Nella resistenza alla tensione e alla pressione la cicatrice è più forte della pelle.

82a2556cb9_5710110_lrgPer la Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne di quest’anno vi racconto una storia come tante altre, solo che è più recente e conosciuta direttamente. È la storia della mamma di S., di una donna di circa 30 anni. Un giorno venne a prendere la figlia di sette anni, mezz’ora  prima della fine delle lezioni. Aveva  fretta di andare via e stringeva una borsa della spesa. Passò poi a prendere il figlio più piccolo alla  scuola materna. Il giorno dopo arrivò a scuola il marito furibondo a chiedere notizie, ci disse che la moglie non era tornata a casa, forse era scappata con i due bambini. In verità in quella borsa della spesa c’erano pochi indumenti, i documenti,  quattro spiccioli e tanta disperazione. Quella donna è stata accolta in una struttura protetta, ne ha cambiate diverse, sempre in fuga da un uomo che ha setacciato la città “promettendo” a tutti che l’avrebbe trovata. Io e la collega  lo fronteggiammo  con un sorriso di circostanza e aggirammo le sue insistenti domande con risposte banalmente vuote.  Quell’uomo mi sembrava  poco  equilibrato e  infuriato, come un vulcano pronto a esplodere, in effetti a stento controllava la sua rabbia, in fondo aveva paura e cercava di crearsi alibi ripetendo, più a sé che a noi, che  “la moglie non aveva saputo tenerselo”.  Queste sono le mie impressioni perché  di fatto era un ceffo con precedenti penali, morboso con la figlia e violento con la moglie. Tutti sapevano nel suo condominio di otto piani, ma nessuno firmò mai la denuncia o accettò di testimoniare a favore della donna,  anche quando i vicini di casa la soccorsero e chiamarono l’ambulanza perché ferita alla testa da un’ascia. Sì un’ascia, che di certo a lui non serviva per andare nei boschi. Solo allora lei sporse denuncia ma poi la ritirò perché ” io avrei sopportato ancora, lui è così, poi si pente, ma quando ha iniziato con i figli non ce l’ho più fatta”. Da qualche anno quell’uomo è in galera, nemmeno i suoi familiari possono più avvicinare quei bambini. Unico contatto con la donna è stato concesso a due persone, che hanno testimoniato e che hanno fatto da tramite per farle avere vestiti, libri e giochi per i bambini, solidarietà e qualche soldo.  Lei non aveva  parenti, né un lavoro, né amiche, solo i figli. Si è fidata di una donna ed è stata aiutata da tante altre donne, che ancora le sono vicine, anche a distanza. Oggi penso soprattutto a lei. 

Giornata internazionale contro la violenza sulle donne 2015

 

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Quanto mi dai?

Cose da non credere…

Qualche giorno fa,  mentre leggevo post sulla buona educazione e su alcuni casi di mancanza di rispetto, mi sono ricordata di una cosa strana che mi è capitata a Roma. Premetto che mi ero trasferita da qualche giorno e quindi mi sentivo frastornata nonché spaesata in quella moltitudine di strade e persone sconosciute. Era luglio e andai a fare la spesa prima che esplodesse l’insopportabile afa delle ore calde. Stavo in coda in un supermercato di prodotti per la pulizia della casa, per fortuna poco affollato.

 Avevo già sistemato la mia spesa sul nastro trasportatore e messo il divisore per consentire alla cliente successiva di sistemare la sua. Poi mi sono spostata avanti per mettere i prodotti nelle buste . Una signora, più o meno cinquantenne che era dopo di me, con nonchalance ha preso il “mio” Cif spray e lo ha messo sul nastro tra le cose che doveva pagare. Prontamente la cassiera è intervenuta dicendo che il Cif spettava a me e che aveva visto che l’aveva preso. D’altra parte io, sinceramente presa alla sprovvista da siffatto insolito e improvviso interessamento al mio Cif, ho solo ribadito che l’avevo preso io. La signora ha iniziato a strillare che era suo e che ci sbagliavamo. A sua volta la cassiera con tono deciso e forte “Ahò , t’avemo visto sai? Stava de quà, e tu ll’hai messo de llà. Cose da non crede… ” 

 L’altra sbraitava, quindi

A: avrei potuto strattonare il mio Cif , metterlo in busta e scappare dal supermercato, come un giocatore di rugby che prende la palla e corre verso la meta ;

B : fare una plateale sceneggiata napoletana con un finale intervento dei carabinieri e dei giornalisti e finire sul giornale per il Cif sfacciatamente rapito;

 C : mollare due ceffoni alla signora, riprendermi il Cif e scappare;

D : dire ” Signò, lo tenga pure, si vede che quello degli altri pulisce meglio “

E: mettermi a piangere e muovere a compassione la “rapitrice” del Cif.

 F: spargere il Cif sul pavimento gridando :”Se non potrà essere mio, non lo sarà di nessuno”.  

A voi la parola .

L’assoluta bellezza in Alma -Tadema e nei pittori dell’800 inglese

 

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Nel  chiostro del Bramante a Roma, fino al 5 giugno 2014, si possono ammirare cinquanta opere della collezione del mecenate messicano Juan Antonio  Pérez Simòn  che scrisse   “Io trovo nelle opere di questi pittori inglesi qualcuno di quei temi che tocca le mie emozioni più profonde e i miei interessi fondamentali: la donna, la bellezza, l’erotismo, la famiglia e l’amore” (Pérez Simòn). Dipinti che celebrano una  un’ideale bellezza femminile che   è fine a se stessa tra rievocazioni di un passato immaginato e nostalgico.

 

Nella rigida Inghilterra vittoriana ,  ove lo sviluppo industriale  fa coesistere  la floridezza economica e  la devastante  miseria  di una manodopera sfruttata e ben descritta  nei romanzi di Dickens,  prende corpo una rivoluzione come  forma d’arte, di gusto neoclassico  e di cultura con un  movimento di artisti  che negli anni ’60 dell’800 si rifugia e trova forza nella bellezza e orienta  la ricerca estetica verso il passato, spesso  con un vero e proprio culto dell’Italia, dell’antica Grecia e della Roma Imperiale.  

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L’ emergente borghesia  apprezza  sempre più le nuove opere di  grandi artisti, i padri  dell’Aesthetic  Movement, quali  sir Lawrence Alma Tadema, Frederic Leighton, Albert Joseph Moore, Edward John Poynter, Edward Burne-Jones, John William Godward, Arthur Hughes, Albert Moore, ben presto  dimenticati  e denigrati,  in quanto ritenuti poi  artefici di un’arte  reazionaria e antimodernista,  ma riscoperti  e riabilitati  più tardi da collezionisti e intenditori d’ arte.

Tra questi  cultori del bello  spicca Sir Lawrence Alma Tadema (1836-1912), originario dei paesi Bassi,  che studia all’Accademia delle Belle Arti di Anversa e presso pittori belgi. AntigoneleighDopo un  viaggio in Italia  e l’affascinante visita di Pompei,  conosce  Jean-Léon Gérôme  a Parigi così  che l’antichità entra  nelle sue tematiche. Si trasferisce a Londra nel 1870 e ne ottiene  la cittadinanza tre anni più tardi , insieme al successo  nelle esposizioni organizzate dalla Royal Accademy.

 Da ambientazioni mitologiche o medioevali  e da  drammi shakespeariani  emerge una straordinaria e delicata panoramica  sulle  donne. Sono  tante le donne  immortalate, donne  angelicate o tentatrici  che ancora incantano nella loro sublime sensualità e  rara, perfetta, enigmatica bellezza alla quale nel  percorso espositivo sono associati fiori diversi  a seconda che si tratti di femmes fatales,  di antiche eroine, streghe, principesse ,muse e modelle.

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La  digitale purpurea , fiore dolce e crudele, racchiude i sentimenti di attesa e dubbio che animano queste  due fanciulle in un interno pieno di fiori.  

 

 

 

 

la lontananza avvicina i cuori di Godward

 

Momenti di dolce attesa e malinconia in questi occhi che rincorrono   un’emozione o un ricordo in una lontananza che avvicina i cuori (Godward) 

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La peonia accompagna Crenaia , ninfa del fiume Dargle dipinta da  Frederick Lord Leighton , una rosa senza spine che trafigge con la sua inerme e splendida  nudità.

 

 

 

 

“Ha come miele che bagna l’anima di un oblio dolce e crudele” (Pascoli)

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Il caprifoglio , rampicante e odoroso, suggerisce atmosfere gotiche  con la seduzione di una donna  dalla rossa chioma.

 

 

 

 

Un mare di  rose ricopre gli ospiti dell’imperatore Eliogabalo  in un soffocante vortice di colore  che sottende la sottile spirale o del piacere  o della morte.

Un tripudio di leggera, invadente,assoluta bellezza.

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ALMA –TADEMA E I PITTORI DELL’800 INGLESE

Collezione Pérez Simòn

16 febbraio-5 giugno 2014

Chiostro del Bramante-Via della Pace-Roma 

 

Giornata internazionale contro la violenza sulle donne

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Una delle tante ragioni per cui ho iniziato a scrivere riguarda  la violenza sulle donne per raccontare, commentare, indignarmi sulle tante forme di discriminazione, abuso, maltrattamento,  intolleranza contro la donna. Alcune abiette e lontane, altre più subdole e sottili.

Il femminicidio in atto è più evidente e denunciato, e non bastano solo le parole per fermarlo e interventi legislativi e  giudiziari per reprimerlo. Occorre una cultura che promuova il rispetto dell’identità di genere,  basata sull’affettività e sul riconoscimento delle rispettive diversità, emozioni e sentimenti,  che insegni a trasporsi nell’altro, per prevenire la violenza non solo contro le donne, ma contro tutti coloro ritenuti diversi o comunque percepiti come contrapposti. La rabbia latente esplode con un’aggressività che rivela l’incapacità di gestire le proprie emozioni e riconoscere quelle altrui non solo  in fondamentali svolte di vita, ma anche  in occasione di una partita di calcio o di  un parcheggio negato. Un delirio di onnipotenza ove l’altro viene annullato, in tutti i sensi.(da “Cicatrici di guerra:il Clan delle Cicatrici” in skipblog.it)

 

Prendiamo atto che  le morti violente di tante donne non sono dovute a balordi, in preda ad alcool o droghe, ma il più delle volte a premeditazione di chi ha una mentalità che deve essere sradicata a livello socio-culturale, non solo da noi donne che stiamo acquisendo maggiore consapevolezza, ma soprattutto dagli uomini di buona volontà che non devono soltanto prendere le distanze a parole ma intervenire ogni qualvolta si imbattano in qualche farabutto che si sente più sicuro e potente opprimendo  una donna con angherie. La violenza contro le donne è una questione MA-SCHI-LE. Le donne si sono emancipate. Ora tocca a voi, Uomini di buon volontà,  sradicare quella subdola solidarietà di genere basata sul  fingere di non vedere e di non sentire nei luoghi pubblici e  di lavoro, nei condomini.

Ora, più di prima, spetta anche a chi opera nella scuola, e siamo tanti, a segnalare in modo riservato a chi di dovere (in primis al Dirigente scolastico, e alle forze dell’ordine) quando si appurino situazioni ad alto rischio di letalità.È un obbligo giuridico e morale, sicuramente scomodo, di ogni insegnante. L’omissione è perseguibile per legge. Nella scuola dell’infanzia e primaria spesso i bambini e le madri raccontano; nelle scuole secondarie di primo e secondo grado le ragazze a volte parlano:  si può aiutare chi è in difficoltà per prevenire un inferno non solo alla donna ma anche ai figli. 

 In questi anni  non mi sono sfuggite le tante, troppe,  donne  italiane  e straniere morte, il più delle volte per mano di un uomo, più di rado per suicidio perché le violenze subite le avevano uccise dentro.

A marzo dell’anno scorso   mi ha molto colpito la notizia del suicidio di Fakhra YounasFakhra Younas , autrice del libro “Il volto cancellato”: volto, braccia, petto e soprattutto identità sfigurati con l’acido dal  marito perché lei, giovane e bellissima, aveva deciso di divorziare da quell’uomo violento, possessivo e potente, condannato poi a  pochi mesi di carcere. Fakhra fu aiutata dalla suocera a fuggire con il figlio in Italia e nel 2000 trovò aiuto a Roma nell’associazione Smileagain. Si sottopose a circa  una quarantina di interventi chirurgici, ma certe ferite interne non si sono cicatrizzate e  Fakhra, simbolo della ribellione delle donne del Pakistan, dell’ India, del Bangladesh e del Nepal, non ce l’ha fatta.

Una realtà non troppo  lontana dalla nostra, visto che quest’anno qualche farabutto  italiano ha adottato questa triste prassi. Proprio oggi una ragazza italiana, Lucia Annibali,  ha ricevuto dal Presidente della Repubblica l’Onorificenza di Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana per il coraggio, la dignità e  la forza d’animo di reagire a un’aggressione con l’acido, commissionata da un  talebano nostrano.

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In India le donne sono insorte ma le violenze, anche contro bambine piccolissime, continuano;  la giovane Malala Yousafzai, candidata al Premio Nobel per la pace, ha captato l’attenzione del mondo intero nel rivendicare i diritti civili e in particolare allo studio per le donne della città di Mingora (Pakistan), negati da un editto dei talebani.

In Italia ormai le donne denunciano di più le violenze subite e  spesso pare che i media annuncino un bollettino di guerra. Non c’è giorno che non si senta di qualche donna, giovane e meno giovane, che non muoia per mano del marito, dell’ex , del fidanzato, del compagno, dell’amante o di un familiare. Non se ne può più. Il campionario maschile è variamente assortito, da Nord a Sud, per età ed estrazione socio culturale. Il problema non è tanto limitato, come si vuole fare credere, e la cosa che più mi preoccupa è scoprire da ciò che racconta mia figlia, poco più che ventenne, che alcuni ragazzi coetanei non vogliono che la lei di turno vada a studiare in un’altra città, che esca con le amiche quando lui si concede uscite o rimpatriate tra boys o che abbia interessi propri, e pretendono di  essere continuamente aggiornati con telefonate e sms su  ogni minimo spostamento.

Siamo nel 2013: se da ragazzina  immaginavo che in un lontano futuro saremmo diventati una sorta di androidi senza nemmeno più una diversità di genere, perché l’istinto sarebbe stato soppiantato   da menti evolutissimamente perse in altri meandri, oggi  riconosco che per fortuna è rimasta l’identità di genere, ma in quanto ad evoluzione culturale non saprei proprio a che punto siamo arrivati. 

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Anche in Italia c’è tanto da riflettere e da fare per diffondere la cultura di genere. Lo dobbiamo alle vittime di abusi e maltrattamenti ma soprattutto alle   oltre cento vittime  che “non contano”, o contano molto, ma molto meno dei loro mariti, compagni, partner, padri che le hanno uccise. Contiamole e osserviamole  una alla volta per non smarrire i loro passi e  la loro storia.  L’amore dona vita. I killer e i violenti non amano. Quelle donne hanno amato un uomo che non le meritava..
 Il Campidoglio si accenderà di rosso, e tante iniziative sono previste nelle città italiane per dire “No alla violenza contro le donne” a ricordo delle vittime  di ogni età e nazionalità. L’artista messicana Elina Chauvet, che ben conosce il femminicidio di  Ciudad Juárez, ha importato in Italia  le “Zapatos Rojos”, scarpe rosse,  per non dimenticare il cammino interrotto  delle tante donne  uccise. Formano un percorso  di  solidarietà per  quelle che in tutto il mondo  hanno subito e subiscono violenza.

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Villa Floridiana e il Museo Nazionale della Ceramica Duca di Martina

villa floridiana 1Nel quartiere del Vomero a Napoli s’erge Villa Floridiana,  un’oasi  di bellezza  naturale ed artistica, che  re Ferdinando I di Borbone   volle come residenza  estiva per la moglie morganatica Lucia Migliaccio di Partanna, duchessa di Floridia. La duchessa , nata a Siracusa nel 1770, era molto bella  oltre che molto ricca. A soli sei anni ereditò titolo nobiliare e feudo  e ad undici sposò il ventiseienne  principe Benedetto Grifeo di Partanna dal quale prima ebbe  nove figli, poi  una prematura vedovanza. Nel novembre del  1814 tre mesi  dopo la morte della regina Maria Carolina convolò  a nuove nozze col re di Borbone, esule in Sicilia, pertanto  fu invisa ai sudditi e, rientrata col consorte  a Napoli dopo la Restaurazione , visse nelle residenze a lei destinate dal re ( palazzo Reale, palazzo Partanna in Piazza dei Martiri  e Villa Floridiana). 

villa floridiana

Tra il 1817 e il 1819  l’architetto Antonio Niccolini ristrutturò in stile neoclassico la palazzina ed ideò un parco all’inglese, un teatrino all’aperto, un tempietto ionico, serre e grotte per animali esotici. Villa Floridiana divenne quindi   una suggestiva  scenografia per i ricevimenti estivi della duchessa. Quando nel gennaio del 1825 re Ferdinando morì in seguito a una breve malattia , Lucia lasciò il palazzo Reale e si ritirò nel palazzo Partanna. Circa un anno più tardi, nell’aprile del 1826, morì anch’ella e le sue spoglie furono custodite nella chiesa di San Ferdinando.

oggetti museo duca di martina Nel  1919 Villa Floridiana fu acquistata dallo Stato italiano. Dal 1931 divenne  sede del  Museo della Ceramica Duca di Martina che ospita la collezione di oggetti d’arte di Placido di Sangro, appunto duca di Martina, donata dai suoi eredi  alla città di Napoli  nel 1911. Il duca, nato a Napoli nel 1829 da Riccardo e Maria Argentina Caracciolo, apparteneva ad un  illustre casato strettamente legato alla corte borbonica. Dopo l’unità d’ Italia si trasferì a Parigi e lì entrò in contatto con famosi  collezionisti, come i Rothschild, ed  iniziò ad acquistare oggetti d’arte applicata che in parte venivano inviati nella sua residenza napoletana.  

oggetti museo duca di martina 1oggetti museo duca di martina 2oggetti museo duca di martina 3

Il Museo Duca di Martina nella Villa Floridiana si articola in più sale, dislocate su tre piani, ove si possono ammirare circa seimila opere di manifattura occidentale ed orientale, databili dal XII al XIX secolo.  Avori, smalti, tartarughe, coralli, bronzi di epoca medievale e rinascimentale, maioliche, vetri e cristalli dal XV al XVIII secolo, porcellane europee, cinesi di epoca Ming ,Qing e giapponesi Kakiemon ed Imari.

 

parco villa floridiana

 

È piacevole passeggiare nel parco della Villa Floridiana, all’ombra della folta e rigogliosa vegetazione, lontano  dai rumori della città. Una pausa rigenerante prima di  ricominciare a girovagare per Napoli.

 

 

 

 

Museo Nazionale della Ceramica Duca di Martina

Villa Floridiana
via Cimarosa 77
via Aniello Falcone 171, 80127 – Napoli

 

 

La signorina Rosa

Con questo post partecipo alla quarta edizione del  Carnevale della Letteratura avente come tema il tempo e  curato da Leonardo Petrillo  su Scienza e Musica.  Propongo una passeggiata nel tempo che fu per raccontare la vita di una donna con lo sguardo su altri tempi.

  Quando penso alla signorina Rosa, concludo che riuscì sempre ad essere protagonista della sua vita, senza finzioni, né guida, né protezione. Penso a quei semi che volano via per germogliare altrove. Lei aveva in sé i semi del secolo successivo.

 Rosa nacque nel 1899. Ancora adolescente, perse entrambi i genitori a poca distanza l’uno dall’ altra. Suo fratello, di due anni più grande,  prese quindi  la via del mare per provvedere alle due sorelle minori e fu esonerato dal primo conflitto mondiale, proprio perché sostegno di famiglia. Finite le scuole tecniche, Rosa aspettò di compiere diciotto anni per lasciare  il paese e andare a vivere in città con la sorella, di un anno più giovane, alla quale era molto legata. Pare che all’inizio entrambe lavorassero in un laboratorio di cucito. Nel 1919 la sorella Lucia morì di febbre spagnola, che all’epoca fece molte vittime.

 Rosa decise di proseguire gli studi , diventò ostetrica e lavorò sempre all’ospedale Ascalesi nel cuore caldo  di Napoli. A lei si deve la nascita, in casa, di tutti i nipoti, pronipoti e figli di conoscenti finché fu costruita la prima clinica ostetrica in penisola sorrentina alla fine degli anni ‘50. Rosa era minuta e di statura piccola, ma aveva un passo sicuro e deciso. Arrivava nella casa della partoriente e istruiva sul da farsi le donne presenti, zittendole con fermezza per mantenere la calma e concentrarsi sull’evento. Non si può dire fosse una bellezza.  Aveva però un paio di occhi  vispi da furetto, di colore castano verde, eredità trasmessa alle nipoti e pronipoti.

  Nel ’43 aiutò la nipote maggiore a trasferirsi in città per lavorare e contribuire al mantenimento agli studi dei tre fratelli minori. Questo perché suo padre ( il fratello di Rosa) era disperso. In verità proprio durante l’ultimo viaggio, che prevedeva il suo sbarco a Genova, arrivò un contrordine. La sua motonave fu dirottata  ad Alessandria d’Egitto e l’equipaggio sbarcò  in un campo di prigionia inglese. Lì suo fratello vi rimase per otto anni e ne svelò il segreto  parlando in arabo contro fantasmi immaginari, quando in tarda età la sua mente vacillava tra sprazzi di memoria del passato e vuoti del presente.  Durante la sua assenza Rosa seguì i  cinque nipoti conciliando, come poteva,  gli impegni di lavoro col tempo libero. La seconda guerra si fece sentire, in tutti i sensi: nelle separazioni forzate, nei bombardamenti, negli stenti, nella trepida attesa di notizie. Ogni tanto tornava al paese e  rimproverava la cognata perché i ragazzini parlavano il dialetto. Rosa ci teneva all’Italiano. Ormai aveva assunto l’aria della città e credeva che un diploma e la  padronanza della lingua italiana potevano essere un buon biglietto di presentazione per un’occupazione futura. Nel dopoguerra incoraggiò i tre nipoti ad intraprendere la carriera del mare. Rosa invece iniziò a viaggiare, prima da sola poi, in età avanzata, coinvolse nelle sue peregrinazioni anche alcune amiche. Non c’erano confini di spazio e tempo alla sua voglia di scoprire l’Italia , l’Europa e poi oltre. Investiva così i suoi risparmi, allontanandosi sempre più,  come i cerchi concentrici si allargano nell’acqua. La sua meta preferita fu Parigi ma è rimasta memorabile nella storia della famiglia la sua partenza per la Terra Santa in un itinerario “fai da te” negli anni ’50.

 La ricordo anziana quando per un giorno si fermava a casa nostra e l’indomani ripartiva per proseguire uno dei tanti viaggi. Quando arrivava era una festa. I miei genitori la aspettavano e si premuravano di accoglierla secondo il rituale riservato agli ospiti di riguardo. A tavola parlava ininterrottamente, descriveva e raccontava le sue peripezie, e sorrideva. Mio padre la ossequiava dandole del Voi, nutriva per lei un’ammirazione, che ho capito in seguito, e una tacita gratitudine per avere assistito mia madre nel lungo parto di mio fratello che fece tribolare per due giorni non solo lei, ma anche  tutto il parentado.  Tra Rosa e mamma c’era una solidarietà femminile, riguardosa da ambo le parti, forse  perché la vita le aveva portate lontano a condividere la tradizione del mare in  una fatale ciclicità. Alla fine degli anni ‘60 Rosa venne a farci visita  per congratularsi con papà, fugando  ogni perplessità dei miei a trasferirsi altrove. Era sempre più piccola, con tante rughe ricamate dal tempo e dalla vita sul viso e sulle mani. Il passo era incerto, ma costante. Mi pareva una testuggine, con gli occhi di sempre, cangianti a seconda della luce, curiosi, attenti, precocemente spalancati sulla libertà, forza  e determinazione di essere. Quando la ricordiamo, tutti pensiamo a una donna intraprendente ed indipendente, discreta e tenace che vedeva altri tempi . Poco formale nei festeggiamenti, mai invadente, lontana eppure presente nei momenti critici.

 Certe vite  sono opere, rese grandiose da una quotidianità percorsa a piccoli passi per gestire difficoltà  e costruire pian piano, credendo in qualcosa. Qualcosa di silenziosamente autentico che va al di là di se stessi, degli affetti, delle coordinate di spazio e tempo, della contingenza del reale. A distanza di tanti anni Zia Rosa riesce ancora a trasmettermi un esempio che orienta. Una riservata, piccola- grande donna che, inizialmente per necessità e poi per scelta, interpretò la vita senza il bisogno di ricevere conferme affettive o consensi, seguendo priorità che aveva selezionato con intelligente perspicacia. Precorse i tempi con la curiosità di aprirsi al mondo, riuscendo a superare ogni distacco e a colmare ogni lontananza. Quando penso a Zia Rosa vedo una moderna  ragazza del 1899.

Dedicato a Zia Rosa

 

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  Don Liunàrd

 

“Quando voglio pensare a qualche cosa di piacevole e di riposante mi viene subito davanti agli occhi la mia cara villa di Bordighera” (Regina Margherita di Savoia, 1923)

 

regina margherita di savoia- bordighera

Margherita Maria Teresa Giovanna di Savoia  nacque a Torino nel 1851 da Ferdinando di Savoia – Genova e Elisabetta di Sassonia.  Rimasta orfana del padre a quattro anni , fu accudita dalla contessa Clelia Monticelli di Castelrosso e da don Mottura, un prete liberale amico di Gioberti, che si preoccuparono della salute, dell’educazione e della serenità  della piccola. Dopo qualche anno  si avvicinò alla musica e alla pittura  acquisendo gradualmente gusto per il colore che sperimentò negli acquerelli anche durante la vita da regina. Imparò  quattro lingue, ma solo a quattordici  anni iniziò a studiare l’italiano, la storia e la letteratura italiana con il professore Andrea Tintori.

Cresciuta nel clima risorgimentale Margherita conciliò bellezza  e buon gusto con la forza e la determinazione del carattere, il  senso del dovere con una buona  capacità di comunicazione. A otto anni preparò bende per i feriti degli scontri del 1859 per un dovere di assistenza che l’accompagnò anche in seguito come regina madre dedita ad opere di beneficenza.

Nell’aprile del  1868, a diciassette anni,  sposò il principe Umberto, che in realtà amò sempre la  bella Bolognina, cioè  Eugenia Attendolo Bolognini, contessa Litta. Tra migliaia di margherite, che addobbarono il duomo di san Giovanni a Torino e gli abiti delle dame , la fanciulla sposò la monarchia sin dall’inizio, dimostrando di avere un profondo senso del proprio ruolo regale, e chiese al re Vittorio Emanuele II il permesso di affacciarsi i per salutare il popolo festoso. Non fu un caso se  divenne  uno dei personaggi più amati della storia italiana: con  l’aggraziata  freschezza di sposa fanciulla e il carisma di un’innata signorilità conquistò l’alta società e il popolo. Anche quando visse a Monza , ove dimorava la “Bolognina”, la principessa Margherita  non dimenticò  le funzioni e i doveri del suo rango. Si trasferì a Napoli quando il re decise che il nascituro  erede al trono doveva nascere lì per ragioni di stato. Infatti  il piccolo Vittorio Emanuele  III  nacque a Napoli  nel novembre del 1869 e fu accolto in una  culla regale, decorata con  medaglioni di madreperla e corallo, dono dei  napoletani realizzato sotto la guida di  Domenico Morelli e di Luigi Settembrini. Quando Roma si unì con un plebiscito al regno d’Italia, la famiglia reale si trasferì al Quirinale. Nella Città eterna la principessa Margherita  conciliò impegni di vita mondana con quelli familiari di cura del figlio, ma soprattutto iniziò ad accogliere nella nuova reggia poeti, letterati , artisti famosi e non. Il 9 gennaio 1878 morì il re Vittorio Emanuele II e il principe Umberto salì al trono . Margherita divenne pertanto la prima regina d’Italia. Una  regina incantatrice: colta, raffinata, elegante e affabile si fece amare durante un viaggio per l’Italia non disdegnando di indossare costumi tipici e gioielli di orafi locali. Ebbe  carisma e rappresentò  la vera forza della monarchia perché fu ben consapevole del proprio ruolo regale, dei propri doveri nella vita privata e pubblica , di mecenate delle arti e della cultura, di generosa  e affabile interlocutrice con ambasciatori stranieri e gente del popolo dalla quale si lasciò avvicinare. Divenne un punto di riferimento , a differenza dello schivo consorte  più dedito all’ arte venatoria e amatoria. La regina visitava collegi, orfanatrofi  e  scuole, partecipava  a inaugurazioni ed eventi culturali e mondani. 

villa regina margherita

Nel luglio del 1900 il gioviale re Umberto, scampato a precedenti attentati, fu  assassinato con quattro colpi di pistola dall’ anarchico Bresci e quindi  l’11 agosto gli successe al  trono il re Vittorio Emanuele III. Di conseguenza la  regina Margherita assunse il ruolo di regina madre, continuando a dedicarsi ad opere di beneficenza e di promozione delle arti e della cultura .

finestra villa regina Margherita

 Dopo l’attentato  al consorte, nel settembre 1879, si recò a Bordighera e fu ospitata dal barone Bischoffsheim nella  villa Etelinda. Anni dopo ritornò nella tranquilla cittadina del Ponente ligure e nel 1914 acquistò una villa con giardino  che l’architetto Luigi Broggi trasformò nella splendida Villa Regina Margherita. Dal 1916 da maggio a dicembre la regina si ritirava nella villa, dove ritrovava  la serenità tra le tante rose e il verde del parco. Non si sottrasse a impegni di vita pubblica fino a quando  si spense  nell’ amata villa di Bordighera il 4 gennaio 1926.

“Margherita di Savoia è artista pel bisogno di vivere in un ambiente esteticamente bello nell’insieme e nei particolari, dai mobili di stile, ai ninnoli, ai quadri, alle statue, alle piante, ai fiori con intonazione che riveli un concetto. Era artista Margherita perché aveva negli italiani suscitata la persuasione che le emozioni estetiche  erano un bisogno del suo cuore  e che offrirgliele era l’omaggio che più gradiva. All’arte la regina dava un posto d’onore come già i greci nell’educazione… era artista sempre, se sonava, se cantava, se dipingeva , se lavorava, se si vestiva, se sceglieva le sue villeggiature estive o invernali, se organizzava una festa” (Giovanna Vittori, Margherita di Savoia, 1927)

villa regina margherita bordighera

 

Basti ricordare che la regina  influì nelle scelte architettoniche  e decorative della villa; volle che Tommaso Bernasconi , proveniente dall’ Accademia di Brera, decorasse l’interno della villa. Non a  caso questo gusto per il bello si rispecchia  nei sopraporta della villa in un itinerario dei ricordi e dei luoghi cari alla regina: palazzo Chiablese a Torino dove nacque nel 1821, la villa ducale di Stresa dove visse con la madre in seguito alla morte del padre Ferdinando di Savoia- Genova, il palazzo del Quirinale, il palazzo Margherita  di Roma ove si trasferì dopo la morte del re,  Castel Savoia a Gressoney  e il castello ducale di Aglié, dimore estive, il castello di Stupinigi ove si ritirò nei primi anni di vedovanza.

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Villa Regina Margherita si trova sulla Via Romana di Bordighera, lungo il percorso dell’antica via  Julia Augusta  che in età romana collegava la Liguria alla Gallia. Nel 2009 la villa è stata acquistata dall ’amministrazione provinciale di Imperia e della Città di Bordighera che d’intesa con la Regione Liguria e la famiglia Terruzzi  hanno trasformata la villa in un museo. Qui  è possibile ammirare  la pregiata collezione “Terruzzi” di dipinti del Seicento e Settecento, nature morte italiane e straniere dal 1500 in poi , porcellane orientali, bronzi, argenti, ceramiche e  mobili . Tra antichi arredi, spettacolari vetrate artistiche –le mie preferite- e lampadari, delicati stucchi e parquets  in un’oasi di storia e di arte raffinata spiccano opere dell’arte ligure del Seicento, delle scuole napoletana , tra le quali tre quadri di Luca Giordano, emiliana , caravaggesca e francese (Jean Baptiste Lallemand, Joseph Sauvage, Jean François de Troy ).

Tappa obbligata è la terrazza  panoramica che si affaccia sul mare, sui giardini  e sulla sempre bella Bordighera.

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Civetteria femminile

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La cosmetica è per la donna la scienza del cosmo, non quella che dovrebbe  decifrare e spiegare le leggi della natura, bensì le leggi dell’apparire bella a tutti i costi. E a che costo! Scocciature  talvolta dolenti (leggasi  ceretta depilatoria) e fatiche immani in palestra, diete spossanti da esaurimento nervoso ( poco importa se poi non si ha più nemmeno la forza di stirare) e onerose per il portafogli. Le donne investono – a detta dei lui spendono- tanto in prodotti di bellezza, sin da adolescenti . Del resto in giovane età, hanno poca autostima e si vedono sempre brutte …così incominciano a nutrire la pelle del viso con creme idratanti, a colorare l’incarnato delicato con fondotinta e  terra di sole (quest’ultima sa di qualcosa di ustionante), a contornarsi labbra e palpebre. Tutto per apparire più belle,  o semplicemente diverse da come si vedono.

Qui casca l’asino e… l’intera stalla.

 Quando una donna si sente brutta, disordinata e mai abbastanza in tiro, magari invece suscita maggiore curiosità  o rivela un naturale sprizzo di autenticità. Saper truccarsi è un’arte, rispondente al detto “ stucco e pittura fan fare bella figura” divenuto poi il motto imperante degli imbianchini e delle estetiste. Ogni donna si allena per anni davanti allo specchio, si cimenta in  estenuanti prove  di rossetti e ombretti nell’immensa varietà policroma per trovare la combinazione più compatibile  al colore degli occhi e dei capelli oppure del vestito ( e vi pare nulla?). Occorrerebbe un software specifico per agevolarci in calcoli probabilistici di sfumature che fanno perdere tanto tempo e pazienza con esiti  talvolta deludenti, o comunque mai rispondenti alle aspettative iniziali.

 Vediamo un po’ chi delle gentili pulzelle non si identifica nei seguenti casi:

 

1. Risveglio da bradipo. Hai dormito le tue belle 6 ore ( 4 se hai passato una nottataccia e 9 se hai ghirescato) e nel rituale quotidiano davanti allo specchio ti accorgi che hai le occhiaie. Cominci a chiederti se sei stanca, se si avvicina il ciclo, responsabile di tutti i mali reali ed immaginari, se hai dormito male, se hai preoccupazioni. Nulla di nulla. E allora perché? Perché sì. Punto. Accettale, metti un po’ di correttore e non crocifiggerti inutilmente.

 

  2. Un malaugurato giorno, in cui sarebbe stato meglio non avere lo specchio, ti accorgi che qualche capello non è più in tinta con la chioma, o meglio è canuto. Apriti cielo! Anche a  16 anni, è una tragedia: è il sinonimo di vecchiaia incipiente, di  collettivo disgusto sociale e di presunta emarginazione e quindi decidi di entrare nel coloured Olimpo. A settimane alterne dovrai far fronte alla crescita ultrarapida, secondo me causata dalle stesse tinture, fertilizzanti del cuoio capelluto. La schiavitù è segnata per sempre: ti sottoporrai a periodici trattamenti fai da te, se sei abbastanza abile, o a tormentose e tormentate sedute dalla parrucchiera con conseguente sciroppamento di tutta la top twenty di  spettegulèss andanti a livello locale e nazionale.

 3. Le labbra: il tormentone recente. Non vanno mai bene, sono  troppo sottili o troppo carnose…e allora molto meglio le imbottiture artificiali che ti rendono simile ad una cernia? Dopo di che potresti ambire al ruolo di   protagonista in  una novella  Batracomiomachia ( la guerra dei topi, anzi delle tope,  e delle rane)

 4. Le mani o meglio le unghie. Forse Crudelia De Mon ha ispirato la  moda dilagante delle unghie artigliate e posticce…mi chiedo come si riesca a scrivere al pc con quelle cose ingombranti e sottili che sfregano sulla tastiera peggio di un gesso sulla lavagna o come si riesca ad effettuare più di tre lavaggi a mano e consecutivi  di stoviglie. Immagino una nutrita schiera di colf tuttofare  che supportano la bella rapace, impedita nelle mansioni domestiche e dedita a  contemplarsi  davanti allo specchio per lunghe interminabili ore in una sorta di narcisistico delirio.

 5. Quando la natura reclama il suo dazio e  se sei un’insicura, ossessionata dalla bellezza apparente, credi di poter  fermare il tempo ricorrendo a  forzature e rimedi artificiali per riempire le rughe e rimpolpare  forme e zigomi. Peccato che talvolta  si sfiori il ridicolo.

 Ma perché trasfigurarsi così tanto? E’ vero Cura il tuo aspetto: chi ha detto che l’amore è cieco? ma Se  Chiedete al rospo che cosa sia la bellezza, vi risponderà che è la femmina del rospo (Voltaire) e Lasciamo le belle donne agli uomini senza fantasia (Proust) anche perché la bellezza, dopo tre giorni, è tanto noiosa come la virtù. (George Bernard Shaw).

 

Forse l’aspetto esteriore suscita una prima impressione, quella che si basa sulla percezione dei sensi. In realtà valgono  di più uno sguardo, un sorriso, il portamento, lo stile, qualità speciali e diverse non sempre date in dotazione da Madre Natura, ma optional  acquisiti  nel tempo con artificiosa sapienza.

 

Valorizzarsi esteticamente senza eccessi può contribuire a sentirsi bene con se stessi, ma in fin dei conti  vale la pena di perdere la libertà di esser ciò che si è, omologandosi a canoni estetici imperanti?

 

 

La dama bianca

Mi piace esplorare con lo sguardo le grandi città che si raccontano nella solenne vastità delle piazze, nei monumenti solitari, sui portali di antiche  chiese, tra gli  sconfinati viali alberati  e gli  zampilli iridati delle fontane, e scrutare  con il naso all’insù le finestre, i balconi, i tetti di imponenti palazzi, muti testimoni di storia vissuta. In città  mi sento anonimamente libera di osservare con discrezione le  tante persone che incrocio per strada, sui mezzi pubblici o nelle stazioni affollate. Genova è una città particolarmente austera e poco caotica, a differenza di altre che stordiscono, e qualche tempo fa  ho avuto l’occasione di riscoprirla a tratti,  tra una corsa e l’altra.

 

 Unico imprevisto dell’afosa giornata è stata la coda alla biglietteria della stazione ferroviaria per cui ho  dovuto rinunciare all’ Intercity del ritorno. Il successivo era previsto dopo circa quattro ore, quindi non mi  restava altro da fare che prendere un treno regionale. Rassegnata al supplizio che mi attendeva,  mi sono seduta nella sala d’aspetto per riposare le zampe e finire di leggere il quotidiano, ingannando così l’attesa.

 

Ad un tratto ho intravisto una sagoma bianca e ho alzato gli occhi.

Fiera, ostentava un abitino bianco, che scopriva il ginocchio. Le bretelle erano fermate ai lati da due passanti dorati e sandali pitonati, con tacchi troppo alti e a spillo, slanciavano polpacci nervosi. Ha sfilato per un paio di volte avanti e indietro, come in passerella, conscia di non passare inosservata a causa del vestito aderente e trasparente. Dava l’impressione di aspettare un qualcuno che non c’era. Si è seduta ad un tavolino del bar, ha accavallato le gambe con spudorata disinvoltura mentre fumava  una sigaretta. Il rossetto acceso contrastava coi lunghi capelli rossi e grandi occhiali neri a maschera coprivano il volto, senza riuscire a  celare i segni dell’età  nelle pieghe laterali della bocca. Poi si è alzata. Indomita e inarrendevole ha aspettato a lungo, guardandosi intorno e continuando a volteggiare nei pressi del tabellone degli orari,  tra comitive di ragazzi con gli zaini in spalla e famiglie in partenza per le vacanze. Infine è andata via.

 

Dopo poco ho raggiunto con mia figlia il binario sotterraneo per prendere il treno che ci avrebbe riportate a casa. Lì sotto si incanalava una corrente d’aria fresca che faceva quasi rabbrividire. Un continuo via vai di turisti  con trolley voluminosi, stanchi pendolari, donne accaldate con bambini irrequieti al seguito  mi hanno distratta.

Per terra spiccava la macchia bianca. Era di nuovo lei. Stava rannicchiata, in modo composto, sulla borsa. L’appariscente e provocante dama ultrasessantenne non aveva più l’aria spavalda di prima. Sembrava delusa, quasi restia a mostrarsi. D’un tratto  mi appariva fragile nella sua sfida contro quel tempo in cui la natura reclama il suo dazio e cessa la stagione del bell’ apparire a ogni costo. In quell’angolo c’era una donna ridimensionata dalla sua solitudine, immobile nella sua inutile attesa, muta nel rumore circostante. Non dominava più un immaginario palcoscenico ma, assorta nei suoi pensieri, delusa pareva che lo stesse osservando da lontano.

La malinconia, confermata da movenze più naturali e discrete,  le restituiva la bellezza dei suoi anni.

 

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Tra compiti e lezioni, giochi elettronici e primi innamoramenti i bambini passano dall’infanzia all’adolescenza e capiscono più di quanto si pensi. Intuiscono che l’apparente idillio tra mamma e papà in realtà sottende una tacita guerra fredda, talvolta una contrastata guerra di coppia, e diventano irascibili ed irrequieti. Spesso si rifugiano in un mondo fantastico perché non accettano quello reale, talvolta simulano precocemente quello reale forse per sentirsi più grandi e forti nel sopportarlo. Il ragazzino attraversa la fase del no assoluto, trasgredisce per affermare se stesso nel graduale processo di costruzione della propria identità. Questo è il periodo più critico per l’adolescente e spossante per i genitori che sovente si sentono inadeguati a fronteggiare le sue provocazioni; talvolta ne diventano complici sia perché è più facile dire sì , che non occorre né motivare nè mantenere, sia perché non accettano gli inevitabili cambiamenti naturali e rincorrono un’apparente eterna giovinezza ponendosi a livello del figlio ( anzi i papà ambirebbero porsi a livello delle sue compagne di scuola) , evitando eventuali e sane frustrazioni che consentirebbero di crescere ad entrambi. Il papà si prodiga sciorinando consigli ( degni di un prontuario tascabile ) per l’usa e getta perché il rampollo consegua successi in conquiste, non proprio sentimentali ; la madre –antenne talvolta è in competizione con la figlia e brilla al sentirsi dire “sembrate due sorelle” …peccato che questo complimento, piacevole per lei, si traduca in una mazzata per la figlia adolescente che si sente perennemente brutto anatroccolo .

 Insomma i genitori si defilano come educatori ( parola che è sinonimo di Matusalemme) in quanto troppo impegnati a sbarcare il lunario, ad allenarsi in palestra, a mantenere relazioni sociali e a innescarne altre più stimolanti ed appaganti per accorgersi ben presto che la routine logora qualsiasi relazione, sia ufficiale che ufficiosa. Sono indaffarati a programmare diete, impegni di lavoro, vacanze spesso forzate ed estenuanti, espressione di status sociale più che vissute come momento di pausa per ritrovarsi insieme .La famiglia si riduce a una comunità più che di incontro, di scontro e scarico di tensioni ove talvolta manca la vera comunicazione, dove ognuno procede in compartimenti stagni, impegnato a correre per fare le stesse cose in un rituale quotidiano .

 vignetta pv madre figlio

Non c’è mai abbastanza tempo per ascoltarsi e ascoltare .Si fanno meccanicamente tante azioni senza interpretarle emotivamente e così il tempo scivola addosso col suo carico di ore e di logorìo moderno. Spesso i ragazzini, in balìa di se stessi e delle loro pulsioni emotive che non sanno ancora decifrare, non hanno “paletti fissi”e trasgrediscono sempre più, perché subentra la noia . Vanno oltre la solita prepotenza di gioco nei campetti…talvolta giocano con la vita propria o dello  “sfigato” di turno o della carina del branco. Tutto fa spettacolo sul palcoscenico del sè egocentrico , spesso frustrato da insuccessi, mancanza di punti di riferimento, solitudine e tedio per cui le ragioni della forza divengono un mezzo di affermazione sociale. Il più delle volte sono i genitori che, disorientati, hanno perso la forza della ragione , o più semplicemente quella del buonsenso; abdicando ad un ruolo, forse non compreso o troppo invadente, preferiscono rivivere attraverso i loro figli parte di sé accorgendosi che le perplessità, gli entusiasmi, i perché , le aspettative sono di tutti i ragazzi, a prescindere dai salti generazionali. Talvolta però perdono di vista se stessi, troppo proiettati nell’ immediatezza del contingente e agognano ad una sorta di anno sabbatico per evadere un po’, lasciando che gli altri si organizzino un po’ da soli e capiscano che non si deve dare nulla per scontato .

Il non plus ultra sarebbe poter disporre non solo di tempo ma anche di uno spazio proprio: basterebbe un albero sul quale appollaiarsi ogni tanto per ritrovare se stessi e in cui ammortizzare un po’ gli sfoghi esistenziali dei figli alle prese coi primi amori, con il rendimento scolastico e le diatribe tra coetanei . “Cosa vorresti fare da grande?” . Mammà e papà s’illuminano d’immenso immaginando l’avvenire radioso del figlio, sul quale a volte riversano le loro aspettative ingombranti. Da bambina non sapevo mai cosa rispondere. Sinceramente non lo so nemmeno adesso, forse perché non ho ancora capito quando si diventa grandi. In ogni fase della vita ci si sente immaturi e pronti ad affrontare solo quella precedentemente trascorsa, grazie al cosiddetto senno del poi.“ Mamma da grande vorrei…” e giù una serie di propositi. Quanti ne ho sentiti negli ultimi quindici anni ( farò il giocattolaio così giocherò sempre, o lavorerò in uno zoo, anzi solo nel recinto dei coccodrilli…ingegnere, medico, veterinario, parrucchiera, broker, pilota).

Nei momenti critici o di delusione per cui i miei figli si sfogano dei loro insuccessi e minacciano scelte drastiche, se riesco a non cedere ad una crisi isterica, cerco di sdrammatizzare con aria ironicamente seria dicendo : “Figlia mia, mal che vada, tu potresti farti suora e tu, figlio mio, diventare un gesuita colto o missionario (anche se a livello relazionale mia figlia rivoluzionerebbe il monastero e cambierebbe il look delle consorelle creando incidenti diplomatici con la Santa Sede) . Pensate un po’: non avreste problemi di casa, di lavoro, di cuore, nessuno stress ( bè forse quello dell’astinenza). La vita trascorrerebbe lentamente in grazia di Dio al rintocco delle campane (che noia! che scandirebbero le più importanti fasi del giorno. Vi dedichereste al giardinaggio , alla cucina (frugalmente dietetica ed insipida), allo studio (aperto?), alla contemplazione (mistica): sarete in pace con voi stessi e con il mondo ( ma quale mondo?).” Dopo aver mandato me a quel…monastero, dimentichi del precedente clima apocalittico : “Mamma , stasera posso andare in discoteca? Torno presto che domani devo studiare con Vale…” E l’ altro: “Ciao, esco con gli amici. Ci vediamo più tardi!” .

Allora, , dopo il solito interrogatorio Dove vai- con chi vai- a che ora torni, li saluto con il tradizionale “Mi raccomando!”, ma da buona mammà gongolante compiacendomi di quanto siano unici e splendidi (perché ogni scarrafone è bell a’mamma soia), penso:

 “Andate, non sono gli anni della nostra vita che contano, ma la vita dei nostri anni. Per tutto il resto, c’è tempo.”

 

 

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