Nostalgia

meta

 

La storia della terra e dell’uomo si srotola lungo i superbi costoni a picco sul mare, nelle ville d’altri tempi e nei borghi marinari accerchiati dall’argento degli ulivi e dall’odore di zagara, fino ai pendii assolati e alle  torri solitarie che occhieggiano delfini e naviganti. 

Punta Campanella

 

Austeri giganti di roccia al vento  narrano di sirene e di miti lontani. Nulla è più dolce del  nascondersi nel respiro di questo mare e nell’ abbraccio di questo cielo. Nulla è più dolce del librarsi in questa serena  libertà originaria, mai persa come l’istinto a scoprire il bello. 

Capri dal mare

 

Ovunque regna un’eternità sospesa  in una luce divina che placa misticamente i sensi  e dispensa carezze di trasparenze alle rive  e schegge di verde e di pietra avvolte ora in una tenue foschia, ora in un intenso blu cobalto . 

li galli

 

L’anima buona della natura  palpita in queste profondità marine e celesti  che inondano  gli occhi e il cuore. E dopo averne carpito la magia, la cerchi per sempre.

 

Il mare: quant’acqua – Nico Orengo

mare Capri 2

Il mare: quant’acqua
da millenni inquieta
capriola tra il fondale
e la riva, sgomitola
vele d’onde e piane,
strappandosi, da terra
all’orizzonte,
in voragine di viola
e veli azzurri,
respirando infantile
o in scoppi d’asma,
vivendo il ventre
di una madre, ampia.

 

Nico Orengo, Cartoline di mare vecchie e nuove, il mare: quant’acqua, 1999

 

Fogli bianchi- Alda Merini

I fogli bianchi sono la dismisura dell’anima

e io su questo sapore agrodolce

vorrò un giorno morire,

perché il foglio bianco è violento.

Violento come un bandiera,

una voragine di fuoco,

e così io mi compongo

lettera su lettera all’infinito

affinchè uno mi legga

ma nessuno impari nulla

perché la vita è sorso, e sorso

di vita i fogli bianchi

dismisura dell’anima.

 

Alda Merini In “Fogli bianchi.23 inediti”

I ricordi mi vedono – Tomas Tranströmer

Ukraine's Leafy Green Tunnel of Love is a Passageway for Trains and Lovers

 

 

I ricordi mi vedono

 

Un mattino di giugno, troppo presto
per svegliarsi, troppo tardi
per riprendere sonno.

Devo uscire nel verde gremito
di ricordi, e mi seguono con lo sguardo.
Non si vedono, si fondono totalmente
con lo sfondo, camaleonti perfetti.

Così vicini che li sento respirare
benché il canto degli uccelli
sia assordante.

 

Tomas Tranströmer

 

(da Poesia dal silenzio, Crocetti, 2008 – Traduzione di Maria Cristina Lombardi)

La cipolla – Wisława Szymborska

La cipolla è un’altra cosa.

 Interiora non ne ha.

 Completamente cipolla

 fino alla cipollità.

 Cipolluta di fuori,

 cipollosa fino al cuore,

 Potrebbe guardarsi dentro

 senza provare timore.

 

In noi ignoto e selve

 di pelle appena coperti,

 interni d’inferno,

 violenta anatomia,

 ma nella cipolla – cipolla,

 non viscere ritorti.

 Lei piú e piú volte nuda

 fin nel fondo e cosí via.

 

 Coerente è la cipolla,

 riuscita è la cipolla.

 Nell’una ecco sta l’altra,

 nella maggiore la minore,

 nella seguente la successiva,

 cioè la terza e la quarta.

 Una centripeta fuga.

 Un’eco in coro composta.

 

La cipolla, d’accordo:

 il piú bel ventre del mondo.

 A propria lode di aureole

 da sé si avvolge in tondo.

 In noi – grasso, nervi, vene,

 muchi e secrezione.

 E a noi resta negata

 l’idiozia della perfezione.

 

Wisława Szymborska

Quasi mortali uccelli dell’anima

……….Chi siete?

 

Felici primizie, prediletti del creato,

montagne, creste aurorali

di tutte le creazioni-, polline della divinità in fiore,

anelli di luce, vestiboli, scalinate, troni,

spazi di essenza, scudi di delizia, tumulti

di sensazioni tempestosamente incantevoli e di colpo,

singolarmente,

specchi: che ricreano nei loro volti

la propria sfavillante bellezza.

….

(da “La seconda Elegia”  di Rainer Maria Rilke)

Pioggia – Federico Garcia Lorca

 

Pioggia

La pioggia ha un vago segreto di tenerezza
una sonnolenza rassegnata e amabile,
una musica umile si sveglia con lei
e fa vibrare l’anima addormentata del paesaggio.
 
È un bacio azzurro che riceve la Terra,
il mito primitivo che si rinnova.
Il freddo contatto di cielo e terra vecchi
con una pace da lunghe sere.
 
È l’aurora del frutto. Quella che ci porta i fiori
e ci unge con lo spirito santo dei mari.
Quella che sparge la vita sui seminati
e nell’anima tristezza di ciò che non sappiamo.
 
La nostalgia terribile di una vita perduta,
il fatale sentimento di esser nati tardi,
o l’illusione inquieta di un domani impossibile
con l’inquietudine vicina del color della carne.
 
L’amore si sveglia nel grigio del suo ritmo,
il nostro cielo interiore ha un trionfo di sangue,
ma il nostro ottimismo si muta in tristezza
nel contemplare le gocce morte sui vetri.
 
E son le gocce: occhi d’infinito che guardano
il bianco infinito che le generò.
 
Ogni goccia di pioggia trema sul vetro sporco
e vi lascia divine ferite di diamante.
Sono poeti dell’acqua che hanno visto e meditano
ciò che la folla dei fiumi ignora.
 
O pioggia silenziosa; senza burrasca, senza vento,
pioggia tranquilla e serena di campani e di dolce luce,
pioggia buona e pacifica, vera pioggia,
quando amorosa e triste cadi sopra le cose!
 
O pioggia francescana che porti in ogni goccia
anime di fonti chiare e di umili sorgenti!
Quando scendi sui campi lentamente
le rose del mio petto apri con i tuoi suoni.
 
Il canto primitivo che dici al silenzio
e la storia sonora che racconti ai rami
il mio cuore deserto li commenta
in un nero e profondo pentagramma senza chiave.
 
La mia anima ha la tristezza della pioggia serena,
tristezza rassegnata di cosa irrealizzabile,
ho all’orizzonte una stella accesa
e il cuore mi impedisce di contemplarla.
 
O pioggia silenziosa che gli alberi amano
e sei al piano dolcezza emozionante:
da’ all’anima le stesse nebbie e risonanze
che lasci nell’anima addormentata del paesaggio!

 

Federico Garcia Lorca

 

Per Alda Merini, nata il 21 a primavera

Quando penso ad Alda Merini vedo uno spirito inquieto, consapevole della sua innata diversità, dovuta  a una straordinaria sensibilità e capacità di immergersi nell’ animo umano con uno sguardo profondo e appassionato.  Ha cantato la vita  nelle sue pieghe più sofferte , non immaginate ma vissute in prima persona, dalle quali seppe risollevarsi e di cui ha lasciato traccia in una vastissima produzione poetica. La ricordo  con le sue stesse parole, che restano profonde come impronte sulla terra, tenere , dolci e tormentate di vate solitario, talvolta incompreso nella sua genialità.

  “No, non mi importa molto della poesia: la poesia è una delle tante manifestazioni della vita. È un modo di parlare, e può essere cattiva, buona, iraconda, inutile. È un modo di far teatro, è un modo di mascherarsi. La poesia può essere una maschera greca, un carnevale. Può essere una dignità che non si ha, una dignità che si soffre. Sono tante le definizioni della poesia. Diciamo che la letteratura può essere anche un modo di sentirsi pazzi.

Un modo di parlare, di sentire e di sentirsi, di essere al mondo: ma modo irrinunciabile; investitura divina che non consente abiure; personalissimo, esclusivo esserci; condanna e dono insieme”

 

Lascio a te queste impronte sulla terra

Lascio a te queste impronte sulla terra
tenere dolci, che si possa dire:
qui è passata una gemma o una tempesta,
una donna che avida di dire
disse cose notturne e delicate,
una donna che non fu mai amata.
Qui passò forse una furiosa bestia
avida sete che dette tempesta
alla terra, a ogni clima, al firmamento,
ma qui passò soltanto il mio tormento.

 

Sono nata il ventuno a primavera

Sono nata il ventuno a primavera
ma non sapevo che nascere folle,
aprire le zolle
potesse scatenar tempesta.
Così Proserpina lieve
vede piovere sulle erbe,
sui grossi frumenti gentili
e piange sempre la sera.
Forse è la sua preghiera.

 “Si parla spesso di solitudine, fuori, perchè si conosce un solo tipo di solitudine. Ma nulla è così feroce come la solitudine del manicomio. In quella spietata repulsione da parte di tutto si introducono i serpenti della tua fantasia, i morsi del dolore fisico, l’acquiscienza di un pagliericcio su cui sbava l’altra malata vicina che sta più su. Una solitudine da dimenticati, da colpevoli. E la tua vestaglia ti diventa insostituibile, e così gli stracci che hai addosso perchè loro solo conoscono la tua vera esistenza, il tuo modo di vivere. In manicomio ero sola; per lungo tempo non parlai, convinta della mia innocenza. Ma poi scoprii che i pazzi avevano un nome, un cuore, un senso dell’amore e imparai, sì, proprio lì dentro, imparai ad amare i miei simili. E tutti dividevamo il nostro pane l’una con l’altra, con affettuosa condiscendenza, e il nostro divenne un desco famigliare. E qualcuna, la sera, arrivava a rimboccarmi le coperte e mi baciava sui corti capelli. E poi, fuori, questo bacio non l’ho preso più da nessuno, perchè ero guarita. Ma con il marchio manicomiale.”

(da L’altra verità  “Diario di una diversa”)

  

I poeti lavorano di notte

I poeti lavorano di notte

quando il tempo non urge su di loro,

quando tace il rumore della folla

e termina il linciaggio delle ore.

I poeti lavorano nel buio

come falchi notturni od usignoli

dal dolcissimo canto

e temono di offendere Iddio.

Ma i poeti, nel loro silenzio

fanno ben più rumore

di una dorata cupola di stelle

 

(in Testamento – Alda Merini)

Giornata mondiale della Poesia

Il grande pi greco

 

La data  14 marzo richiama il 3,14 cioè il  ᴫ (pi greco) ed è un giorno dedicato all’affascinante Signor ᴫ

Il grande pi greco

 

 Degno di meraviglia è il numero pi greco

tre virgola uno quattro uno.

Le sue cifre seguenti sono ancora tutte iniziali,

cinque nove due, perché non ha mai fine.

Non si fa abbracciare sei cinque tre cinque con lo sguardo,

otto nove con il calcolo,

sette nove con l’immaginazione,

e neppure tre due tre otto per scherzo, o per paragone

quattro sei con qualsiasi cosa

due sei quattro tre al mondo.

Il più lungo serpente terrestre dopo una dozzina di metri s’interrompe.

Così pure, anche se un po’ più tardi,  fanno i serpenti delle favole.

La fila delle cifre che compongono il numero Pi greco

non si ferma al margine del foglio,

riesce a proseguire sul tavolo, nell’aria,

su per il muro, il ramo, il nido, le nuvole, diritto nel cielo,

per tutto il cielo atmosferico e stratosferico.

Oh come è corta, quasi quanto quella di un topo, la coda della cometa!

Quanto è debole il raggio di una stella, che s’incurva nello spazio!

Ed ecco invece due tre quindici trecento diciannove

il mio numero di telefono il tuo numero di camicia

l’anno mille novecento settanta tre sesto piano

numero di abitanti sessanta cinque centesimi

giro dei fianchi due dita una sciarada e una cifra,

in cui vola vola e canta, mio usignolo

e si prega di mantenere la calma,

e così il cielo e la terra passeranno,

ma il Pi greco no, quello no,

lui sempre col suo bravo ancora cinque,

un non qualsiasi otto,

un non ultimo sette,

stimolando, oh sì, stimolando la pigra eternità

a durare.

 

Wislawa Szymborska

La terza neve

Guardavamo dalle finestre, là

dove i tigli

si stagliavano neri

nella profondità del cortile.

sospirammo –

ancora, la neve non veniva,

ed era tempo, ormai,

era tempo…..

 

 

E la neve venne,

venne verso sera,

essa

giù dall’alto dei cieli

volava

a seconda del vento;

e nel volo oscillava.

A falde sottili come lamine,

fragili,

era confusa di se stessa.

La prendevamo nelle mani,

e stupivamo:

dunque, era quella la neve?

 

 

…. Dopo sette giorni

venne la neve nuova.

Non venne –

precipitò.

Cadeva così fitta, da non potere

tenere aperti gli occhi,

a tutta forza

vorticava in cerchio, mugliando.

… ma disperò di sé,

non resistette

e si diede per vinta.

E noi, ansiosi

sempre più spesso

scrutavamo l’orizzonte:

quando quella vera verrà?

Perché era tempo,

era tempo….

 

 

Ed un mattino

era davvero tanta

ed era davvero bella.

Cadeva e cadeva

nel baccano dell’alba

fra il rombo della macchine e lo sbuffare dei cavalli,

e sotto i piedi non si scioglieva,

anzi diventava più compatta.

Giaceva

fresca e scintillante

e ognuno ne restava abbagliato.

Ed era lei, la neve. La vera.

L’aspettavamo.

Era venuta.

 

Evgenij Aleksandrovič Evtušenko