La neve era sospesa tra la notte e le strade come il destino tra la mano e il fiore.

La neve ricopre le cime e le valli, le strade e fluttua sui mari della vita. La lama affilata del gelo trancia piedi che hanno macinato deserti, prigionie e stenti, paralizza il cuore e le speranze di tanti che s’ infrangono alle frontiere dell’indifferenza di popoli che hanno distrutto la civiltà del restare umani. L’anno vecchio ha portato una pandemia, inimmaginabile, incontenibile, imprevedibile ma la vera pandemia è l’indifferenza.

Quest’anno abbiamo sepolto troppi morti, vite che si sono spente nelle RSA, nelle case, negli ospedali, che hanno reso attoniti il mondo intero mentre sfilavano sigillate nelle bare sui camion. Quanta impotenza, umiltà, solitudine nei passi stanchi di papa Francesco sotto la pioggia, una pioggia che dovrebbe lavare colpe e sofferenze con le quali ancora facciamo i conti.

andrà tutto beneAlla voglia di uscirne cantata dai balconi e per le strade d’Italia e del mondo, esplosa  negli arcobaleni  dipinti dai bambini, sono passata a una sorta di rassegnazione, all’ incapacità di proiettarmi nel futuro e all’arte di sopravvivere al presente apprezzando quella spensieratezza e libertà che quasi mi annoiavano e ora rimpiango. La resilienza è necessaria, la razionalità mi dà la forza per sostenere; mi travolge un fiume di male parole pensate e dette contro chi vaneggia e allunga i tempi di queste limitazioni, ai quali non si riesce nemmeno più a replicare ma solo a maledire perché sono un’insopportabile bestemmia contro chi non ce l’ha fatta, e chi si prodiga ancor oggi per salvare vite. La pandemia ha fatto galleggiare il meglio dei comuni mortali, che ne sanno più dei ricercatori, dei medici, più dei profughi in cerca di accoglienza, per loro è facile rimanere avvolti nel loro narcisistico individualismo con la lungimiranza del paraocchi che non va oltre il buco in cui vivono, succubi di complotti, ignoranza e meschinità.

migranti sotto il ponteChe il nuovo anno ci dia la forza di resistere, di restare umani, di sopravvivere, di continuare a dare forza e speranza, di dimenticare i rimpianti e ciò che è nostro per tendere una mano a chi ha bisogno, a chi ci vive vicino e a chi viene da lontano. Un paese civile non separa i bambini dai genitori e tanto meno li ingabbia, un paese civile non lascia dormire donne e bambini sotto la passerella Squarciafichi di Ventimiglia e forse non è un caso che la furia dell’acqua l’abbia travolta, per ammonirci che l’indifferenza contro gli inermi e i più indifesi è una maledizione che prima o poi ci ricade addosso.

 

passerella squarciafichiLa pandemia dovrebbe indurre a riflettere sulla fragilità della vita di tutti, non solo le nostre o quelle dei nostri cari, non ci sono vite che valgono più di altre. La disperazione è insopportabile per chiunque, per cui dovremmo unirci nella solidarietà e tanti uomini e donne di buona volontà e di ogni età ne hanno dato silenziosi e costruttivi esempi. Siate benedetti ora e sempre!

Dobbiamo riappropriarci del senso civico e alzare la voce e adoprarci fattivamente con fermezza ogni qualvolta sia violato e irriso non per essere giustizieri, no, ma perché quando si tocca il fondo non resta altro che risalire, con determinazione e tenacia, con uno slancio faticoso che però innalza e ossigena, può salvare tutti ed eleva. “La neve era sospesa tra la notte e le strade come il destino tra la mano e il fiore” ( cit. Cristina Campo) mi riecheggia dentro.

augurio nuovo anno

 

2021 sono pronta, ti aspetto con rassegnato timore, ma non mi arrendo.

Buon anno!

Racchiudere il 2008 in una frase…

Da tempo non scrivo su questo blog e mi scuso con i lettori, ma la vita si snoda tra mille impegni, imprevisti ed emergenze. Da tempo mi ripropongo di riprendere a scrivere e spero di riuscirci anche perché c’è sempre un senso di disorientamento di fronte alla pagina bianca, quando si è perso un po’ l’esercizio della scrittura e l’abitudine di ritagliare tempo per questo angolo.

Ieri, girovagando tra vecchi post, ho trovato questo: “Racchiudere il 2008 in una frase…”. Era un’iniziativa che rimbalzava nella blogosfera e che Rick, alias Mister Pocacola, mi aveva rilanciato.Ve lo ripropongo a distanza di 12 anni.

“Trovo difficile riassumere in una frase un anno intero, anche perché la sintesi non è il mio forte.Le novità più rilevanti riguardano i primi traguardi dei miei figli e la nascita di questo blog in cui ho l’occasione di appollaiarmi un po’.Che dire se non che il 2008 è stato un anno simile ai precedenti  nei ritmi e negli impegni di vita quotidiana che formano il diritto di un ricamo, ove ogni punto si lega ad un altro. Ma è stato anche un anno diverso perché sto scoprendo o rivedendo i fili intrecciati, fermati, spezzati e annodati, tesi e allentati che formano il rovescio. Quei fili non sempre visibili, ma necessari per rendere possibile il ricamo che, pian piano si delinea tra tracce obbligate, talvolta imprevedibilmente creative ed espressive.

Diritto e rovescio sono complementari in un intreccio di linee e di colori sfumati, a volte armonioso, a volte contrastante.

Il mio 2008 ha segnato l’inizio della conciliazione delle due dimensioni, quella fattiva e quella intimistica, di quella che appare e quella che anima, del diritto e del rovescio del mio modo di essere in un gioco di logica, riflessioni e sentimenti che mi appassionano.”

Da quel dì sono passati anni e sono successi tanti fatti, che in parte hanno cambiato prospettiva e le priorità della vita, nel frattempo ho coltivato nuovi interessi, ma soprattutto ho conosciuto persone e realtà diverse e ne ho perse altre, le cui tracce variopinte si sono intersecate e  a volte sono rimaste in questo angolo e nel web.

Il 2020 sta finendo, ha segnato un po’ la storia personale di tutti con l’emergenza del covid-19, col quale continuo a convivere tra timori e perplessità, innescando risorse interiori e un po’ di necessaria resilienza per proseguire con una parvenza di normalità.È tempo di riprendere quei fili intrecciati, cari lettori, e rilancio questo meme a me stessa, anche per ricordare Riccardo. Ciao, mentore!

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“Bello mondo”- Mariangela Gualtieri

Con i versi della poetessa Mariangela Gualtieri, semplici e profonde riflessioni sull’esistenza, sulla forza e sulla bellezza della natura, della vita, delle relazioni mi associo nel “ringraziare desidero” per tutti quelli che sono piccoli liberi e limpidi e auguro a tutti voi lettori un sereno Natale.

               §§§§§

In quest’ora della sera
da questo punto del mondo

Ringraziare desidero il divino
per la diversità delle creature
che compongono questo singolare universo,
per la ragione,
che non cesserà di sognare
un qualche disegno del labirinto
e l’uccello leggero che vola oltre, più in alto, più su.

Ringraziare desidero per l’amore,
che ci fa vedere gli altri come li vede la divinità,
per il pane e il sale,
per il mistero della rosa
che prodiga colore e non lo vede.

Ringraziare desidero
per l’arte dell’amicizia,
per l’ultima giornata di Socrate,
per le parole che in un crepuscolo furono dette
da una croce all’altra,
per i fiumi segreti e immemorabili
che convergono in noi,
per il mare, che è un deserto risplendente
e una cifra di cose che non sappiamo
per il prisma di cristallo e il peso di ottone,
per le strisce della tigre,
per l’odore medicinale degli eucaliptus,
e la speranza, la fiducia, la lavanda.

Ringraziare desidero
per il linguaggio, che può simulare la sapienza,
per l’oblio, che annulla o modifica il passato,
per la consuetudine,
che ci ripete e ci conferma come uno specchio,
per il mattino, che ci procura l’illusione di un inizio,
per la notte, le sue tenebre e la sua astronomia,
per il coraggio e la felicità degli altri,
per la patria, sentita nei gelsomini
per lo splendore del fuoco
che nessun umano può guardare senza uno stupore antico
e per il mare che è il più dolce fra tutti gli dei.

Ringraziare desidero perché
sono tornate le lucciole,
le nuvole disegnano,
le albe spargono brillanti nei prati,
e per noi
per quando siamo ardenti e leggeri
per quando siamo allegri e grati.

Io ringraziare desidero per la bellezza delle parole, natura astratta di dio
per la lettura e la scrittura, che ci fanno sfiorare noi stessi e gli altri
per la quiete della casa,
per i bambini che sono nostre divinità domestiche
per l’anima, perché consola il mio girovagare errante,
per il respiro che è un bene immenso,
per il fatto di avere una sorella.

Io ringraziare desidero
per tutti quelli che sono piccoli liberi e limpidi
per le facce del mondo che sono varie
per quando la notte si dorme abbracciati
per quando siamo attenti e innamorati,
fragili e confusi,
cercatori indecisi.

Ringrazio dunque
per i nostri maestri immensi
per tutti i baci d’amore,
e per l’amore che ci rende impavidi.
Per i nostri morti
che fanno della morte un luogo abitato,
e per i nostri vivi, che rendono la vita uno specchio fatato.
Per i figli,
col futuro negli occhi,
perché su questa terra esiste la musica,
per la mano destra e la mano sinistra, e il loro intimo accordo
per i gatti per i cani esseri fraterni carichi di mistero,
per il silenzio che è la lezione più grande
per il sole, nostro antenato.

Ringraziare desidero
per Whitman, Presti e Francesco d’Assisi,
che scrissero già questa poesia,
per il fatto che questa poesia è inesauribile
e si confonde con la somma delle creature
e non arriverà mai all’ultimo verso
e cambia secondo gli uomini.

Ringraziare desidero
per i minuti che precedono il sonno,
per il sonno e la morte,
quei due tesori occulti,
per gli intimi doni che non elenco,
per la gran potenza d’antico amor
per amor che muove il sole e l’altre stelle
e muove tutto, in noi.

Mariangela Gualtieri (da “ Le giovani parole”- Einaudi, 2015)

La Venere degli stracci a Ventimiglia

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Venere degli stracci a Ventimiglia

Nel cortile della chiesa delle Gianchette di Ventimiglia è arrivato l’esemplare extralarge della Venere degli stracci, opera del grande artista contemporaneo Michelangelo Pistoletto, simbolo dell’Arte povera e icona della cultura del consumismo contemporaneo. È stata già accolta in contesti di frontiera e in luoghi di emergenza sociale come l’isola di Lampedusa e il MAAM Museo dell’Altro e dell’Altrove di Roma e partirà poi a giugno per Bolzano. Già nell’aprile 2017 su un’aiuola al confine italofrancese di ponte San Ludovico Pistoletto collocò  il  Terzo Paradiso, una sequenza di massi a forma di otto rovesciato, dove  l’anno scorso ricordammo coloro che persero la vita nel tentativo di varcare quel confine.

“Gli stracci non sono solo stoffe, ma quel che resta degli abiti. Dentro ogni straccio è passato almeno una persona. Quindi c’è l’umanità, tutto quello che l’umanità ha vissuto e che rimane come residuo. E la Venere, con  la sua bellezza rivolta verso quegli scarti, rigenera la fine.”

dati accoglienza

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Una rigenerazione che a Ventimiglia si fa attiva e partecipativa nel donare nuove appartenenze a chi, in viaggio verso l’ignoto, è troppo spesso reso invisibile dalla perdita della propria identità. Da quest’opera d’arte contemporanea parte un messaggio importante di sensibilizzazione per l’attuale e drammatica situazione delle migrazioni in Europa e nel Mediterraneo. Arte che si fonde con la vita per promuovere responsabilità sociale, dialogo, relazione, un ponte culturale e umanitario  in una città che ha trovato in Don Rito  una figura di grande spessore per l’impegno nell’accoglienza, nel rispetto e nella cura dei migranti. Grazie a lui persone della società civile, di ogni nazionalità, età ed estrazione socioculturale, si sono attivate come potevano mettendo in pratica quei valori che sono alla base di ogni democrazia.

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È bello vedere come  a Ventimiglia, che ha una realtà complessa, confluiscano  volontari da ogni parte d’Italia e d’Europa. Sì, d’Europa. Voglio ricordare i ragazzi britannici  che hanno operato per i piccoli ospiti delle Gianchette, regalandoci poi  tutto il materiale rimasto, o i volontari di un’associazione tedesca che si sono adoprati perché le donne nascoste nel fiume potessero lavarsi, e tutti quei ragazzi e volontari francesi che ogni sera distribuiscono pasti e vestiti ai migranti di passaggio. Ricordo anche  una giovane insegnante universitaria venuta appositamente dall’America per capire cosa stesse succedendo a Ventimiglia e  in Italia con il fenomeno della migrazione. Aveva pianificato le sue ferie per parlare con rappresentanti istituzionali e volontari che operano per e con i migranti in varie parti d’Italia e raccogliere interviste e foto che le servivano per una pubblicazione.

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Ventimiglia nel suo piccolo di fatto  rappresenta la cultura in trasformazione, cosa che non può dirsi per altre città liguri, ma non dimentichiamo che  in fondo arte e cultura sono motori di  sviluppo territoriale.

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Oltre alla Venere nel cortile della chiesa delle Gianchette  ci sono altri stracci intrecciati in una rete da cantiere, anch’essa di scarto che diventa risorsa. L’intreccio consente la visione di un grande planisfero, un  mondo a colori per tessere relazioni e veicolare metafore, raccontare un nuovo tessuto sociale in una complementarietà di pieni e vuoti, collegati da un filo alla vela che consente di navigare alla Venere degli stracci. Al centro la riproduzione in carta d’alluminio del Terzo Paradiso, realizzata dai bambini delle scuole: due cerchi piccoli possono unirsi e trasformarsi in uno più grande, perché l’unione è sempre una risorsa e una forza.

Tempo fa scrissi, ricordando un giovane migrante:“Dicono che chi viaggia ha più strade, chi stende le ali e molla tutto si lancia in un’ avventura per allontanarsi dalla propria vita, con un senso di libertà e un brivido di paura. Per allontanarsi sì, ma anche arrivare prima a se stesso, cimentandosi in prove che solo lo sradicamento rende possibili. Forse di fronte alla libertà del mare hai sognato un porto in cui arrivare che valesse tutta quell’acqua da attraversare. Il mare ridimensiona e  cambia prospettiva, separa e unisce popoli e terre. Quel viaggio vi ha dato nuovi occhi, per sperare. “Sembra esserci nell’uomo, come negli uccelli, un bisogno di migrazione, una vitale necessità di sentirsi altrove” (Marguerite Yourcenar) e c’è anche tanta bellezza in tutto questo.”

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20180519_144256Oggi riconosco che quest’esperienza è stata straordinaria; chiunque di noi riconosce che ci ha cambiati e arricchiti. Penso alla stazione di piazza Garibaldi della metropolitana di Napoli dove Pistoletto ha collocato le  immagini fisse di viaggiatori di ogni età su specchi  nei quali si riflettono quelli veri che salgono verso la città sulle scale mobili. Gente che va e viene in una quotidianità che si ripete, in un flusso vario e denso di energia e vissuti. Così ora alle Gianchette nella mostra di foto, video, diapositive, disegni, lettere, articoli di giornale, pietre colorate e nel librone di 13000 nomi di uomini donne e bambini di 50 diverse nazionalità c’è scritta un’importante pagina di storia, ci sono i passi, le testimonianze di un’umanità così umile da renderci partecipi delle loro vite e dei loro fiduciosi sorrisi. Questo è stato il piccolo grande miracolo di Ventimiglia, in un contesto socio culturale non facile, spesso indifferente, a volte chiuso e ostile, ma un miracolo che rigenera, dà speranza e commuove chi l’ha capito. Grazie a quanti lo hanno reso possibile, a tutte quelle 13000 persone in cammino, grazie per averci spronato a trovare nell’emergenza le risorse interiori per uscire da noi stessi, per incontrarvi, sostenervi come potevamo, e conoscervi  facendoci sperimentare che la diversità arricchisce davvero nel profondo e che ogni essere umano, con il suo vissuto e le sue speranze, merita rispetto in quanto tale.

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L’evento è stato promosso dalla Caritas diocesana di Ventimiglia-Sanremo, Ventimiglia CONfine Solidale , con la collaborazione di Cittadellarte- Fondazione Pistoletto, del Dipartimento Educazione Castello di Rivoli Museo d’Arte contemporanea, dell’Associazione Pigna Mon Amour di Sanremo e di spazio5 di Bolzano.

La mostra è aperta dal 18 maggio fino al 20 giugno presso la chiesa delle Gianchette ( venerdì- sabato – domenica dalle 10.00 alle 20.00)

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Buona fortuna, ragazzi!

Libertà di emigrare e diritto a non emigrare

In cammino…

Come una poesia che non riesco a ricordare.

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Quelle profondità  così azzurre e avvolgenti catturano e ancorano a una scheggia di alghe e pietre, incastonata nel turchino. La vista da lassù ispira, come quel silenzio irreale, lo stesso che si rifugge fuori e si cerca spesso dentro di sé. Immobili presenze intorno, per  covare sogni senza memoria, per smarrirsi in  orizzonti irraggiungibili. Senza affanno. Una tregua, chissà dopo quale battaglia, e quale lunga attesa. Convivenza di fantasmi, senza storia, tra rocce arse d’estate e folate di vento d’inverno.

A volte la vita è immaginaria, a volte lo è la solitudine. In quel tuo mondo esclusivo, ti sei lasciata andare, con un cuore inciampato in  troppo amore, nel prenderti cura di lui, con  tenace fedeltà hai trovato pace, ma chissà se quella tua promessa interiore non abbia celato in fondo la paura di vivere, di accorciare distanze e conquistare miraggi. Forse eri stanca di aspettare, di fare parte della schiera dannata di coloro che invece aspettano, con co-stan-za, incessantemente in ogni ora di ogni giorno.Perché in verità ci vuole forza ad aspettare, senza sapere nemmeno cosa. In tutte le stagioni della vita. Meglio inventarsi un’aspettativa impossibile a  guardia del tuo tempo. Non sei un’eroina tragica. No. Sei riuscita a farti attesa, invertendo il ruolo. La tua cura per quell’alter ego inerte e immobile era forse un modo come un altro per prendere in carico te stessa, per trovare un destinatario del tuo bisogno di silenzio e di tregua. C’è disperazione in tutto questo? Che importa, adesso? Tenerezza sì, ci vedo tanta tenerezza in quel tuo bisogno, nella resistenza ad accorciare distanze con i tuoi simili, nella tua forza a dare concretezza a un miraggio. C’è chi muore lentamente nell’attesa, in quel tempo prezioso da pagare agli affetti, alla compagnia, alla cura. C’è vita e amore, al limite del ridicolo, in quell’attesa, in quello stillicidio di speranza, logorante sconforto e  benefica illusione. Tu no, Nigel ! Sei morta forse per troppo amore per te stessa, per quel tuo riflesso che con te scrutava uno dei tanti orizzonti turchini, sconfinato e irraggiungibile come tanti altri, sempre ugualmente indefiniti ovunque ti girassi e cercassi  di cambiare prospettiva. Eri però quieta in quel silenzio di dentro perché la solitudine non è triste, se voluta e cercata. È solo il fulcro di un equilibrio interiore, conquistato a volte con fatica, poi difeso con coraggio, lontano dalle battaglie della schiera che attende, annaspa, si consuma e invecchia lo stesso, forse di più, senza pace e tempo per sé.

In cammino…

 

Rosso. Un cerchio rosso mi fa frenare automaticamente al semaforo. Resto in attesa del verde mentre rincorro mentalmente orari e impegni che si sovrappongono nel fine settimana. Guardo quel rosso senza vederlo,  fa da sfondo alla mia corsa mentale. D’un tratto vedo un giovane che procede a passo svelto sul marciapiede di fronte, poco distante un altro che tira un trolley e porta a cavalcioni un bambino di circa due anni, che mi guarda senza sorridere, forse un po’ spaventato da quel passo accelerato che lo fa leggermente oscillare sulle spalle del ragazzo. Dietro una bimba con le treccine, di  circa sette anni, avvolta in un piumino lungo colore fucsia, affretta il passo per raggiungere i due che la precedono. Forse uno è il padre. Scatta il verde, resto ferma, tanto dietro di me non ci sono auto e sono in una stradina poco frequentata. Sono ipnotizzata da quella scena. La bimba ha uno zainetto e ora saltella mentre stringe qualcosa tra le braccia. Guardo dietro di lei e vedo avanzare una donna, alta, con lo scialle che le copre la testa e le spalle, un piumino beige, un jeans slancia le sua gambe affusolate. Il suo  portamento regala un’innata fierezza, un’atavica regalità. Il suo viso tradisce un po’ di stanchezza  ma quella marcia è una dichiarazione di inarrendevole forza per  proseguire. Dove state andando? Trascina un grande trolley con la mano sinistra mentre un altro bimbetto, di un paio d’anni più piccolo della bambina, si aggrappa al suo braccio e, trotterellando, cerca di stare al passo con lei che procede spedita. Sembrano avere tutti fretta, come se avessero un appuntamento. Dove andate? Sembrano una famiglia. Sono una famiglia, una giovane famiglia, bella come tutte le giovani famiglie. O più probabilmente quei giovani stanno aiutando la madre dei bambini, che cerca di raggiungere qualche familiare  oltralpe. Provengono dal campo Roja, sono a Roverino  e si dirigono a piedi verso Ventimiglia in una soleggiata e fredda mattina di dicembre.

 Scatta di nuovo il rosso. Resto ancora lì, inchiodata a quel fotogramma, mentre li vedo allontanarsi, non si voltano, corrono verso il loro appuntamento col futuro, avanzano nelle pagine della storia, seguono il filo della sorte  che li separa da nuove attese e da paesi sconosciuti. Hanno il coraggio di chi non può fermarsi di fronte a nulla, sospinti da una disperata speranza, di chi ha la tenacia delle proprie radici che non si spezzano mai, di chi sa che  bisogna solo guardare avanti  e che i giorni non sono tutti uguali, come i cieli che cambiano di continuo e parlano a tutti in sfumature diverse, anche se  solo alcuni sanno ascoltarli. Ogni loro passo batte con forza assordante nelle coscienze di tutti gli  uomini di buona volontà. La mia commozione lascia scivolare qualche lacrima impotente in questa frontiera sperduta, poi alla fine supero quel  dannato semaforo e incrocio lo sguardo della bambina che mi sorride. Rallento, la saluto, li saluto, mi salutano.

Buon Natale!

“Ma dimmi tu questi negri”- Andrea Ivaz Melis

 

 

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Ma dimmi tu questi negri 
che vengono a prendersi per disperazione 
ciò che noi ci prendemmo con la violenza, 
la spada e la croce santa, 
lasciandoci dietro solo disperazione.
Ma dimmi tu questi negri
che hanno cellulari e guardano le nostre donne, 
mentre noi da sempre
ci fottiamo le loro 
un tanto a botta nelle strade nere delle periferie, 
e prendiamo il silicio dalle cave delle loro terre, 
e come osano poi questi negri 
avere desideri proprio uguali ai nostri 
manco fossero umani.
Ma dimmi tu questi negri che attraversano il mare 
come se fosse messo lì per viaggiare 
e non per tenerli lontani, 
per galleggiare e non per affondare, 
per andare e non per tornare.
Ma dimmi tu questi negri 
ex schiavi dei bianchi 
che vengono qui a rubarci il pane 
proprio ora che gli schiavi siamo noi 
messi in ginocchio e catene 
da politici e finanzieri bianchi 
con colletti bianchi 
e canini e incisivi sorridenti 
e perfettamente bianchi, 
che in meno di trent’anni 
ci hanno fatto schiavi.
Ma dimmi tu questi negri 
che hanno scoperto ora che la terra è una, 
è rotonda, 
e che a seguire la rotta della loro fame
si arriva dritti dritti alla nostra opulenza.
Ma dimmi tu questi negri 
che facessero come i nostri nonni:
cioè tornare nella giungla e sui rami alti 
visto che sono loro i nostri progenitori
e che l’umanità è tutta africana.

Ma dimmi tu questi negri che non rispettano i confini della nostra ignoranza e i muri della nostra paura.
Ma dimmi tu questi negri che persino si comprano le sigarette 
dopo che noi ci siamo fumati le loro foreste, 
le loro miniere, 
il loro passato,
il loro presente 
ma abbiamo commesso l’imperdonabile errore di lasciargli una vita 
e un futuro 
a cui dimmi tu, questi negri, 
non rinunciano mica.
Ma dimmi tu questi negri 
che si portano il loro Dio da casa 
anziché temere il nostro, 
e sanno ninna nanne e leggende e favole più antiche delle nostre e parlano male la nostra lingua
ma benissimo le loro che però noi non capiamo.
Ma dimmi tu questi negri a cui non vogliamo stringere la mano 
né far mettere piede in casa, 
sebbene a ben guardare 
abbiano i palmi delle mani e dei piedi perfettamente bianchi. 
Proprio come i nostri.

Andrea Ivaz Melis

Quando un cane vede una stella cadente, vorrebbe riportarla indietro ma non sa a chi (cit.)

Le persone della nostra vita sono un po’ come le stelle.
Tutte comunque lasciano una scia indelebile dentro, una traccia che nulla potrà oscurare e spegnere: una luce fatta di polvere di stelle, che scalda, rischiara, anima e dà un senso al nostro passaggio nell’universo, al nostro sentirci sospesi tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo. A volte siamo come un orizzonte, linea di demarcazione irraggiungibile e indefinibile, eppure esistente, protratti verso un infinito che va oltre ogni confine e ogni tempo.

Spesso le piccole cose di casa, lettere, quadri, libri, fotografie mi ricordano la luce di persone care, con le quali sento ancor vivo il legame. Custodisco gelosamente in me la luce di quelle stelle che mi hanno insegnato a orientarmi, a vedere oltre e leggermi e alle quali sono riconoscente con l’affetto degli anni giovanili e con la grande stima di un’età più matura.

Da un paio di giorni scruto il cielo, certa che la mia stella è sempre lì per farmi ritrovare una dimensione dispersa da qualche parte. Mi hai detto che anche tu guardi le stelle quando sei sul ponte a fare la guardia, e io vorrei essere lassù per guardarti come quando dormivi e ti ho visto diventare uomo, anno dopo anno. “Quando nessuno le guarda le stelle non sono più stelle. Forse sono diamanti, polvere di fate, risate di bambini, re o schiavi. Sono come siamo noi quando nessuno ci guarda.” (Fabrizio Caramagna), fragili e forti come una madre e un figlio, un padre e una figlia. Comunque polvere di stelle.

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Cadenti dal cielo- Wisława Szymborska 

Giornata Mondiale del Rifugiato

 

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Oggi ho partecipato a una pacifica manifestazione al confine italo francese, organizzata da Amnesty International, proprio presso “Il Terzo Paradiso” di Michelangelo Pistoletto. In nome dei diritti internazionali dei Rifugiati e Migranti si sono ricordati  quanti hanno perso la vita lungo il confine nel tentativo di raggiungere destinazioni che garantissero loro una vita al riparo da guerre, persecuzioni e povertà. A Ventimiglia da anni c’è un costante flusso di migranti che cercano di andare in  Francia  e proseguire il viaggio verso i paesi scandinavi, la Germania, l’Inghilterra, spesso  per raggiungere parenti o amici.

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Solo nel mese di maggio  sono passate per Ventimiglia 2500 persone diverse, provenienti in gran parte dalla Siria, Costa d’Avorio, Eritrea, Etiopia, Guinea, Nigeria, Sudan, Ciad , Mali  di cui 711 ragazzi dagli 11 ai 18 anni e 1054 dai 19 ai 25 anni.

Sempre a maggio 502 persone sono stati registrate  presso la chiesa di sant’Antonio alle Gianchette, di cui 155 femmine, 347 maschi. Tra questi 30 bambini da 0 a 4 anni, 21 bambini  da 5 a 9 anni, 18 da 10 a 14, 271 dai 15 ai 18 anni, 55 dai 19 ai 24 anni,73 dai 25 ai 34 anni, 22 dai 35 ai 44 anni, 7 dai 45 ai 54 anni, 4 dai 55 ai 64 anni, 1 dai 65 ai 74 anni.

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Da oltre un anno dedico parte del mio tempo a  loro, ai giovani che sperano gli venga riconosciuto lo  status di rifugiato. Tanti se ne sono andati, altri sono rimasti. Svolgono attività di volontariato civile, stanno seguendo sperimentazioni botaniche e laboratori didattici, alcuni lavoricchiano nei  bar e  ristoranti, suonano, cantano, hanno recitato in circa venti scuole  della zona dove siamo riusciti a portare una fiaba africana, inventata da uno dei più giovani e creativi del gruppo, per fare conoscere usi e costumi africani misti agli elementi caratteristici della fiaba,  compreso il finale “e vissero tutti felici e contenti”.  

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L’integrazione non è facile, ma possibile, lavorando  soprattutto con le giovani generazioni; qui un esempio di quanto svolto nella scuola di Dolceacqua. https://www.youtube.com/watch?v=BRapnZ1reN4

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È possibile vivere insieme, confrontarsi, maturare e imparare dalla diversità. La maggior parte dei ragazzi che arrivano sperano che un giorno possano tornare a vivere liberi e in pace nella loro terra, come noi.

 

 

 

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