Hic sumus felices – Le magiche Lune di Pompei

Da maggio a ottobre  del 2010 e 2011  il Parco Archeologico degli Scavi di  Pompei ospitò l’edizione di “ Le  Lune di Pompei”, consistente in  visite notturne del sito archeologico. Per la terza edizione del Carnevale della Letteratura  ricordo quelle notti del 2010 e 2011 che per me sono state tra le  più magiche e suggestive finora vissute.

domus pompei

 

Nel chiarore magico e  misterioso delle Lune Eterne ( la Luna di Morte, la Luna della Speranza, la Luna Virtuale, la Luna della Vita, la Luna che non c’è, la Luna che si Diverte) l’antica città sepolta  racconta i misteri non svelati, che mai hanno abbandonato Pompei .

necropoli lune di pompei

Il percorso parte dalla necropoli di Porta Nocera,  prosegue nell’Orto dei Fuggiaschi, continua verso la Casa del Giardino d’Ercole, in via dell’Abbondanza, soffermandosi nella casa del profumiere, di Octavius Quartius,erroneamente  chiamata in un primo tempo domus di Loreius Tiburtinus, di Venere in Conchiglia e infine si conclude con suggestivi ed onirici giochi di luce nell’Anfiteatro. La voce dell’attore Luca Ward e alcune proiezioni guidano il pubblico in una suggestiva ed eterna realtà parallela per fare vivere e rivivere  Pompei.

L’eruzione del Vesuvio, per l’esattezza  del monte Somma,  nel 79 d. C. fermò la vita di orti dei fuggitivi pompeiPompei sotto una coltre di cenere e lapilli spessa 6-7 metri. La maggior parte degli  abitanti, fuggiti dalle case, trovarono la morte  sul litorale. I pochi rimasti, sperando di salvarsi nei sotterranei  delle abitazioni, morirono asfissiati. Toccanti testimonianze della tragedia sono  i calchi dei Fuggiaschi, ricostruiti  dall’archeologo Giuseppe Fiorelli nel 1863  versando gesso liquido nelle cavità lasciate dai corpi nello strato di cenere.

Camminare per le vie di uno dei siti archeologici più suggestivi  e famosi del mondo, è sempre emozionante. È come viaggiare a ritroso nel tempo. Passeggiare di notte  in una Pompei  illuminata da splendenti Lune piene, seguendo un itinerario tracciato da fiammelle, è un’esperienza unica ed affascinante.

via dell'abbondanza pompeiPassare in punta di piedi sulla strada , esterna alla cinta  della città e conducente  a Nocera, fiancheggiata da numerosi sepolcri monumentali dà l’impressione di violare e consacrare allo stesso tempo la profonda  intimità della morte in una città apparentemente muta e  deserta. Qui si coglie la ciclicità di vita e morte, ove la morte non è frattura o interruzione ma è una delle incombenze dell’uomo, un continuum  della vita e la vita è commistione di otia e negotia , di sacro e profano confluenti nel mito. “Si tenevano in casa le ceneri o le immagini dei propri avi; li si salutava entrando, i vivi restavano in contatto con loro; all’entrata della città, le loro tombe allineate ai due lati della strada,  somigliavano a una prima città, quella dei fondatori”(H.Taine – “Viaggio in Italia”)

Qui però stranamente si continua a respirare la vita quotidiana dell’antichità nelle abitazioni e nelle botteghe, il fermento dei luoghi pubblici, la devozione per gli dei e la pietas per i defunti, il gusto raffinato per l’arte e i piaceri della vita, il valore del talento, dell’ingegno e dell’operosità.

Le Lune di Pompei splendono in alto riversando un’aura di bianca quiete su luoghi che raccontano a tutti per essere ascoltati da alcuni.

 

Gli orti, arricchiti di filari  e di ulivi dalla chiome argentate, nel 1961 restituirono alla storiacalchi vittime pompei 2  tredici vittime dell’eruzione, asfissiate dal gas e dalle ceneri durante la fuga. Nei cosiddetti Orti dei Fuggiaschi il destino di Pompei parla a chiunque. La pietas erompe alla vista di  sagome contorte e sofferenti. L’immaginazione assume una dimensione tristemente più concreta, ma proprio quei calchi fanno rivivere la città. I vuoti dei corpi si riempiono di  tutta la vita narrata sui muri e sui basoli sconnessi, nelle domus, tabernae, terme, teatri e foro dando una dimensione umana ad una civiltà grandiosa.

 

tabernaeOgni  muro, colonna, cubiculum, peristilio, cespuglio di rosmarino, giardino interno  respira ancora e l’immaginazione restituisce gli affreschi, i mosaici, le suppellettili e le statue che arricchivano gli spazi, ora deserti, dove ti senti un intruso in uno scenario fuori dal tempo e percepisci  un invadente senso di solitudine che ti riempie di riverente stupore ed ammirazione  per un  qualcosa di irraggiungibile e grande.

 Come il bello che traspare dalla domus più raffinate. E ti pare di sentire le fragranze della casa del profumiere, di vedere scorrere l’acqua nella lunga vasca di marmo ombreggiata da una pergola nella casa di Octavius Quartius. Ti pare di vedere brillare al sole i personaggi mitici e leggendari  di altri tempi e civiltà.

venere in conchiglia pompei

E ti chiedi chi possa avere calpestato quella strada, chi si sia fermato sull’uscio di quella locanda, chi sia l’autore di questi graffiti che,in questi casi, non informavano nè provocavano ma comunicavano per davvero un modus vivendi.

hic sumus felices graffiti pompei

“ HIC SUMUS FELICES” cioè “QUI  SIAMO FELICI”.

Una solenne proclamazione  di gioia e vitalità collettiva che associo a tutte le genti che vivevano Pompei. Uno squillo per i secoli a venire , una speranza di buon augurio per noi,  provenienti dal futuro, incapaci soltanto di definire la felicità se non per difetto e tanto meno di scrivere una cosa del genere sui muri di una qualsiasi città. “Qui siamo felici.” E sarà una delle magiche  lune di Pompei  o il fascino acuito dalle ombre di una dolce notte d’estate, sarà il mistero di queste strade percorse da chissà chi  e di questi muri  che raccontano più di mille parole, ma in questa scritta graffiata c’è tutta la vita, la forza  prorompente e la grandezza di una civiltà. Qui siamo felici. E non provo invidia ma commozione e un senso di compiaciuta appartenenza a un patrimonio universale, a una sorta di  Eden nascosto, carpito attraverso le fonti storiche. 

Pompei, maledetta dalla natura e benedetta dagli dei, suggestiona chiunque nei suoi chiaroscuri, nell’eco remota che risuona dentro, nella sua  immensità costellata da vibranti fiammelle che segnano il percorso, quasi a ricordo del percorso esistenziale dell’umanità.“Qui siamo felici” è l’epitaffio più bello in memoria di una città che ha ancora tanto da dire indistintamente a tutti.

 Scontenti e perennemente incontentabili, riusciremo mai ad annunciare ai posteri “Qui siamo felici” non per effetto di una momentanea scarica di adrenalina o senza cedere ad una qualsiasi forma di finzione?

 casa del profumiere 1casa profumiere pompeinecropoli porta nocera pompeigraffiti pompei 2graffiti pompei 3affreschi pompei

L’anima è piena di stelle cadenti (Victor Hugo)

stelle-cadenti-notte-San-Lorenzo

 

Un piccolo omaggio alla notte più magica dell’anno  nella terza edizione del Carnevale della Letteratura.

 Nella notte di San Lorenzo tra il 10 e l’11 agosto, e anche in quelle successive, sono particolarmente visibili le stelle cadenti dei desideri, note anche come lacrime di San Lorenzo che, donate dal santo al cielo durante il supplizio, ogni anno ricadono sulla Terra.

 E’ una notte magica in cui  provo a  scrutare nella morbida oscurità  in attesa di una scia luminosa che ricami il cielo. Di solito per  pochi secondi  il mio  sguardo accompagna la stellina in caduta libera e un senso di infantile stupore mi incanta. Quando mi ricordo di esprimere il desiderio, la lucina argentata è già sparita. Provo ugualmente  a formularlo, ma in fin dei conti mi basta averla salutata nel suo fugace passaggio.

Quest’anno no. È un anno diverso. Non sarà nemmeno necessario fissare il cielo. Sento che la mia stella è lì che aspetta. Si mostrerà cogliendomi di sorpresa.  Per qualche attimo ci incontreremo; lei danzerà al ritmo delle note che riecheggiano dentro di me. Ha già ascoltato altre volte il mio desiderio, ben nascosto nella notte della  mente e del cuore. Non sarà necessario ricordarglielo.

Ci scambieremo intimamente due faville: una scintilla dei miei occhi perché  possa brillare più a lungo e darmi il tempo di raccogliere una sua impalpabile stilla di speranza.

 

Civetteria femminile

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La cosmetica è per la donna la scienza del cosmo, non quella che dovrebbe  decifrare e spiegare le leggi della natura, bensì le leggi dell’apparire bella a tutti i costi. E a che costo! Scocciature  talvolta dolenti (leggasi  ceretta depilatoria) e fatiche immani in palestra, diete spossanti da esaurimento nervoso ( poco importa se poi non si ha più nemmeno la forza di stirare) e onerose per il portafogli. Le donne investono – a detta dei lui spendono- tanto in prodotti di bellezza, sin da adolescenti . Del resto in giovane età, hanno poca autostima e si vedono sempre brutte …così incominciano a nutrire la pelle del viso con creme idratanti, a colorare l’incarnato delicato con fondotinta e  terra di sole (quest’ultima sa di qualcosa di ustionante), a contornarsi labbra e palpebre. Tutto per apparire più belle,  o semplicemente diverse da come si vedono.

Qui casca l’asino e… l’intera stalla.

 Quando una donna si sente brutta, disordinata e mai abbastanza in tiro, magari invece suscita maggiore curiosità  o rivela un naturale sprizzo di autenticità. Saper truccarsi è un’arte, rispondente al detto “ stucco e pittura fan fare bella figura” divenuto poi il motto imperante degli imbianchini e delle estetiste. Ogni donna si allena per anni davanti allo specchio, si cimenta in  estenuanti prove  di rossetti e ombretti nell’immensa varietà policroma per trovare la combinazione più compatibile  al colore degli occhi e dei capelli oppure del vestito ( e vi pare nulla?). Occorrerebbe un software specifico per agevolarci in calcoli probabilistici di sfumature che fanno perdere tanto tempo e pazienza con esiti  talvolta deludenti, o comunque mai rispondenti alle aspettative iniziali.

 Vediamo un po’ chi delle gentili pulzelle non si identifica nei seguenti casi:

 

1. Risveglio da bradipo. Hai dormito le tue belle 6 ore ( 4 se hai passato una nottataccia e 9 se hai ghirescato) e nel rituale quotidiano davanti allo specchio ti accorgi che hai le occhiaie. Cominci a chiederti se sei stanca, se si avvicina il ciclo, responsabile di tutti i mali reali ed immaginari, se hai dormito male, se hai preoccupazioni. Nulla di nulla. E allora perché? Perché sì. Punto. Accettale, metti un po’ di correttore e non crocifiggerti inutilmente.

 

  2. Un malaugurato giorno, in cui sarebbe stato meglio non avere lo specchio, ti accorgi che qualche capello non è più in tinta con la chioma, o meglio è canuto. Apriti cielo! Anche a  16 anni, è una tragedia: è il sinonimo di vecchiaia incipiente, di  collettivo disgusto sociale e di presunta emarginazione e quindi decidi di entrare nel coloured Olimpo. A settimane alterne dovrai far fronte alla crescita ultrarapida, secondo me causata dalle stesse tinture, fertilizzanti del cuoio capelluto. La schiavitù è segnata per sempre: ti sottoporrai a periodici trattamenti fai da te, se sei abbastanza abile, o a tormentose e tormentate sedute dalla parrucchiera con conseguente sciroppamento di tutta la top twenty di  spettegulèss andanti a livello locale e nazionale.

 3. Le labbra: il tormentone recente. Non vanno mai bene, sono  troppo sottili o troppo carnose…e allora molto meglio le imbottiture artificiali che ti rendono simile ad una cernia? Dopo di che potresti ambire al ruolo di   protagonista in  una novella  Batracomiomachia ( la guerra dei topi, anzi delle tope,  e delle rane)

 4. Le mani o meglio le unghie. Forse Crudelia De Mon ha ispirato la  moda dilagante delle unghie artigliate e posticce…mi chiedo come si riesca a scrivere al pc con quelle cose ingombranti e sottili che sfregano sulla tastiera peggio di un gesso sulla lavagna o come si riesca ad effettuare più di tre lavaggi a mano e consecutivi  di stoviglie. Immagino una nutrita schiera di colf tuttofare  che supportano la bella rapace, impedita nelle mansioni domestiche e dedita a  contemplarsi  davanti allo specchio per lunghe interminabili ore in una sorta di narcisistico delirio.

 5. Quando la natura reclama il suo dazio e  se sei un’insicura, ossessionata dalla bellezza apparente, credi di poter  fermare il tempo ricorrendo a  forzature e rimedi artificiali per riempire le rughe e rimpolpare  forme e zigomi. Peccato che talvolta  si sfiori il ridicolo.

 Ma perché trasfigurarsi così tanto? E’ vero Cura il tuo aspetto: chi ha detto che l’amore è cieco? ma Se  Chiedete al rospo che cosa sia la bellezza, vi risponderà che è la femmina del rospo (Voltaire) e Lasciamo le belle donne agli uomini senza fantasia (Proust) anche perché la bellezza, dopo tre giorni, è tanto noiosa come la virtù. (George Bernard Shaw).

 

Forse l’aspetto esteriore suscita una prima impressione, quella che si basa sulla percezione dei sensi. In realtà valgono  di più uno sguardo, un sorriso, il portamento, lo stile, qualità speciali e diverse non sempre date in dotazione da Madre Natura, ma optional  acquisiti  nel tempo con artificiosa sapienza.

 

Valorizzarsi esteticamente senza eccessi può contribuire a sentirsi bene con se stessi, ma in fin dei conti  vale la pena di perdere la libertà di esser ciò che si è, omologandosi a canoni estetici imperanti?

 

 

Grazie di cuore…

 cuore -folonUn post su luoghi di confine, che cambiano prospettiva di vita e di fede, per la seconda edizione del Carnevale della Letteratura ospitato da Il Coniglio mannaro” di Spartaco Mencaroni. Un doveroso omaggio a un bambino, che non dimentico, e alla ricerca scientifica.  

“Accadono cose che sono come domande. Passa un minuto, oppure anni, poi la vita risponde”(Alessandro Baricco).

Una chiamata improvvisa, inaspettata proprio quando avevo raggiunto un equilibrio vivendo in una sorta di standby, tra la rassegnazione e l’attesa con  l’inconscia rimozione dell’inevitabile.  

A volte ci sono cose difficili da narrare seguendo un filo logico. Proprio io, che cerco  una logica in ogni cosa, oggi mi arrendo  alla fatalità.

 

Il caso volle che, uscendo da una chiesa di Roma,  l’occhio mi cadesse di sfuggita su un’immagine e, tornata sui miei passi,  la scrutassi con attenzione ma non con gli occhi dell’arte. A quella santa degli impossibili rivolsi un pensiero, sempre lo stesso, prima svogliato poi  più intenso.

La domenica  successiva ripartii e tornai a casa in Liguria. Nel pomeriggio di  lunedì azzardai una scelta, combattuta, con la perplessità  del distacco, di una necessaria lontananza che complica tutto e che potrei ovviare solo con una clonazione per conciliare le esigenze della famiglia di origine e di quella acquisita. Mi frullava in testa da tempo e la rinviavo da  qualche anno. Nella notte di lunedì però  un cuore bambino  chiamò e lei  partì in fretta e furia per riceverlo. Era arrivato il momento tanto sperato e temuto da tutti noi. Col senno del poi, concludo che proprio  questo allenamento di prevedere e rimuovere dai miei pensieri  il rischioso evento risolutorio aveva indirettamente maturato  un sorprendente autocontrollo, necessario nel momento dell’emergenza quando  è inutile farsi prendere dal panico e non giova una qualsiasi decifrazione emotiva e razionale.

Avevamo programmato il da farsi: la valigia e le cartelle cliniche erano pronte, l’ambulanza era stata preavvisata, ma l’imprevisto c’è sempre e ci mise lo zampino un benzinaio che invece del pieno di benzina pensò bene (anzi non pensò affatto) di farne uno di diesel all’ auto di papà. Così  dopo aver lasciato le chiavi di casa ad un’amica per provvedere a Skip vero, che si fece volontariamente rapire e coccolare, inforcai la mia Kiki quattroruote e sconfinai in quel di Lombardia con papà, ripetendomi più volte di  guardare bene la strada  per non  distrarmi.  Beato il giorno in cui mi decisi di riprendere  a guidare!

Quel  verdetto di nove  anni fa  se da una parte ha aiutato a  comprendere i pregressi quarant’ anni di “forse, tentiamo, può darsi…”  e a ricomporre  la storia familiare di cuori indomiti, dall’ altra   ha innescato razionali meccanismi di autodifesa,  perché in certe circostanze  bisogna selezionare anche le paure per aggirare quelle più infondate   e prepararsi  a sbarcare sull’ unica riva possibile, cercando di cogliere gli approdi più dolci.

 

Talvolta le ore sembrano ritagli di eternità. Frastornata  la guardavo, stando  dietro una vetrata con i miei genitori, che d’un tratto mi apparvero carichi di tutti gli anni e delle  speranze riposte. Come noi anche  tanti altri sconosciuti, provenienti da ogni parte d’ Italia, in piedi e  in silenzio ad omaggiare la grandezza della scienza. Quanta solitudine  a volte si prova nelle proprie emozioni…

Abbassando lo sguardo sul marmetto di quel confine trasparente  vidi una figurella e poi altre, una distesa di figurelle, tutte allineate, tra le quali c’era anche un rosario in una scatoletta. Tributi di fede per gli intercessori di una grazia ricevuta, testimonianze di speranza. Parlavo mentalmente  all’ ignoto bambino del cuore e continuavo a pensare che avrebbe dovuto sempre custodire in vita  il proprio cuore e rincorrevo idealmente i suoi genitori, unicamente  grandi nella generosità di offrire nuove opportunità di vita. Non riuscivo e non riesco ad immaginare quel donatore se non col volto dei miei figli a dodici anni. La vita è strana: ruba e regala quando meno te l’aspetti. 

 

Quel cuore bambino ora palpita a nuovi compromessi, stillando in lei  tante  gocce, un flusso di vita, e lo penso spesso quando la osservo nei suoi  costanti progressi. Da qualche tempo si sta ambientando, batte più forte di un tamburo nella conquista di un nuovo ritmo per reclamare l’istinto alla vita. Quel cuore ha  rappresentato una svolta per scrostarci dalla zavorra di una vita intera. Per me è stato  quasi un nullaosta per  lasciare le  nostalgiche terre blu e rimettermi in gioco, tessere una nuova rete di interessi e di relazioni, perché ho finalmente potuto sentire il  bisogno di riappropriarmi dei miei desideri nella ricerca  del bello e del nuovo  in una città che mi affascina e mi  ha parlato sin dal primo momento. 

 

Tutto questo per confermare che l’Italia detiene un primato internazionale nel settore dei trapianti   e che alcune malattie sono diagnosticabili grazie ai  recenti progressi della ricerca sulla definizione degli aspetti diagnostici , decorso clinico della malattia e sviluppo  di nuove strategie terapeutiche. Pochi sono i ricercatori clinici che si occupano di malattie rare e collaborano intensamente a livello internazionale con centri di ricerca americani ed europei , nonostante i  limitati supporti finanziari. Convivere con malattie croniche per il  paziente e i suoi familiari significa fare i conti con un senso di imprevedibilità  e una mancanza di controllo sull’ignoto, induce a ripensare le priorità della vita  e a ristrutturare un nuovo ordine di  ruoli e valori. Impone una corazza  che scherma dalla leggerezza dell’essere, che sprona a cercare di vivere normalmente, per quanto possibile, e a trovare forza per trasmetterla e non fare perdere la speranza.

 

Accadono cose che sono come domande. Riemergono a tratti, poi ad un certo punto le zittisci per  guardare avanti. A volte le eccezioni fanno saltare andamenti lineari, fermano  il  tempo che per lei  si pensava scaduto e per lui che non avrebbe dovuto fermarsi in una staffetta ove punto di partenza e di arrivo coincidono nell’ineluttabile trionfo della fatalità che sconfigge ogni logica. L’unica certezza è una profonda riconoscenza  per coloro che hanno reso e rendono possibili i miracoli  con grande professionalità medica da una parte, ma soprattutto con un’ammirevole generosità dall’altra.

 

A quei genitori noi tutti  siamo vicini  e vogliamo esprimere la nostra gratitudine per averci consentito di adottare il loro cuore bambino  in una nuova vita.

 

 

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La porta rossa

 

La nuotatrice

Con questo post partecipo alla seconda edizione del Carnevale della Letteratura  ospitato da “Il Coniglio mannaro” di Spartaco Mencaroni che ha  proposto il tema

“ i luoghi di confine”.  

Buona lettura! :)

 

Le prime ore di luce l’hanno sempre attirata, e lei le ha sempre rincorse. A quindici anni aspettava l’alba e alle cinque usciva di casa di nascosto per raggiungere il lungomare e osservare  il mare piatto che iniziava a svegliarsi sulla riva. Le piaceva scoprire a grandi passi il cammino retto, dritto, vuoto e nudo del litorale che scorreva a est verso l’infinito nelle sfumature del giorno.

Bottiglie vuote e carte, rigurgiti serali dei vacanzieri, stavano rannicchiate sul muretto o nei pressi di cestini e la distraevano da quella devozione per il giorno.  

Zampanò scendeva dalla panchina e le andava incontro fuseggiando . Era un vecchio gatto, forse uno spiritello incarnatosi in un felino dalla zampa tesa, calcificatasi male, che gli dava un’ andatura inconfondibile anche da lontano . Un soprannome  ben calibrato  per un gatto dalla spiccata personalità, resistente e sornione  nella sua placida esistenza, circoscritta ai pitosfori del sottopasso, e garbatamente ruffiano  di fronte a prodighe offerte  di pappatoria. Dopo il quotidiano rituale di coccole e saluti, attraversava il lungomare e scendeva nello stabilimento sottostante, forse con la speranza di trovare una colazione degna del suo felino appetito.

Qualche raro  pescatore era già sulla scogliera con la lenza tesa in mare e il cappello ben calato sulla testa,  immobile, chissà se in meditazione o dormiveglia. Lei procedeva a passo svelto, ripercorreva il lungomare e rientrava a casa prima che i suoi si alzassero, finché  un giorno il padre le chiese , dissimulando male  l’innata preoccupazione per le misteriose uscite mattutine. “È troppo presto uscire alle cinque del mattino.” Con quali parole  poteva spiegargli che il mare la chiamava, che quella luce rosata l’attendeva e non si accontentava di scorgerla dalla terrazza di casa ma  aveva bisogno di ritrovarsi e dirsi buongiorno nel silenzio rasserenante del mattino.

 

A quindici anni la vita inizia a pulsare forte con tante, contrastanti emozioni che morsicano il cuore, con un carico di energia che ha bisogno di venire fuori per non implodere dentro. A quell’età l’intuizione prevale ancora  sulla logica, che sgomitola fili ingarbugliati, e  non riesce a trovare risposte opportune ai quesiti sempre più incalzanti, alle perplessità e ai timori del domani. Al cambiamento apparente  del corpo e della voce si sovrappongono l’inquietudine, il dubbio, un senso di inadeguatezza e  una  latente insicurezza  di fronte a un presente in cui bisogna ripensarsi per ripensare nuove e più confortanti certezze. Troppa confusione e nostalgia di àncore e del futuro, mai messe a fuoco in maniera nitida, chissà come  riescono a rendere   possibile il miracolo della crescita perché la miopia dell’adolescenza in fondo è il motore della vita, la spinta alla ricerca, alla scoperta di sé e del mondo.

Forse per questa primordiale e  naturale danza  emotiva  iniziò a riprendere il nuoto,  prima  su brevi distanze, che via via divennero sempre più lunghe. Iniziò ad allenarsi sistematicamente da sola e d’estate, per  scaricare e incanalare energie perché sentiva che era necessario per sentirsi meglio, ignorando che avrebbe gradualmente conquistato  il coraggio di vivere.

 

Aveva imparato a galleggiare da sola a tre anni, stando prona  laddove si infrange l’onda , battendo i piedi come facevano i grandi, bevendo e sputando quando metteva la testa sott’acqua e, incoraggiata dalle risa di mamma e zia, si destreggiava in quel gioco. Un giorno  un’onda più lunga la risucchiò verso il mare e allora batté i piedi più forte che poteva  e per istinto mosse le mani a cagnolino nel tentativo di non affondare   e si trovò un po’ distante dalla riva. Nel mare. D’un tratto si accorse  che sotto i piedini non c’era più  il fondale di pietre e sabbia e allo stesso tempo vide arrivare a grandi falcate la madre   che  prima, con ansia,  le disse che era tremenda, poi divertita la lodò per la sua bravura mentre la sorreggeva sotto  con mano ferma quando la stanchezza la lasciava lentamente decantare tra le braccia vellutate delle alghe.

Da allora imparò ben presto a sguazzare e ad allontanarsi dalla spiaggia in un periodo divertentissimo per lei,  ma  molto movimentato per i suoi genitori che non riuscivano a godersi un po’ di sole in santa pace . Stavano  in piedi sulla battigia cercando di non perderla di vista e si tranquillizzavano solo quando era in un gruppo di bambini più grandi e  più consapevoli  dei pericoli del mare. Aveva  acquisito una buona acquaticità, nuotava con estrema facilità sia in superficie che sott’acqua dove con naturalità tratteneva  il fiato per  rilasciarlo un po’ alla volta e allargava  quanto più poteva le braccia per avanzare  tra gli scogli , mentre le gambe scalciavano in fretta dando direzione e velocità. A cinque anni il senso dello stupore fa scoprire il mondo e di sicuro quello nascosto del mare era una tentazione troppo forte per la sua innata curiosità, finché non subentrarono le paure, come  la paura di una mostruosa  murena che poteva sbucare all’improvviso tra gli scogli, del pescecane che sfrecciava in superficie e che invece risultò essere un motoscafo e causa   di incubi ricorrenti, del dolore all’orecchio dovuto ad una lesione del timpano che si era provocata grazie alla sua incoscienza. Cominciò allora a solcare in superficie  il mondo visibile ed  esperibile delle onde.

 

“Facciamo a chi arriva prima all’orizzonte” disse un giorno  il cugino più grande a una schiera di bambini. Tutti corsero in acqua e iniziarono a nuotare in avanti, sbattendo a caso mani  e piedi sull’acqua in uno slancio di grida  e di schizzi. Lei era tra i più piccoli e non riusciva a farsi largo in quel caos di spruzzi e di gambe scalcianti, ma non desistette. Man mano che gli altri si allontanarono sollevando  acqua e risa, smise di avanzare come un  cane e  iniziò a nuotare sul serio, a stile libero con la  testa ben dritta in avanti, come le aveva insegnato il  papà. Dopo un’iniziale resistenza e fatica, imparò a sentire il respiro, a coordinarlo con il movimento degli  arti, questi ultimi veloci, sempre più  veloci, le davano slancio, le bracciate divennero più regolari e così procedeva, avanzava senza rendersi conto di allontanarsi sempre più dalla riva . Non poteva fermarsi , né voleva fermarsi  per non darla vinta ai grandi e guardava davanti a sé l’orizzonte, quel traguardo sottile dove sprofondava  il sole. Poteva farcela. Ogni tanto trovava qualcuno fermo che aveva desistito dalla gara, che a volte la incitava, a volte l’esortava a fermarsi.

L’orizzonte però si spostava sempre più, era irraggiungibile per quanti sforzi potesse fare. Stanca si fermò, ritrovandosi al largo; sentì il cugino che a metà percorso la chiamava dicendole di tornare indietro. Aveva il fiatone  e   si mise a “fare  il morto” a pancia in su per riposarsi e con le braccia ben aperte e appoggiate sul mare scrutò  quel cielo  che le parve più azzurro, luminoso e vicino del solito. Sentiva l’affanno del respiro che pian piano scemava, le onde che la cullavano dolcemente  in una ripresa di forze e di respiri più calmi. Provava anche una grande soddisfazione perché era arrivata più vicina all’orizzonte, a quel confine tra mare e cielo, e per un po’ le sembrò che il proprio corpo fosse una linea di demarcazione tra gli abissi  del mare e l’infinito del cielo.

 Quel suo piccolo sogno di gloria si infranse ben presto quando riconobbe la voce del cugino che la indicava a don Peppe che avanzava  con remate energiche e veloci. Dove andrà così di corsa? Iniziò a pensare al famigerato pescecane che popolava le sue paure infantili grazie ai racconti degli adulti  che in tal modo pensavano di frenare la sua vivacità. Poi si accorse che don Peppe si dirigeva verso di lei, seguito a nuoto dal cugino, e  capì che erano lì per lei. Non sapeva se avere paura o andargli incontro. Cominciò a pensare di avere sbagliato in qualcosa, ma in che? Aveva partecipato ad una  gara e l’aveva vinta. Don Peppe si accostò con cautela, le porse  una mano  nodosa e forte alla quale si aggrappò e che  la issò  sulla barca “ Si’ proprio ‘nu pesciolino. Ma nun t’allontanà chiù ch’’a passano e’ motoscaf” … “e anche i pescecani” , aggiunse lei , memore delle raccomandazioni dei suoi. A riva trovò sua zia preoccupata  e sua madre sul piede di guerra. Le bastò guardare  i loro occhi per capire che l’aveva combinata grossa, e che questa sua bravata non sarebbe passata impunita. A sette anni però che si può capire dei pericoli del mare, se non che è popolato da murene  dai denti avvelenati e da famelici squali? In compenso anche gli altri cugini ebbero una bella ramanzina perché l’avevano istigata a sfidare chissà quali nefandezze  nel regno di Nettuno, invece di proteggerla.

 

Insomma da quel dì le fu consentito di fare bagni al mare, ma solo a tempo. Sì a tempo, non più un solo interminabile bagno che durava quanto tutta la permanenza in spiaggia. Il tempo era scandito dalla comparsa di  rughe che arricciavano i polpastrelli  e dal colore viola delle labbra , segnali di immediata e improcrastinabile risalita a riva, altrimenti  doveva subire  la mortificazione di essere prelevata a forza dalla madre, affronto insopportabile per uno spiritello libero. Sulla spiaggia aveva comunque  sempre qualcosa da fare, soprattutto cercare legnetti e pietrine colorate sotto i piloni dello stabilimento, provocando strenue contrattazioni, ora persuasive, ora minacciose, di mamma e zia perché ricomparisse  tra i più comuni  mortali  e smettesse di  giocare al minatore. Decorava con pietre e sabbia sgocciolata a mo’ di glassa immaginarie e  appetitose torte, con sassolini, pietre pomice e legnetti  i torrioni di un castello di sabbia circondato da un profondo fossato, nel quale si calava fino a  mezzo busto attirando l’attenzione di molti bambini della spiaggia e il disappunto del bagnino perché quella voragine poteva fare inciampare qualche distratto vacanziero del week end. Ma prova a “di’ a ‘o mar e sta’ quiet” ( prova a dire al mare di stare quieto). Era un’ondina selvatica. Era tutt’ uno col mare e  viveva con estrema naturalezza il  ritorno al liquido amniotico di sua madre e lo slancio verso l’ignoto con  l’intraprendenza di suo padre.

Carol Bennet

 

A quindici anni però  il mondo si capovolge. Il mare la iniziò a chiamare con una voce lusinghiera ma indecifrabile. Quell’orizzonte evocava il mistero della conoscenza  e  un timore reverenziale, seduceva la sua fantasia verso mondi lontani e civiltà remote, divenne la metafora della vita e dell’umana gente. Suscitava in lei  la malía dell’ignoto, il forte richiamo dei popoli sconosciuti di ogni tempo e luogo, il sudore e la nostalgia  di generazioni di naviganti e di emigranti.

La paura dei mutamenti della crescita, che trasformava il suo corpo e le rubava la spensieratezza, non ostacolò la sopita passione infantile.

Al mattino abbracciava il mare, madre e padre insieme, e con lunghe nuotate lo domava, esiliava  ogni dubbio e inquietudine, reclamando la dose quotidiana  di vitalità e di adrenalina per sedurre la speranza e il futuro. Quasi per gioco iniziò ad allenarsi per sfidare il mare,  ma in realtà sfidava   se stessa in una gara di resistenza, per caricarsi di volontà di potenza e sentirsi viva. Un allenamento gratificante, un modo inconsapevole per temprare anima e corpo con la forza concentrata  nella bracciata cadenzata e coordinata al respiro e alla battuta dei piedi, capace di  accelerare in sforzi graduali e a decelerare con rinunce e battute d’arresto altrettanto graduali. Solcava il mare come una freccia scagliata prima in lontananza e poi in parallelo  alla riva. Guardava i fondali e la costa, senza mai perdere di vista le boe che le davano il riferimento della distanza ma, soprattutto  quando nuotava verso est, volgeva il viso verso l’orizzonte, muta presenza in quel rituale di iniziazione.

Nuotare su lunghe distanze era per lei conoscenza dei propri limiti e potenzialità, valutazione dei rischi e regolazione delle forze, estenuante modellamento del corpo e della tenacia ,capacità di orientarsi con il sole e con la mente, di tagliare l’onda controcorrente, di esplorare silenzi, di ascoltare e di ascoltarsi, di fantasticare.  Quando iniziò la moda dei windsurf si tenne più vicina alla costa. Nuotare in stato di allerta era ancora più  faticoso, rischiava di  compromettere  il piacere del nuoto e di cedere all’insicurezza del pericolo che in ogni contesto frena entusiasmi e crea attriti.

 

A venti anni si accorse  che il mondo aspettava un suo qualsiasi  contributo ma l’umanità non era  come credeva, e ne era diffidente, se non ostile, era  troppo impegnata a respirare rabbia e desiderio, a condannarsi e ad assolversi, a ricreare un  nuovo ordine ed  equilibrio, a cercare  armonia, bellezza e  conferme da un dio qualunque e dalla sorte, a inseguire orizzonti, speranze e sogni, a oltrepassare confini  per definirne altri, a scoprire quella  semplice legge che “niente si distrugge, ma tutto si trasforma” nel mare di dentro.

“Quando crederai  in te stessa, non ti fermerà più nessuno”. Era l’indelebile e indigesta  sentenza di   un maestro di vita, uno di quelli che compare quando meno te l’aspetti e poi ti tradisce scomparendo troppo presto nell’ aldilà.

“Andiamo, te la senti?”  disse una mattina suo padre. “Tu vai fin dove vuoi, io ti seguo camminando sulla spiaggia e sul lungomare. Fermati quando sei stanca”. Sua madre stava per intervenire con la solita ansia protettiva , ma poi guardò il marito e tacque.

 Lei non capiva dove volesse andare a parare suo padre, come in fondo lei stessa.

 

Alle sette di mattina il mare palpitava  ancora con  il calmo respiro della notte e  a stento le onde  brucavano la riva. Si avvicinò pian piano a quel dio imprevedibile, si bagnò lentamente per ambientarsi nelle fresche lenzuola marine, scrutò a est l’aureola del giorno, sciolse un po’ i polsi e le caviglie mentre  valutava la traiettoria da seguire, e partì. Prima lentamente, poi  con  il proprio ritmo,  abbracciò ininterrottamente per circa tre chilometri quel suo mare con una padronanza, una libertà e un’euforia mai provate.

 Circa trent’anni dopo qualcuno ha detto che “Il nuoto è come la musica, non si vede ma si sente.”

Ed è vero.

Eric Zener

 

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Il mare

Tutti al mare(seconda parte)

Tutti al mare (seconda parte)

Forse questo articolo aiuta a capire la mia insofferenza per l’affollamento estivo , comunque bisogna pur guadagnarsi le indulgenze e imparare a sopportare e inoltre anch’io sono stata una madre costretta a rincorrere il proprio figlio pestifero sulla spiaggia visto che si buttava in acqua pur non sapendo nuotare. Degno figlio di sua madre!

Premetto inoltre  che io e i miei cugini eravamo ben felici di sottoporci all’estivo addestramento spartano…quasi para militare.

puolo

 

Ogni anno torno alla “mia” spiaggia,a quel che resta di quella spiaggia perché lì è sorto un elitario stabilimento balneare con un comodo solarium frequentato da opulenti clienti ipergriffati, quelli che ostentano status symbol, strilli e un presunto esprìt de finesse . Ormai non è più prudente nuotare da una baia all’altra a causa dei motoscafi che sfrecciano di continuo lasciando puzzolenti scie di nafta. Non  ci sono più i vecchi pescatori, non ci sono tante stelle marine ma solo conchiglie e qualche granchietto , non ho più il coraggio di addentrarmi nelle grotte marine e di mangiare frutti di mare crudi appena pescati, ma  ogni volta che torno lì , penso a quanto sono stata fortunata .
Quando trascorrevo le vacanze estive a casa di mia nonna a Sorrento, desiderate per tutto l’anno perché ritornavo alle mie radici e ai miei affetti, andavo al mare con zii, zie e cugini. Arrivati a piedi ad un paese di pescatori che sorgeva sul mare, gli adulti prendevano una barca a remi sulla quale caricavano borse e bottiglie di acqua e noi bambini, sei cuginetti molto affiatati , dai 6 agli 8 anni, seguivamo la barca a nuoto per arrivare a una splendida baia, conosciuta da pochi. Lì c’era un mare caraibico con acque cristalline solcate soltanto da barche a remi di pescatori. Questi ci conoscevano, ci soccorrevano quando ci facevamo male, ci riportavano a riva se eravamo stanchi o in difficoltà . Era la “nostra” spiaggia fatta di sabbia e scogli dove  ci raggiungevano a nuoto o in barca gli amici e dove siamo cresciuti insieme per molte estati.

dal web

dal web

Da bambini, ci divertivamo a esplorare grotte e a giocare nelle sorgenti di acqua sulfurea ( insomma facevamo una sorta di idromassaggio naturale!), a raccogliere stelle marine, conchiglie, a mangiare ricci di mare e patelle, senza timore di prendere l’epatite, a correre sugli scogli, a fare torte e castelli con la sabbia nera decorandoli con le pietrine colorate. Più tardi imparammo a costruire il vulcano cimentandoci per ore nello scavare pian piano il camino , facendo attenzione a non fare franare le pendici …e ci sentivamo soddisfatti quando alla fine di lunghe discussioni raramente pacifiche, per portare a termine il nostro Vesuvio in miniatura, riuscivamo ad accendere la carta sotto e a farlo fumare.
I nostri tatuaggi permanenti erano graffi e tagli sui piedi e sulle gambe, talvolta spine di ricci,  ma non piangevamo mai troppo perché sapevamo che se ci fossimo lamentati, saremmo tornati prima a casa . In compenso però, tornati a casa, la sola vista dell’ago bruciato, che serviva ad estrarre le spine dei ricci, bastava a farci improvvisare sceneggiate esagerate, per avere anche due coccole in più, e a turno ci confortavamo dicendoci che non era nulla , ben sapendo che prima o poi sarebbe toccato ad ognuno di noi perché tanto avremmo continuato a disubbidire ai grandi pur di scappare a giocare tra gli scogli.
Stavamo al mare per 5- 6 ore, anche perché andavamo in una spiaggia isolata e lontana dal paese e facevamo un solo bagno cha durava quanto la permanenza in spiaggia! Non avevamo mai fame perchè eravamo troppo indaffarati a scorrazzare liberi, per cui pranzavamo a casa al ritorno. Per tornare a casa dovevamo nuotare di nuovo fino al paese dei pescatori e poi fare circa un chilometro in salita sotto il sole del primo pomeriggio per raggiungere le auto parcheggiate all’ombra degli ulivi. Due miei cugini ambivano ad arrivare per primi e correvano avanti prendendo in giro me e le mie cugine che, preferivamo non replicare e camminare in silenzio ascoltando il frinire delle cicale. Un contadino ci aspettava in cima alla salita per offrirci un po’ di granita al limone.

 capo di sorrento

In quella spiaggia abbiamo trascorso anche le estati della nostra adolescenza: eravamo sempre più numerosi,a volte una quarantina tra ragazzi e ragazze .Ci conoscevamo tutti e giocavamo a pallanuoto e a pallavolo, facevamo gare di tuffi e di nuoto, senza distinzione tra maschi e femmine. Tutto  però diviene e muta, così finì la pace quando la spiaggia fu scoperta anche dai vacanzieri domenicali, amanti degli strilli e delle radio, quelli che sbarcavano dagli yacht con gli ombrelloni con la tenda intorno , simile a quelle dei beduini del deserto.Sorsero ben presto problemi di convivenza dal giorno in cui accidentalmente un pallone finì in un piatto di pasta e lenticchie che una mater matronissima reggeva inseguendo per tutta la spiaggia il piccolo destinatario che, ignudo, scappava di qua e di là per sottrarsi all’imboccamento forzato.

 Intanto la cava di pietra dietro la spiaggia fu venduta e quando iniziarono i lavori per lo sfruttamento turistico di quella zona, noi iniziammo ad emigrare. Io lo ero già da molti anni. Lo studio e il lavoro ci divisero: ognuno di noi ha poi preso la sua strada, ma d’estate ritorniamo alle nostre radici ed è sempre bello ritrovarsi lì coi propri figli, coniugi o compagni e continuare a ridere e a divertirci. Anche se la vita ci ha cambiati, i ricordi di quelle estati spensierate ci uniscono ancora e ci fanno recuperare con un po’ di nostalgia un senso di appartenenza.

Tutti al mare (prima parte)

Come è bello andare al mare!  Cercare di sdraiarsi al sole recuperando qualche centimetro di spiaggia in modo da non sentire l’odore degli abbronzanti e del sudore dei vicini ma, come sempre, non appena ho finito tutte le operazioni d’assetto da spiaggia,cioè la  sistemazione del telo da spiaggia e del libro o del quotidiano che leggo solo se la giornata non è ventosa, spalmatura dell’ olio ultraprotettivo che tanto non mi risparmia la scottatura di routine, attivazione del cellulare qualora decida di essere reperibile, arriva qualcuno che si piazza ai miei piedi. È il solito seguace dell’ aggregazionismo da luogo pubblico o aperto al pubblico . Questa è una sindrome che si manifesta in tutti i luoghi, aperti o chiusi, in cui si debba prendere posto: nei treni, nei cinema, su un prato, su una spiaggia. Non colpisce mai i primi arrivati, quelli veramente liberi che decidono di sedersi dove meglio credono, ma perlopiù i secondi arrivati e poi tutti gli altri, cioè quelli che, dopo vari tentennamenti, tendono sempre a sedersi nei pressi di chi li ha preceduti. Poiché mi pare brutto stare stesa al sole e dare i piedi in faccia a qualcuno, faccio una rotazione così se tutti sono allineati con la testa a nord e i piedi a sud, io ho una posizione divergente, da nord-ovest a sud –est.

 Poi cerco di concentrarmi sulla lettura. Di recente, grazie all’avanzare precoce di non so che per cui leggo automaticamente senza capire, ho scoperto che riesco a seguire di più la trama di un bel romanzo avvincente che a leggere un settimanale femminile che dovrei cercare di decodificare di continuo per i numerosi inglesismi  ma mi compiaccio che il livello medio culturale delle lettrici italiane sia in ascesa. Infatti ho l’impressione che le donne italiane stiano diventando “globalmente poliglotte”-ma forse sarebbe più corretto dire polliglotte ( linguaggio dei gallinacei e tipicamente femminile) .

Ad un certo punto desisto dalla lettura perché qualche mater matronissima inizia a sfoggiare con varie tonalità di voce il solito repertorio di raccomandazioni e  “ indicazioni educative da spiaggia pronte all’uso”, inefficaci dai tempi del nautilus ( provare per credere :) ).Quindi mi sforzo di rilassarmi in una sorta di training autogeno, durante il quale invece di ripetere mentalmente  “pensa al tuo corpo, estraniati da esso…” ripeto “ pensa ai fatti tuoi, che sono già abbastanza…”.

Poiché la curiosità è femmina, riesco sempre a captare qualche battibecco tra moglie e marito vacanzieri e mi auto discolpo dicendomi che può essere sempre utile la comprensione dei vari dialetti regionali . Gli argomenti più discussi riguardano le spese, il menu di mezzogiorno, il programma delle  vacanze e il carattere del coniuge.

 

Quando ormai la mia pelle fuma, inizio a osservare il mare per vedere se c’è almeno un metro quadrato libero per una piccola immersione. Di solito aspetto l’esodo delle 12.30. L’orologio biologico non perdona…mai! Allora assisto a  un repentino fuggi – fuggi di padri che smontano l’accampamento da bagnanti super attrezzati (ombrelloni, sedie, lettini, canotti , salvagenti) e di madri che raccolgono secchielli e palette, teli da spiaggia, ciabatte, maschere per poi svestire e rivestire bambini che piangono o scappano. Dopo queste frenetiche attività che durano almeno venti minuti, i vari nuclei familiari, finalmente ricomposti, sciamano sul lungomare per andare a rifocillarsi.

La spiaggia è più libera e posso osservare con calma la discesa dei bagnanti del secondo turno, cioè degli amanti della tintarella. Arrivano in gruppo o da soli: si spalmano per almeno mezz’ora con creme che emanano effluvi fino a  tre chilometri  di distanza e sanno resistere fermi al sole per ore, immobili come lucertole .Quando qualcuno inizia ad accendere la radio o a fumare, da buona discendente di Moby Dick, decido di andarmene a nuotare. È il momento più opportuno: mare – si spera – pulito, e sgombro da pedalò, canotti e da quelle signore che piuttosto si ustionano il cuoio capelluto ma non si bagnano mai i capelli e guai, se per caso, un po’ d’acqua osi sfiorare la loro messa in piega. Di solito quando risalgo a riva, provo a spostarmi in modo da non avere segnali di fumo nella mia direzione, decisa a prendere un po’ di sole finchè qualcuno nei paraggi comincia a parlare a voce alta dei fatti propri, di un lui o una lei di turno. Secondo me stare sdraiati sulla spiaggia induce le persone a rilassarsi e a comunicare, a fare una sorta di autoanalisi: è come se stessero su un lettino di uno psicanalista e via…vita morte e miracoli, storie di conquiste, tradimenti, sofferenze, riappacificazioni narrate a ruota libera, il tutto intervallato da una miriade di riferimenti a telefonate e conversazioni private o non. Altro che Beautiful !

Allora non mi resta altro da fare che una bella passeggiata fino alla doccia, di modo che al ritorno sposto nuovamente il telo.

 

Nonostante tutto continuo ad andare al mare, a lucertolare come tutti e mi consolo pensando che “la pazienza è la virtù dei forti” invece di ammettere che ho un’ incipiente forma di intolleranza estiva per quei rituali comuni a tanti, me compresa, tipici della fauna di qualsiasi spiaggia .

 

La dama bianca

Mi piace esplorare con lo sguardo le grandi città che si raccontano nella solenne vastità delle piazze, nei monumenti solitari, sui portali di antiche  chiese, tra gli  sconfinati viali alberati  e gli  zampilli iridati delle fontane, e scrutare  con il naso all’insù le finestre, i balconi, i tetti di imponenti palazzi, muti testimoni di storia vissuta. In città  mi sento anonimamente libera di osservare con discrezione le  tante persone che incrocio per strada, sui mezzi pubblici o nelle stazioni affollate. Genova è una città particolarmente austera e poco caotica, a differenza di altre che stordiscono, e qualche tempo fa  ho avuto l’occasione di riscoprirla a tratti,  tra una corsa e l’altra.

 

 Unico imprevisto dell’afosa giornata è stata la coda alla biglietteria della stazione ferroviaria per cui ho  dovuto rinunciare all’ Intercity del ritorno. Il successivo era previsto dopo circa quattro ore, quindi non mi  restava altro da fare che prendere un treno regionale. Rassegnata al supplizio che mi attendeva,  mi sono seduta nella sala d’aspetto per riposare le zampe e finire di leggere il quotidiano, ingannando così l’attesa.

 

Ad un tratto ho intravisto una sagoma bianca e ho alzato gli occhi.

Fiera, ostentava un abitino bianco, che scopriva il ginocchio. Le bretelle erano fermate ai lati da due passanti dorati e sandali pitonati, con tacchi troppo alti e a spillo, slanciavano polpacci nervosi. Ha sfilato per un paio di volte avanti e indietro, come in passerella, conscia di non passare inosservata a causa del vestito aderente e trasparente. Dava l’impressione di aspettare un qualcuno che non c’era. Si è seduta ad un tavolino del bar, ha accavallato le gambe con spudorata disinvoltura mentre fumava  una sigaretta. Il rossetto acceso contrastava coi lunghi capelli rossi e grandi occhiali neri a maschera coprivano il volto, senza riuscire a  celare i segni dell’età  nelle pieghe laterali della bocca. Poi si è alzata. Indomita e inarrendevole ha aspettato a lungo, guardandosi intorno e continuando a volteggiare nei pressi del tabellone degli orari,  tra comitive di ragazzi con gli zaini in spalla e famiglie in partenza per le vacanze. Infine è andata via.

 

Dopo poco ho raggiunto con mia figlia il binario sotterraneo per prendere il treno che ci avrebbe riportate a casa. Lì sotto si incanalava una corrente d’aria fresca che faceva quasi rabbrividire. Un continuo via vai di turisti  con trolley voluminosi, stanchi pendolari, donne accaldate con bambini irrequieti al seguito  mi hanno distratta.

Per terra spiccava la macchia bianca. Era di nuovo lei. Stava rannicchiata, in modo composto, sulla borsa. L’appariscente e provocante dama ultrasessantenne non aveva più l’aria spavalda di prima. Sembrava delusa, quasi restia a mostrarsi. D’un tratto  mi appariva fragile nella sua sfida contro quel tempo in cui la natura reclama il suo dazio e cessa la stagione del bell’ apparire a ogni costo. In quell’angolo c’era una donna ridimensionata dalla sua solitudine, immobile nella sua inutile attesa, muta nel rumore circostante. Non dominava più un immaginario palcoscenico ma, assorta nei suoi pensieri, delusa pareva che lo stesse osservando da lontano.

La malinconia, confermata da movenze più naturali e discrete,  le restituiva la bellezza dei suoi anni.

 

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Don Liunàrd

Signorina, le prescrivo un po’ di essenza mascolina , vita natural durante. Vedrà che guarirà presto !

Riflessioni ironiche e  un po’ provocatorie per donne e uomini di spirito  perchè l’uomo può essere  una medicina naturale per alleviare ogni male, fisico, psichico o psicosomatico e dare significato e brìo alla vita. Un post leggero per la prima edizione del   Carnevale della Letteratura .

 Essere uomo è un mestiere difficile. E soltanto pochi ce la fanno (Ernest Hemingway).

 Composizione. Istinto, impulsività, forza fisica, autocompiacenza, essenzialità, razionalità incanalata in  un pensiero fisso dominante perché l’uomo ama al servizio di un bisogno, più che al servizio di un’idea. Può essere sentimentale ma ama sempre due donne: l’una creata dalla sua immaginazione, l’altra deve ancora nascere (Kahlil Gibran) per cui è una creatura quanto mai “strana”: insaziabile, sempre inappagato, irrequieto, mai in pace con Dio o con se stesso, di giorno tende senza posa a varie mete, di notte si abbandona ai desideri (Jack London).

  Forma farmaceutica e contenuto. Durante l’infanzia si sente una reuccio in trono…memore del morbido e rassicurante   air bag anteriore di mammà che indelebilmente ha  tatuato in lui un imprinting che cercherà di rievocare per tutta la vita in ogni altra creatura  femminile; in età adolescenziale si sente padrone del mondo e inizia muovere i primi passi nell’attraente ma sconosciuto mondo femminile; nella giovinezza, si destreggia in educativi testi sull’anatomia femminile per elaborare mentalmente l’ideale femminino che di solito può vantare una quinta di air bag (sempre per il famoso imprinting materno) e che, il più delle volte, non troverà riscontro tra le comuni mortali che faranno palpitare il suo cuore con il rischio di generare  in lui disorientamento, sogni repressi e frustrazione latente;  dai 30 ai 40 anni  si lancia a capofitto in conquiste sentimentali e professionali. Abbraccia una sola fede, quella della sacrosanta carriera convinto che l’uomo è innanzitutto un lavoratore; dai 50 ai 60 anni fa un bilancio: provvede a sistemare i figli perché decollino nella vita, alla compravendita di immobili e alla donazione degli stessi  a favore di qualche sensuale tigrotta del piacere, ben addestrata e a comando, che lo faccia ringiovanire e lo rinfreschi durante le scorribande extramatrimoniali, finchè si accorgerà che in fondo al cuore certe donne pensano che compito dell’uomo è guadagnare soldi, e compito loro è spenderli ; oltre i 60 anni in poi forse  inizia a riflettere con calma,( la maggior parte solo quando resta privo di viagra), si volta indietro, percepisce il fluire del tempo, gli affetti dati e ricevuti e  si arrende alla scoperta del piacere delle piccole cose. 

 Categoria farmacoterapeutica. L’uomo è nato per vivere, non per imparare a vivere (Kahlil Gibran) e forse alla teoria preferisce la pratica. Una donna conosce la faccia dell’uomo che ama, come il marinaio conosce il mare aperto (Honorè de Balzac).

L’uomo consiste in due parti, la sua mente e il suo corpo. Solo che il corpo si diverte di più (Woody Allen). L’uomo è il computer più straordinario di tutti (John Fitzgerald Kennedy), ma è superiore alle macchine perchè sa vendersi da solo.

Teme la noia per cui le due sue i invenzioni più grandi sono il letto e la bomba atomica:il primo lo tiene lontano dalle noie, la seconda le elimina (Charles Bukowski).

Fate felice il vostro Lui, in ogni fase della vita! In fondo Un tavolo, una sedia, un cesto di frutta e un violino; di cos’altro necessita un uomo per esser felice? (Albert Einstein).

 ( Lascio alla vostra immaginazione la reazione del mio consorte  :D)

 Produttore e controllore finale.  Dio creò l’uomo quando era già stanco e perché era deluso dalla scimmia (Mark Twain).Ma l’uomo ha ceduto generosamente  una costola per generare la donna, quindi siate riconoscenti …anche perché così ha garantito la sopravvivenza della specie. Ci vogliono vent’anni a una donna per fare del proprio figlio un uomo, e venti minuti a un’altra donna per farlo suo. Comunque è quasi sempre in balia di donne, volente o nolente, e la donna  sarà forse l’ultimo animale che riuscirà ad addomesticare. Come mogli, rassicuratelo dicendogli che lui è il capo della famiglia ( tacendo che voi siete il collo che muove il capo dove vuole) e come genitrici sarebbe ora di abdicare all’ italico orgoglio di mammà (vedrò poi io che farò a tempo debito :) ) per fare sì che conquisti un buon grado di autonomia.

 Indicazioni terapeutiche. Ha grandi proprietà  antiossidanti e antidepressive. Ottimo corroborante  per  ogni sorta di sfida. Non c’è nulla come una sfida che faccia uscire ciò che  di meglio c’è in un uomo (Sean Connery) perciò minore trasparenza ed accessibilità  da parte della donna forse non guasterebbe.

L’uomo energico e  di successo è tale, perché grazie al  lavoro, riesce a trasformare in realtà le sue fantasie di desiderio (Sigmund Freud), a differenza della donna che rimugina e si ripiega su se stessa. La donna può esser un utile coadiuvante per il suo successo perché “Dietro ogni uomo di successo c’è una donna .” Questo finchè c’è sintonia…in caso contrario, si rischia di precipitare  dalle stelle alle stalle.

L’uomo trova sempre una soluzione ad ogni problema, perché ne affronta uno alla volta; ha grandi capacità di sintesi e va in tilt se la donna, come suo solito, inizia a fare analisi dispersive anche se a più ampio raggio, con grande coinvolgimento emotivo che produce disorientamento. Inoltre  è pratico ed essenziale: in media Lui  ha sei oggetti nel bagno cioè uno spazzolino, un dentifricio, una schiuma da barba, un rasoio, una saponetta e un asciugamani. Le donne ne hanno circa trecento  che invadono il bagno e che  agli occhi di un uomo sono semplicemente misteriosi oggetti non identificati.

Lenitivo di ogni stato febbrile o depressivo è il gentleman, ma è molto più facile essere un eroe che un galantuomo: eroi si può esser ogni tanto, galantuomini sempre (Pirandello)

Controindicazioni. L’uomo sa divertire, divertirsi e sdrammatizzare; varia solo la sua volontà di condividere l’innato istinto goliardico. Raddrizzate e orientate bene le antenne verso  quelli che non sorridono mai, sono troppo cinici, muti e insensibili : son scogli che non fanno patelle. Scappate il più lontano possibile! A meno che non abbiate la vocazione al martirio. Spesso la presunzione è la miglior corazza maschile ma l’uomo presuntuoso è come una frazione il cui numeratore è quello che è, e il cui denominatore quello che pensa di sé. Più grande è il denominatore, minore la frazione. (Lev Tolstoj).

Non infierite troppo sullo scapolo incallito: è un uomo (terrorizzato) che ha tratto conclusioni dalle esperienze altrui (Peter Ustinov).

 Precauzioni per l’uso. La donna più stupida può manovrare un uomo intelligente, ma ci vuole una donna molto intelligente per manovrare uno stupido (Rudyard Kipling) e l’attrazione degli opposti è una legge naturale che nessuna logica umana  ha ancora debellato. Talvolta le svenevolezze ed eccessivi sentimentalismi  possono suscitare l’effetto contrario: forse imparare a  ragionare con la sua testa e il suo cuore è una buona strategia di conquista, se ci tenete…altrimenti procedete per la vostra strada. Se per alcuni uomini la donna è la bella carrozzeria di un’auto (comunque necessaria), l’uomo per la donna è un optional: se c’è, viaggia più comoda e sicura, altrimenti… viaggia lo stesso.

Una donna può stringere legami d’amicizia con un uomo , ma per mantenerla è necessario il  concorso d’una leggera avversione fisica (Nietzsche) e per Oscar Wilde  vi può essere passione, ostilità, adorazione, amore..ma non amicizia (  reciproca?).

 Interazioni. Pare che niente sia più terribile per una donna che l’infedeltà del proprio uomo però a qualunque donna piacerebbe esser fedele. Difficile trovare l’uomo cui esserlo (Marlene Dietrich) anche perchè  lui fatica a condividere la sua moralità sessuale con la donna ideale della sua vita…quindi preferisce assegnare a più donne  ruoli diversi.“La donna ideale deve soddisfare l’anima, lo spirito, i sensi. Non trovando riuniti i tre requisiti nella stessa persona, all’uomo è consentito il frazionamento.” Un proverbio cinese infatti dice che l’uomo ha bisogno  di tre donne per esser felice: una donna che lo accudisca, ( moglie- surrogato di mammà) , una per il piacere e una da amare.

 L’uomo ideale, perchè una donna sia felice, dovrebbe sobbarcarsi con la dolce metà gli oneri casa-famiglia ( così la donna potrebbe dedicargli anche più tempo ), svolgere un lavoro  gratificante e ben remunerato e amare i piaceri della vita ( da condividere possibilmente con la lei ufficiale). La donna cerca con fiducia queste doti in un solo uomo, e solo se delusa ripiega su tre uomini, sperando che non si conoscano mai.

Una donna sposa un uomo sperando che cambi, e lui non cambierà. Un uomo sposa una donna sperando che non cambi, e lei, nunc et semper et  in saecula saeculorum, inevitabilmente cambierà, perché è una specie in continua evoluzione. Lui ambisce ad essere il primo amore di una donna, a differenza di lei cui  piace essere l’ultimo amore di un uomo.

 Se una donna si preoccupa del futuro finchè non trova l’Uomo, l’uomo non si preoccupa mai del futuro finchè non trova una moglie.

Avvertenze speciali. Per l’uomo sano basta la donna. Per l’uomo erotico basta la calza per giungere alla donna. Per l’uomo fetishente   basta la calza. La donna per l’uomo è uno scopo, l’uomo per la donna è un mezzo ( a qualsiasi età). Ricordare bene che se il coito è soprattutto affare dell’uomo, la gravidanza invece solo della donna (Arthur Schopenauer) anche se L’Homo Italicus ha ben interiorizzato il detto “i figli so’ piezz e’ cor” … ma tra il dire e il fare c’è di mezzo un mare di contraddizioni.

Attenzione ( allarme rosso)! Se Lui fatica a memorizzare il vostro nome di battesimo e ricorre a diminutivi …è una strategia valida con tutte! E se accade talvolta che una donna nasconda a un uomo tutta la passione,  dal canto suo, lui finge per lei tutta la passione che non sente ( Jean de La Bruvère).

 Dose, modo e tempi di somministrazione. Dose da variare a seconda della necessità considerando che  “L’uomo crede di possedere la donna quando la possiede sessualmente, mai la possiede meno di allora.” (Carl Gustav Jung) perché “ l’uomo ama poco e spesso, la donna molto e raramente.” È illegale possederne più di uno in forma ufficiale…non esiste ancora par condicio nella vocazione all’harem, forse perchè la donna non vi ambisce.

Sovradosaggio. Un uso eccessivo e  non corretto può provocare intossicazione, delusione e, a lungo andare, effetti devastanti.  Un uomo labirintico non cerca mai la verità, ma sempre e soltanto Arianna (Albert Camus). L’uomo teme una donna che l’ama troppo (Berthold Brecht) o troppo sottomessa. In caso di frequenti innamoramenti, si rischiano dipendenza e assuefazione .La donna riesce a vivere senza un uomo… ma vive male, perché sa che senza un Uomo non si può aver vissuto. Ricordarsi che una donna si risposa perché detestava il primo marito. Quando un uomo si risposa è perché adorava la prima moglie. Le donne tentano la sorte, gli uomini la rischiano (Oscar Wilde)

Effetti indesiderati. L’immoralità dell’uomo trionfa sull’amoralità della donna, checchè si dica… e l’erotismo dell’uomo è la sessualità della donna (Karl Kraus) .

 L’uomo sa essere generoso e disinteressato…non siate prevenute. Di solito la donna  critica un uomo che paga 5 € per un oggetto che ne vale 2 (ma lo vuole), e non pensa a quante volte ha pagato 2 € per un oggetto che sì ne valeva 5, ma che non voleva o non  serviva.

La donna ambisce ad avere l’ultima parola in ogni discussione e qualsiasi altra cosa un uomo dica è l’inizio di una nuova discussione. A lungo andare qualche porta sbatterà e qualche valigia volerà giù dalla finestra…di uno dei due. Nei momenti di maggior tensione, il silenzio vale più di mille parole.

Un uomo di successo è colui che guadagna più di quanto sua moglie sia in grado di spendere. Una donna di successo è quella che trova quest’uomo (anche per vie traverse?)

Scadenza e conservazione. “Se un uomo ha molte stagioni, la  donna ha diritto solo alla primavera.”( Jane Fonda). L’uomo fatica a invecchiare: lo è solo quando i rimpianti prendono il posto dei sogni. Uomo e donna si incontrano a metà del cammin di nostra vita…quando lei ha acquisito un po’ di esperienza e lui, che nasce già semi- imparato, inizia  a rallentare nella corsa. Ognuno ha tempi e ritmi diversi…il difficile è riuscire a sincronizzarli.

Si consiglia di tener lontano dalla portata di mammà possessive ad oltranza, di donne azzeccosamente  affette da parassitismo e pericolosamente vendicative  e da chi sfrutta l’uomo approfittando dei suoi buoni sentimenti.

 

In nome del padre

Con questo post partecipo alla prima edizione del Carnevale della Letteratura, ospitato da il Gloglottatore . 

La sera,velata da nubi di zucchero filato, cala lentamente con  sfumature violacee. Una a una si accendono le luci nei profili sempre più scuri  rivelando l’intimità inviolata di case e cuori. Il silenzio induce al riposo in un ritaglio finale di tempo che ammortizza gli affanni della giornata. Un cane si accuccia vicino al padrone, un gatto si raggomitola sul cuscino della sedia, un bambino si copre il viso con il lenzuolo e aspetta che qualcuno rimbocchi le coperte.

Io sono qui, custode di anime e testimone di eterna bellezza, appollaiato nelle preghiere ricorrenti, chiamato a vegliare sogni, silenzi, a volte lacrime in  quei momenti in cui si smarrisce ogni ruolo, ogni difensiva, ogni riflesso  specchiato del sè per cogliersi in un attimo di spudorata autenticità.

 

“Amore  mio , dormi, chiudi gli occhi e dormi.”

“Ho paura, resta qui. “

“Non sei solo, io sono vicina a te e , se non ci sono, c’è sempre un angelo custode vicino a ogni bambino, anche vicino a te.”

La luce degli occhi di mia madre e la dolcezza del suo sorriso sono sempre stati con me, mi hanno dato la certezza di un amore viscerale, senza riserve e aspettative. Oggi il suo viso mi appare ricamato dai segni della stanchezza e negli occhi vedo diluite le indelebili orme della solitudine. La vita a volte è ingiusta. In me ha trovato più di una ragione per guardare avanti e  investire ogni  risorsa interiore con  tutto l’amore possibile. Mamma, sarò sempre con te.

Queste luci mi danno fastidio. Che casino ho combinato, non dovevo, non dovevo per lei. Un altro dolore insopportabile, un’altra preoccupazione, come se non bastassero le altre. Mamma, perdonami…

Quegli  schiaffi mi bruciano ancora. Li hai presi per colpa mia. Lo ammazzo. A volte mi chiedo se troverò mai pace dentro. Potessi cancellarlo  da ogni poro della mia pelle, da ogni mio gene. Maledetto, grande uomo! Ha avuto l’abilità di rovinare la tua e la mia vita. Dove attecchiscono  la sua arroganza e  la sua invadenza non esiste null’altro se non il suo sé possessivo e straripante . Mi brucia ancora quel sarcasmo sferzante, inopportuno, offensivo. Non mi ha mai voluto. Non mi ha mai accettato. Non è colpa tua, mamma, ma mia. Non ce la faccio più.

 

 Un brusio continuo, a stento represso, anima la sala d’attesa. Ragazzi e  ragazze si stringono tra loro intorno agli insegnanti preoccupati . La professoressa  è ancora scossa, a stento trattiene le lacrime, in tanti anni non le è mai successo un fatto così grave. Parla animatamente con alcuni colleghi dall’aria preoccupata e accondiscendente “Ma come abbiamo  fatto a non intuire nulla?” Domande, che non troveranno mai risposta, rimbalzano di bocca in bocca per  esorcizzare la paura del peggio e lenire un po’ il senso di colpa e di impotenza degli adulti che si trovano di fronte a realtà imprevedibili, inimmaginabili, a voragini ben nascoste dalla presunta  e scontata normalità quotidiana.

Una  voce, attutita come il rumore di  un sasso  che cade sul fondale del mare, atterra pian piano nel  flusso disordinato dei miei pensieri  e di quei flash che abbagliano la memoria ,  “Ciao, come ti senti?”

Sento le sue lacrime sulla mia pelle, cadono con un ritmo sempre più veloce. Posso solo immaginarla. Non si vergogna di piangere, di incazzarsi.

“Non lo fare mai più. Passerà , passerà tutto… A scuola tanti, anche di altre classi,  mi hanno chiesto di te …”  Le sue parole inciampano in singhiozzi spontanei che  rivelano  preoccupazione mista a sincera solidarietà.

Una cascata di riccioli. Ecco, riesco  a mettere a fuoco il contorno del viso, gli occhi. Quanto sono grandi e lucidi! Le labbra, le osservo per comprendere meglio le sue parole, si ripiegano in una smorfia  imbronciata che pian piano si scioglie in un affettuoso sorriso.

Flavia, ha il sorriso di ogni donna. C’è una tacita complicità tra me e lei, mi ha sempre ascoltato , c’è sempre stata. Se penso all’amicizia, penso a lei.

“ Sto bene, sono solo stordito.” Non le confesso che mi sento  anche imbarazzato, a disagio…

“ Ci hai fatto prendere un bello spavento.”  Sento la sua mano calda sulle mie dita. Solo ora mi accorgo di avere le flebo e …non riesco a muovermi, un torpore, ecco sì i piedi non mi sento i piedi, a stento le gambe.

Cosa ho fatto!

 

Quando ero alle scuole elementari aspettavo la ricreazione per vederla. Sì, ero incuriosito da una bambola e aspettavo  quella che Lucia portava sempre per giocare con le sue compagne. Mi piaceva giocare con le bambine che, dopo  un’iniziale diffidenza, mi accolsero eleggendomi al ruolo di  papà quando giocavamo alla famiglia. Non mi piaceva fare il papà, ma era l’occasione per potere tenere in braccio quella bambola, così tenera, con le guance rosate, le labbra carnose, gli occhi spalancati su chissà quali sogni.

Il padre di famiglia. Il mio era di poche parole. Le mani nodose  squarciavano il pane, con forza, quasi con brutalità. Con gesto irruente si versava il vino nel bicchiere  e non mangiava ma divorava. Era sempre arrabbiato. Non osavo guardarlo in faccia e aspettavo il solito, il solito stizzito “mangia se vuoi diventare un uomo”. Unico latrato che interrompeva  quel silenzio asfissiante. Mamma sempre zitta, disapprovava quei modi bruschi  e  si alzava di continuo per servire o portare qualcosa in cucina. Aveva un’aria diversa dinanzi a lui,  tra la soggezione  e  la rabbia. Sì, forse rabbia repressa o insofferenza. Capivo che non lo sopportava e  che  nascondeva la sua vitalità a quell’uomo capace solo di trasmettere comandi e dominanza.

Mamma, quel  tuo sorriso dolce era solo per me, me lo regalavi di sera quando mi mettevi a dormire. A volte crollavi in un sonno profondo , mi accoglievi nell’incavo  caldo del tuo corpo e il tuo respiro, calmo e regolare, mi cullava. Quella sensazione di naturale  intimità è per me il rifugio più rassicurante della mia vita.

 Come è diversa la mia famiglia da quella della mia amica Flavia.  Mi è bastato andare solo qualche volta   a casa sua per avere l’ennesima conferma  di come  sia la  mia. Sarei andato volentieri e più spesso a casa sua, mamma però non poteva sempre accompagnarmi, perché da quando ci siamo trasferiti in città lei svolge due lavori per riuscire a provvedere a tutto. Qui non  c’è nessuno che possa aiutarla,  non  ci sono i nonni e le sue amiche, e non ha nemmeno tempo per farsene di nuove. Siamo andati via dalla nostra terra, dalle  nostre radici  quando  ha deciso di lasciarlo. Come se bastasse allontanarsi per riuscire a cancellare il passato e  un uomo  sbagliato. Mio padre. Non sarò mai, mai come lui. Ancora sento la puzza dell’alcool nel suo alito, quando mi toccava sotto perché si  vergognava di me. Mamma si è frapposta e le ha prese. Quegli schiaffi mi hanno marchiato a fuoco. Lei però non ha pianto, la pelle  del viso era livida e  tesa come quella di un tamburo, e si è riscattata in uno   sguardo  che non avevo mai visto prima: gli  occhi, stretti e taglienti, ostentavano un’ aria di sfida, una resistenza a oltranza, una fermezza che non avrei mai immaginato.

Non puoi saperlo, ma in quell’attimo ho svincolato la forza d’animo di tua madre, soffiando sul suo orgoglio ferito. Le donne hanno un’energia nascosta che può  scatenarsi  come una piena incontenibile d’acqua nel momento del bisogno, soprattutto in  difesa dei figli, la loro seconda pelle.

 “Dormi , dormi, vedrai che un giorno  andremo via, lontano. Sei il bambino più bello, angelo mio. Sei il  mio angioletto biondo.”

 Come il mio angelo immaginario, quello custode appollaiato sulla spalla, col quale parlavo da piccolo , mentre ora  parlo tra me e me. Dove sei, angelo maledetto, quando ho bisogno di urlare. Che devo fare? Tutti dicono che sono di poche parole. Sapessero quanto parlo e straparlo dentro di me. A volte ho mal di testa, mi stancano questi ragionamenti, mi opprimono questi pensieri. Troppe domande alle quali non so dare risposte, sentimenti che mi logorano. Ho provato a non deludere nessuno, a passare inosservato, a essere invisibile. Solo lui ho deluso. Non gli bastava che andassi bene a scuola, che fossi educato,  discreto. No. Non ero abbastanza robusto, gagliardo e forte . Come lui.

Colpevole, sì sono colpevole  da anni, da sempre , da quando giocavo con le bambole e non ne ho  mai potuto averne una , mia, solo mia.  Non mi ha mai concesso  il tempo di stringerla, mi ha deriso, lei era un ostaggio virtuale  nelle sue mani. Dopo poco io  sono diventato l’ ostaggio di una sua rabbia incontenibile. L’altra era la sua bambola in carne ed ossa.

Quella ragazza ha cercato di dissuaderlo, ma era un pazzo furioso. L’ha scaraventata per terra, lui  mi trascinava  mentre scalciavo, lei a un certo punto l’ha seguito remissiva. L’ha posseduta davanti a me, con pochi gesti violenti e meccanici. Ecco cosa fa un vero uomo. E io lì che non sapevo più dove guardare, mentre  lei mi sbirciava quasi vergognandosi, finchè ha chiuso gli occhi quasi per sottrarsi alla mia vista. Mi sono voltato verso la finestra. Ero terrorizzato, mi girava la testa, volevo vomitare . Ho sentito dei rumori provenire dal letto, non ho osato voltarmi, una mano mi ha tirato a sé e mi ha obbligato a girarmi. Mi spingeva verso il letto. Mi ha urlato di darmi da fare ,  le ha urlato di darsi da fare, di farmi diventare un uomo. E lei ha provato ad avvicinarsi. Io? Proprio io? Sono indietreggiato fino a raggiungere nuovamente  la finestra. Angelo, ANGELO dove sei?  Vorrei  volare via come te…nei vetri a  stento ho riconosciuto la mia immagine riflessa. Strano come la paura possa trasformare una persona.

 No, era  il male che  ti ha invecchiato di colpo, ha spento la tua innocenza.

 Mi ha chiamato per nome, mi sono voltato. Avrà una decina di anni  più di me, è bella. Ma che vuoi? La guardo sospettoso tra la paura e l’insofferenza. “Non toccarmi.” sibilo. Il suo corpo mi pare una striscia di fuoco, pericolosa, rovente, invadente.

“Fai finta , se no torna dentro.”  “Ma come puoi , cioè come riesci  a sopportare tutto questo?” “ Ci si abitua a tutto, alla fine non ci fai più caso, è come se indossassi una corazza” .E sottovoce mi ha detto cosa dovevo fare, mi ha spogliato e fatto distendere vicino a lei. Mi ha accarezzato  il profilo del viso, seguendo con le dita  il naso, il contorno delle labbra e il mento, ha  scostato con delicatezza i capelli dalla mia fronte sudata.

Mi pulsano le tempie. Mi ricorda qualcosa o qualcuno. Sì le labbra, rosse, della bambola. Il mio gioco proibito, il tabù indigesto per mio padre. Il  grande uomo. Dobbiamo essere tutti come vuole lui, a suo ordine e piacimento. A volte mi sembra febbricitante e più lo è , più mia madre sbianca e diventa piccola e, se potesse,  sparirebbe , si lascerebbe assorbire dalle pareti di casa. Come me.  Mamma  voliamo via insieme.

 

Siamo volati via, in una grande città dove è più facile smarrirsi e distrarsi. Qui puoi mimetizzarti in una  folla anonima e annullarti nell’ affascinante  bellezza dei tramonti tra le cupole che neutralizzano  ogni pensiero. I riflessi di luce nel fiume  vibrano lentamente , segnano un  pacato cammino ondeggiante   che infonde una   calma quiete.  La stessa che mi trasmette Flavia.

 Questa è la città degli angeli, quasi mortali uccelli dell’anima, solenni emblemi della purezza del dolore e del riscatto dalla vita terrena. Non è un caso che tu sia qui.

I ragazzi  però sono irruenti, caciaroni, rasati e con occhiali troppo grandi, sembrano cicale che friniscono al sole. Gridano, schiamazzano per mettersi in mostra, per attirare l’attenzione delle ragazzette. So’  sgallettati, sì sgallettati. Fingo sempre di non vederli, speriamo non mi fermino. A volte, quando ne vedo un gruppetto a metà corridoio durante la  ricreazione, torno indietro, vado di nuovo al bagno e poi aspetto il suono della campanella che segna la fine dell’intervallo per precipitarmi in classe. Durante le lezioni mi sento al sicuro e poi davanti a me c’è Flavia e dietro di me il muro. Me lo sono scelto proprio bene il posto quest’anno.

Da questa postazione strategica  posso guardare fuori la finestra. Arriva la primavera. Gli alberi intorno stanno fiorendo, i fiocchi dei pioppi volteggiano leggeri, impalpabili. La cornacchia è sempre sul ramo, mi guarda, ruota la testa. Che vuoi? Quant’è curiosa, però mi è simpatica. “Ehi sognatore” . Mi  connetto “ Di cosa stavamo parlando? Stai attento!”

Abbozzo un sorriso . Stare attenti a scuola  è quasi un piacere, in fondo. Se sapesse prof.!  Sto sempre attento a dove vado, a  vestirmi per non dare nell’occhio, a quel che dico. Meglio stare zitti, meglio non dire. Parlo solo con Flavia, di lei mi fido. Credono che abbia una cotta per lei.

Poi un giorno un cretino  ha esordito davanti a lei, per fare colpo “ ma che ce stai a  fa’ con ‘sta checca?” e sono arrossito, mi bruciava  tutta la faccia, mi veniva quasi da piangere. Mi sono sentito nudo,  nudo davanti a tutti, e  gli altri a poco a poco si sono voltati in un  silenzio irreale mentre Flavia cercava di difendermi da quelle derisioni  e gli gridava contro. Gli altri si sono avvicinati – ero lo sfigato di turno-  come se fiutassero la preda di un gioco troppo, troppo  pericoloso  e insopportabile per me.  Dio mio fa’ che non  mi leggano dentro. Lei non mi ha mai chiesto nulla e per questo l’ho sempre apprezzata. Cosa ho di diverso dagli altri, se non più sfiga, paure e incertezze.

 “Non lo fare più …” un silenzio, uno dei tanti, ma  non c’è solitudine in questo. “ Ti voglio bene”.

Le sorrido. Vorrei risponderle ma  ho un nodo in gola e non riesco ad aprire la bocca impastata  . “ Scusa mamma, non ce la faccio più. Ti prego perdonami” Solo questo sono riuscito a scrivere. Sono stanco, chiudo gli occhi. Vorrei tanto dormire, davvero .

 

 Mi ossessiona l’idea di doverlo rivedere. “La stima del padre si conquista gradualmente.” L’ho letto da qualche parte.” Il padre ti lancia in alto per farti sentire l’entusiasmo   della vita, e ti riprende con braccia forti e sicure per darti slancio verso il futuro .” Forse quello di Flavia. Il mio, possa crepare. Bestia! È una bestia anche se le bestie non vanno contro natura. Solo l’uomo è capace di tanto. Oggi gli spetta  vedermi, io non voglio, mamma non sa nulla , ma l’ultima volta che sono scappato sono stati guai con l’avvocato. Ma perché devo vedere ‘sto stronzo? Non ho nulla da dirgli, ho  paura di stare con lui.

La campanella. È ricreazione. Mi sento un peso dentro, non ce la faccio più, mi trascina giù. Le ali  sono rattrappite sotto le ascelle, voglio volare, via via via  senza affanni, senza più  ansie.  La luce, ho bisogno di aria, di luce, libero, libero, finalmente libero. 

Forza, chiudi gli occhi, chiudo gli occhi, un bel respiro. Apri la finestra, apro la finestra, fiuta l’aria. L’aria di primavera mi smuove un po’ i capelli, la sento sulla pelle.  La  mia primavera. Mi pulsano le tempie, sento il battito, i battiti, i battiti,  il cuore accelera, i battiti si rincorrono, li sento, sento il mio respiro sempre più veloce, respira forte, respiro, respiro, mi pulsano le tempie… Via, via  da un posto sbagliato, da una famiglia sbagliata, da un corpo sbagliato.

 

A volte la realtà supera ogni immaginazione, nulla è purtroppo più scandaloso della realtà. Figlio di un padre, figlio di tutti  forse non eri nel posto sbagliato. Ho cercato di attutire la tua caduta, affinchè tu possa presto  spiccare il volo verso un futuro sereno, il più in alto e lontano possibile da infondati  sensi di colpa, e  riconciliarti con te stesso e con la vita. C’è tempo per volare via con me.