Diversità ovvero non fa la stessa viva sensazione il solletico a tutte le persone

Diverso è colui che si presenta con un’identità, una natura, una conformazione nettamente distinta rispetto ad altre persone. Si tende a riferire la diversità  all’ etnia, al sesso, alla religione, alla condizione sociale o personale. Diverso da chi?

 In genere diverso è chi si discosta dal gruppo prevalente che, con la sua precisa fisionomia ed intrinseca e distintiva omogeneità, dà un senso di appartenenza culturale e sociale.  La diversità più evidente può suscitare disagio in chi si identifica nei più: spesso suscita curiosità, perplessità, talvolta timore…mai comunque indifferenza. Di primo acchito si percepisce la diversità perché radicati alla propria identità, abituati e ancorati a fissi parametri di riferimento. Penso anche all’omologazione estetica che fa capo a modelli stereotipati, propinati dalla moda del momento, imposti sempre più dai media e tacitamente condivisi. In questa dominante uniformità, dettata da un senso di appartenenza e di sicurezza, in realtà esiste una diversità nella sfera emotiva e cognitiva dei singoli.

Nella collettività apparentemente uniforme dei più, ciascuno ha una propria specificità e individualità, che va oltre i dati anagrafici e  le proprie radici. Ne sono prova  la varietà di pensieri, sensazioni, emozioni, sentimenti: in parte sono universalmente sentiti, anche se generati da diversi contesti di vita, altri sono affini, ma non sempre uguali, altri ancora opposti, contrastanti o, per meglio dire, semplicemente diversi. Inoltre ciascuno  ha una propria indole e carattere, attitudini, convinzioni, fede, abitudini che lo contraddistinguono e influiscono o condizionano  scelte diverse.

 La diversità però non è solo tra i singoli, ma si sviluppa pian piano anche nel singolo.Col tempo la persona si arricchisce grazie alle diverse esperienze sociali, culturali, professionali e nelle varie fasi della vita cambia e diviene. Acquisisce capacità, competenze, responsabilità, potenzialità diverse. Nutre ambizioni, aspettative ed interessi diversi. Vive esperienze, occasioni di scontro, confronto e crescita diverse. I più evidenti mutamenti naturali sono accompagnati da cambiamenti più profondi, non sempre consapevoli, che riguardano il modo di pensare, di sentire e di rapportarsi, di aprirsi o chiudersi al mondo esterno e agli altri. La vita e l’età cambiano l’individuo in  un impercettibile talvolta ciclico divenire che fa parte del processo di maturazione della persona. Si diventa un po’ ibridi di se stessi, extracomunitari del proprio io originario.

In tenera età si parte da una visione egocentrica e gradualmente si costruisce prima la percezione di sé e della propria identità personale e collettiva, per poi cogliere la diversità altrui come un qualcosa di avulso da sé nelle sue molteplici forme, imparando pian piano a confrontarsi e, si spera, ad accettarla e rispettarla. Ciò non implica necessariamente condivisione, ma riconoscimento della diversità per poi passare ad un’eventuale e successiva volontà di conoscerla.

Chi reagisce con ferma e rigida chiusura è ancora agli inizi di un processo di maturazione, erge un muro senza spiragli dentro di sé. Mi è piaciuta molto l’immagine della porta scorrevole in  “L’eleganza del riccio” di Muriel Barbery, un romanzo eccezionalmente delicato sia nella forma che nel contenuto.

Rifacendosi ad un film giapponese, la protagonista riflette

“…ero rimasta affascinata dallo spazio vitale giapponese e dalle porte scorrevoli che rifiutano di fendere lo spazio in due e scivolano dolcemente su guide invisibili.

Giacchè quando noi apriamo una porta, trasformiamo gli ambienti in modo davvero meschino. Offendiamo la loro piena estensione e a forza di proporzioni sbagliate vi introduciamo un’incauta breccia…” A riguardo di una porta aperta “ nella stanza dove si trova, introduce una sorta di rottura… che spezza l’unità dello spazio. Nella stanza contigua provoca una depressione, una ferita aperta e tuttavia stupi

da, sperduta su un pezzo di muro che avrebbe preferito essere integro. In entrambi i casi turba i volumi, offrendo in cambio soltanto la libertà di circolare, la quale peraltro si può garantire in molti altri modi. La porta scorrevole, invece evita gli ostacoli e  glorifica lo spazio. Senza modificarne l’equilibrio, ne permette la metamorfosi. Quando si apre, due luoghi comunicano senza offendersi. Quando si chiude, ripristina l’integrità di ognuno di essi. Divisione e riunione avvengono senza ingerenze. Lì la vita è una calma passeggiata, mentre da noi è simile a una lunga serie di violazioni.”

 

Un equilibrato, pari, moderato, rispettoso scambio di aperture e chiusure, di simultaneo confronto all’ esterno e radicamento alla propria individualità. Forse per riconoscere la diversità basterebbe la fluidità di una porta scorrevole.

 

Giù la maschera

 

Nelle antiche feste religiose pagane si faceva uso delle maschere per allontanare gli spiriti maligni, finchè con il  cristianesimo questi riti persero il carattere magico e divennero semplicemente forme di divertimento popolare.

Durante il Medioevo e il Rinascimento i festeggiamenti in occasione del Carnevale furono introdotti anche nelle corti europee ed assunsero forme più raffinate, legate anche al teatro, alla danza e alla musica.

 Oggi il Carnevale si esprime attraverso il travestimento, le sfilate di maschere e carri allegorici e rappresenta un’occasione di festa  nel  periodo che precede il mercoledì delle ceneri, primo giorno di Quaresima.

 Mi affascina l’eleganza austera e statuaria dei personaggi che in un trionfo di colori spiccano tra le calle, i canali e i palazzi della Serenissima. Ogni anno rivivono in una dimensione sfarzosamente irreale comparse teatrali sospese nel tempo, misteriose nei sorrisi indecifrabili e negli  sguardi imperscrutabili in  un’armoniosa coreografia di drappeggi, trine, piumaggi e fantasiose acconciature e copricapi.

 La maschera: intrigante espediente per rivelare una tantum ciò che si vorrebbe essere e azzardarsi in sembianze esilaranti, talvolta provocatorie, conturbanti per apparire diversi, stupire, divertirsi e divertire al di là dell’immaginazione. Realtà e finzione si amalgamano sul palcoscenico del proprio Io. Persona e personaggio convivono tenendosi sotto braccio senza alcun limite, timore, perplessità, inibizione grazie ad un’indulgente, incondizionata, liberatoria concessione ad un’identità insolita. Come quando da bambini si giocava ad indossare i vestiti e a calzare le scarpe degli adulti per provare a sentirsi grandi, in una dimensione che non ci apparteneva ma si ambiva di emulare. Il Carnevale è soprattutto la festa dei bambini che, più flessibili e capaci di adattarsi ad un’identità transitoria, mitica, gratificante, si  divertono nell’ incanto di un mondo in cui la fantasia può concretizzarsi nel reale. Da adulti si cede al disagio, almeno iniziale, di spogliarsi da maschere più concrete e apparentemente normali. Quelle che talvolta  si indossano per fingere compiacenza, sicurezza, serenità in funzione degli altri e dei propri ruoli. A volte è necessario, a volte è una menzogna recitata principalmente a se stessi. Nessun giudice è più equo della consapevolezza che si raggiunge quando si regge il proprio sguardo allo specchio, riuscendo a coglierne la trasparenza. Bagliori naturali e spontanei. Immunemente incondizionati e  originari. Spudoratamente autentici. Senza maschera.

Le pietre d’inciampo per non dimenticare ( Giornata della Memoria)

“Foste i nostri liberatori, ma noi sopravvissuti, malati, emaciati, a malapena umani, fummo i vostri maestri. Vi insegnammo a comprendere il regno della notte” (Elie Wiesel, liberato a Buchenwald).

Il 27 gennaio ricorre la Giornata della Memoria in ricordo degli ebrei e di tutte le vittime dei campi di sterminio che hanno lasciato un segno indelebile nella coscienza civile. A Roma capita di imbattersi nelle pietre d’inciampo collocate dinanzi ad alcune abitazioni: si chiamano “Stolpersteine”, opere dell’artista tedesco Gunter Demnig realizzate su richiesta dei parenti di coloro che inciamparono in un tragico destino. Sono sampietrini ricoperti da una lastra di ottone sulla quale sono incisi il nome, la data di nascita e di morte, il luogo di deportazione di un perseguitato dai nazi-fascisti per motivi razziali, politici e militari. Inducono a fermarsi e a riflettere su un dolore profondo, di cui a stento si riesce a parlare.

La mattina di sabato 16 ottobre 1943 le SS irruppero nel ghetto di Roma e deportarono circa 1040 persone ad Auschwitz. Ne tornarono solo 17. Su 288 bambini e ragazzi da 0 a 15 anni, ne sopravvisse solo uno, Enzo Camerino nato nel 1928. Tra 288 giovanissimi c’erano 10 ragazzi di quindici anni, 15 di quattordici, 19 di tredici, 17 di dodici,16 di undici, 17 di dieci,10 di nove,16 di otto anni e 16 di sette,23 di sei,21 di cinque,24 di quattro,23 di tre,25 di due anni e 13 di un anno. Con loro muoiono 2 bimbi di 10 mesi, uno di 9, due di 8,due di 7,5 di sei, 2 di  cinque mesi, due di 4, tre di tre mesi, uno di 15 giorni e un neonato venuto alla luce poche ore dopo l’arresto della madre. Si aggiungano un bimbo e una bimba dei quali non si conosce l’età.

Di mattina presto un merciaio ambulante, Settimio Calò di 44 anni, abitante nel Portico d’Ottavia n 19 uscì da casa per fare la coda in una tabaccheria. Al ritorno trovò la casa vuota: i tedeschi avevano portato via la moglie, Clelia Frascati di 43 anni, e i 10 figli: Bellina di 22 anni, Esterina di 20, Rosa di 18, Ines di 16, Raimondo di 14, David di 13, Elena di 11, Angelo di 8, Nella di 6, Lello Samuele di circa 6 mesi. Con loro anche il cuginetto Settimio di 12 anni che quella notte per caso era stato ospitato dai Calò. Morirono tutti nelle camere a gas appena arrivati ad Auschwitz il 23 ottobre 1943. (informazioni  tratte da “Il futuro spezzato- i nazisti contro i bambini”, di Lidia Beccaria Rolfi e Bruno Maida. Libro dedicato alla piccola Sissel Vogelmann e a tutti i bambini assassinati.)

 

Ci sono libri che a volte possono cambiare la vita; nella loro documentazione storica sono un pugno allo stomaco, aiutano però a definire i valori fondamentali della vita. Ci sono descrizioni di obbrobri che una mente “normale” respinge nella sua capacità di immaginazione perché turbano troppo e lasciano dentro il monito “Mai più”, in nessuna parte del mondo, si ripeta quel delirante accanimento che non concedeva alcuna pietà, nemmeno nei riguardi dei bambini. Libri scritti perché “la condizione dei bambini non è una faccenda di lacrime o di buon cuore, ma il sintomo di un’umanità che, senza accorgersene, sta abdicando alla condizione della propria conservazione e alla conservazione della propria identità. Questa condizione si chiama trasmissione culturale che ha proprio nei bambini i loro destinatari. Dimenticarlo significa avviarsi rapidamente alla fine del mondo … “ (U. Galimberti  “Che cosa sono i bambini?”, in  la Repubblica ,24 marzo 1997).

 

Canta, canta la cicala…

 

La cicala depone uova negli steli d’erba dalle quali a settembre si schiudono le ninfe che sprofondano nella terra; le larve di cicala vivono circa quattro anni sottoterra e, dopo i sette stadi larvali, raggiungono la maturità e iniziano una nuova vita all’ aperto. La cicala si nutre della dolce linfa delle piante, perforandone lo xilema ( tessuto vascolare); invece le formiche, insetti iperattivi di una comunità sociale super organizzata ove ogni componente ha un ruolo specifico ben definito, spesso sono attratte dalla linfa scoperta dalla cicala e accorrono per sfamarsi, costringendola a spostarsi e a trivellare la pianta in altri punti .

La famosa favola di La Fontaine   narra invece di una formica laboriosa e provvida che faticava sotto il sole per accumulare provviste per l’inverno, mentre la cicala si dedicava all’ozio estivo e al canto. Quando arrivò il freddo, la cicala affamata chiese aiuto alla formica ma

“La Formica che ha il difetto
di prestar malvolentieri,
le dimanda chiaro e netto:
– Che hai tu fatto fino a ieri?
– Cara amica, a dire il giusto
non ho fatto che c
antare 
tutto il tempo.– Brava, ho gusto;
balla adesso, se ti pare.”

Trilussa ribalta il finale in

La Cecala d’oggi”

 Una Cecala, che  pijava er fresco

all’ombra der grispigno (insalata) e de l’ortica,

pe’ da’ la cojonella (per canzonare) a ‘na Formica

cantò ’sto ritornello romanesco:

“ Fiore de pane,

io me la godo, canto e sto benone,

e invece tu fatichi come un cane.

“ Eh! da  qui ar bel vedé ce corre poco:

– rispose la Formica –

nun t’hai da crede mica

ch’er sole scotti sempre come er foco!

A momenti verrà la tramontana:

commare, stacce attenta…”  

Quanno venne l’inverno

la Formica se chiuse ne la tana.

ma , ner sentì che la Cecala amica

seguitava a cantà tutta contenta,

uscì fòra e je disse:  “Ancora canti?

ancora nu’ l a pianti?”

“ Io? – fece la Cecala – manco a dillo:

quer che facevo prima faccio adesso;

mó ciò l’amante: me mantiè quer Grillo

che ’sto giugno me stava sempre appresso.

Che dichi? l’onestà? Quanto sei cicia!( di poco spirito)

M’aricordo mi’ nonna che diceva:

Chi lavora cià  appena una camicia,

e sai chi ce n’ha due? Chi se la leva.”

 Se la morale della favola di La Fontaine è “chi nulla mai fa, nulla mai ottiene”, nei versi di Trilussa i marpioni ottengono comunque, senza troppi sforzi e lunghe attese.

In verità in entrambi i casi la cicala vive spensieratamente  il presente senza troppi timori per il futuro… 

E voi, vi sentite più cicala o più formica? 

 

Elogio della gallina

 

È finito il tormentone che per secoli ha alimentato dissertazioni  filosofiche e biologiche, cioè il famoso quesito “È nato prima l’uovo o la gallina?”  .Infatti dal 2006, in base  a studi di  genetica e a ragionamenti logici, due professori universitari e un avicoltore britannico hanno concluso: Poiché il materiale genetico non muta durante la vita di un essere, il primo uccello che si è evoluto in quella che oggi noi chiamiamo gallina deve essere prima esistito come embrione all’ interno di un uovo, avente lo stesso DNA dell’animale che sarebbe diventato. Pertanto, è nato prima l’uovo della gallina.

In parole semplici, un uovo di gallina genera necessariamente una gallina, ma può essere stato deposto da una “non gallina”.(Times)

 Spesso la gallina è ricordata per qualità di scarso pregio quando si dice “ha un cervello da gallina”, riferendosi il più delle volte al gentil sesso, o si allude  ad una scrittura irregolare ed incomprensibile detta appunto a zampa di gallina,tipica di chi scrive in  fretta e in particolar modo dei medici.

 Jannacci cantava che ” La gallina non è un animale intelligente lo si capisce  da come guarda la gente”. Forse anche perché “le anatre depongono le loro uova in silenzio. Le galline invece starnazzano come impazzite. Qual è la conseguenza? Tutto il mondo mangia uova di gallina” (HenryFord) però è vero che  “Se la gallina non cantasse, nessuno saprebbe che ha fatto l’ uovo.” 

  In fondo “il gallo  canta sempre,  persino la mattina in cui finisce in pentola.” (Stanislaw J. Lec)  e quindi non so chi dei due polli brilli di più per acume.

Merito della gallina che va a nanna presto e che, a differenza del  gallo che fa  chicchirichì e due colpi d’ala e via, invece fa l’uovo senza neanche fare il nido e, da chioccia, sta buona e cova i suoi pulcini.

 Nelle guerre fratricide del pollaio “molti fan la guerra per un uovo e lasciano intanto scappar la gallina” (mica scema!) ignorando che se  “Il passato è un uovo rotto, il futuro è un uovo da covare.” (Paul Eluard), quindi bisogna difendere la gallinella per avere altre uova e garantire la sopravvivenza del pollaio. Inoltre è risaputo che gallina vecchia fa buon brodo, a dispetto dell’età.

  Nonostante i battibecchi , galli e galline convivono in un rapporto simbiotico.

Mi sovviene  “Galline in fuga” , film d’animazione di qualche anno fa, trasposizione della “Grande Fuga” ,tratto da una storia vera sull’ evasione di prigionieri alleati da un campo di concentramento tedesco durante la seconda guerra mondiale.

Per sottrarsi all’ infame destino di essere trasformate in pasticcio di pollo, le gallinelle, capitanate dall’ intraprendente Gaia, decidono di evadere dal pollaio lager. Nei preparativi e addestramenti per la fuga, le coccodè  sono aiutate da Rocky, un gallo americano precipitato dal cielo perchè sparato, a loro insaputa,  da un  cannone da circo. All’inizio Rocky le illude che possano volare, poi quando  la verità viene scoperta,  insegna loro a svolazzare quel tanto che basta per superare l’alto recinto e si cimenta nella  costruzione di  una rudimentale macchina volante che consentirà di mettersi in salvo.

 L’immagine più delicata della donna gallina è nei versi che Umberto Saba dedicò alla moglie. Quest’ultima giustamente si risentì, anche perché viene paragonata in modo inconsueto pure alla giovenca, alla cagna, alla coniglia, alla rondine, alla  formica e all’ape.

Con tono ingenuo, semplice,quasi  infantile e sicuramente innovativo perché lontano dal tradizionale linguaggio amoroso, il poeta  ne canta la naturale bellezza,l’energia vitale ,la  prorompente fisicità. Le  migliori qualità che avvicinano a Dio sono in tutte le femmine di tutti i sereni animali e in sua moglie…ma in nessun’ altra donna.

 

A mia moglie.

Tu sei come una giovane

una bianca pollastra.

Le si arruffano al vento

le piume, il collo china

per bere, e in terra raspa;

ma, nell’andare, ha il lento

tuo passo di regina,

ed incede sull’erba

pettoruta e superba.

È migliore del maschio.

È come sono tutte

le femmine di tutti

i sereni animali

che avvicinano a Dio.

Così, se l’occhio, se il giudizio mio

non m’inganna, fra queste hai le tue uguali,

e in nessun’altra donna.

Quando la sera assonna

le gallinelle,

mettono voci che ricordan quelle,

dolcissime, onde a volte dei tuoi mali

ti quereli, e non sai

che la tua voce ha la soave e triste

musica dei pollai.

 

Pertanto essere additate come gallinelle,  talvolta potrebbe pure essere  

un bel complimento! O  no?

                         

P.S: perdonate la polemica finale. Nel luglio 2008 commentavo così un post della mitica Placida Signora a riguardo della gallina, alla quale nel vecchio blog affondato avevo dedicato questo mio post . Ho trovato in rete  il mio scritto interamente copiato nel 2009 da un tale, che non menziono perché non merita pubblicità in quanto non ha nemmeno citato come fonte o linkato skipblog.it . Preciso che  “l’elogio della gallina” è mio e lo ripubblico io. Ecco!  😉

L’incubatrice di sogni …

Al tempo dei sumeri (4000 a.C.) era diffuso il rituale dell’incubazione. Questa pratica richiedeva che un sognatore scendesse in un luogo sacro sotterraneo, dormisse una notte sognando e andasse da un interprete a raccontare il sogno, che di solito rivelava una profezia. Nella Grecia arcaica il rituale fu ripreso anche dai sacerdoti di Esculapio che, svolgendo un’attività simile nei loro templi e santuari, assumevano un ruolo di cura e guida spirituale. Un noto interprete fu  Artemidoro di Daldi, autore di Onirocritica (Ὀνειροκριτικά) , opera in cinque libri sull’ interpretazione dei sogni in cui si discostò dalle pratiche magiche in voga al suo tempo, evitando di consigliare comportamenti futuri . Artemidoro fece una prima classificazione scientifica dei sogni distinguendo quelli legati a episodi storici, al passato e al presente e quelli, profetici e simbolici, relativi al futuro.

In epoca moderna  Freud riprese l’argomento e, proclamando “che  il sogno è la via maestra per esplorare l’inconscio”, diede quindi origine alla psicoanalisi, disciplina di profonda indagine psicologica che si sviluppò di pari passo con l’analisi e l’interpretazione  dei sogni.

I  napoletani, sognatori più pragmatici che tentano la fortuna, interpretano non solo i sogni,  ma anche i vari fatti quotidiani, traducendoli in numeri da giocare al lotto dopo averli ricavati dalla smorfia napoletana. Quando mi capitano fatti eccezionalmente strani o curiosi, mi ripropongo anch’io di giocare i  numeri corrispondenti con la speranza di azzeccare un terno secco…peccato però che immancabilmente me ne dimentichi e chissà cosa significhi in termini psicanalitici quest’inconscia rimozione di tentare la sorte.

In sintonia col mio bradipismo di fine settimana ( da non confondere col bradisismo, please  😉 ),  per me uno dei tanti piaceri della vita è dormire sognando. Nulla di più libero e liberatorio, imprevedibilmente sorprendente, allettante dove lasciare decantare se stessi. Non sempre sogno, o meglio, riesco a ricordare i sogni. In un fantascientifico futuro non disdegnerei di trasformarmi professionalmente in un’incubatrice di sogni, possibilmente piacevoli… una tantum vivrei qualche incubo a mo’ di horror sponsorizzato dall’ inconscio. Sicuramente il canale onirico sarebbe più vario, divertente e interattivo di  quelli televisivi e la ricostruzione dei sogni mi appassionerebbe più di un sudoku.

Talvolta i sogni sono ricorrenti, a volte premonitori: lasciano emergere tracce nascoste della vita psichica. Credevo che rivelassero  solo le proprie emozioni, paure, desideri, traumi inconsci. Anni fa però, quando nulla faceva presagire il viaggio improvviso di una persona a me molto cara, nello stesso istante in cui avanzava nell’Altro Infinito, lei mi apparve in sogno. Mi salutava con la mano mentre indietreggiava. Per la prima volta mi svegliai di soprassalto con un senso d’angoscia. Appena si fece mattina, telefonai ed ebbi conferma. Dopo aver vagliato una mia eventuale autosuggestione alla luce di un  precedente scetticismo, ho concluso che ci sono cose che sfuggono ad ogni logica umana e ragione e che si appellano o ad un sesto senso, sempre operante che fa presagire, oppure all’inspiegabile empatia che a volte nasce tra anime e che può  rivelarsi tra le misteriose pieghe dei sogni.

Vi è mai capitato? 

Chapeau, Rottejomfruen!

 

Strana questa statua, vero? La vecchina dei topi, opera dell’ artista Marit Norheim Benthe, si trova nel parco Ibsen di Sorrento e  richiama un personaggio de“Il Piccolo Eyolf”, dramma moderno di Ibsen. E’ stata donata dalla città natale del drammaturgo , Skien in Norvegia,  in onore dell’apertura del parco e riproduce la statua originale, molto più grande  e alta 7 metri,  inaugurata il 20 marzo 2006  nel giorno della nascita dello scrittore norvegese . 

Il dramma narra del piccolo Eyolf, un bambino che diviene storpio in seguito ad una caduta causata dalla negligenza dei suoi genitori, Alfred e Rita Allmers, e che  sparisce misteriosamente nelle acque di un fiordo, forse attratto dalla vecchina dei topi. Suo padre sposa Rita, ricca di oro e foreste ma anche di sensualità e bellezza, che nutre un amore esclusivo e morbosamente possessivo per lui, “ così discreto in tutto” ed incapace di produrre, di portare a termine un trattato sull’umana responsabilità e di compiere scelte sentimentali  sentite. Asta, sorellastra di Alfred, serba in cuor suo un amore inconfessato per il fratellastro,  dal quale scopre di non essere legata da vincoli parentali, e tentenna con  Borgheim, l’ingegnere innamorato che costruisce strade.

 

Eyolf è il povero, piccolo, pallido, dagli occhi belli ed intelligenti Porta un nome appartenuto all’infanzia di Asta, chiamata così da Alfred,  immaginandola un maschio, che inconsapevolmente ne è attratto e la  protegge sin da quando rimasero orfani in giovane età .Il bambino è respinto da genitori che rincorrono piacere e ambizioni smarrendosi in conflittualità interiori,  respinto dai coetanei coi quali non riesce a giocare e a condividere il suo sogno di divenire soldato, respinto da un padre che per anni lo limita a vivere solo per lo studio e da una madre che ammette di desiderare l’infanticidio, uno dei tabù più indigesti alla società di ogni tempo, pur di avere il marito tutto per sé. Ma ciò che scrive suo padre, cioè  il trattato sull’umana responsabilità,  conta per Eyolf. “ Credimi, verrà qualcuno che lo farà meglio”- risponde Alfred. “ Chi dovrebbe essere?” replica  il bambino. “Verrà senz’altro e si farà conoscere” conclude lui.

E compare Rottejomfruen, la vergine, leggendariamente  più nota come vecchina dei topi, che  vaga per mare e terra per scacciare- accogliere tutti i topi. Cerca qualcosa che rosicchia in casa e con piacere aiuterebbe i signori a liberarsene. Promette pace a tutti quelli che gli esseri umani odiano e perseguitano, conducendoli dolcemente nell’ acqua alta. “Lugubre femmina” vede ciò che gli altri non vedono e indirettamente  fa aprire gli occhi a tutti su profondità inesplorate. Da un sacco estrae un carlino, un cagnetto- guida che la aiuta a scovare i topi, creaturine infestate e infestanti, che rodono, come dentro rodono i sensi di colpa, l’amore di Rita respinto da un coniuge che confessa di averla sposata per interesse, la gelosia di Alfred per la sorellastra Asta,l’amore inconfessato di lei per il fratello maggiore che scopre non essere tale, l’amore tenace dell’ingegnere Borgheim per la giovane  Asta . Rosicchiano dentro le  passioni morbose, il tormento di una perdita, di un fallimento, di una frustrazione, dell’inettitudine. 

Eyolf in questo drammone pare una comparsa in un girotondo di amori diversi ,non destinati a lui, in cui  tutti gli ruotano intorno più per dovuta compassione che per amore. È escluso dall’odio della  madre e dall’estraneità del padre, da adulti ciechi ed ostinati che se ne servono per recitare ruoli non sentiti. Lo stesso padre cela la sua inanità dietro l’intento più recente di adoprarsi per  portare coerenza fra i desideri del bambino e ciò che gli è accessibile, negandogli però la possibilità di sognare, convinto di creare così nel suo animo il sentimento della felicità. Un inetto con l’ambizione di  stratega e manipolatore della vita altrui, incapace di accettare il figlio. Eyolf scompare nelle acque del fiordo, forse incantato dalla vecchia, e non viene soccorso dai figli “selvaggi” dei pescatori. Solo, nel suo destino e nella sua scelta, lascia  traccia di sé in una gruccia sull’acqua e nella sua  sagoma galleggiante con occhi aperti che tormenta sua madre in sogno. La sua uscita di scena induce i personaggi a riflettere e finalmente ad operare scelte, interrompendo un circolo chiuso ed intricato di segreti, di egoismi, di ambiguità e di  interessi personali.

 

Alla fine del dramma Rita cerca di riscattarsi adoprandosi per istruire i figli dei pescatori, e suo marito, che prima pensava di defilarsi, come aveva sempre fatto da ogni responsabilità di cui non poteva scrivere, condivide questo progetto di volontariato assistenziale per bambini emarginati che “abiteranno nelle stanze di Eyolf, leggeranno i suoi libri e giocheranno con i suoi giochi, faranno a turno per sedersi sulla sua sedia al tavolo.” Solo così Rita spera di blandire quegli occhi spalancati che le rinnovano il rimorso. Asta segue il tenace costruttore di strade, colui che spiana il terreno per renderlo percorribile a tutti, creando collegamenti, comunicazione e continuità. Alfred e Rita che si erano spaventati del figlio quando era in vita, lo ritrovano solo nel dolore della sua perdita e dopo una vorticosa e confusa  dimensione reale, immaginata e  desiderata,  sospesi tra ciò che è  necessario e  possibile e ciò che non lo è , sembrano dare senso alla loro vita e conciliarsi con il mondo, forse infine anche con loro stessi.

 “Vedrai  il silenzio della domenica scenderà di tanto in tanto su di noi….Forse allora ci accorgeremo della visita degli spiriti….allora forse saranno intorno a noi, – quelli che abbiamo perduto. Il nostro piccolo Eyolf. E anche il nostro grande Eyolf…Dobbiamo guardare in alto, verso le cime, verso le stelle. E verso il grande silenzio.”  Rita, incapace di vivere nel dormiveglia  del rimorso e del risentimento riconosce che “ Siamo creature terrene” “Sì ma anche imparentate con il mare e con il cielo, più di quanto non si creda.” aggiunge Alfred.    

                                      

Un dramma esasperato, costruito da Ibsen che non svela mai del tutto . Come questa statua così particolare che suscita curiosità. In fondo questa vecchia dei topi, predatrice e  liberatrice di angosce, fecondatrice di coscienze, scruta  l’imperscrutabile con migliaia di occhi  che  sono quelli indagatori e puliti dei bambini, che osservano e intuiscono ciò che spesso gli  adulti, nelle varie dinamiche personali e relazionali, non riescono più a vedere né a distinguere.

Non a caso gli occhi variopinti, che ornano la veste di questo insolito personaggio, sono stati realizzati proprio da centinaia e centinaia di bambini che all’inaugurazione della statua di Skien  si erano travestiti da topolini.

 

Lo zero scappato

Dopo lunghi anni di asilo, per cui nel cestino mia madre metteva la gamella con le polpette o la frittatina , Pri  Pri ( una specie di coniglietto spennacchiato che in origine doveva essere di peluche) e qualche pentolina giocattolo che immancabilmente le bambine più grandi mi fregavano, iniziai la prima elementare in una scuola parificata a cinque anni  con quasi un anno di  anticipo rispetto ai miei compagni di avventure scolastiche.

Ero più piccola di età e di statura, per cui il primo giorno di scuola notai che il  mio banco era in prima fila, anzi doveva essere quello della prima fila. La maestra però accontentò una mia compagna che fece un capriccio snervante e occupò indebitamente la mia postazione. Finii all’ultimo banco. Il problema era che da laggiù non vedevo bene e probabilmente non seguii le indicazioni della maestra, che era una suora A un certo punto si avvicinò e mi diede un quaderno con un esercizio apparentemente facile. Dovevo unire i puntini che tracciavano una A in stampatello maiuscolo…ma non sapevo che dovevo unirli tracciando una linea unica partendo dal primo puntino in basso  a sinistra proseguendo verso l’alto per poi discendere, come su uno scivolo, verso l’ultimo puntino in basso  a destra formando una linea spezzata .E io, secondo la mia logica infantile, unii i puntini con una miriade di linee che s’intersecavano a più non posso, intessendo una bella ragnatela di linee traballanti e storte. La maestra ripassò per controllare il compito e il mio capolavoro artistico fu definito sgorbio. Prima mi beccai una sgridata umiliante e, secondo  me, immeritata per lo sforzo che avevo fatto e la convinzione di avere svolto bene il compito. Poi sul quaderno comparve un misterioso segno circolare, sbarrato da una linea obliqua. Dalla veemenza con cui era stato inciso e dagli strepiti della suora, intuii che aveva un brutto significato. Era uno Zero Spaccato. Io guardavo quel nuovo sgorbio affascinante: lo Zero spaccato, sbarrato, tagliato che,  nel resoconto che diedi ai miei genitori , chiamai Zero scappato.  Ma perché sbarravano gli zero? Per timore che vi anteponessero un 1 e si trasformassero in 10?  Per sottolineare che era irrimediabilmente zero…un insieme vuoto, un annullamento senza speranza di rimedio? Per un bambino che non conosce il significato dei numeri che poteva significare? Infatti io non conoscevo lo zero scappato e mi chiedevo perché mai fosse scappato sul mio quaderno. Capii solo che il mio compito era sbagliato. Così nel tentativo di rimediare al disastro, bagnai la gomma con la saliva e … zac zac , a forza di sfregare su quello sgorbio di A  scritto con la penna (perché usavamo subito la penna, anche se non sapevamo tenerla in mano) feci un bel buco sul foglio. Vi lascio immaginare l’espressione di sconforto della maestra e la mia per avere fallito nell’impresa. Quando mio padre venne a prendermi a scuola, strepitai che a scuola non volevo più andarci. Da buona ariete (con corna da sfondamento) e ascendente toro ( con corna da attacco) sin da piccola era difficile dissuadermi dai miei convincimenti. Piansi disperatamente, convinta di porre fine alla carriera scolastica e ignara di quel che mi avrebbe poi riservato la vita. Infatti, anni dopo, a mia madre che mi prospettava un futuro da insegnante, urlai “Insegnante io? Piuttosto vado in convento”. E infatti ci sono finita , svoltando drasticamente da altre prospettive professionali. A scuola però, non in convento – almeno per ora !. Comunque sia e  nonostante tutto, mi piace insegnare e grazie a quella maestra imparai  tante altre cose.

  La suora aveva una bacchetta ma non come quella della fata di Cenerentola o Harry Potter. Anch’essa era magica visto che riusciva a farci stare fermi, muti e apparentemente attenti. Era luuuuuuuuunga fino alla terza fila di banchi e tac tac ticchettava sul banco se osavamo distrarci. Mio fratello ebbe la sfortuna di esser mancino. Sì perché all’epoca la sinistra era considerata la mano del diavolo. Mio nonno lo difendeva strenuamente da quelle cape di pezza (suore) che lo obbligavano a scrivere con la mano destra. La Divina Provvidenza volle che un bel giorno mio fratello  si rompesse il braccio destro cadendo durante una delle sue solite corse in bici . Così da quel giorno fu diabolicamente  libero di scrivere con la mano sinistra e in seguito divenne ambidestro.

 Io non avevo questa capacità, ma  in compenso avevo lo stress di scrivere fioretti da offrire al Sacro Cuore di Gesù. Sempre grazie alle suore, avevo il terrore dei crocefissi perché mi avevano fatto vedere il film “ Marcellino, pane e vino” con esiti forse  inaspettati perché il crocefisso parlante mi spaventava. Il quadro del Sacro Cuore era esposto trionfalmente in aula e io osservavo incuriosita quel cuore rosso palpitante. Carò Gesù ti prometto che…e giù a scervellarmi. Finchè un giorno scrissi in rima Caro Gesù, prometto che non conto più .Certo che le esperienze che si fanno da piccoli si ricordano bene. Questo perchè un giorno la suora disse di contare sulle dita per 8 da 0 a 80.Sì 80, me lo ricordo bene. Oggi in prima si arriva fino al numero  20, al massimo 30. In prima non è facile imparare a contare sulle dita, soprattutto usando le due mani. Non so come feci, so solo che i miei numeri non corrispondevano a quelli della mia compagna di banco, ma imperterrita proseguii. Dopo lunghi bisticci con i polpastrelli sulle mie guance arrivai a 80. Era la prima volta che riuscivo a svolgere un compito esatto. Fui l’unica a non deludere le aspettative della maestra su 35 bambini. Mi aspettavo che agli elogi della suora seguisse una bella manciata di caramelle, colorate e di zucchero…quelle che si potevano comprare con 10 lire durante la ricreazione o si ricevevano in premio per compiti corretti e precisi. La maestra mi premiò con  un ritaglio di libro raffigurante un fiore. Non era la solita margherita , fiore più gettonato nei disegni dei bambini, bensì era un fiore nuovo e diverso: un’ortensia. Poiché ero capatosta, le dissi che preferivo le caramelle. Mi rispose che erano finite. Quando a ricreazione tirò fuori il barattolo per vendere le ultime rimaste, tornai alla carica. Nisba! Indispettita tornai a posto e mi ripromisi di nuovo di non andare più a scuola. Quando mia madre venne a prendermi, iniziai a piangere spiegandole l’accaduto e quella volta  spettò a lei sciropparsi le mie rimostranze. La maestra però aveva sempre ragione. Punto. Anzi punto fermo.

 Sostenni l’esame di primina e l’anno successivo, trasferitici in un’altra città, frequentai le scuole pubbliche. Ho bei ricordi della seconda e terza elementare, delle gare di tabelline, degli esercizi di grammatica e della classe femminile di 32 bambine guidata da  un’anziana  maestra , prossima alla pensione. Ancora ricordo una compagna di classe  dai lunghissimi capelli  intrecciati in acconciature che secondo me richiedevano oltre che bravura almeno un’ora di preparazione, il turno pomeridiano di lezione e il Signor Direttore che tutti i giorni  passava nei corridoi alla fine delle lezioni e ci salutava mentre recitavamo il Salve, o Regina. Anche in quel periodo non capivo tante cose…per esempio “A te ricorriamo esuli figli di Eva … Orsù dunque, avvocata nostra…” Quell’orsù era indigesto più di esuli e avvocata. C’è voluto un po’ di tempo – meglio tardi che mai!- per apprendere che non era un termine dialettale per dire orso.

 Ci trasferimmo ulteriormente, stavolta al Nord, e sempre in una scuola pubblica finii il ciclo delle elementarie- Deo gratias!- , senza altri trasferimenti, proseguii gli studi fino al liceo. Ebbi finalmente l’opportunità di confrontarmi con i  maschietti in una classe mista. All’inizio fu uno sfacelo. Ero in una classe di bambini pestiferi. Tutti erano incuriositi da me perché non conoscevo le parolacce locali, ma recuperai in fretta. Riuscii ad impormi nel gruppo di coetanei perché ricordavo tutti i numeri delle figurine e mi destreggiavo bene nel contrattare gli scambi.

 Della maestra però non ho un bel ricordo: altro che integrazione e pari opportunità… Grazie a lei e alle mie corna di ariete e toro messe insieme in una spaventevole caparbietà caratteriale, decisi di riscattarmi in un altro modo cioè dimostrando che anch’io potevo essere brava a scuola, ma esclusivamente  per un senso personale di rivalsa. Del suo plauso per il mio buon rendimento scolastico non m’importava nulla, perché percepivo una sorta di discriminazione che riguardava la mia persona e la mia sudicia (del sud) provenienza.

 A distanza di tempo la ricordo ancora. Senza rancore, forse con un po’ di sufficiente tolleranza. In fondo s’adoprava come meglio sapeva fare, rispecchiando la sua formazione.

 E qualcuno rimpiange nostalgicamente l’insegnante unico? In una società che richiede sempre più capacità di confrontarsi ed elasticità mentale, mi pare un contraddittorio anacronismo rispondente più all’esigenza di contenere la spesa pubblica che ad un’ottimizzazione di risorse per migliorare la scuola. 

Il fascino della matematica

Con  questo post  offro il mio limitato contributo al  Carnevale  della Matematica #57  su Matem@ticaMente di Annarita. Ringrazio inoltre  le amiche matematiche  Annarita e Giovanna che gestiscono con passione e costante impegno siti didatticamente interessanti e utili.

_°_°_°_°_°_ 

Mi scontrai con la misteriosa matematica sin dal primo giorno di scuola quando “uno strano segno circolare, sbarrato da una linea obliqua, premiò i miei primi sforzi  scolastici. Dalla veemenza con cui era stato inciso e dagli strepiti della suora, intuii che aveva un brutto significato. Era uno Zero Spaccato. Io guardavo quel nuovo sgorbio affascinante: lo Zero spaccato, sbarrato, tagliato che,  nel resoconto che diedi ai miei genitori , chiamai Zero scappato.  Ma perché sbarravano gli zero? Per timore che vi anteponessero un 1 e si trasformassero in 10?  Per sottolineare che era irrimediabilmente zero…un insieme vuoto, un annullamento senza speranza di rimedio? Per un bambino che non conosce il significato dei numeri che poteva significare? Infatti io non conoscevo lo zero scappato e mi chiedevo perché mai fosse scappato sul mio quaderno”.  

 Insomma a causa delle mie involontarie prodezze grafiche  mi imbattei nel signor Numero per eccellenza, il più enigmatico, controverso, incomprensibile, a volte neutrale a volte annullante, l’unico che non poteva omaggiarsi di un + o di un , quello che marcava il confine tra numeri positivi e negativi e non compariva fra i giorni del calendario, se non accompagnandosi ad altre cifre, ma in compenso regnava sulla linea del tempo segnando la nascita di Cristo.

 Da piccola apprendevo facilmente i meccanismi operativi ma  avevo difficoltà nel risolvere i problemi. Nei testi c’erano sempre una mamma che andava a fare la spesa e un fruttivendolo che vendeva mele e pere, fiori che, liberati dai mazzi, si moltiplicavano per essere poi distribuiti  nei vasi, caramelle regalate dalla nonna e mangiate da voraci nipoti, figurine che entravano e uscivano dagli album. Negli anni delle scuole medie, forse maturando un po’, si sbloccò la logica.

Tra fiumi di vino travasati dalle e nelle damigiane, lunghe distanze percorse dal signor Caio su e giù per l’Italia e innumerevoli camion che trasportavano di tutto mi districavo nelle equivalenze, saltellavo tra numeratori e denominatori , aprivo e chiudevo parentesi operando tra polinomi, ruotavo la testa negli angoli e sul quadrante dell’orologio, scioglievo nella mente ettometri di rete per recintare campi di patate di varie forme di cui poi dovevo calcolarne la superficie, disegnavo maldestramente  cubi  appoggiati su  parallelepipedi o  sormontati da piramidi .Finalmente la matematica iniziò a piacermi grazie soprattutto ad un’insegnante, che sapeva spiegarla e motivarmi, e a mio fratello che di sera smetteva di scrivere velocemente indecifrabili numeri e formule per aiutarmi nei compiti.

 Cominciai a livello intuitivo a matematizzare la realtà riconoscendo che  la spesso considerata bestia nera del curricolo scolastico  è ovunque e di uso comune: nella sequenzialità delle più semplici azioni quotidiane, nelle compravendite, costruzioni,  ricette, melodie, attività di ricamo e cucito, giochi di carte e scacchi, profitti e deficit, tempo e spazio. 

Ancor oggi nelle mie limitate conoscenze, la  matematica mi affascina.  Mi appare come il mondo di enunciati certi, possibili, probabili, impossibili, del magico prodotto positivo di due numeri negativi, degli enigmatici numeri primi, delle curve ascendenti e discendenti, della sezione aurea che da sempre si trasmette nella perfezione della natura a differenza delle impercettibili asimmetrie del corpo umano, dell’infinitamente grande e dell’infinitamente piccolo.

 È il mondo di abilità concatenate che velocizzano il pensiero: contare per contare, manipolare oggetti e materiale strutturato per quantificare e costruire il concetto di numero dentro di sé, interiorizzare simboli, ordinare, seriare, confrontare quantità, numeri e  grandezze, misurare, classificare e mettere in relazione, sommare, sottrarre, moltiplicare, dividere, elevare, estrarre, evidenziare, calcolare rapidamente a mente  fino ad acquisire automatismi operativi, semplificare … semplificare tutto per arrivare al risultato esatto. Se il risultato finale è errato, occorre ricominciare o rivedere con pazienza  tutti i passaggi  per trovare l’inghippo, l’errore che è lì da qualche parte. La matematica si impara per errori e anche l’errore ha una sua logica. Anche la discalculìa ha una spiegazione e richiede  strategie alternative, dispensative e compensative per aggirare le difficoltà e poter accedere a questo mondo. 

Nella matematica però c’è un qualcosa che affascina e va al di là dei contenuti, del  gioco, dell’esercizio, dell’ allenamento coi numeri e con le procedure perché  plasma  una  forma mentis elastica, pronta e rigorosa allo stesso tempo. Costruisce  il ragionamento sin da piccoli quando nella risoluzione di problemi si impara a rilevare dati, individuare la domanda per selezionare quelli utili, osservare, formulare ipotesi risolutive, procedere per verificarle,  a volte per tentativi,  trovare la soluzione, ricostruire infine a voce il significato delle operazioni per riflettere sul procedimento seguito e confrontarlo con altri possibili. 

La matematica è misteriosa come la mente umana, è il bandolo di una matassa che si snoda per gradi ove, grazie ad un’iniziale intuizione, passo dopo passo  si giunge poi alla conoscenza e, ad alti livelli, alla pura astrazione.

È frutto del pensiero divergente di menti curiose che in  ogni epoca e civiltà, partendo da un’osservazione o da una scintilla iniziale hanno astratto regole, formule  e procedimenti. Non a caso molti matematici sono stati anche liberi pensatori che spesso hanno precorso i tempi e, con rinunce, hanno scontato il loro amore del sapere e la loro genialità applicata anche ad altri campi e arti. Penso a quelle donne che  coltivarono di nascosto questa loro passione in epoche in cui  lo studio era una prerogativa maschile, come la bella  Ipazia di Alessandria, alla quale di recente hanno reso merito col  film “Agorà”, o   Marie Sophie Germain che, pur di studiare, nascose il suo talento dietro un’identità maschile.

La matematica non si improvvisa. Si conquista gradualmente solo se si comprende. Bisogna  farla propria per padroneggiarla procedendo  secondo nessi logici. Tutto ciò la rende accessibile e consente di amarla. La sua mancata  comprensione mette di fronte ad ostacoli che sembrano insormontabili e respingono, causano insofferenza o  paura di cimentarsi  e mettersi alla prova. Per apprenderla è necessario essere guidati e sostenuti, come in ogni processo di crescita  lento e completo. In effetti sviluppa competenze basilari, aiuta a valutare, collegare cause ed effetti, considerare variabili per calcolare incognite, ipotizzare e dedurre, individuare e rivedere errori per trovare soluzioni, immaginare ed astrarre.

 Vi par poco? 

 

La logica dell’errore

Un giorno  scoprii mia madre che si arrovellava con  un cruciverba. Mancava una sola parola per completarlo. Mi chiese aiuto  perché, secondo lei, c’era un errore nelle definizioni. Così controllai le risposte scritte che s’incrociavano in quel punto morto. Tutte parevano esatte, finchè lessi la definizione: “Sono degni di lode” cui corrispondevano sei caselle da riempire. Invece di meriti, aveva scritto mariti. Uno scambio di vocali impediva  l’inserimento dell’ultima parola.

Quell’errore però aveva una sua logica, rispecchiava una sua certezza …tant’è vero che quando le dissi che  i meriti sono generalmente degni di lode, lei mi rispose che lo erano anche i mariti.

Alla mia replica “Sì potrebbero esserlo anche i mariti, ma non tutti, a differenza dei meriti  che invece sono rigorosamente degni di lode” obiettò “Dipende da come li raggiungi”.

 

Anche questa era una risposta logica. 😉