Il museo civico Gaetano Filangieri

Napoli non smette mai di stupire: in luoghi nascosti e poco attraenti  custodisce angoli di rara bellezza artistica, come il Museo civico Gaetano Filangieri che si trova nella centrale e trafficata via Duomo ed è stato riaperto nel 2012.

gaetano filangieri seniorIl Principe Gaetano Filangieri, nipote di Gaetano Filangieri senior, l’eminente illuminista napoletano autore della Scienza della Legislazione,  fu  luogotenente in Sicilia e Presidente del Consiglio dei Ministri. Come suo padre e suo nonno fu un mecenate, oltre che cultore del bello, ma soprattutto si interessò dell’educazione  e della formazione delle masse popolari curando  luoghi atti a conservare  un patrimonio destinato all’educazione stessa. In particolare Gaetano Filangieri senior ebbe a cuore il miglioramento delle organizzazioni scolastiche, da lui considerate necessarie per il rinnovamento della società. Già allora intuì il legame che può esserci  tra museo e  scuola. Egli concorse  all’ istruzione  di artisti e artigiani, promosse l’operosità delle arti e delle industrie  cercando di rendere migliore, più raffinata e preziosa la produzione industriale artistica, sviluppando tradizioni di lavoro e l’educazione al bello.20151206_124142

Non avendo eredi maschi decise di donare alla Città di Napoli, non allo Stato, le sue collezioni di armi, ceramiche, porcellane, maioliche, quadri, libri e documenti storici, creando una fondazione autonoma e privata. Il Museo fu fondato nel 1882  da Gaetano Filangieri Principe di Satriano e fu aperto nel 1888.  Il principe si occupò della costruzione del museo  rispettando le facciate quattrocentesche del palazzo  Como, espressione dell’architettura rinascimentale a Napoli, inconfondibile  per il bugnato esterno e il bel portale  ad arco a tutto sesto e per l’ aspetto austero che ricorda il palazzo Strozzi e Medici. Fu ristrutturato a spese del Principe che volle farne omaggio alla città natale.  Alla fine del ‘500 passò ai padri predicatori della congregazione di santa Caterina da Siena fino al 1806 quando fu abolito il convento e diventò alloggio per le vedove di militari. Diventò nuovamente  monastero, seppure  in pessime condizioni, finché nel 1866 con la soppressione degli ordini religiosi  fu  occupato dal  Municipio. Prese il nome  di “ palazzo che cammina” perché  la facciata fu spostata di circa venti metri per la realizzazione di via Duomo. Il Museo Civico fu diretto prima dallo stesso principe, poi dal Principe Don Giuseppe Giudice Caracciolo, dal principe Don Stefano Colonna, dal conte Riccardo Filangieri de Candida Gonzaga, dal Barone Don Francesco Acton di Leporano, mentre oggi il suo consiglio direttivo è presieduto dal sindaco di Napoli, dal sovrintendente alle Gallerie di Napoli e da un discendente del fondatore.

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Durante un incendio appiccato dai tedeschi in ritirata parte delle collezioni fu distrutta  in san Paolo Besito, dove furono  portate al riparo delle incursioni aeree che distrussero buona parte del centro storico di Napoli. Nonostante le perdite subite, il museo fu riaperto grazie alla tenacia del sovrintendente Bruno Molajoli e via via si arricchì grazie a donatori  di opere pregiate   che ci tenevano a contribuire al patrimonio artistico di Napoli. Nel 1960 il Museo civico G. Filangieri è stato classificato come uno dei grandi musei italiani rinomato anche per una preziosa collezione numismatica . Qui sono esposte tremila opere tra dipinti, porcellane, maioliche, mobili.sala agataDalla sala Carlo Filangieri, con volte a mosaico dorato sulle quali tra volute floreali spiccano gli stemmi e i nomi degli esponenti della famiglia, procedendo verso la scalinata si può ammirare la collezione di armi cinesi, armature giapponesi, elmi e balestre. La scala ecoidale porta a una sala ricca  di oggetti raffinati e dedicata ad  Agata Moncada di Paternò, madre del fondatore. Si apre su un meraviglioso pavimento maiolicato, realizzato su disegno di Filippo Palizzi dagli allievi dell’Officina ceramica del Museo Artistico- Industriale.

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La sala Agata ospita opere  databili dal XVI al XIX secolo collezionate dal Principe e da altri donatori, quadri di Jusepe de Ribera, Luca Giordano, Battistello Caracciolo, Mattia Preti e Andrea Vaccaro. È completamente rivestita di legno, anche le colonne e il passaggio pensile sono lignei. La parte superiore è impreziosita da ventiquattro vetrine che raccolgono collezioni di maioliche, ceramiche, porcellane di Capodimonte  e le  statuine di bisquit della Real fabbrica ferdinandea, modellate  da Tagliolini.  

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 In fondo alla sala spiccano le spade disposte  a raggiera e convergenti verso lo scudo centrale, in acciaio dorato, decorato con una testa di Medusa. Tra le spade di manifattura spagnola e di varie epoche, si segnalano la spada d’acciaio di casa Filangieri, del XVII secolo, con lo stemma crociato retto da delfini e lo spadino ottocentesco di impiegato civile del tempo di Ferdinando I, in acciaio e osso.

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Particolarmente bella è la biblioteca , rivestita di legno, arricchita da busti marmorei, argenti e  più di 8000 volumi  di varie tematiche tra i quali quelli sulla storia  dell’arte napoletana, raccolti  dal principe Filangieri, ma anche libretti teatrali che documentano la storia culturale, musicale e teatrale dal XVII al XIX secolo.

Museo Civico Gaetano Filangieri

Via Duomo 288 – Napoli

Aperto da martedì a sabato 10/16, domenica 10/14.

Bianca

bianca di ceriolo annamaria“Bianca – donna  e monaca tra cinque e seicento” è il libro di Anna Maria Ceriolo Verrando che documenta  e racconta con garbo la storia  vera  di una probabile monacazione subita  e risalente all’Italia del ‘600. Una microstoria dell’estremo Ponente ligure che è una finestra su un mondo scomparso  e poco conosciuto, ma soprattutto  è una vicenda della condizione femminile e di un’epoca di fermento, quella della Controriforma, attraverso eventi che incisero nella storia. Non poteva passare inosservata la dedica del libro  “Alle donne che ancora aspettano di poter realizzare la loro personale scelta di vita e il loro diritto all’ istruzione” perché Bianca è innanzitutto una donna, forse una delle tante bambine costrette o persuase dalle famiglie a entrare in educandato, finendo poi per  restarvi come novizie e infine monache, subendo un destino simile a quello di molte altre, in quanto la loro dote corrispondeva da un terzo a un ottavo circa di quella riservata alle fanciulle destinate al matrimonio. In quei conventi  spesso le bambine rimanevano perché  incoraggiate dalla presenza di zie o cugine che prima di loro erano state indotte a  intraprendere la stessa vita. Non c’era in effetti  alcuna libertà di scelta per le donne dell’epoca. Bianca però a modo suo si rivela audace e coraggiosa e ci parla della sua storia attraverso una lettera che Anna Maria Ceriolo trova  per caso  nella sezione di Ventimiglia dell’Archivio di Stato mentre esamina una filza del notaio Simone Lamberti senior, capofila di una schiatta di notai di Vallecrosia, e rintraccia una serie di dati ricavabili da compravendite di immobili e terreni, da locazioni, transazioni commerciali, quietanze varie, liti e testimonianze, ingaggi commerciali, testamenti, strumenti dotali e corredi di spose. Nota infatti che tra i fogli di filza, generalmente piegati a metà  e in verticale come un foglio protocollo, ce n’era uno più piccolo degli altri e piegato in tre parti. Da una parte il notaio aveva vergato regolari quietanze e pagamenti mentre dall’altra, sia l’intestazione che la parte finale rivelano una lettera privata. Anna Maria scopre così una segreta  lettera d’amore, proveniente da un convento, arrivata allo studio notarile e lì nascosta, scritta in risposta ad una precedente lettera del notaio Simone Lamberti senior. La voce di questa donna, discretamente colta, trapela dalla scrittura curata e  con  una determinazione  audace e insolita per quei tempi dichiara i suoi sentimenti . “Io facio come fa li arberi che alla primavera fioriscono, così mè intrevenuto adeso a me… Io vi amava come senper ò fatto”. La storica, incuriosita ed emozionata, trova anche la bozza di una risposta del notaio, risale al casato di Bianca, ricostruisce  una storia amorosa, tormentata  da lunghe e logoranti attese, l’ insofferenza per  una condizione di vita non voluta che spesso induceva le giovani monache a lasciarsi morire, la volontà di vivere i propri sentimenti.  Mi fermo per lasciare un po’ nel mistero la vicenda di Bianca, prima donna e poi monaca.

Presento la mia amica Anna Maria Ceriolo Verrando, insegnante di lettere e autrice della  tesi “Bordighera nella storia”  che fu pubblicata e inserita dal prof. Nino Lamboglia nella Collana Storico –archeologica della Liguria Occidentale. L’incontro con il Lamboglia fu per Anna Maria determinante  per rafforzare l’amore per la storia e le sue metodiche al punto tale da farla divenire un’appassionata ricercatrice d’archivio, che ha sempre diviso il suo tempo tra la famiglia, il lavoro, la ricerca delle fonti e la poesia. Affermata storica loco-regionale, ha ricevuto a Bordighera nel 2011 il prestigioso Parmurelu d’oro, premio annuale assegnato per meriti storico-letterari-artistici- scientifici  o impegno civile a chi ha reso lustro alla città di Bordighera.

Cos’è la guerra?

dragoA volte mi spavento un po’ di me stessa. Ieri, pensando a un thread in un social network  sulle nostre paure infantili, ho iniziato a scrivere un post ricordando ciò che successe in una  mia classe quattro anni fa. Durante una conversazione, un bambino di sei anni mi chiese: “Maestra, cos’è la guerra?” Gli altri bambini iniziarono a ridere e a mimare sparatorie . Ebbi l’intuizione di tacere, perché in un primo momento pensai che scherzasse ma quando insistette, rivolto verso i compagni: “Embè, che ci avete da riiide? Cos’è la guerra?”,  mi ha completamente spiazzata. Dovevo trovare le parole giuste per un bambino di sei anni, ma non volevo sporcarlo con una spiegazione del reale. Mentre i compagni provavano a rispondergli , ho cercato di ricordarmi cos’era per me la guerra quando ero piccola. In pochi flash di memoria ho visto draghi e cavalieri, streghe, magie, diavoli (grazie a quel catechismo terrorizzante di cui ci infarcivano), indiani e cowboy. La guerra dei buoni e dei cattivi, a volte necessaria, per il lieto fine della storia. Una guerra interpretata da eroi e antieroi, spesso tra incantesimi e magie.

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Poi c’era un’altra guerra, quella narrata dai nonni, dagli zii e dai miei genitori: la guerra dei bombardamenti, della fame, dei parenti sfollati che arrivarono via mare da Napoli a casa dei nonni , dei soldati inglesi che occuparono l’appartamento dei nonni, della catasta di cappotti  da rammendare nell’atrio del portone , della nonna e della zia che vigilavano sulle figlie alle quali i soldati regalavano sguardi e sorrisi, carne in scatola e cioccolato. Fatti che mi incuriosivano, mentre mi rattristavano quelli di papà sulla fame e sul nonno che finì in un campo di prigionia in Egitto. Ieri volevo chiedervi se ricordate più o meno a che età, da bambini e da ragazzi, avete capito cos’è la guerra. Per  quel mio alunno,  che aspettava  una mia risposta, ho trovato parole banali, che non turbano, perché essa evoca solo parole nere: morte, distruzione, dolore, fame, perdita della casa, dei cari, delle fiabe e dell’ingenuità. “La guerra riguarda i grandi, che a volte non si capiscono o vogliono per forza qualcosa e diventano prepotenti e bisticciano”  “con i fucili e le mitragliatrici…” aggiunse il combattente di classe. In verità a quel bambino non volevo rispondere e mi sono poi chiesta che risposta si danno quei bambini che davvero vivono la guerra.

Ora sto pensando a cosa dire ai miei alunni di sette  anni se lunedì faranno domande sulla strage di Parigi.

 

I casi della vita

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Tutti, chi più e chi meno, abbiamo sofferto del mal di scuola, talvolta per il disagio dimettersi alla prova nello studio, in un rapporto “conflittuale” con i compagni di classe o con uno o più insegnanti. Mettersi in gioco, come alunno e come docente, implica un reciproco, ma non scontato, dare per avere. In fondo a scuola il ragazzo si confronta con coetanei e adulti, che fanno richieste diverse da quelle dei familiari e stabiliscono un’interazione basata sulla stima reciproca e sulla motivazione all’ apprendimento.
Penso però che ognuno di noi abbia vivo dentro di sé anche il ricordo di un bravo insegnante, non necessariamente accomodante o indulgente nei voti, ma imparziale, obiettivo, appassionato. Un insegnante che sapeva distinguere il momento della lezione dalla libera conversazione, che non s’arroccava su un piedistallo ma sapeva porsi , senza confusione di ruoli, a livello dell’alunno accompagnandolo nella sua crescita con una presenza apparentemente distaccata ma costante.

Dopo le movimentate vicissitudini  di scuola elementare  in cui ebbi l’onore di conoscere uno zero scappato sul mio quaderno, trascorsi gli anni delle scuole medie in una classe turbolenta con ragazzi problematici, alcuni dei quali erano veri e propri bulli, tant’è che picchiarono il professore di lettere, un prete che insegnava nella scuola statale, incapace di difendersi anche verbalmente . All’epoca gli altri docenti intervennero compatti  nelle dinamiche relazionali della classe per garantire in qualche modo il diritto dovere allo studio a chi voleva imparare ed era intimorito da certi atteggiamenti. Stimavo di più l’insegnante fermo, risoluto, deciso a fare lezione a mantenere la disciplina che quello rilassato che assecondava i ragazzi  che imperterriti continuavano nelle loro provocazioni. Anni fa non si parlava di disagio giovanile e rischio di devianza come oggi. Alcuni di quei compagni di classe non arrivarono nemmeno a vent’anni, il resto continuò gli studi. Eppure della scuola tutto sommato ho un duplice ricordo. Un po’ angosciante se penso a certi insegnanti che rispecchiavano la loro formazione, non sempre  efficace, e ad alcuni odiosi compagni di classe. Integrarmi  più volte in un contesto nuovo, diffidente e poco accogliente non è stato facile, ma imparai a  selezionare le mie amicizie, a  fregarmene di alcuni e a  battagliare con altri e il successo scolastico fu per me anche un mezzo per affermarmi nel gruppo con un senso di rivalsa e riscatto. Allo  stesso tempo della scuola ricordo anche amicizie sincere, sopravvissute a distanza di tempo e spazio, e  insegnanti  coscienziosi come la mia professoressa di storia e filosofia . Mi incantava con le sue spiegazioni, mi motivò nello studio trasmettendomi interesse per le sue materie, che reputo molto formative, e un metodo di studio basato sul confronto di diverse interpretazioni storiografiche di fenomeni ed eventi storici. Precorse  i tempi insegnando la storia per filoni conduttori costanti, per favorire,  prima attraverso  l’analisi e poi la sintesi, una visione globale in un’ottica di cause effetti, senza  uno studio esasperato di nozioni.

Era imparziale, autorevole e molto esigente, ma metteva i ragazzi in condizioni di essere all’altezza delle sue richieste durante le temute interrogazioni. Non assegnava mai una lezione se non l’aveva prima spiegata, integrava e approfondiva il libro di testo, ci faceva prendere appunti  e fare collegamenti interdisciplinari. Aveva il tempo per interrogare tutti, anche perché al quinto anno di liceo  eravamo soltanto in  dieci, ben tartassati tutte le settimane, e se registravamo un’insufficienza, rispiegava l’argomento e ci interrogava  di nuovo per farci colmare le lacune.  Non ci ha mai fatto fare una verifica scritta, eppure i nostri temi di storia furono ben valutati all’esame di maturità.  Sembrava indifferente, ma dietro i suoi occhi azzurri e intelligenti, capiva più di quanto non desse a vedere. È stata una delle poche persone che riuscì a leggermi dentro in un periodo che per me era di gran confusione e perplessità. Me lo disse al termine del ciclo di studi delle superiori. Finito l’esame di maturità, che sostenni per ultima nell’ultimo giorno delle prove orali a fine luglio, semimorta a causa dell’ansiosa attesa del fatidico giorno e della tremarella, al risveglio di un sonno ristoratore di 27 ore  durante il quale i miei si chiesero se fosse il caso di  chiamare un medico o un prete, seppi che voleva parlarmi. Mi chiedevo cosa fosse successo di grave… o cosa avessi inconsapevolmente combinato.  Mi disse che aveva apprezzato il mio impegno nei tre anni e che  a  volte le occhiaie di una notte insonne parlavano più di me  e che, secondo lei, ero portata per la filosofia.  Allora la sola idea di diventare un’insegnante mi faceva scappare in tutt’altra direzione. Oggi ne sorrido ma allora vivevo in pieno la contestazione di qualsiasi cosa. Non condividevo le sue parole ma  solo dopo molti anni ho concluso che non si era sbagliata. Il mio primo esame universitario fu filosofia del diritto che  preparai senza sapere da che parte cominciare. Mi interessava la materia e la studiai nell’incertezza di avere capito e nel  dubbio perenne  di non saperne abbastanza. A Genova mi  iniziò ad interrogare un assistente universitario, poi si avvicinò il professore che continuò il colloquio. Io lo conoscevo solo di fama e non pensavo ad altro che a schizzare via dalla sedia. Alla fine del colloquio ritirai il libretto, lo aprii e non vidi nessuno scarabocchio, quindi pensai di essere stata bocciata, ma con la stretta di mano. Un ragazzo mi disse che era il suo ultimo esame prima della discussione della tesi e io  con l’anima sconsolata, alla sua richiesta, gli porsi il libretto,  lo girò e scandì un 29 . Non sapevo se ridere per il voto o piangere per la mia imbranataggine. Brillavo in autostima al punto tale che qualche anno dopo mollai gli studi, sebbene avessi una media alta e  mi mancasse un terzo degli esami per concludere il corso di laurea. Grazie però a quella professoressa  ho vissuto di rendita nella preparazione per una seconda maturità che sostenni da privatista più tardi, quando mia madre pose come condizione al mio matrimonio il conseguimento del diploma magistrale “perché nella vita non si sa mai cosa può succedere.” Portai nuovamente storia come prima materia. Il presidente della commissione era un severo preside di Varese, che mi fece fare un excursus filosofico ( meno male che portavo storia) e in cuor mio benedissi gli appunti del liceo  che avevo conservato come sacre reliquie.

Ho rivissuto un po’ la stessa trepidazione durante gli esami di maturità dei miei figli e tra le loro ansie, i libri e quaderni sparsi ovunque e le nottate di studio ho ripensato a quegli anni, a quell’ insegnante che  avrei voluto ringraziare ma mancò  dopo pochi mesi  dal nostro incontro in seguito ad una malattia di cui non parlava mai. Alla vigilia di ogni nuovo anno scolastico, che per me coincide con l’inizio delle lezioni che mi motivano nella scuola, rileggo come vademecum la traccia del tema della maturità magistrale che svolsi: Einstein, rivolgendosi ai giovani, disse loro: “Tenete bene a mente che le cose meravigliose che imparate a conoscere nella scuola sono opere di molte generazioni: sono state create in tutti i paesi della terra a prezzo di infiniti sforzi e dopo appassionato lavoro. Questa eredità è lasciata ora nelle vostre mani, perché possiate onorarla, arricchirla e un giorno trasmetterla ai vostri figli. E così che noi, esseri mortali, diventiamo immortali mediante il nostro contributo al lavoro della collettività“. Riflettete su questo appello a voi indirizzato.

Iniziai a scrivere ma  non ero convinta,  ricominciai il tema daccapo seguendo il bandolo di una matassa che pian piano si sgrovigliò dentro di me facendo emergere quei principi fondanti dell’insegnamento che all’epoca non conoscevo, ma  che forse avevo appreso indirettamente e inconsapevolmente dalla mia scuola, cioè da quella che avevo vissuto tra luci e ombre. Più tardi li ho ritrovati in occasione della preparazione per il concorso magistrale e ormai mi appartengono.

Il tema  piacque alla commissione e mi iniziò a fare capire quale fosse la mia strada. Lo scrissi  con l’anima pensando soprattutto alla mia professoressa che a tutt’oggi ricordo con grande stima, sia come insegnante che come persona. Grazie prof !

 

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  Dipende da come ci si pone…

 

“Dipende da come ci si pone…”

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La città eterna degli angeli è lontana ma tanto presente nei miei occhi che continuano a vederne e a cercarne la bellezza. Una bellezza tanto vasta e invadente che  forse non basta una vita intera per viverla tutta, e centellino i ricordi di Roma  con parsimonia, come tutte le cose preziose che si custodiscono con cura in uno scrigno dentro di sé . A volte capitano cose che arricchiscono  tanto da rendere insignificante tutto ciò che prima ritenevi importante. 

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Un primo giorno di scuola come tanti altri, diverso solo perché a Roma e non più in Liguria. Una prima classe con bambini e genitori emozionati, come altri, come in passato noi con i nostri figli. Due fratellini, maschio e femmina  con un anno di differenza, sono accompagnati da un ragazzo e da un uomo in giacca e cravatta,che credevo il papà e invece , capisco, è un mediatore culturale. Saluta, mi dice chi verrà a prenderli, me li affida. Prendo per mano la piccola dai grandi occhi nocciola mentre il fratello, un po’ impettito, le sta vicino cercando di celare il senso di spaesamento nel nuovo contesto. Quando gli altri genitori vanno via, quel bambino mi porge un foglio. Sua mamma si presenta  a me e alle mie colleghe,  in una grafia curata comunica  che è molto contenta che i suoi figli inizino a frequentare la scuola, che spera di conoscerci presto e ci augura un buon inizio di anno scolastico. Un pensiero gentile sbocciato tra caratteri in stampato maiuscolo ed errori di ortografia, così insolitamente  gentile che mi commuovo.  Questi due bambini  sono di un’educazione, a dir poco, disarmante.

'a manoAbituate a bambini irrequieti ,  lamentosi che spesso si contendono i giochi e l’ attenzione degli adulti, non ci sembra vero che  loro stiano ben seduti, forse un po’ troppo timidi e disorientati. Lui dà sempre  la mano alla sorella, quasi per proteggerla, perché è minuta, un po’ più piccola delle bimbe della sua età  ma anche tanto bella. Anche l’ ometto, serio e  taciturno, è un bel bambino con gli stessi occhi color nocciola. Il loro silenzio tradisce un’attenzione ad ampio raggio verso tutte le persone e le cose che li circondano.  Dopo qualche giorno i bambini iniziano a familiarizzare con gli altri, con discrezione, senza insistere troppo, quasi con timore. 

prog muse“Qual è stato per te un momento in cui ti sei sentito felicissimo?” alle risposte un po’ scontate “Quando ho festeggiato il compleanno, quando ho ricevuto in regalo…, quando ho vinto giocando a calcio…” I.  ha risposto timidamente  :“Quando papà ha detto che potevo andare a scuola”, la bimba  invece: “ Quando mamma mi ha svegliato di notte e abbiamo mangiato insieme  pane e cioccolato”. L’anno dopo alla tradizionale domanda  “ Che cosa ti piacerebbe fare da grande?” oltre alle solite risposte “ il calciatore, la ballerina, la cantante, il veterinario, …” se  la bimba ha prontamente detto  “la ballerina” ( del resto ha una straordinaria abilità e armonia nei movimenti  nel seguire il ritmo) invece  l’ometto, che ben pondera le parole,  ha esordito  con “ lo studente modello” . Risposta  pertinente a quel suo desiderio e orgoglio di riuscire a imparare, che per lui  significa  riscattarsi dalla sensazione e dalla condizione di non essere mai ben accetti, di essere discriminati, additati perché rom.

In un campo di Roma quel bambino accudisce le sorelline, ma quella di sei anni  “  sa progetto Mus-e 1lavare i piatti (maestra) come una donna grande” e canta e gioca con la più piccola quando la mamma va a lavorare. Sono seguiti dai giovani dell’Arci che spesso fanno da tramite tra la scuola e la famiglia. Ho conosciuto i genitori  di quei bambini che sono venuti  a scuola indossando il loro vestito più bello. Io e le colleghe pensavamo che non si sarebbero presentati al colloquio, invece  in perfetto orario un ragazzo e una ragazza, di due anni più grandi di mia figlia, sono entrati  nell’ atrio  un po’ timorosi e impacciati. Lei, dai  lineamenti delicati, grandi occhi nocciola e lunghi capelli legati, era  gentile nei modi e nelle parole, aveva un che di regale nel portamento. Bella, davvero bella.  “Come vi trovate a Roma?” “Maestra , qui la gente non è cattiva, molto dipende da come uno si pone”. Lui più taciturno, forse diffidente o semplicemente imbarazzato. Quando è finito il colloquio ci hanno salutato abbracciandoci. Non siamo solite salutare i genitori in modo così espansivo, ma quel saluto spontaneo ci ha coinvolte. Quel congedo ha sciolto ogni perplessità e costruito un rapporto di fiducia.

Qualche settimana prima avevamo scritto a tutti i genitori un generico avviso di controllo dei bambini  per evitare casi di pediculosi e la giovane mamma  ci aveva scritto sul diario “Grazie, maestra.  Scrivi pure se vedi pitocchi,  scusa ma  non posso fare il bagno tutti i giorni ai miei figli. Grazie ,grazie”. Quella ragazza ha insegnato ai suoi figli a usare le posate e a stare composti a tavola, cosa rara al giorno d’oggi. Quei bambini arrivano puntualmente a scuola, tranne quando il campo si allaga con la pioggia e lo scuolabus non passa a prenderli . Non hanno sempre l’occorrente scolastico, come del resto anche altri bambini ai quali spesso provvediamo noi insegnanti,  ma sono sempre in ordine, pettinati e cambiati. Consegnano  i quaderni nuovi e si mostrano quasi con fierezza  con il grembiule nuovo  indosso, quando la mamma riesce  a comprarli .

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Quei bambini sono stati contenti di vedere il loro papà ben vestito e accolto tra gli invitati e le autorità all’ inaugurazione di un Progetto sui diritti dell’Infanzia  proprio in una  scuola d borgata, che qualche giornalista ha definito in una strada da piccolo Bronx, ma dove  ho trovato l’ennesima conferma  che la scuola e l’istruzione rendono possibile l’integrazione, un’integrazione che dipende da come ci si pone, reciprocamente.

Anni fa, quando il campo Candoni  fu al centro di un progetto interistituzionale all’avanguardia per l’integrazione,  in quella scuola prima dell’inizio  delle lezioni le assistenti comunali accoglievano tanti bimbi rom e provvedevano anche a lavare loro e i loro vestiti. Una scuola dove si lavora molto per contrastare ogni forma di disagio,dove ho insegnato volentieri  ma soprattutto  imparato tanto e lasciato un po’ di cuore.

20140309_105302Questa non è una fiaba, magari lo fosse e avesse un lieto fine, ma è una mia bella esperienza che ho voluto condividere per testimoniare che  non tutti i rom sono brutti, sporchi e cattivi come si è sentito tanto parlare di recente . A volte dipende da come ci si pone. Reciprocamente. A volte basterebbe ricordarsi  che tanti, troppi sono i bambini invisibili che vivono nei canneti o in  campi -discariche, come se fossero topi. Tanti dormono in furgoni freddi d’inverno e roventi d’estate  anche perché più sicuri dei campi sovraffollati dove la convivenza è difficile.  Mi hanno detto che quei miei alunni sono un’eccezione. Forse  lo è anche un’altra mamma rom che, dopo lo sgombero di un campo, ogni giorno percorreva  circa  tre chilometri  per accompagnare  due suoi figli a scuola e una mattina stava accovacciata in terra con un bimbo al collo perché, incinta e a digiuno, si era sentita male. Probabilmente due eccezioni non bastano a far saltare ogni pregiudizio ma sono state e sono per me e per altri  un prezioso e  tanto, tanto caro esempio.  

Buon Natale, amici miei ! SAM_2790

La libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare. (Piero Calamandrei)

Artist Chris Buzelli“Quando io considero questo misterioso e miracoloso moto di popolo, questo volontario accorrere di gente umile, fino a quel giorno inerme e pacifica, che in una improvvisa illuminazione sentì che era giunto il momento di darsi alla macchia, di prendere il fucile, di ritrovarsi in montagna per combattere contro il terrore, mi vien fatto di pensare a certi inesplicabili ritmi della vita cosmica, ai segreti comandi celesti che regolano i fenomeni collettivi, come le gemme degli alberi che spuntano lo stesso giorno, come certe piante subacquee che in tutti i laghi di una regione alpina affiorano nello stesso giorno alla superficie per guardare il cielo primaverile, come le rondini di un continente che lo stesso giorno s’accorgono che è giunta l’ora di mettersi in viaggio. Era giunta l’ora di resistere; era giunta l’ora di essere uomini: di morire da uomini per vivere da uomini.”

 (dal discorso tenuto al Teatro Lirico di Milano, 28 febbraio 1954, in Uomini e città della Resistenza: discorsi scritti ed epigrafi, Laterza) 

 

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La Resistenza a Roma e l’eccidio del Ponte dell’Industria

“Ho semplicemente lottato per una causa che ho ritenuta santa: quelli che rimarranno si ricordino di me che ho combattuto per preparare la via ad una Italia libera e nuova.” (Lorenzo Viale, anni 27)

Giornata mondiale per la consapevolezza dell’autismo

Dell’autismo ne ho parlato inAutismo : vivere dietro uno specchio dove ho riportato  lo scritto “Sono affetto da autismo, ecco che cosa che mi piacerebbe dirti”  di Angel Rivière, professore di psicologia evolutiva presso l’Università Autonoma di  Madrid, scomparso nel 2000 dopo aver dedicato tutta la sua vita professionale all’autismo.

Oggi come ieri penso  a un bambino di straordinaria intelligenza, che mi insegna a mettermi in gioco, a procedere a volte per intuizione e tentativi, a trovare nuove strategie, a captare il suo mondo e il suo modo di pensare e di sentire. Da grande vorrà fare il riciclaggio (dei rifiuti :) ), il bibliotecario, l’autista dei pullman (per le gite) e dei camion, il pizzettaro. Risposte che mi fanno apprezzare il mio lavoro.

Vi ripropongo Mon petit frère de la lune (Il mio fratellino dalla luna) di Frédéric Philibert , un video molto poetico come le parole dei bambini, semplici, essenziali, dolci e chiare.

“Dobbiamo essere pazienti per riuscire a catturare la luna con un filo d’oro e avvicinarla al nostro vecchio pianeta”

Giornata internazionale contro la violenza sulle donne

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Una delle tante ragioni per cui ho iniziato a scrivere riguarda  la violenza sulle donne per raccontare, commentare, indignarmi sulle tante forme di discriminazione, abuso, maltrattamento,  intolleranza contro la donna. Alcune abiette e lontane, altre più subdole e sottili.

Il femminicidio in atto è più evidente e denunciato, e non bastano solo le parole per fermarlo e interventi legislativi e  giudiziari per reprimerlo. Occorre una cultura che promuova il rispetto dell’identità di genere,  basata sull’affettività e sul riconoscimento delle rispettive diversità, emozioni e sentimenti,  che insegni a trasporsi nell’altro, per prevenire la violenza non solo contro le donne, ma contro tutti coloro ritenuti diversi o comunque percepiti come contrapposti. La rabbia latente esplode con un’aggressività che rivela l’incapacità di gestire le proprie emozioni e riconoscere quelle altrui non solo  in fondamentali svolte di vita, ma anche  in occasione di una partita di calcio o di  un parcheggio negato. Un delirio di onnipotenza ove l’altro viene annullato, in tutti i sensi.(da “Cicatrici di guerra:il Clan delle Cicatrici” in skipblog.it)

 

Prendiamo atto che  le morti violente di tante donne non sono dovute a balordi, in preda ad alcool o droghe, ma il più delle volte a premeditazione di chi ha una mentalità che deve essere sradicata a livello socio-culturale, non solo da noi donne che stiamo acquisendo maggiore consapevolezza, ma soprattutto dagli uomini di buona volontà che non devono soltanto prendere le distanze a parole ma intervenire ogni qualvolta si imbattano in qualche farabutto che si sente più sicuro e potente opprimendo  una donna con angherie. La violenza contro le donne è una questione MA-SCHI-LE. Le donne si sono emancipate. Ora tocca a voi, Uomini di buon volontà,  sradicare quella subdola solidarietà di genere basata sul  fingere di non vedere e di non sentire nei luoghi pubblici e  di lavoro, nei condomini.

Ora, più di prima, spetta anche a chi opera nella scuola, e siamo tanti, a segnalare in modo riservato a chi di dovere (in primis al Dirigente scolastico, e alle forze dell’ordine) quando si appurino situazioni ad alto rischio di letalità.È un obbligo giuridico e morale, sicuramente scomodo, di ogni insegnante. L’omissione è perseguibile per legge. Nella scuola dell’infanzia e primaria spesso i bambini e le madri raccontano; nelle scuole secondarie di primo e secondo grado le ragazze a volte parlano:  si può aiutare chi è in difficoltà per prevenire un inferno non solo alla donna ma anche ai figli. 

 In questi anni  non mi sono sfuggite le tante, troppe,  donne  italiane  e straniere morte, il più delle volte per mano di un uomo, più di rado per suicidio perché le violenze subite le avevano uccise dentro.

A marzo dell’anno scorso   mi ha molto colpito la notizia del suicidio di Fakhra YounasFakhra Younas , autrice del libro “Il volto cancellato”: volto, braccia, petto e soprattutto identità sfigurati con l’acido dal  marito perché lei, giovane e bellissima, aveva deciso di divorziare da quell’uomo violento, possessivo e potente, condannato poi a  pochi mesi di carcere. Fakhra fu aiutata dalla suocera a fuggire con il figlio in Italia e nel 2000 trovò aiuto a Roma nell’associazione Smileagain. Si sottopose a circa  una quarantina di interventi chirurgici, ma certe ferite interne non si sono cicatrizzate e  Fakhra, simbolo della ribellione delle donne del Pakistan, dell’ India, del Bangladesh e del Nepal, non ce l’ha fatta.

Una realtà non troppo  lontana dalla nostra, visto che quest’anno qualche farabutto  italiano ha adottato questa triste prassi. Proprio oggi una ragazza italiana, Lucia Annibali,  ha ricevuto dal Presidente della Repubblica l’Onorificenza di Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana per il coraggio, la dignità e  la forza d’animo di reagire a un’aggressione con l’acido, commissionata da un  talebano nostrano.

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In India le donne sono insorte ma le violenze, anche contro bambine piccolissime, continuano;  la giovane Malala Yousafzai, candidata al Premio Nobel per la pace, ha captato l’attenzione del mondo intero nel rivendicare i diritti civili e in particolare allo studio per le donne della città di Mingora (Pakistan), negati da un editto dei talebani.

In Italia ormai le donne denunciano di più le violenze subite e  spesso pare che i media annuncino un bollettino di guerra. Non c’è giorno che non si senta di qualche donna, giovane e meno giovane, che non muoia per mano del marito, dell’ex , del fidanzato, del compagno, dell’amante o di un familiare. Non se ne può più. Il campionario maschile è variamente assortito, da Nord a Sud, per età ed estrazione socio culturale. Il problema non è tanto limitato, come si vuole fare credere, e la cosa che più mi preoccupa è scoprire da ciò che racconta mia figlia, poco più che ventenne, che alcuni ragazzi coetanei non vogliono che la lei di turno vada a studiare in un’altra città, che esca con le amiche quando lui si concede uscite o rimpatriate tra boys o che abbia interessi propri, e pretendono di  essere continuamente aggiornati con telefonate e sms su  ogni minimo spostamento.

Siamo nel 2013: se da ragazzina  immaginavo che in un lontano futuro saremmo diventati una sorta di androidi senza nemmeno più una diversità di genere, perché l’istinto sarebbe stato soppiantato   da menti evolutissimamente perse in altri meandri, oggi  riconosco che per fortuna è rimasta l’identità di genere, ma in quanto ad evoluzione culturale non saprei proprio a che punto siamo arrivati. 

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Anche in Italia c’è tanto da riflettere e da fare per diffondere la cultura di genere. Lo dobbiamo alle vittime di abusi e maltrattamenti ma soprattutto alle   oltre cento vittime  che “non contano”, o contano molto, ma molto meno dei loro mariti, compagni, partner, padri che le hanno uccise. Contiamole e osserviamole  una alla volta per non smarrire i loro passi e  la loro storia.  L’amore dona vita. I killer e i violenti non amano. Quelle donne hanno amato un uomo che non le meritava..
 Il Campidoglio si accenderà di rosso, e tante iniziative sono previste nelle città italiane per dire “No alla violenza contro le donne” a ricordo delle vittime  di ogni età e nazionalità. L’artista messicana Elina Chauvet, che ben conosce il femminicidio di  Ciudad Juárez, ha importato in Italia  le “Zapatos Rojos”, scarpe rosse,  per non dimenticare il cammino interrotto  delle tante donne  uccise. Formano un percorso  di  solidarietà per  quelle che in tutto il mondo  hanno subito e subiscono violenza.

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“L’arte non è quello che vedi ma quello che fai vedere agli altri” (Edgar Degas)

Dal 23 ottobre il Museo dell’Ara Pacis a Roma ospita la mostra Gemme dell’Impressionismo. Dipinti della National Gallery of Art di Washington”, che per la prima volta hanno lasciato l’America.

Andrew-Mellon-con-i-figli-Ailsa-e-Paul-1913-ca.-National-Gallery-of-Art-Washington-Archivio-del-Museo-215x300Alla fine degli anni ’20 il magnate  Andrew W. Mellon iniziò quella che sarebbe diventata una delle più importanti collezioni d’arte del mondo e nel 1936 scrisse al presidente statunitense Franklin Delano Roosevelt con l’intenzione di offrirla allo stato americano. Dopo la sua morte, nel 1937, i figli Paul  e Ailsa, amanti del bello, della poesia  e dell’arte, continuarono a coltivare la passione paterna e ad ampliare  la collezione Mellon che si arricchì  sempre più anche grazie a donazioni private. Nel 1941 fu inaugurata la National Gallery of Art di Washington con parte della vasta collezione perché solo nel 1978 i fratelli Mellon  donarono i capolavori dei grandi impressionisti e post impressionisti, quali Manet, Monet, Degas, Renoir, Pissarro, Toulose –Lautrec, Sisley, Cèzanne,Gauguin,Van Gogh,Seurat, Bonnard che fino ad allora avevano custodito nelle proprie abitazioni private. 

La mostra “Gemme dell’Impressionismo” vanta 68 opere, a partire da Boudin(1824-1898), maestro di Monet, fino ai post impressionisti Bonnard (1867-1947) e Vuillard (1868-1940), esposte secondo  aree tematiche che vanno  dal paesaggio  al ritratto , dalle figure femminili alle natura morta, fino alla rappresentazione della vita moderna. Un importante  evento che rivela  il gusto raffinato dei Mellon  e regala al pubblico dipinti di unica e straordinaria bellezza.

Boudin_Eugene_Spiaggia di Trouville_1863_Washington_National Gallery

 

Si parte dai precursori del movimento artistico, cioè da Boudin e dai suoi inconfondibili paesaggi e  spiagge bretoni, in particolare di Trouville e Deauville. 

Nei dipinti en plein Air, realizzati cioè all’aperto, l’impressionista  coglie la luce del momento  che cambia con la prospettiva, la naturalezza dei colori, i cambiamenti atmosferici così ben resi e capaci di trasformare lo stesso paesaggio in ore diverse. Non  a caso Sisley  era solito dire “ il cielo è la prima cosa che dipingo”. 

campo di tulipani di van gogh

Tra questi spicca “Il campo di tulipani” di Van Gogh (1883) che al fratello  Theo scrisse “ ultimamente, mentre dipingevo,  ho sentito una certa potenza coloristica che si andava risvegliando in me, più forte e più  di quella sentita fino ad ora. Può darsi che il mio nervosismo di questi giorni sia dovuto a una sorta di rivoluzione del mio metodo di lavoro, di cui sono andato alla ricerca e a cui stavo già pensando da molto tempo”. 

 

Johan Barthold Jongkind - The Towpath, 1864

 

Ben rappresentata la nuova resa pittorica dei paesaggi rurali nelle opere di Camille  Pissarro per il quale sono “Beati coloro che vedono il bello in posti semplici e umili dove gli altri non vedono nulla” e di Johan Barthold Jongkind  di cui Claude Monet scrisse “ e a lui devo la definitiva educazione dei miei occhi” (a destra  l’Alzaia).

 

 

Renoir_Auguste_Cogliendo fiori_1875_Washington_National Gallery of Art

 

L’opera  “Cogliendo fiori” di Renoir illustra la  locandina della mostra in quanto ben rappresentativa dell’impressionismo francese .  

 

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Nei “villaggi sul mare in Bretagna” di Odilon Redon  emerge l’iniziale  credo artistico dell’artista che con linee e colori vuole rappresentare non tanto l’aspetto esteriore degli oggetti, quanto le forze psichiche che ne costituiscono l’anima.  Questo paesaggio di sicuro la trasmette.

 

studio_per_la_grande_jatte_galleryNello studio per la famosa “Grande Jatte” di Seurat  è ben evidente la nuova tecnica pittorica ove “se si considera un decimetro quadrato ricoperto di un tono di colore uniforme, su ogni centimetro quadrato  di tale superficie, in un vorticoso movimento di macchioline, si trovano tutti gli elementi costitutivi delle tonalità”.

 

Tra i ritratti di “George Moore nel giardino”, ad opera  di Manet, e di “Claude Monet” ,ad 92994-primary-0-440x400opera di Renoir, e negli autoritratti di Edgar Degas, Henry Fantini Latour, Edouard Vuillard e Paul Gauguin esplode l’innovazione dell’impressionismo che ritrae non più per celebrare il personaggio ma per coglierne l’essenza e  attraverso l’acutezza dello sguardo ne fa captare  il carattere. Nel 1860, a riguardo della ritrattistica, Baudelaire disse “una bella testa di uomo conterrà qualcosa di ardente e di triste- dei bisogni spirituali, delle ambizioni tenebrosamente represse- l’idea di una potenza …”, come si può notare nell’autoritratto di Degas. 

Il ritratto è un diffuso tema pittorico, interpretato però in modo nuovo perché privilegia Gauguin_Paul_Autoritratto dedicato a Carriere_1888-1889_Washington_National Gallery of Art l’uomo moderno con il suo abito e le sue  consuetudini sociali, osservato in casa o per strada. Lo stesso Monet ritrae la moglie per evidenziare una figura parigina dell’epoca. 

Ben presto Parigi diviene capitale delle Arti, soprattutto grazie a grandi esposizioni d’arte dette Salons e  organizzate  sin dal ‘700 consentendo al pubblico di conoscere gli  artisti emergenti.

Purtroppo però essi sono controllati dalle brocca di latte e frutta di Cèzanneistituzioni accademiche  per cui vengono escluse circa  4000 opere di artisti , poi riconosciuti grandi esponenti dell’impressionismo.  Così proprio un grande escluso, Gustave Courbet, nel 1855 crea il suo  padiglione del “realismo”, e nel 1863 il gruppo degli impressionisti dà vita al Salon dés refusès (dei rifiutati)  per fare conoscere il nuovo modo di dipingere e concepire l’arte. Nonostante ciò,  proprio  Cèzanne, che guarda ai vecchi canoni artistici per aprirsi a insolite sperimentazioni pittoriche ,  spesso e a lungo ne resta  escluso.

La sezione  “Donne, amiche, modelle” si apre con “La sorella dell’artista alla finestra” , berthe morisotfamoso dipinto di Berthe Morisot, amica di Manet di cui forse fu innamorata  anche se finì con lo sposare suo fratello Eugène. Esclusa dall’École des Beaux-Arts, faticò non poco a inserirsi  nel fermento artistico dell’epoca, ma il suo talento alla fine travalicò i confini imposti dal mondo maschile dei pittori. A suo dire “ i veri pittori capiscono con il pennello in mano” nel momento in cui si trovano a trasmettere la loro percezione, impressione  del visibile.

L’universo femminile, protagonista della vita moderna, è un tema privilegiato dagli impressionisti. Le figure femminili dell’epoca osservate quasi di sottecchi in casa e nei giardini, così come nelle sale da ballo e  nei caffè, non sono più personaggi mitici o letterari.  La donna moderna non rispecchia più gli  schemi idealizzanti del passato: le raffinate signore della borghesia o le donne di ambienti più modesti sono  colte nei comuni rituali quotidiani, nel risveglio, dinanzi alla toilette, durante la vestizione, prima dell’entrata in scena sul palcoscenico di un teatro o della vita domestica.

Auguste-Renoir.-Madame-Monet-e-suo-figlio-1874-olio-su-tela-300x220

“La donna è senza dubbio una luce, uno sguardo, un invito alla felicità, e talvolta il suono di una parola, ma soprattutto un’armonia generale, non solo nel gesto e nel movimento delle membra, ma anche nelle mussole, nei veli, negli ampi e cangianti nembi di stoffa per cui si avvolge, e che sono come gli attributi e il fondamento della sua divinità.(Charles Baudelaire in “La peintre de la vie moderne”,1863)

Chi non riconosce le ballerine di Degas, la giovane donna che si pettina e Madame Henriot di Renoir oppure Carmen Gaudin , la modella che  Toulouse Lautrec scelse  per la folta e spettinata capigliatura ramata? Donne reali, che vivono accanto e si possono incontrare ovunque. 

giovane donna che si pettina-renoirballerine_dietro_le_quinte_galleryMostre:Gemme dell'impressionismo da Washington a Roma

Con l’Impressionismo anche la natura morta si rinnova , si abbandona  la cura del particolare per cedere a una visione d’insieme resa con semplici, ma non casuali, disposizioni di oggetti e pennellate di luce che giocano sulle tonalità del colore, come si può vedere nella “Natura morta con ostriche,1862” di Édouard Manet, nella splendida “Natura morta con uva  e garofano, 1880” di  Henry Fantin- Latour  e nella famosa “Brocca e frutta” di Paul Cézanne. Cambia la composizione, l’elemento portante spesso non è centrale, ma luce e colore lo evidenziano, a volte scomponendo volumi.

Manet_Edouard_Natura morta con ostriche_1862_Washington_National Gallery of ArtNatura morta con uva e garofano- Henri Fantin-Latour

 

L’eredità dell’Impressionismo passa a Pierre Bonnard e Édouard Vuillard,  artisti che segnano il passaggio verso il simbolismo, rivelando gusto per l’ornamento e l’uso irrealistico del colore.

Vuillard_Edouard_Bambina con la sciarpa rossa_1891ca_Washington_National Gallery of Art

La prospettiva piatta, tipica delle stampe giapponesi, come la frammentazione della visione in scene quotidiane con insoliti tagli visivi caratterizzano la loro produzione artistica. Il soggetto non è al centro della tela, anzi a volte  è visibile solo in parte, come in “La scatola dei colori dell’artista  e rose” (1892) e la “Bambina con la sciarpa rossa” di Vuillard (1891).

Di Bonnard si notino “ Due cani in una strada deserta” del 1894 e  la “Tavola apparecchiata in giardino”(1908) ove si rispecchiano la sua concezione dell’arte pittorica in quanto “ non si tratta di dipingere la vita, ma di rendere vivente la pittura”.

A distanza di tempo sono sicuramente viventi-anzi  immortali- queste preziose gemme dell’Impressionismo. 

598px-Two_Dogs_in_a_Deserted_Street,_Pierre_Bonnard,_c1894Bonnard_Pierre-Table_Set_in_a_GardenTavolo con scatola dei colori dell’artista e rose-Édouard Vuillard

 

Edouard Vuillard - Vase of Flowers on a Mantelpiece, 1900

 

Immagini dal web

 

Gemme dell’Impressionismo. 
Dipinti della National Gallery of Art di Washington. Da Monet a Renoir da van Gogh a Bonnard

Museo dell’Ara Pacis 
Lungotevere in Augusta, Roma

23 ottobre 2013 – 23 febbraio 2014 

 

Poesia per Gianni Rodari – Bruno Tognolini

autunno

 

Poesia per Gianni Rodari 

 

Mia figlia si svegliava con le tue rime in musica
A tua figlia dicevi fiabe ad alta voce
Anch’io a mia figlia leggevo ad alta voce
Ho studiato con tua figlia all’università
Il mio mestiere è diventato il tuo

C’è un fiume di padri e di figli, di rime e di fogli
C’è un giro di grandi stagioni, di madri e di mogli
C’è il rosso coraggio delle primavere
Le figlie son vere, le fiabe son finte
Ma tu non temere, le guerre che hai perso son vinte
C’è il rosso di foglie che cadono, qui nell’autunno
Nel tempo del sonno e del danno
Le foglie son vere, le figlie son molte
Le rime che lasci cadere
Son state raccolte
E ormai dureranno le estati della filastrocca
La gente ora sa che sapevi suonare
Suonare ci tocca
Ti abbiamo seguito, abbiamo accordato la rima
Le fiabe son vere, c’è un nuovo mestiere
Che non c’era prima

I poeti per bambini intagliano teatrini del mondo
I poeti per bambini costruiscono giocattoli dell’anima
I poeti per bambini son Piccoli Zii per i figli di tutti

Contro i Grandi Fratelli ignoranti, meschini e corrotti
Tutti noi stamburanti di rima
Tutti noi musicanti di Brema
Noi poeti un po’ gatti, un po’ galli, un po’ cani e somari
Camminiamo sulle strade aperte
Da Gianni Rodari

  

Da “Filastrocche” di Bruno Tognolini