navi nemiche. Al naufragio sopravvisse soltanto una schiava che, trascinata a riva dalle onde, prima fu tratta in salvo dal pescatore, poi fu accolta dai sorrentini. In segno di gratitudine la giovane  regalò una manciata di  confetti portati dalla sua terra e custoditi in un sacchetto legato al collo.   

Da questo gesto di pace e  riconoscenza  sarebbe nata la tradizione delle palme di confetti, bianchi e colorati. Queste sono prodotti dell’artigianato locale e richiedono una complessa lavorazione e una precisa manifattura. Di solito intere famiglie si dedicano a quest’attività, che si svolge perlopiù in casa, e rischia di estinguersi perché è poco redditizia. Da qualche tempo si organizzano corsi per  imparare a creare le palme e mantenere viva la tradizione locale.

 

 

Dopo un’attenta selezione, i confetti sono infilati , uno alla volta , in fili di ferro riscaldati che  si lasciano ad asciugare sotto barattoli di vetro per almeno un giorno. Quindi i fili sono poi avvolti in apposite cartine e  infine sono adornati e assemblati  con merletti e foglie di carta in ramoscelli fioriti. Da bambina  ricevevo in regalo un alberello, una sorta di cono di confetti bianchi di varie dimensioni, costellato di confettini argentati…un piccolo e laborioso capolavoro artistico , soppiantato dai più diffusi e variopinti rametti.

Alcune composizioni decorative sono invece  create con un’altra tecnica che impiega e flette il midollo bianco della pianta di fico.

Di recente si sono organizzati concorsi su “Le palme di confetti” per valorizzare l’arte e l’artigianato femminile, tutelare un’espressione della cultura tradizionale locale, divulgare la memoria di un rito sacro e civile, promuovere economicamente la palma come prodotto tipico locale e trasferire la tecnica produttiva tipica della palma per la realizzazione di altri prodotti con diversa destinazione alla conquista di  mercati più ampi, oltre quello locale e il tempo pasquale.

 Ecco alcune creazioni!