Mea culpa (prima parte)

Ah, nessuno insegna a fare il genitore! Lo si diventa così , più o meno volutamente, ma una cosa è appagare il naturale desiderio di maternità e paternità, altra cosa è fare il genitore. In effetti parlo per esperienza mia personale che però ho riscontrato esser comune a tanti. Quando si diventa biologicamente genitori non si pensa a tutto ciò: si è troppo impegnati in una sorta di narcisistico compiacimento a contemplare il primogenito, rivendicato nella somiglianza fisica e caratteriale da chi parla aggiornando in soliloqui il pubblico, inizialmente interessato poi magari esasperato, sulle fasi di crescita e sui normali progressi del neonato, vissuti come eccezionali.
Finchè il bambino è piccolo, condiziona soltanto coi suoi ritmi. Sin dall’inizio fa capire che sarà cosa ardua accudirlo, soprattutto se non dorme la notte perché ha l’orologio biologico da sincronizzare. Con istintiva dedizione i neogenitori non desistono e, assonnati e barcollanti come zombi dopo nottate insonni, continuano a svolgere il rituale di un corretto allevamento della prole dettato da manuali di pedagogia e dall’onnisciente mammà perché il bebè cresca sano, forte e vivace. Col passar del tempo cercheranno di sopravvivere …!
Il bebè mette a dura prova la pazienza della coppia , che spesso deve limitare la vita sociale e le uscite serali un po’ perché siffatte mansioni stancano, un po’ perché sente il bisogno e il piacere di starsene a casa col piccolo, soprattutto se di giorno è affidato ad una baby sitter. La pazienza è la virtù dei forti… soprattutto quando il bebè non mangia ma trattiene per un’ ora la pappa in bocca a mò di criceto.e la mammina si strema a furia di mimare l’aeroplano che vooooolaaaa o l’automobilina di papi che entra nel garage, nella speranza che deglutisca (mentre in cuor suo avrebbe l’incoffessata voglia di stringergli le narici e farlo boccheggiare). A nulla serve lasciarlo a digiuno illudendosi che, affamato, reclami il cibo, se non ad alimentare sensi di colpa nella genitrice che si sente madre snaturata ed irresponsabile ( e guai se lo venisse a sapere la supermatronissima suocera !). Quando finalmente il cucciolo d’uomo ha mangiato tre cucchiaiate di pappa, perché il resto è spiaccicato tutto intorno, è quasi ora di cena. La neomamma si prepara per il rientro del capotribù, invocando il genio di Mastro Lindo e inveendo contro la pubblicità ingannevole .
Il paterfamilias, stanco della giornata lavorativa, il più delle volte esordisce con : “Ciao cara, tutto bene? Come sta il mio piccoletto?” “Si caro,tutto bene!” E lui, il piccoletto, si esibisce in una serie di gorgheggi festosi che seducono entrambi. Intanto da sposina bradipescamente ammaliante, la mamma si sveltisce istericamente, si organizza calcolando i minuti necessari per conciliare i rari appuntamenti dal parrucchiere e dall’estetista con le esigenze del bebè . Il suo orologio biologico ha un’accelerata che la rende ansiosa di riuscire a fare tutto. Rinuncia a preparare manicaretti, torte e cenette ma diventa esperta nel preparare piatti sbrigativi grazie alla santa pentola a pressione e al beatissimo microonde, per avere più tempo libero per sé. Non ha ancora capito che più diventa efficiente, più avrà da fare.

 

Diviene una multi tasking ambulante e ipercinetica, anche quando porta per ore a passeggio il piccolo, sperando che si stanchi, corre freneticamente e si consola pensando che almeno la salutare passeggiata le abbia fatto perdere qualche etto del sovrappeso accumulato in gravidanza e per i pasti trangugiati ad opera di mammà o in piedi davanti al frigo.

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Più tardi il piccolo inizia a gattonare e a scoprire – chissà perché – innanzitutto le cose più pericolose che possono esserci in una casa: prese elettriche in cui si divertirebbe a infilar le dita se non fosse fermato da un ululato “NO”, il water dove poter fare sguazzare i giocattoli, con sommo gaudio dell’idraulico che per pietà fa tariffe da abbonamento per sturare i tubi, i fornelli perché il clic clic dell’accensione automatica lo intrigano ; poi, consolidandosi sulle gambette, inizia a camminare e ad arrampicarsi. All’ improvviso sta seduto trionfante su un tavolo, intento a giocare con le caramelle di un porta bon bon situato là sopra …così taaaaaaaante , belle e colorate da volerle ingoiare con la carta. Si esercita a stare in piedi nel seggiolone e sul passeggino dopo aver buttato all’aria calzini e scarpette divenendo un appartenente alla tribù dei piedi nudi. Il novello Speedy Gonzales si intrufola dappertutto, come un gatto: negli armadi, sotto i letti, nel ripostiglio. Esplora il mondo circostante col quale si sente un tutt’uno: solo così scopre ed impara. Impara, per esempio, che tutto ha un suono, e poco importa se rompe i timpani di chi è nei paraggi…le pentole, i piatti e i giochini che lascia cadere di continuo .

Si accorge che anche lui emette suoni diversi, dai dolci trilli, pronunciati all’orsacchiotto al quale sorride allegramente, alle urla selvagge, qualora sia contrariato . Insomma l’ adorabile figlio dà conferma che sarà un’impresa “addomesticarlo” e la mater amabilis si assuefa sempre più alla sua creatura, inconsapevole dell’incipiente sua metamorfosi. Di rado percepisce le sue grida e lo lascia scorrazzare in attesa di captare il primo sbadiglio di stanchezza nella speranza che cada in un sonno ristoratore…per entrambi . Il Papà condivide amorevolmente le gioie del piccolo e lo accudisce di sera o nel tempo libero; talvolta invece inizia a sentirsi trascurato dalla moglie e preferisce trovarsi qualche altro amabile diversivo ( la partita a calcetto o il dopocena con gli amici è un classico). Di qui scatta una molla che si ripercuoterà come un pugnale qualche decennio più tardi nella vita della coppia. Poi il piccolo inizia a parlare e diventa più semplice comunicare con lui: si spiega molto bene anche a forza di nghin-ghì e nghèn-ghè che un genitore attento sa ben interpretare come richiesta di soddisfacimento di bisogni primari (urge pannolino pulito, voglio il ciuccio , sono stanco, pappaaa!), espressione di un complimento o di un modo scherzoso per attirare l’attenzione. Trascorso il periodo di iniziale accudimento, la mamma riprende a lavorare .Tragici sensi di colpa la attanagliano e sferrano un inevitabile primo taglio all’ invisibile cordone ombelicale che la legano alla sua naturale appendice. Allora telefona spesso alla baby sitter per sapere come sta il bebè e gli parla per telefono, aggiorna di continuo i colleghi /e delle novità del baby prodigio quasi per non interrompere la sua naturale devozione e sentirlo lì con lei…ma soprattutto per esorcizzare il suo senso di colpa.

Cerca di concentrarsi sul lavoro ma non aspetta altro che precipitarsi a casa, dopo aver fatto una gimkana tra i carrelli del supermercato. Si completa la metamorfosi: è divenuta una vera e Italica mammà, quella che detronizza il marito e al vertice delle priorità mette il figlio: Lui , la luce dei suoi occhi, l’eletto, il reuccio di casa, il più bello bravo , buono e speciale che possa esserci perché è così “et nunc et semper et in saecula saeculorum”. Nondimeno il papà è orgoglioso dell’erede, per aver assicurato discendenza alla sua famiglia, e ne è fiero perché è intelligente e forte come lui. Lo accontenta in tutto perché il bambino non deve subire le privazioni che ha patito lui da piccolo e diviene il più delle volte il suo compagno di giochi, abdicando al suo ruolo di educatore. Sembrano trascorsi secoli dall’occhiata più che eloquente di mia madre che proclamava perentoriamente “Stasera vi chiarite con vostro padre” per interrompere lo snervante contenzioso in corso tra me e mio fratello maggiore cui , da buona sorellina “rompi…” tenevo testa per godere della stessa sua libertà in nome di un’antesignana par condicio. Nella trepida attesa di chiarirmi a quattr’occhi col paterfamilias mi placavo a lungo. Il più delle volte tutto si risolveva in un’ animata e dibattuta , spesso ironica e riconciliante tavola rotonda.

Intanto il bambino cresce, inizia a frequentare la scuola: si confronta in un contesto nuovo , non esclusivamente ludico, e in una prima comunità allargata di pestiferi. Le maestre sono le virago , quelle che impongono regole di convivenza tra coetanei, non sempre condivise dalla famiglia ignara del gene l’unione fa la forza e inizialmente incapace di capire la differenza che intercorre tra la scuola e casa propria popolata da uno o due o tre pargoli ( ma si ricrede dopo che i compagnetti di scuola hanno giocato a frisbee coi piattini di patatine e popcorn e letteralmente smontato pezzo per pezzo la casa durante quella che doveva essere un’allegra festa di compleanno) . Dopo massacranti saggi di danza e tornei di basket, lunghi anni di catechismo, festeggiamenti vari a cadenza fissa nei week-end, visite pediatriche e odontoiatriche, periodici richiami di vaccinazioni e pluricollezioni di figurine e pupazzetti, i bambini maturano e i genitori- si spera-  arrivano al primo giro di boa…

Strega

Alla fine eravamo arrivati in cima, anche se Triora era in realtà il punto di avvio per salire ancora più in alto,verso la tesa della Nava e il Collardente, verso il passo del Pellegrino, il Carmo del Corvo e la Croce dei Campi,che si alzavano come muraglie azzurre alle spalle dell’abitato. Come descriverla? 

Da lontano sembrava solo una cresta dentata,un grumo di pietra e d’ardesia che faceva da cappello ad un picco. Da vicino era piuttosto un merletto grigio: le mura della cinta si alzavano e si abbassavano seguendo il contorno del terreno,in cima a una gradinata di terrazze e di fasce che salivano dalla valle come lo scalone di un gigante.

All’interno poi le case si accatastavano e s’incastravano una dentro l’altra,e quando un viottolo le separava in basso allora si univano fra loro più in alto,con arcate di mattoni e di sassi. Il paese aveva un aspetto solido,compatto, sembrava girare le spalle al mondo, dal quale venivano soltanto rogne, guai e vento gelido,e si avvolgeva intorno ai vicoli che gli si infilavano dentro,entravano nelle case, sfondavano gli atri, si aprivano all’improvviso in loggiati e piazzette, e tornavano a immergersi nel buio dei sottopassi,in un continuo su e giù che il sole riusciva a illuminare soltanto quando era a picco, sul mezzogiorno.” (da Strega di Remo Guerrini)

La storia di Battistina, una ragazza ritenuta diversa, è ambientata nella città di Triora al tempo dell’ Inquisizione. Nel 1588 nell’ antica rocca della città arriva una spedizione organizzata dalla Repubblica di Genova, composta dall’arguto e spietato Giulio Scribani, Commissario straordinario deciso a debellare le streghe, dall’esperto Juan Ferdinando Centurione, che con la sua logica preveggente intuisce le cause della stregoneria contro l’ottusità dei vicari dell’Inquisizione, e da Niccolò, giovane scrivano che scoprirà nella piccola strega dodicenne un’attrazione per la vita . La caccia alla “setta abominevole di donne” descritta , di fatto è avvenuta. I personaggi sono realmente esistiti e furono condannati a supplizi dei quali restano traccia nel Museo delle streghe di Triora .La vicenda è documentata storicamente dall’autore, Remo Guerrini, che ha ricreato un’atmosfera calata nella civiltà contadina tra superstizioni e credenze popolari, riti e cerimonie infernali, condanne e torture dell’epoca. Un libro di alta poesia sia nelle descrizioni paesaggistiche che in quelle caratteriali dei protagonisti. Una storia particolare e avvincente, a volte amara, a volte delicata dove la piccola Battistina si muove in una natura alla quale scopre di appartenere più di quanto immagini, mossa dalla curiosità e dalla saggezza pratica di chi impara presto a sopravvivere tra gli stenti che incattiviscono gli uomini. Inizialmente afferma la sua innocente e spontanea vitalità , libera da ogni schema, poi, braccata dal pregiudizio, fa della sua diversità una prerogativa individuale da difendere con precoce determinazione femminile contro le ottuse, brutali e dogmatiche certezze di quel tempo. La piccola strega colpevole , come tante altre sorelle, di comprendere i misteri e parlare il linguaggio della natura, rivendica la libertà di essere ciò che è . Nell’orgoglio trova la forza di non cedere al supplizio e con orgoglio si ricongiunge alla madre Terra, che con le sue erbe, acque,vite,venti, rocce ha sempre dolcemente cullato i sensi e il cuore di una bambina straordinaria.

“Fu anche un inverno strano (a cavallo tra il 1587 e 1588), soprattutto perché Battistina completò la sua istruzione in modo che mai si sarebbe aspettata ,visto che i suoi maestri furono un vecchio gipeto, una giovane lontra e una volpe distratta.

Il gipeto fu il primo. Era grande quasi quanto lei, aveva una barbetta lunga e nera sotto il becco, gli occhi gialli e un bel paio di calzoni di piume candide. Da lui Battistina imparò a sbattere contro una pietra le ossa dei cervi e delle capre morti da poco, proprio come contro un’incudine, e a nutrirsi con il midollo che c’era dentro. La prima volta le fece un po’ schifo, poi si accorse che, dopo aver succhiato, le veniva un gran caldo nello stomaco e una gran forza nelle gambe.

Decise così che da quell’uccello saggio e silenzioso c’era molto da imparare. Il gipeto, ora che era avanti negli anni e d’inverno gli era venuta meno la voglia di accoppiarsi, se ne stava su uno spuntone del bricco di Borniga, appeso sul precipizio, e passava il tempo con lo sguardo perso nel cielo grigio. Ma quando in quella sterminata lavagna compariva un minuscolo punto nero allora arruffava le piume, allargava le ali grandi come lenzuola e si lasciava cadere nell’abisso. Solo dopo un po’ Battistina si accorgeva che quel punto nero era in realtà un altro rapace, magari un’aquila che ritornava al nido con una preda fa gli artigli. Allora il gipeto si avvicinava all’aquila con la sua ombra immensa, e le andava addosso finchè l’altra non mollava il coniglio o l’agnello, che però precipitavano solo per poco, visto che il gipeto li riprendeva al volo e se li portava sul suo bricco. Dal gipeto Battistina imparò l’arte di starsene seduta a guardare il mondo dall’alto, e la facilità con la quale si ruba ai ladri, che mise in pratica più volte facendo sparire una pagnotta a un contadino che ne aveva portate via due al fornaio di Verdeggia, e prendendosi il mantello d’orbace di un giovanotto che se l’era tolto per infilarsi in un pollaio d’altri, appena fuori Realdo.

La giovane lontra l’incontrò invece più in basso,dove il torrente che scende da Verdeggia s’incrocia con il rio Infernetto, e insieme formano un torrente un po’ più grande che, più a valle ancora, va a immettersi nel Capriolo. L’acqua era gelida, ma la lontra non se ne curava. Giocava da sola:si tuffava, raccattava un sasso dal fondo, lo portava a galla tenendolo sulla pancia, poi se lo metteva sul muso e con un colpo secco dal collo lo scaraventava in aria. Se la pietra, invece che finire sulla riva, ricadeva in acqua la lontra si lanciava rapidissima, per recuperarla prima che toccasse il fondo. Battistina restò accucciata su uno scoglio per un’intera mattinata, e per un’intera mattinata la lontra giocò davanti a lei. Battistina imparò che la solitudine non è nemica del divertimento, e imparò anche altre cose: che per entrare nell’acqua è meglio adoperare uno scivolo d’erba piuttosto che rovinasi i piedi sulle rocce, che se si vuol catturare un pesce con le mani bisogna aver pazienza e avvicinarsi da sotto e da dietro, e perfino che si può scoprire il rango di un animale o di una persona dai suoi escrementi. Quelli della lontra, per esempio, puzzavano di pesce e contenevano le squame di quello che aveva mangiato.

Che la volpe fosse distratta Battistina lo stabilì, invece, quando l’inverno prese ad addolcirsi: mentre a dicembre e a gennaio era infatti impossibile trovar tracce del suo passaggio, a febbraio la volpe cominciò a lasciare in giro il suo pelo, a ciuffi e batuffoli dorati, appesi ai rami più bassi delle piante, impigliati agli arbusti e ai rovi, perfino dentro ai cespugli. Come se l’approssimarsi della primavera le avesse fatto perdere la testa.

Dalla volpe imparò a non perdersi nei boschi. E come la volpe segnava le piante che voleva riconoscere strofinandogli contro il culo e lasciandoci sopra odore di mandorle ( il che era segno di grandissima stregoneria), così Battistina iniziò a segnare tronchi e sentieri togliendo le foglie a un ramo basso sempre nello stesso modo, tre da una parte e tre dall’altra. E imparò pure che spesso è meglio fingersi morti e seppellirsi nell’erba piuttosto che scappare ( e così sfuggì a un gruppo di gendarmi che andava dietro a un contrabbandiere verso il passo di Collardente), che quando una preda è troppo difficile da maneggiare è meglio lasciarla perdere ( a dire il vero la volpe faceva di peggio ai ricci e ai rospi velenosi che non riusciva ad azzannare:gli pisciava addosso), e che nella stagione dell’amore c’è una cosa che fa diventare matto il maschio, leccargli il muso (ma questo si promise di verificarlo più avanti).

In realtà, perché gipeto, lontra e volpe distratta le consentissero di gironzolare intorno e la considerassero come una specie di parente tonta da sopportare con benevolenza, non se lo chiese mai. Pensò che per una strega come lei , fosse naturale vivere da bestia fra le bestie. Mangiò ghiande e castagne raccolte fra le radici degli alberi prima che arrivassero i legittimi proprietari, sfilò le uova di sotto alle chiocce e le bevve ancora tiepide, arrostì di nascosto nei seccatoi ormai freddi i pesci avanzati dalla lontra e andò di notte a mungere le vacche di Greppo e Bregalla, tanto che i contadini continuarono per settimane a immaginarsi, per via di quelle mammelle improduttive,nuove maledizioni scagliate contro le loro stalle.”

 

Da “Strega” di Remo Guerrini. Ed.Interno Giallo .

Vi informo che di recente il libro è stato ristampato nella collana Time Crime e si può trovare anche on line

 

Speriamo che sia…femmina?

Nel 2008 una nota della Presidenza del Consiglio dei Ministri inviata dal Sottosegretario di Stato per i diritti e le pari opportunità invitava le scuole a riflettere su un fenomeno che sembrava assumere sempre più caratteri di “emergenza sociale”.

“ In Europa  tra le cause di morte delle donne  di età compresa tra i 16 e 44 anni, le brutalità commesse tra le mura domestiche  sono in testa alle statistiche , prima degli incidenti stradali e del cancro. In Italia  i  dati di un’indagine ISTAT pubblicata lo  scorso febbraio, stimano in quasi 7 milioni (31,9% delle donne di età tra i 16 e 70 anni)  le donne che hanno subito violenza fisica o sessuale nel corso della vita ( il 23,7% violenze sessuali, il 18,8% violenze fisiche, più del 10% entrambe). Nell ’ultimo anno un milione 150mila donne hanno subito violenza.  Circa un milione stupri o tentati stupri ad opera del partner o conoscente. Quasi un milione e mezzo di donne hanno subito violenze sessuali prima dei 16 anni e in un quarto di casi ad opera di un parente. In due terzi dei casi è stata ripetuta. Alla violenza fisica e sessuale si associa spesso quella psicologica. Dalle interviste risulta che il 95% dei casi di episodi di violenza non sono stati denunciati e un terzo delle donne non ne ha parlato con nessuno.

L’AOGOI (Associazione ostetrici ginecologi ospedalieri italiani) denuncia  che le violenze domestiche sono la seconda causa di morte in gravidanza, dopo l’emorragia, per le donne dai 15 ai 44 anni.

Il Ministero delle pari opportunità, impegnato  da tempo in  una politica di contrasto, ritiene che si debba affrontare il fenomeno sul piano culturale per incidere sui modelli di identità di riferimento: è un’emergenza per un paese come il nostro che vuole essere civile e democratico. La scuola come comunità educante, nella costruzione di percorsi formativi , può fare molto perché i ragazzi e le ragazze crescano insieme nel rispetto reciproco  delle proprie identità.”

 Dopo questo bollettino di guerra tra i sessi, percepii allarmismo sociale che però mi pare ancor oggi confermato dai sempre più frequenti fatti di cronaca.Scrissi  questo post nel settembre del 2008, ma  esitai a lungo a pubblicarlo in quanto  molto personale e triste perché si riferisce a fatti e persone che ho conosciuto sia  in piccoli paesi di provincia  che in  una metropoli, capitale delle contraddizioni dove alla devianza e all’arte di arrangiarsi fanno da contrappasso la vivacità culturale, l’umanità e l’ironia della sua gente . In questi anni l’elenco delle donne maltrattate si è allungato, includendo anche  ragazze e donne che mai avrei immaginato così in difficoltà. Decisi di aprire un blog e di scrivere sulla violenza contro le donne , per raccontare, argomentare, sensibilizzare e purtroppo ne vedo  ancora confermata  la necessità.

 Ricordo   una compagna di classe sempre silenziosa e assorta, principessa di un talamo proibito, e  una ragazzina rimasta vedova a diciassette anni  con  un bambino di diciotto mesi di cui era madre e sorella; quest’ultima fu convinta a  sposare un ragazzo poco più grande di lei, morto ammazzato dopo un anno di matrimonio. Ripenso a  R. di cinquant ’ anni  sottratta dal figlio adolescente  ai calci e pugni di un marito manesco, a  M .scappata lontano dalle botte del compagno,con due dei tre figli, forte  del miraggio di un nuovo amore, a  S.  picchiata sistematicamente dal marito anche quando era incinta…la rabbia e la consapevolezza  di un’età più matura l’hanno cambiata e, dopo quasi venti  anni di matrimonio, lei aspetta un lavoro fisso per  troncare col passato e quell’ uomo che oggi piange dicendo che è cambiato anche lui. Rivedo S., che è riuscita a rifarsi una vita dopo anni con un marito che la ossessionava, e M. che nel figlioletto ha trovato la forza di lasciare il marito che la mandò all’ospedale per avere leggermente scostato il lenzuolo mentre di notte allattava il bambino. Cito E., un uomo, che ha deciso di amare, ridare il sorriso e  un nuovo figlio a L . e sostenere lei e i suoi  quattro figli dopo che lei osò  denunciare l’ex marito, uomo  e padre  violento.

Non dimentico  una ragazza dell’est in una caotica  stazione ferroviaria: il volto completamente viola, troppo tumefatto per essere caduta dalle scale, e due trolley  enormi  per contenere quanto più possibile, compreso  il mio tacito  augurio di buona fortuna.

Ricordo una ragazzina allo sbando tra  droga, sesso e rock’n roll per sfuggire ad una situazione di grave disagio familiare; voleva continuare a studiare e si preoccupava che  la sorellina più piccola non facesse le sue scelte. Indelebili nella memoria le ragazzine dai 10 ai 15 anni  che il Tribunale dei Minori  di una grande città aveva tolto alle famiglie e che aiutavo durante le attività del doposcuola. A volte in contesti “particolari” l’abiezione  è vissuta come  normale perché non si ha l’opportunità di conoscere alternative di vita veramente normali , compresa la  specificità  dei ruoli parentali .

Anni fa  una madre ventenne mi disse  “mio figlio deve studiare, non deve crescere disgraziato come me, né essere fetente come suo padre”. Aveva occhi azzurri, profondi e un po’ duri, lineamenti delicati, il viso tirato e stanco, tacchi alti e  calze a rete smagliate.

Scrivo però per A. che frequentava una stazione ferroviaria. La vedevo spesso di sera quando tornavo a casa perché  prendeva il  mio treno. Una volta la vidi  implorare una dose a  un ceffo  che la  derideva e la molestava davanti ad un gruppo di derelitti per mostrare quanto lei  fosse incapace di reagire, scheletrica e  senza denti. Una sera A. si sedette vicino a me e iniziò a raccontarsi. Mi chiese  se fossi  sposata . Le risposi che non ci pensavo nemmeno e che  studiavo; avevo 22 anni, lei due meno di me. Mi raccontò una storia purtroppo comune, priva di affetti familiari, fatta di degrado , di un amore sbagliato che la iniziò alla tossicodipendenza e alla prostituzione, di un figlio sottrattole alla nascita, di tentativi inutili di smettere e  di una deriva   inarrestabile in una periferia troppo povera. Se ne andò appoggiandosi ad un ragazzo per raccogliere quanto rimaneva nelle siringhe abbandonate lungo i binari. Pareva una di quelle farfalle che hanno perso la polvere magica dalle ali e annaspa per terra. Qualche sera più tardi  A. volò via ai piedi della scalinata della stazione, finalmente libera dalla dipendenza e dalle mortificazioni.

 È stato un caso incontrarla? Due solitudini diverse: io impegnata a costruirmi un futuro mentre lei voleva dimenticare un passato ingombrante e sopravvivere al presente.

 E ancora adesso penso a quelle ragazzine, ormai  donne.  Alcune stavano prendendo coscienza  di quanto subìto, altre non accettavano il distacco da quella che era comunque la loro famiglia, anche se degenere , la cui costante fissa  era l’assenza o latitanza della madre e  l’istinto del possesso brutale da parte di familiari, spesso  la mancanza di consapevolezza, a volte  la solitudine e l’incapacità di reagire. Saranno riuscite a conciliarsi con se stesse  per sorridere ed amare ? Una volta un medico un po’ cinico mi disse: “Qui per cambiare le cose, certi neonati andrebbero soppressi nella culla o tolti subito alle famiglie”. In tutte queste donne ho sempre colto un grande disorientamento e  sofferenza. Certe storie e certi occhi non si dimenticano, mai.

 Dopo tanto tempo  mi chiedo come  mai sia cambiato ben poco. Quasi ogni giorno i mass media  denunciano  casi di violenza , tentata, episodica, sistematica su bambine e donne …testimonianze delle  ragioni della forza, del disprezzo, della frustrazione inconscia, di una rabbia e bestialità indomabili, di una mentalità arretrata e irrispettosa.

 

Nel 2008 decisi di aprire un blog  anche per  dare voce a voi donne che a fatica avete acquisito o state acquisendo consapevolezza, al vostro  silenzio, al vostro   isolamento, al senso di  impotenza e di vergogna…perché ognuna di voi   aveva diritto a quella  parte di cielo che vi è stata  negata durante quelli che dovevano essere gli anni più belli e spensierati, e perchè qualcuno   riesca a capire che c’è violenza e abuso anche quando si approfitta consensualmente  della   giovane età , della miseria o della disperazione e riesca a vedere un’anima oltre le ali di farfalla.

 

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La Resistenza a Roma e l’eccidio del Ponte dell’Industria

Un memorabile 25 aprile a Roma. Un grande corteo è poi partito dall’ Arco di Costantino  per confluire a Porta San Paolo. Tanti giovani e meno giovani  per festeggiare  e ricordare la Resistenza italiana che esordì proprio  a Roma, quando il 10 settembre 1943 militari e civili italiani si opposero all’ occupazione tedesca della capitale, iniziata dopo l’annuncio dell’armistizio dell’8 settembre e della ritirata del re Vittorio Emanuele III e di Badoglio che il 9 settembre avevano abbandonato gli italiani e lasciato l’esercito  allo sbando.

Sin dalla notte dell’8 settembre avvennero combattimenti alla periferia della città ma  i militari italiani furono costretti a ritirarsi. La mattina del 10 una parte di questi confluì a Porta San Paolo dove si erano radunati  i civili giunti spontaneamente od organizzati dai partiti antifascisti. Qui iniziò la battaglia contro le truppe tedesche, numericamente molto più forti, e s’innalzarono barricate rovesciando le vetture dei tram. 

Qui morirono circa 400 civili, tra cui 43 donne, e anche carabinieri e militari italiani. Tra questi l’operaio diciottenne Maurizio Cecati ,colpito a morte mentre incitava i suoi compagni alla lotta; il fruttivendolo Ricciotti, accorso dai mercati generali; il professore di  storia dell’arte del liceo classico “Visconti”, Raffaele Persichetti,  prima medaglia d’oro della Resistenza. Uomini, donne e ragazzi  combatterono  con i superstiti dei “Granatieri di Sardegna”, i Lancieri del battaglione “Genova Cavalleria” e alcuni reparti della divisione “Sassari”. Il generale Giacomo Carboni, comandante del Corpo d’armata motocorazzato, mandò i carabinieri a staccare i manifesti disfattisti, che annunciavano trattative con i tedeschi, e diffuse  la notizia dello sbarco degli alleati ad Ostia e dell’arrivo delle divisioni “Ariete “ e “Piave” a Roma. La gente accorse e seguì i rappresentanti dei partiti antifascisti, tra i quali combatterono Luigi Longo, Ugo La Malfa, Sandro Pertini e Bruno Buozzi. I mezzi corazzati tedeschi  segnarono poi la fine della drammatica ed eroica battaglia della Porta San Paolo. A Porta San Paolo, presso la piramide Cestia, nel  quartiere Ostiense è nata la Resistenza italiana.

Tornando a casa a piedi ho attraversato  il Ponte dell’Industria che ricorda altre tristi vicende della nostra storia.

Il 26 marzo 1944 il generale Kurt Maeltzer, comandante  della città di Roma , emise  un’ordinanza con la quale si riduceva da 150 a soli 100 grammi la razione quotidiana di pane per i civili. Così in alcuni quartieri, quali Ostiense, Portuense e Garbatella,  le donne protestarono davanti ai forni, soprattutto quelli che si credeva producessero pane bianco per le truppe di occupazione.

La gente affamata iniziò a ribellarsi: il 1° aprile fu assalito il forno Tosti, nel quartiere Appio, il 6 aprile invece fu bloccato e depredato a Borgo Pio un camion che doveva consegnare il pane alla caserma della Guardia Nazionale Repubblicana.  Il 7 aprile 1944, un venerdì di Pasqua,  sul Ponte  dell’Industria, detto anche “Ponte di ferro” nel quartiere Ostiense, truppe nazifasciste bloccarono dieci donne ,sorprese con pane e farina, e per rappresaglia contro gli assalti ai forni le fucilarono. Le vittime erano Clorinda Falsetti, Italia Ferracci, Esperia Pellegrini, Elvira Ferrante, Eulalia Fiorentino, Elettra Maria Giardini, Concetta Piazza, Assunta Maria Izzi, Arialda Pistolesi, Silvia Loggreolo.  Secondo alcune testimonianze, una delle dieci donne sarebbe stata condotta sotto il ponte e stuprata dai soldati tedeschi e da repubblichini fascisti, prima di essere assassinata con un colpo di pistola alla testa. Oggi una lapide, all’estremità del ponte, ricorda  il triste eccidio del Ponte dell’Industria .

Il 3 maggio 1944 Caterina Martinelli ,come altre donne esasperate dalla fame dopo un inverno di stenti, partecipò all’assalto di un forno nella borgata Tiburtino III. Mentre tornava a casa dai suoi sei figli, con una neonata in braccio e una pagnotta stretta al petto, fu assassinata in strada dai militari della PAI (Polizia Africa Italiana)con una raffica di mitra. La donna cadde sulla figlia, che si salvò ma ebbe la spina dorsale lesionata. Per attenuare il furor di popolo contro i restrittivi provvedimenti e le repressioni, le autorità nazifasciste decisero quindi alcune distribuzioni straordinarie di generi alimentari di prima necessità. Anche Radio Londra elogiò l’operato delle donne romane.

 È doveroso ricordare coloro che hanno reso possibile la liberazione dell’Italia e la nascita della Repubblica democratica.
W il 25 aprile!

La signora Gioconda

Gioconda si chiamava così in onore della famosa opera del Ponchielli, tanto amata  da suo padre.  Sua madre era una donna molto bella ma forse anche un po’ agguerrita: ebbe infatti tre mariti. Rimasta vedova dei primi due, osò ripudiare il  terzo, che aveva preferito volar dietro ai commerci e alla bella vita, e diventò un’abile amministratrice. Gioconda era la figlia tanto attesa, nata dall’ ultimo matrimonio, ma ben presto divenne la  testimone dell’ennesima solitudine affettiva; ne pagò quindi le conseguenze con un’infanzia trascorsa sì nell’ agio, ma anche in solitudine e in un  ruolo troppo stretto, dettato dalla società dell’epoca. Era figlia del suo tempo anche nella sottomissione alla volontà materna e nella precoce saggezza,  frutto della rigida educazione che le fu impartita. L’intima sofferenza dell’anima spesso rende perspicaci: percepì sempre la colpa di esser figlia di un uomo, a lei descritto come ingrato, che le lasciò il nome e un vago ricordo.Il suo più grande atto di ribellione quindi consistette nel parlarne di rado.

 La sua giornata scorreva nell’ alternanza di un rosario, lettura di libri, che uno zio le prestava di nascosto, e sporadiche visite a parenti. Ogni tanto si interrompeva per soffermare lo sguardo davanti a sé, verso le colline cosparse di aranceti che si intravedevano dalla finestra, in cerca di nuovi orizzonti. Forse ripeteva mentalmente qualche verso o inseguiva qualche pensiero ed emozione dentro di sé. Probabilmente gli stessi che non sfuggivano a quella bambina, nata nel suo stesso giorno  ma circa sessant’anni più tardi, che riposava sul suo lettone e la osservava furtivamente, con discrezione. La piccola spostava poi lo sguardo verso i dolci profili del tondo della Sacra Famiglia, non a caso il quadro preferito di Gioconda.

 In età avanzata la signora non era bella, come dicevano fosse stata in gioventù, ma conservò  un sorriso dolcemente contagioso e una pronta ironia che la rendevano aggraziata ed interessante. Le stesse qualità che anni prima catturarono il cuore di un giovane, tanto ambito dalle ragazze del luogo. Lui aveva occhi azzurri, un sorriso sincero, un  portamento sicuro e un’aria distinta che non passavano inosservati. La notò e iniziò a scriverle dopo aver chiesto il permesso a sua madre. Tra i due iniziò una fitta corrispondenza con missive che  riassumevano gli impegni della giornata. Ogni lettera, sigillata da una promessa d’ amore e da una dichiarazione di fede nella Provvidenza, era accompagnata da una foglia di edera in quelle di lui e da una rosellina o un fiore di campo in quelle di lei. Lo scambio epistolare si svolgeva grazie al fidato mulattiere o qualche fornitore che avvicinava la tata di Gioconda. Le giornate trascorrevano nella trepida attesa di quelle lettere,  finchè furono annunciate le nozze. Un grande e atteso evento, cui parteciparono anche gli zii lontani, compreso quello che viveva a Londra.

 Così Gioconda finalmente potè uscire da sola e iniziò a sperimentare l’amore e la vita, anche quando lui partì per la seconda volta per  il fronte. Altre parole scritte custodivano un legame profondo che nessuna vicenda personale e storica poteva scalfire. Tra le due guerre ebbero sette figli ma sopravvissero solo le ultime quattro figlie. Durante la seconda guerra lui fu richiamato alle armi, ma per poco tempo perché, ammalatosi, fu mandato a casa dove  ben presto decise di occuparsi anche dei tanti nipoti, rimasti orfani di entrambi i genitori. Gioconda, all’insaputa del marito che era al fronte, vendette il corredo ricevuto in dote e i gioielli di famiglia che non indossava mai. Inoltre dovette cedere il suo appartamento al comando angloamericano, mentre aitanti giovanotti dormivano giù  nel deposito che, prima dello smantellamento, era riservato ai cani da caccia e agli attrezzi agricoli. Insieme alla cognata vigilava quando i soldati sbirciavano le ragazze più grandi, ostentando sorrisi maliziosi e smaglianti senza osare più di tanto. Le sue figlie erano ancora bambine e la più temeraria  un giorno osò dire “ no meat (to) dogs, meat to me” perché la fame si faceva sentire, più del freddo e della mancanza di abiti e scarpe. La spontanea “sfrontatezza” le procurò un piatto di polpette. Gli ufficiali  stimavano quelle donne energiche che in tempi difficili fronteggiarono in silenzio i lutti, le difficoltà e gli stenti della guerra, industriandosi  come potevano tra figli piccoli da accudire, faccende domestiche  e parenti sfollati dalla città colpita dai bombardamenti.

Nell’atrio del portone montagne di divise e cappotti smessi giacevano a testimoniare giovani vite spezzate. Un giorno anche quei ragazzi partirono, lasciando l’eco di parole straniere e di risa sonanti. A Montecassino la storia interruppe il corso della loro vita. La guerra finì. L’azienda di famiglia, già caduta in bassa fortuna durante il fascismo, naufragò  insieme ai velieri dediti al commercio marittimo oltreoceano.

 Gioconda aveva il suo da fare quotidiano e acquisì senso pratico e determinazione, più per necessità che per scelta.  Con il marito si impose perché tutti i nipoti e le figlie studiassero, e possibilmente in scuole  pubbliche. Egli non si oppose per gli studi classici, teologici, tecnici e magistrali ma ebbe qualche resistenza per il liceo artistico in città dove poi iscrisse una delle figlie. Del resto anche uno zio era pittore e i suoi  quadri di scene e cani da caccia ne erano testimonianza. Apparentemente distaccato, con quella figlia era in sintonia anche se  la rimproverava perché troppo esuberante ed estroversa, perché andava sempre in bicicletta e giocava a tamburello meglio dei ragazzi del paese, che facevano a gara per sfidarla nel gioco e conquistarla in amore. Quella figlia straordinaria, formatasi in città, in seguito con ironia e sobrietà dimostrò che la vera libertà  non necessita né di conferme affettive né dei consensi  di una società all’epoca limitante, se non quelli della propria coscienza; preferì non sposarsi e trasmettere ad alunni e nipoti l’amore per le arti, il bello, la natura, il nuoto, la vita nella sue varie sfaccettature. E Gioconda, se si rammaricava per le sue mancate nozze, in fondo si compiaceva dell’anticonformismo di quella figlia, con la quale visse in simbiosi fino alla fine.

 Sin da ragazza  amava la musica e il canto, che le permettevano di interpretare emozioni sul fluire delle note. Anche in età avanzata si concedeva il lusso di andare ai concerti serali di Ravello con la figlia e la bambina, che  trascorreva le vacanze estive a casa sua. Per l’occasione indossava uno scialle e il vestito buono, poco difforme da quello solito, sempre a piccoli pois o fiorellini azzurri su fondo nero o blu. La bambina contemplava davanti a sé le sfumature violacee che univano mare e cielo nel crepuscolo, poi congiungeva le stelle in disegni immaginari ispirati dalla musica . “ La musica si ascolta a occhi chiusi. Vibra dentro e trascina” e così si rannicchiava sotto il suo scialle. Rientravano a notte fonda con la 500 dalla capote abbassata. Talvolta cantavano, finchè la bimba si addormentava sul sedile posteriore, cullata dalle curve tortuose della costiera amalfitana. 

 Gioconda credeva. Chissà se per convinzione o  per bigottismo. Aveva comunque approfondito  la dottrina .Ogni settimana contattava un prete per le messe da celebrare nella  cappella, che divenne un punto di riferimento per tutto il vicinato, amici e parenti. La fede non le tolse mai il sorriso e la capacità di accettazione, anche quando dovette affrontare la lunga malattia del marito e lutti prematuri. Se la fede fu per lei un sostegno costante, invece la generosità divenne una regola di vita verso chi le chiedeva consiglio o si trovava in difficoltà e non osava chiedere. Divideva quel poco che aveva: un pacco di zucchero, pasta e caffè, a volte un piatto di frittelle di fiori di zucca, ortaggi appena raccolti nell’orto, accompagnati dall’immaginetta di qualche santo e Madonna, che di buon ora la bambina consegnava a persone sconosciute, percependo il significato di quel gesto da cordiali saluti e ringraziamenti o da sguardi tacitamente riconoscenti.

 La sua casa era il ritrovo di tanti… delle figlie, dei nipoti, pronipoti  e cognate/i partiti per le missioni, per mare e terre lontane in cerca di fortuna nel dopoguerra, per scelta o vocazione. Quella casa era sempre aperta a tutti e la  porta non era mai chiusa a chiave. La domenica mattina gli uomini si riunivano per discutere di politica con suo marito, costretto a letto; di pomeriggio i  bambini giocavano in cortile fino a sera inoltrata, quando qualche mamma non li chiamava dal balcone. Allora la grande sala da pranzo si animava  di donne, che improvvisavano la cena, e di uomini che rientravano dal lavoro. Intanto Gioconda ascoltava dai più piccoli il resoconto della giornata oppure organizzava con due figlie le attività di ricamo per la mostra di  beneficenza.

  La gente del paese andava periodicamente a farle visita . La bambina disponeva su un vassoio i bicchieri che poi portava camminando pian piano per timore di farli cadere. Offriva sciroppo di amarene, nocino, amaro di mirto o giulebbe di limone che aveva aiutato a preparare, selezionando i frutti migliori, filtrando e travasando più volte con garze sottili. Mentre giocava  con uno dei tanti gatti di casa, osservava gli occhi e i gesti degli ospiti. Ascoltava i loro aneddoti, racconti, i frammenti di saga familiare cercando di districarsi nella sua mente infantile tra gli intrecci genealogici, in cui spesso si smarriva, e di ricostruire logicamente  la storia dei fatti e degli affetti .

 In tarda età Gioconda usciva di rado ma a un rituale estivo non rinunciò mai. Ogni estate doveva fare sette, otto bagni  al mare. Quando la 500 gialla, con la capote sempre alzata, arrivava nel borgo marinaro, i vecchi pescatori uscivano dai munazeni e le andavano incontro per salutarla. Le ricordavano i figli, ormai uomini e perlopiù naviganti, e le presentavano le nuore e i nipoti.

La bambina rideva  quando assisteva ai preparativi per l’immersione in mare perchè Gioconda non indossava un normale  costume da bagno, ma una palandrana di cotone nero, lunga fino al ginocchio, abbottonata sul davanti e con le mezze maniche. Mutandoni neri, una sorta di bermuda, completavano l’abbigliamento da spiaggia. Come riuscisse a  galleggiare, era un mistero! Teneva il mento in alto e la testa diritta, cercando di non bagnare i capelli raccolti, e muoveva le mani in fuori per spostare leggermente l’acqua. Si beava  nel mare  limpido e fresco sotto i costoni rocciosi ed esortava la bambina a tenersi a distanza, forse perché temeva di bere o di affondare trascinata giù dalla pesante palandrana. La piccola  la precedeva, nuotava sott’acqua fingendo di cercare conchiglie e stelle marine sul fondale. In realtà era incuriosita da quella specie di elegante manta nera che avanzava lentamente .Un giorno un anziano pescatore volle portarle in barca a remi . La superba costa alta che si stagliava nel cielo terso, le acque cristalline e la nostalgia indussero Gioconda a  rivivere un passato ormai remoto nella rievocazione ironica di famiglie e personaggi, che con i loro soprannomi e aneddoti popolano la storia di ogni paese.

  L’estate trascorreva placidamente tra persiane socchiuse per mantenere un po’ di fresco nell’antica casa durante la siesta pomeridiana. La bambina giocava tra le ante a specchio dell’armadio: si divertiva a congiungerle quanto più poteva per vedere la propria immagine riflessa per decine di volte, all’infinito. Correva alla finestra non appena sentiva suonare il campanello, sperando di dover calare giù il cestino. Aveva imparato, dopo qualche disastro, a mollare pian piano la corda arrotolata e a tirarla su ancor più lentamente per non farla oscillare e rovesciare  la bottiglia di latte fresco che una vicina consegnava ogni sera. Altri passatempi consistevano nella preparazione di infusi di erba e petali di fiori nell’alcool per ottenere miscele colorate o nell’usare il macinino per tritare i chicchi di caffè. Appena poteva, sgattaiolava con il cane in giardino per andare su una bicicletta sgangherata e giocare con i cugini, contendendo poi l’amaca per riposarsi. Il divertimento più spassoso però era nell’orto: trascinava  a fatica la pompa lungo il viale e poi innaffiava tutto. Bagnata e sporca di terra, fiera rientrava in casa portando un cesto pieno di pomodori, basilico, prugne ammaccate e trovate in terra,  fiori freschi recisi maldestramente (…tanto i santi non avrebbero notato questo particolare). Gioconda non la sgridava ma l’ aiutava a ripulirsi. Se invece era esausta per una giornata trascorsa al mare, alle prodezze domestiche la bambina preferiva il riposo sul lettone e, dietro un giornalino,  spiava sottecchi . Lei stava seduta al tavolo tondo intarsiato mentre lavorava all’uncinetto; all’improvviso con tono teatrale improvvisava uno spiritoso dialogo con il  Signor Gatto di turno che partecipava miagolando, fuseggiando e spingendo la testa sotto la sua mano per farsi accarezzare. Entrambi alludevano  alla bambina e le facevano  capire che l’avevano scoperta. Nell’ultimo periodo interrompeva il lavoro, stava immobile e osservava in silenzio davanti a sè. Forse si smarriva in una preghiera, un ricordo o un presentimento…

La Signora Gioconda capiva più di quanto non desse a vedere, non si adirava mai e quando doveva dire qualcosa di importante o serio, affrontava con indiretta ironia l’argomento, ricorrendo a  metafore, aneddoti e domande. Con la sua presenza trasmetteva una serena fermezza e con la sua compostezza un  apparente distacco dalle umani passioni.

Pareva che vivesse in un mondo suo, dipinto dalla garbata gentilezza, da una taciuta  forza d’animo, dalla coerenza e fede ai principi, dalla discreta e  pudica ritrosia a esternare impulsivamente le emozioni più forti e i pensieri più profondi.Un mondo fermo ed immutabile nel tempo, in una casa senza orologi. Tempo scandito dai fiori di stagione e tralci di edera raccolti in giardino, dai racconti, dai quadri, dai mobili, dagli affetti.

Un mondo di radici mai strappate che mi appartiene, come il patrimonio interiore di  cose semplici e belle che mi ha donato nonna Gioconda.

 

La mitica pastiera

La pastiera è un dolce di antiche e leggendarie origini, tipico della cucina napoletana e del periodo pasquale.

Si narra che in primavera la sirena Partenope emergesse dalle acque del Golfo di Napoli  per salutare con canti di gioia le genti della costa. Un giorno sette belle fanciulle furono inviate per omaggiarla  con  preziosi e semplici prodotti della terra e del lavoro dell’uomo: farina, ricotta, uova ( simbolo della vita), grano, inebriante acqua di fiori d’arancio, seducenti spezie del lontano Oriente e  infine zucchero. Partenope  pose questi doni ai piedi degli dei che la ringraziarono amalgamandoli magicamente in una pastiera, più  dolce del suo canto che incantava uomini e dei.

“L’antica pastiera dall’apparenza casalinga, onesta, sincera, color del legno stagionato, decorata col suo modesto traliccio incrociato di pasta frolla. Intanto è un dolce a metà. Il suo sapore è delicatissimo, composto come è dai chicchi di grano primaticcio ammorbiditi e ammollati, da una buona ricotta, da pezzetti di cedro, umida e fragrante d’acqua di fior d’arancio. È un dolce che sa di primavera e di nozze, di innocenza e d’infanzia, di sole e di serenità, un dolce d’altri e forse più felici, almeno più tranquilli tempi (da “Breviario della cucina napoletana” di Mario Stefanile)

 

Un dolce talmente  squisito, da ridare  il sorriso a tutti…

A Napule regnava Ferdinando

Ca passava e’ jurnate zompettiando;

Mentr’ invece a’ mugliera, ‘Onna Teresa,

Steva sempe arraggiata. A’ faccia appesa

O’ musso luongo, nun redeva maje,

Comm’avess passate tanta guaje.

“A Napoli regnava Ferdinando (Ferdinando II di Borbone) che passava le giornate “zampettando”; mentre invece sua moglie, donna Teresa ( Maria Teresa d’Austria) stava sempre arrabbiata. La faccia triste, il muso lungo, non rideva mai, come se avesse passato tanti guai…”( e ci credo… dopo 12 figli e un consorte allegramente zampettante al fianco)

 Finchè un giorno la cameriera propose alla regina un dolce nuovo, che piaceva a uomini , donne e bambini. La pastiera addolcì la regina tanto da strapparle un sorriso. Il re esclamò:

“E che marina!

Pe fa ridere a tte, ce vò a Pastiera?

Moglie mia, vien’accà, damme n’abbraccio!

Chistu dolce te piace? E mò c’o saccio

Ordino al cuoco che, a partir d’adesso,

Stà Pastiera la faccia un pò più spesso.

Nun solo a Pasca, che altrimenti è un danno;

pe te fà ridere adda passà n’at’ anno!”

“E che marina! Per farti ridere ti ci vuole una pastiera? Moglie mia, vieni qua, abbracciami. Questo è il dolce che ti piace? E ora che lo so, ordino al cuoco che, a partir da oggi, faccia più spesso ‘sta pastiera. Non solo a Pasqua, chè altrimenti è un danno: per farti ridere deve passare un anno!”

 Probabilmente la pastiera, come la conosciamo oggi, nacque dall’estro culinario di un’ignota suora, una delle tante dedite alla preparazione di dolci che allietavano le tavole imbandite  di nobili e ricchi borghesi.

 I piatti tipici della tradizione napoletana hanno il pregio o il difetto di non rispecchiare mai un’unica ricetta: sono spesso “insubordinati” nelle dosi e negli ingredienti. Non solo, ma ogni famiglia custodisce gelosamente quella variante che rende il piatto speciale e diverso dalla ricetta base. Come ad esempio la pastiera di cui si trovano ricette con uova e ricotta, con crema pasticcera oppure  con i tagliolini.

 La pastiera mi è cara perché l’ associo a mia madre. Premetto che a tutt’oggi non si cimenta nei dolci se non negli struffoli e nella pastiera, che merita effettivamente un plauso anche per le irregolari strisce incrociate di pastafrolla che sono la sua inconfondibile firma.Mamma dedica un’uscita speciale solo per acquistarne gli ingredienti. Qualche giorno prima di prepararla, mette il grano a mollo nell’ acqua. Il giorno successivo lo cuoce nel latte. E al terzo giorno assisto alla vera resurrezione di mamma. Per soddisfare le richieste di amici e conoscenti, per un giorno intero inforna e sforna dolci di vario diametro, e non vuole essere assolutamente  disturbata in un rituale che le appartiene e al quale ha rinunciato solo due volte in vita sua, a causa del  terremoto e di un grave lutto familiare.

Alla pastiera sono legati aneddoti indimenticabili nella storia della mia  famiglia.Una volta mamma mi telefonò chiedendomi  di ritirare la spesa nel negozio di fronte casa sua e la cosa mi parve alquanto strana perché ha sempre, ma sempre fatto tutto da sola. Non appena mi vide, il salumiere esclamò: “Signora, ho preparato le uova per sua madre. Mi scusi , ma a che cosa servono 60 uova?” Ignara di tutto, capii che erano iniziate le grandi manovre pasquali da pastiera. Fu così che anche il salumiere si guadagnò il suo piccolo e dolce tributo pastieresco.

Poiché le specialità gastronomiche di famiglia si trasmettono ancora di generazione in generazione  (ebbene sì), per anni le ho chiesto la ricetta  della pastiera. In effetti non l’ho mai ricevuta perché lei, come mia suocera, dosa tutto ad occhio e  io non potevo permettermi, in tempo e disponibilità, di cimentarmi in un dosaggio da 60 uova.

Finalmente un giorno ho scoperto la ricetta della bisnonna Sofia e ho imparato a cucinarla, finchè un  bel giorno mio padre in buona fede osò dire che la mia pastiera era buona quasi come quella di mamma. Non l’avesse mai detto! Si sfiorò un incidente coniugale dopo circa 40 anni di matrimonio perché  lei si adombrò; da allora le lasciai volentieri il primato e ancor più volentieri la fatica.Di recente ho ripreso a prepararla con  quel piccolo segreto di mamma che la rende speciale.

Per noi tutti,  la pastiera rappresenta un po’ l’energia, la sostanza e la dolcezza di mia madre. 

Pastiera della bisnonna Sofia.

  Ingredienti:

 

500 g di grano

½  l. di latte

100 g. burro

3 cucchiai di zucchero

1 bastoncino di cannella

100 g di cedro candito tagliato a pezzetti

1 kg di zucchero

1 kg di ricotta

12 uova

buccia  di limone grattugiata

un bastoncino di cannella

essenza di fior d’arancio (una fialetta)

 

Mettere il grano in acqua tiepida e sale per almeno mezza giornata, dopo averlo pulito e sciacquato a lungo.Calarlo in un litro e mezzo d’acqua fredda e lasciarlo bollire (altrimenti comprare il grano già ammorbidito).Cuocere a fuoco lento il grano, già ammorbidito, nel latte, burro, cannella, zucchero e un po’ di sale finchè non si scuoce .

In due terrine battere separatamente i tuorli e gli albumi d’uovo, poi unirli.In un’altra terrina lavorare la ricotta con lo zucchero e versarvi poi il grano cotto nel latte.Aggiungere le uova sbattute, il cedro a pezzetti, il bastoncino di cannella e la fiala di fior d’arancio. Lasciare riposare un po’.

 

Ingredienti per la crema pasticcera

 

300g zucchero

2 uova intere + 4 rossi d’uovo

1 l di latte

120 gdi farina o amido

 un bastoncino di vaniglia ( in alternativa uso una bustina di vanillina)

 buccia grattugiata di limoni verdi .

 

In una pentola lavorare le uova con lo zucchero.Aggiungere un po’ alla volta la farina continuando a mescolare, poi il latte, la buccia di limone e la vaniglia e amalgamare.Cuocere a  fuoco basso mescolando di continuo con un cucchiaio di legno per evitare che la crema si attacchi e si formino grumi. Fare addensare la  crema .

Versare  la crema nell’impasto precedente, lasciar raffreddare  e infine unirvi anche mezzo bicchierino di whisky e qualche goccia di angostura ( variante mia e di mamma che dà un po’ di colore). Mescolare delicatamente. Togliere i bastoncini di cannella.

 Pastafrolla ( ma di solito uso quella surgelata).
 250-300 g di farina

125-150 g di 

zucchero a velo

150 g di burro o strutto

3 tuorli d’uovo

un bicchierino di rum

Mescolare  e lavorare la  farina,lo zucchero e il burro. Aggiungere i tuorli e il rum, comprimendo delicatamente.Foderare una teglia con la pasta frolla, versare l’impasto della pastiera.Preparare strisce di pasta frolla, larghe1-2 cm, da incrociare sull’impasto.

Cuocere a 180° C per un’ora e un quarto circa. Lasciare raffreddare la pastiera e infine cospargere di zucchero a velo.

La colomba

Il re longobardo Alboino, fu un guerriero valoroso ma spietatissimo. Si pensi che durante una serata  di bagordi nella reggia di Verona,  bevve vino in una coppa ottenuta dal cranio del padre di Rosmunda ( un tale  Cunimondo) e costrinse perfino la moglie a imitarlo pronunziando  la storica frase “Bevi Rosmunda dal teschio di tuo padre!” 

Firmò così la sua condanna a morte: infatti l’amata Rosmunda ordì una congiura per vendicarsi . Come? Legò al suo fodero la spada del marito, che all’arrivo dei congiurati cercò invano di difendersi con uno scranno…fu poi sepolto a Verona e allora, secondo me, nacque il detto  “chi è causa del suo mal, pianga se stesso”.L’orda dei barbari, guidati da Alboino, calò nell’Italia settentrionale nel 568 d.C.  In  fretta e furia i  longobardi, con famiglie e  mandrie di bestiame al seguito ( insomma una sorta di migrazione …ma all’ epoca  non c’era ancora Borghezio),  conquistarono prima Aquileia, Vicenza e Verona, poi nel 569 d. C.  Milano e Pavia. 

 

Si narra che la città di Milano dovesse  rendere al conquistatore un considerevole tributo: oro, gioielli, stoffe pregiate, oggetti dell’artigianato locale, cibi prelibati e dieci giovani fanciulle, scelte tra  le più belle, di cui il re potesse disporre a suo piacimento ( mica scemo!). A Pasqua però, dopo la consueta offerta dei preziosi doni, i milanesi offrirono al re un dolce nuovo, inventato poco tempo prima da un fornaio. Il dolce era simile al panettone ma con l’aggiunta di mandorle e granella di zucchero e aveva la forma di una colomba, simbolo cristiano della pace. Il re apprezzò molto quella squisitezza e proclamò che si sarebbe impegnato a rispettare e far rispettare la colomba come simbolo della pace e della Santa Pasqua. Poi impaziente attese la presentazione dell’ultimo dono: le dieci leggiadre giovinette che sarebbero state sacrificate, come  agnelli, alle sue voglie di lupo famelico e zozzone. Le ragazze dovettero sfilare dinanzi ai dignitari di corte, convenuti per l’occasione. Erano  state  ornate con vesti finissime e profumate con essenze , perché riuscissero gradite al re marpione. Alboino si avvicinò alla prima  fanciulla e, accarezzandole la guancia, le chiese come si chiamasse. La fanciulla, intuendo il suo destino ingrato dallo sguardo bramoso del re, prontamente rispose: “Colomba!”…e così fecero anche tutte le altre. Alboino, che nonostante tutto era un re, non potè  venir meno all’impegno poco prima proclamato. Non solo, ma liberò  le fanciulle dopo averle premiate con una cospicua dote. Quell’anno potè assaporare solo la colombella candita e zuccherata, che diventò il prelibato e tipico dolce  di Pasqua  prima a Milano poi in tutta Italia.

Per Alda Merini, nata il 21 a primavera

Quando penso ad Alda Merini vedo uno spirito inquieto, consapevole della sua innata diversità, dovuta  a una straordinaria sensibilità e capacità di immergersi nell’ animo umano con uno sguardo profondo e appassionato.  Ha cantato la vita  nelle sue pieghe più sofferte , non immaginate ma vissute in prima persona, dalle quali seppe risollevarsi e di cui ha lasciato traccia in una vastissima produzione poetica. La ricordo  con le sue stesse parole, che restano profonde come impronte sulla terra, tenere , dolci e tormentate di vate solitario, talvolta incompreso nella sua genialità.

  “No, non mi importa molto della poesia: la poesia è una delle tante manifestazioni della vita. È un modo di parlare, e può essere cattiva, buona, iraconda, inutile. È un modo di far teatro, è un modo di mascherarsi. La poesia può essere una maschera greca, un carnevale. Può essere una dignità che non si ha, una dignità che si soffre. Sono tante le definizioni della poesia. Diciamo che la letteratura può essere anche un modo di sentirsi pazzi.

Un modo di parlare, di sentire e di sentirsi, di essere al mondo: ma modo irrinunciabile; investitura divina che non consente abiure; personalissimo, esclusivo esserci; condanna e dono insieme”

 

Lascio a te queste impronte sulla terra

Lascio a te queste impronte sulla terra
tenere dolci, che si possa dire:
qui è passata una gemma o una tempesta,
una donna che avida di dire
disse cose notturne e delicate,
una donna che non fu mai amata.
Qui passò forse una furiosa bestia
avida sete che dette tempesta
alla terra, a ogni clima, al firmamento,
ma qui passò soltanto il mio tormento.

 

Sono nata il ventuno a primavera

Sono nata il ventuno a primavera
ma non sapevo che nascere folle,
aprire le zolle
potesse scatenar tempesta.
Così Proserpina lieve
vede piovere sulle erbe,
sui grossi frumenti gentili
e piange sempre la sera.
Forse è la sua preghiera.

 “Si parla spesso di solitudine, fuori, perchè si conosce un solo tipo di solitudine. Ma nulla è così feroce come la solitudine del manicomio. In quella spietata repulsione da parte di tutto si introducono i serpenti della tua fantasia, i morsi del dolore fisico, l’acquiscienza di un pagliericcio su cui sbava l’altra malata vicina che sta più su. Una solitudine da dimenticati, da colpevoli. E la tua vestaglia ti diventa insostituibile, e così gli stracci che hai addosso perchè loro solo conoscono la tua vera esistenza, il tuo modo di vivere. In manicomio ero sola; per lungo tempo non parlai, convinta della mia innocenza. Ma poi scoprii che i pazzi avevano un nome, un cuore, un senso dell’amore e imparai, sì, proprio lì dentro, imparai ad amare i miei simili. E tutti dividevamo il nostro pane l’una con l’altra, con affettuosa condiscendenza, e il nostro divenne un desco famigliare. E qualcuna, la sera, arrivava a rimboccarmi le coperte e mi baciava sui corti capelli. E poi, fuori, questo bacio non l’ho preso più da nessuno, perchè ero guarita. Ma con il marchio manicomiale.”

(da L’altra verità  “Diario di una diversa”)

  

I poeti lavorano di notte

I poeti lavorano di notte

quando il tempo non urge su di loro,

quando tace il rumore della folla

e termina il linciaggio delle ore.

I poeti lavorano nel buio

come falchi notturni od usignoli

dal dolcissimo canto

e temono di offendere Iddio.

Ma i poeti, nel loro silenzio

fanno ben più rumore

di una dorata cupola di stelle

 

(in Testamento – Alda Merini)

Giornata mondiale della Poesia

Donne del Risorgimento: Anita Garibaldi

Il Gianicolo è un parco pubblico molto suggestivo sia  perché offre dall’alto una splendida veduta di Roma, sia perché è un  luogo della memoria, che nei grandi monumenti equestri di  Giuseppe e di Anita Garibaldi, negli 84  busti e nelle quattro  stele dedicati ai combattenti garibaldini, provenienti da ogni parte d’Italia , ricorda la strenua difesa della breve Repubblica Romana tra l’ aprile e il luglio del 1849.

Il monumento celebrativo di Anita Garibaldi , realizzato da Mario Rutelli ed inaugurato nel 1932, custodisce le ceneri di Ana Maria de Jesus Ribeiro da Silva, universalmente  nota come Anita Garibaldi (Morrinhos, 30 agosto 1821- Mandriole di Ravenna 4 agosto 1849).

 Anita stringe tra le braccia un bambino, molto probabilmente Menotti, il figlio appena nato, portato in salvo dalla madre che di notte scappò a cavallo per sottrarsi alle violente  truppe imperiali giunte a  San Simon nel 1840 .Garibaldi, che l’aveva lasciata a casa di amici per cercare vesti per lei e il piccolo, la ritrovò nella foresta mentre allattava il primogenito.  

Anita, l’unica donna veramente amata da Garibaldi, a diciotto  anni divenne la sua inseparabile compagna , condividendo fino alla fine una vita avventurosa e difficile tra stenti, rinunce e sacrifici, ideali e battaglie per terra e per mare, sia in Sud America che in Italia. È passata  meritoriamente alla storia come l’Eroina dei due mondi, emblema della donna combattente e leggenda vivente del Risorgimento Italiano.   

Da Garibaldi ebbe quattro figli:  Menotti (1840), Rosita (1843) morta all’età di due anni, Teresita (1845) e Ricciotti (1847) . Di umili origini, sin da ragazzina mostrò un carattere indomito, forte e determinato. Alta, fiera, dai grandi occhi scuri conobbe e  conquistò il cuore di Garibaldi nel1839 a Laguna, piccola città a sud del Brasile durante le lotte sudamericane per l’indipendenza repubblicana. Una giovane donna  “ il cui coraggio io mi sarei desiderato tante volte”- come scrisse di lei il marito  nelle Memorie autobiografiche- e che Anita mostrò   nella strenua difesa della breve Repubblica Romana. 

Dopo la resa di Roma  Garibaldi , con l’inseparabile Anita  e i suoi compagni, compì un disperato viaggio verso Venezia che ancora resisteva agli Austriaci. Sperava di  accendere l’insurrezione nell’Italia centrale ma, inseguito da truppe francesi, pontificie e poi austriache, nel luglio del 1849  si diresse verso la repubblica di San Marino.

 

Nelle sue “ Memorie” descrisse con   un’analisi umanamente schietta la criticità  del momento, le condizioni disperate di Anita, incinta di sei mesi,  e  la viltà dei  disertori “ codardi nell’ abbandonare vilmente la causa santa del loro paese, essi naturalmente scendevano ad atti osceni e crudeli cogli abitanti. Ciò sommamente mi straziava, peggiorava ed umiliava non poco la già sventurata posizione nostra! Come potevo io mandare dietro a quelle scellerate masnade, attorniato come mi trovavo dai nemici! Alcuni colti in flagrante erano fucilati;ma ciò poco rimediava,andando la maggior parte impuniti. La situazione divenuta disperata, io cercai d’arrivare a S. Marino.Avvicinatomi alla sede di quelli eccellenti Repubblicani, giunsemi una loro deputazione, ed avvendone avuto notizie, mi avvicinai per conferire con essa. E mentre io mi trovavo conferendo colla deputazione di S. Marino, un corpo di Austriaci comparì alla nostra retroguardia e vi cagionò confusione tale, che tutti presero a fuggire quasi senza veder nemici, almeno la maggior parte.Avvertito di tal contrattempo, retrocessi, trovai la gente fuggendo, e la mia valorosa Anita, che col colonnello Forbes facevano ogni sforzo per trattenere i fuggenti. Quella incomparabile donna incapace di qualunque timore aveva lo sdegno dipinto sul volto e non poteva darsi pace di tanto spavento in uomini che poco prima s’eran battuti valorosamente….”Giunti a S. Marino Garibaldi  scrisse su un gradino d’una chiesa al di fuori della città l’ordine del giorno:“ Militi, io vi sciolgo dall’ impegno d’accompagnarmi. Tornate alle vostre case;ma ricordatevi che l’Italia non deve rimanere nel servaggio, e nella vergogna!”  Dei circa 4000 uomini, partiti da Roma, rimasero solo 200 seguaci  coi quali  giunse a Cesenatico per poi imbarcarsi  su barche da pesca ( bragozzi)  alla volta di  Venezia. “Per parte mia, però, non avendo idea di depor le armi, con un pugno di compagni, io sapevo non impossibile aprirsi strada e guadagnar Venezia. E così s’era deciso. Un carissimo e ben doloroso impiccio era la mia Anita, avanzata in gravidanza, ed inferma. Io la supplicavo di rimanere in quella terra di rifugio( San Marino) , ove un asil almeno per lei poteva credersi assicurato, ed ove gli abitanti ci avevan mostrato molta amorevolezza. Invano! Quel cuore virile e generoso si sdegnava a qualunque delle mie ammonizioni su tale assunto, e m’imponeva silenzio, colle parole: “ tu vuoi lasciarmi”.   Gli Austriaci scorsero i  garibaldini e iniziarono a sparare da lontano cannonate e razzi.

“Io lascio pensare qual era la mia posizione in quei sciagurati momenti. La donna mia infelice, moribonda! Il nemico perseguendo dal mare, con quella alacrità che dà una vittoria facile. Aprodando ad una costa, ove tutte le probabilità di trovarvi altri, e numerosi nemici, non solamente Austriaci, ma papalini, allora in fiera reazione. Comunque fosse, noi aprodammo. Io presi la mia preziosa compagna nelle braccia, sbarcai e la deposi  sulla sponda. Dissi ai miei compagni, che collo sguardo mi chiedevano ciocchè dovevano fare:d’incamminarsi alla spicciolata, e di cercar rifugio, ove potrebbero trovarlo. In ogni modo d’allontanarsi dal punto ove ci trovavamo, essendo imminente l’arrivo dei palischermi nemici. Per [me] esser impossibile seguitar oltre, non potendo abbandonare mia moglie moribonda… 

Io rimasi nella vicinanza del mare in un campo di melica, colla mia Anita, e col tenente Leggiero, indivisibile mio compagno….Le ultime parole della donna del mio cuore erano state per i suoi figli! Ch’essa presentì di non poter più rivedere!” 

 Il tenente Leggero  andò in cerca di aiuto e tornò col colonnello Nino Bonnet, uno degli ufficiali più valorosi che, ferito a Roma nell’assedio, si era ritirato a casa, in quel di Comacchio, per curarsi. Egli propose di avvicinarsi ad una casupola  nelle vicinanze .Qui povera gente offrì acqua e primo soccorso ad Anita. Poi Garibaldi e i compagni trasportarono la donna in casa della sorella di Bonnet ed infine alla Mandriola per trovare un medico. “Guardate di salvare questa donna”!-  raccomandò al dottore ma “Nel posare la mia donna in letto, mi sembrò di scoprire sul suo volto, la fisionomia della morte. Le presi il polzo…più non batteva! Avevo davanti a me la madre de’ miei figli, ch’io tanto amava! Cadavere!…Io piansi amaramente la perdita  della mia Anita! Di colei che mi fu compagna inseparabile nelle più avventurose circostanze della mia vita!”

 A fatica il fedelissimo Leggero convinse il generale a riprendere la fuga per salvarsi  dalle truppe pontificie e dai soldati austriaci. “Generale, dovete farlo. Per i vostri figli, per l’Italia…”. Garibaldi raccomandò alla buona gente che lo circondava di seppellire Anita  e s’allontanò.

“Io, conobbi il gran male che feci, il dì, in cui sperando ancora di rivederla in vita io, stringeva il polso d’un cadavere: e piangevo il pianto della disperazione! Io, errai grandemente ed errai solo!”. 

Queste parole  sigillano un profondo rimorso, non spiegato, forse per avere cambiato la vita di quell’intrepida ragazza dai grandi occhi scuri, che a 28 anni è entrata a fare parte della storia come figura esemplare dell’amore romantico e del nostro Risorgimento.

 

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Donne del Risorgimento: Rose Montmasson e Giuditta Tavani Arquati

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Il Risorgimento è stato un processo storico  complesso, un  intrigo di diplomazia  e  di alleanze, un’illuminazione  di ideali liberali che contagiò gli intellettuali, una partecipazione di  masse conquistate  dalla speranza di cambiamento e poi in parte disilluse. Tante sono le interpretazioni del Risorgimento, ma  certamente  ci fu una generale intraprendenza di tanti giovani che osarono combattere per ció in cui credevano. 

L’ideale di un’unica Italia, libera dagli stranieri, mosse i cuori e armò  le braccia, infervorò gli animi come la bella Gigogin quello del giovane  Mameli.

In occasione delle celebrazioni ufficiali per i 150 anni dell’unitá d’Italia sul  monumento commemorativo di Mameli, reso immortale dai versi del nostro inno nazionale,  c’erano fiori e corone, ma il cimitero monumentale del Verano  a Roma  custodisce le spoglie di altri patrioti e patriote, tra i quali non posso tralasciare  Rose Montmasson, piú nota come Rosalia Montmasson Crispi, l’unica donna che partecipò alla spedizione dei Mille.

 Rose Montmasson (1823-1904) , originaria della Savoia, giunse a Torino nel 1849 dove inizió a lavorare come lavandaia e stiratrice. Qui conobbe Francesco Crispi, un giovane rivoluzionario, esule in Piemonte dopo il fallimento dei moti rivoluzionari siciliani del 1848. Rose condivise col suo uomo una vita avventurosa. Prima lo seguì in esilio in Piemonte e a Malta, dove si sposarono, poi a Parigi ove rimasero finché non furono accusati di complotto con Felice Orsini, ed infine a Londra ove, nuovamente in fuga, raggiunsero Mazzini. Rientrati in Italia nel 1859, collaborarono per la realizzazione dello sbarco in Sicilia. Rose si recó con un vapore postale in Sicilia e a Malta per avvisare della spedizione dei Mille i patrioti siciliani e i rifugiati. Fece in tempo a rientrare a Genova e, contro la volontá  del marito, travestita da uomo s’imbarcó con le camicie rosse a Quarto.

Durante la battaglia di Calatafimi s’adopró per portare in salvo e curare i feriti, imbracciando il fucile se necessario. I siciliani la ribattezzarono Rosalia, nome che compare sulla sua lapide. 

Dopo l’unitá d’Italia cambiarono molte cose, anche i sogni. Crispi divenne parlamentare e abbandonó i repubblicani per schierarsi con i monarchici. Ben presto ripudió Rosalia, denunciando   l’irregolaritá del matrimonio, celebrato a Malta  da un prete sospeso a divinis per le sue simpatie patriottiche, e nel 1878 convoló a nuove nozze con Lina Barbagallo, un’aristocratica di Lecce dalla quale, cinque anni prima, aveva avuto una figlia. In effetti  Rosalia  consideró  la scelta politica del consorte un vero e proprio tradimento di quegli ideali che li avevano uniti e per i quali avevano combattuto insieme. Scoppió uno scandalo e  Crispi fu accusato di bigamia. In veritá fu poi assolto, ma non dalla regina Margherita di Savoia  che si rifiutó  di stringergli la mano e gli tolse il saluto.

 Rosalia rimase a Roma dove morí in povertá. La sua salma é in un loculo concesso gratuitamente dal Comune di Roma.

 

Un’altra patriota sepolta al Verano é Giuditta Tavani Arquati (1832-1867) che, incinta del quarto figlio, morí col marito , con il figlio dodicenne Antonio e altri cospiratori durante il massacro nel lanificio Ajani a Trastevere. La tentata insurrezione contro il governo di  Pio IX e  la mancata rivolta del popolo romano contro il Papa Re  anticiparono la disfatta garibaldina di Mentana del 1867. In effetti la vera unitá d’Italia si ebbe nel 1870 quando la breccia di porta Pia segnó la fine dello Stato pontificio.

Due anni fa ho celebrato e festeggiato il 150 ˚ dell’Unitá d’Italia  non solo con un tricolore esposto sul balcone, ma ho voluto ringraziare idealmente nel cimitero del Verano tutti coloro, e sono davvero tanti, che hanno contribuito alla storia e alla cultura dell’Italia. Dopo avere girovagato a lungo e letto  centinaia di lapidi (ahimé non basta la mappa), mi sono emozionata dinanzi al piccolo ritratto di Rosalia, l’ umile lavandaia che divenne un’intrepida patriota. In Via della Lungaretta 97 a Trastevere ho invece  scovato una targa e un busto che  ricordano  Giuditta Tavani Arquati, divenuta  il simbolo della lotta per la liberazione di Roma.

 

 

 Rosalia Montmasson e Giuditta Tavani Arquati sono due protagoniste del Risorgimento italiano, che sfidarono i tempi e i costumi con scelte di vita che  all’epoca dovevavo apparire- a dir poco-  inusuali. Entrambe tradite, piú che dalle dinamiche del cuore e del potere, soprattutto dalla storia… una storia che ancora oggi, a mio parere, risulta scritta e interpretata  dagli  uomini.