Donne del Risorgimento: Anita Garibaldi

Il Gianicolo è un parco pubblico molto suggestivo sia  perché offre dall’alto una splendida veduta di Roma, sia perché è un  luogo della memoria, che nei grandi monumenti equestri di  Giuseppe e di Anita Garibaldi, negli 84  busti e nelle quattro  stele dedicati ai combattenti garibaldini, provenienti da ogni parte d’Italia , ricorda la strenua difesa della breve Repubblica Romana tra l’ aprile e il luglio del 1849.

Il monumento celebrativo di Anita Garibaldi , realizzato da Mario Rutelli ed inaugurato nel 1932, custodisce le ceneri di Ana Maria de Jesus Ribeiro da Silva, universalmente  nota come Anita Garibaldi (Morrinhos, 30 agosto 1821- Mandriole di Ravenna 4 agosto 1849).

 Anita stringe tra le braccia un bambino, molto probabilmente Menotti, il figlio appena nato, portato in salvo dalla madre che di notte scappò a cavallo per sottrarsi alle violente  truppe imperiali giunte a  San Simon nel 1840 .Garibaldi, che l’aveva lasciata a casa di amici per cercare vesti per lei e il piccolo, la ritrovò nella foresta mentre allattava il primogenito.  

Anita, l’unica donna veramente amata da Garibaldi, a diciotto  anni divenne la sua inseparabile compagna , condividendo fino alla fine una vita avventurosa e difficile tra stenti, rinunce e sacrifici, ideali e battaglie per terra e per mare, sia in Sud America che in Italia. È passata  meritoriamente alla storia come l’Eroina dei due mondi, emblema della donna combattente e leggenda vivente del Risorgimento Italiano.   

Da Garibaldi ebbe quattro figli:  Menotti (1840), Rosita (1843) morta all’età di due anni, Teresita (1845) e Ricciotti (1847) . Di umili origini, sin da ragazzina mostrò un carattere indomito, forte e determinato. Alta, fiera, dai grandi occhi scuri conobbe e  conquistò il cuore di Garibaldi nel1839 a Laguna, piccola città a sud del Brasile durante le lotte sudamericane per l’indipendenza repubblicana. Una giovane donna  “ il cui coraggio io mi sarei desiderato tante volte”- come scrisse di lei il marito  nelle Memorie autobiografiche- e che Anita mostrò   nella strenua difesa della breve Repubblica Romana. 

Dopo la resa di Roma  Garibaldi , con l’inseparabile Anita  e i suoi compagni, compì un disperato viaggio verso Venezia che ancora resisteva agli Austriaci. Sperava di  accendere l’insurrezione nell’Italia centrale ma, inseguito da truppe francesi, pontificie e poi austriache, nel luglio del 1849  si diresse verso la repubblica di San Marino.

 

Nelle sue “ Memorie” descrisse con   un’analisi umanamente schietta la criticità  del momento, le condizioni disperate di Anita, incinta di sei mesi,  e  la viltà dei  disertori “ codardi nell’ abbandonare vilmente la causa santa del loro paese, essi naturalmente scendevano ad atti osceni e crudeli cogli abitanti. Ciò sommamente mi straziava, peggiorava ed umiliava non poco la già sventurata posizione nostra! Come potevo io mandare dietro a quelle scellerate masnade, attorniato come mi trovavo dai nemici! Alcuni colti in flagrante erano fucilati;ma ciò poco rimediava,andando la maggior parte impuniti. La situazione divenuta disperata, io cercai d’arrivare a S. Marino.Avvicinatomi alla sede di quelli eccellenti Repubblicani, giunsemi una loro deputazione, ed avvendone avuto notizie, mi avvicinai per conferire con essa. E mentre io mi trovavo conferendo colla deputazione di S. Marino, un corpo di Austriaci comparì alla nostra retroguardia e vi cagionò confusione tale, che tutti presero a fuggire quasi senza veder nemici, almeno la maggior parte.Avvertito di tal contrattempo, retrocessi, trovai la gente fuggendo, e la mia valorosa Anita, che col colonnello Forbes facevano ogni sforzo per trattenere i fuggenti. Quella incomparabile donna incapace di qualunque timore aveva lo sdegno dipinto sul volto e non poteva darsi pace di tanto spavento in uomini che poco prima s’eran battuti valorosamente….”Giunti a S. Marino Garibaldi  scrisse su un gradino d’una chiesa al di fuori della città l’ordine del giorno:“ Militi, io vi sciolgo dall’ impegno d’accompagnarmi. Tornate alle vostre case;ma ricordatevi che l’Italia non deve rimanere nel servaggio, e nella vergogna!”  Dei circa 4000 uomini, partiti da Roma, rimasero solo 200 seguaci  coi quali  giunse a Cesenatico per poi imbarcarsi  su barche da pesca ( bragozzi)  alla volta di  Venezia. “Per parte mia, però, non avendo idea di depor le armi, con un pugno di compagni, io sapevo non impossibile aprirsi strada e guadagnar Venezia. E così s’era deciso. Un carissimo e ben doloroso impiccio era la mia Anita, avanzata in gravidanza, ed inferma. Io la supplicavo di rimanere in quella terra di rifugio( San Marino) , ove un asil almeno per lei poteva credersi assicurato, ed ove gli abitanti ci avevan mostrato molta amorevolezza. Invano! Quel cuore virile e generoso si sdegnava a qualunque delle mie ammonizioni su tale assunto, e m’imponeva silenzio, colle parole: “ tu vuoi lasciarmi”.   Gli Austriaci scorsero i  garibaldini e iniziarono a sparare da lontano cannonate e razzi.

“Io lascio pensare qual era la mia posizione in quei sciagurati momenti. La donna mia infelice, moribonda! Il nemico perseguendo dal mare, con quella alacrità che dà una vittoria facile. Aprodando ad una costa, ove tutte le probabilità di trovarvi altri, e numerosi nemici, non solamente Austriaci, ma papalini, allora in fiera reazione. Comunque fosse, noi aprodammo. Io presi la mia preziosa compagna nelle braccia, sbarcai e la deposi  sulla sponda. Dissi ai miei compagni, che collo sguardo mi chiedevano ciocchè dovevano fare:d’incamminarsi alla spicciolata, e di cercar rifugio, ove potrebbero trovarlo. In ogni modo d’allontanarsi dal punto ove ci trovavamo, essendo imminente l’arrivo dei palischermi nemici. Per [me] esser impossibile seguitar oltre, non potendo abbandonare mia moglie moribonda… 

Io rimasi nella vicinanza del mare in un campo di melica, colla mia Anita, e col tenente Leggiero, indivisibile mio compagno….Le ultime parole della donna del mio cuore erano state per i suoi figli! Ch’essa presentì di non poter più rivedere!” 

 Il tenente Leggero  andò in cerca di aiuto e tornò col colonnello Nino Bonnet, uno degli ufficiali più valorosi che, ferito a Roma nell’assedio, si era ritirato a casa, in quel di Comacchio, per curarsi. Egli propose di avvicinarsi ad una casupola  nelle vicinanze .Qui povera gente offrì acqua e primo soccorso ad Anita. Poi Garibaldi e i compagni trasportarono la donna in casa della sorella di Bonnet ed infine alla Mandriola per trovare un medico. “Guardate di salvare questa donna”!-  raccomandò al dottore ma “Nel posare la mia donna in letto, mi sembrò di scoprire sul suo volto, la fisionomia della morte. Le presi il polzo…più non batteva! Avevo davanti a me la madre de’ miei figli, ch’io tanto amava! Cadavere!…Io piansi amaramente la perdita  della mia Anita! Di colei che mi fu compagna inseparabile nelle più avventurose circostanze della mia vita!”

 A fatica il fedelissimo Leggero convinse il generale a riprendere la fuga per salvarsi  dalle truppe pontificie e dai soldati austriaci. “Generale, dovete farlo. Per i vostri figli, per l’Italia…”. Garibaldi raccomandò alla buona gente che lo circondava di seppellire Anita  e s’allontanò.

“Io, conobbi il gran male che feci, il dì, in cui sperando ancora di rivederla in vita io, stringeva il polso d’un cadavere: e piangevo il pianto della disperazione! Io, errai grandemente ed errai solo!”. 

Queste parole  sigillano un profondo rimorso, non spiegato, forse per avere cambiato la vita di quell’intrepida ragazza dai grandi occhi scuri, che a 28 anni è entrata a fare parte della storia come figura esemplare dell’amore romantico e del nostro Risorgimento.

 

Articoli correlati

Le donne del Risorgimento

Donne del Risorgimento: Rose Montmasson e Giuditta Tavani Arquati

Donne del Risorgimento: Rose Montmasson e Giuditta Tavani Arquati

Il Risorgimento è stato un processo storico  complesso, un  intrigo di diplomazia  e  di alleanze, un’illuminazione  di ideali liberali che contagiò gli intellettuali, una partecipazione di  masse conquistate  dalla speranza di cambiamento e poi in parte disilluse. Tante sono le interpretazioni del Risorgimento, ma  certamente  ci fu una generale intraprendenza di tanti giovani che osarono combattere per ció in cui credevano. 

L’ideale di un’unica Italia, libera dagli stranieri, mosse i cuori e armò  le braccia, infervorò gli animi come la bella Gigogin quello del giovane  Mameli.

In occasione delle celebrazioni ufficiali per i 150 anni dell’unitá d’Italia sul  monumento commemorativo di Mameli, reso immortale dai versi del nostro inno nazionale,  c’erano fiori e corone, ma il cimitero monumentale del Verano  a Roma  custodisce le spoglie di altri patrioti e patriote, tra i quali non posso tralasciare  Rose Montmasson, piú nota come Rosalia Montmasson Crispi, l’unica donna che partecipò alla spedizione dei Mille.

 Rose Montmasson (1823-1904) , originaria della Savoia, giunse a Torino nel 1849 dove inizió a lavorare come lavandaia e stiratrice. Qui conobbe Francesco Crispi, un giovane rivoluzionario, esule in Piemonte dopo il fallimento dei moti rivoluzionari siciliani del 1848. Rose condivise col suo uomo una vita avventurosa. Prima lo seguì in esilio in Piemonte e a Malta, dove si sposarono, poi a Parigi ove rimasero finché non furono accusati di complotto con Felice Orsini, ed infine a Londra ove, nuovamente in fuga, raggiunsero Mazzini. Rientrati in Italia nel 1859, collaborarono per la realizzazione dello sbarco in Sicilia. Rose si recó con un vapore postale in Sicilia e a Malta per avvisare della spedizione dei Mille i patrioti siciliani e i rifugiati. Fece in tempo a rientrare a Genova e, contro la volontá  del marito, travestita da uomo s’imbarcó con le camicie rosse a Quarto.

Durante la battaglia di Calatafimi s’adopró per portare in salvo e curare i feriti, imbracciando il fucile se necessario. I siciliani la ribattezzarono Rosalia, nome che compare sulla sua lapide. 

Dopo l’unitá d’Italia cambiarono molte cose, anche i sogni. Crispi divenne parlamentare e abbandonó i repubblicani per schierarsi con i monarchici. Ben presto ripudió Rosalia, denunciando   l’irregolaritá del matrimonio, celebrato a Malta  da un prete sospeso a divinis per le sue simpatie patriottiche, e nel 1878 convoló a nuove nozze con Lina Barbagallo, un’aristocratica di Lecce dalla quale, cinque anni prima, aveva avuto una figlia. In effetti  Rosalia  consideró  la scelta politica del consorte un vero e proprio tradimento di quegli ideali che li avevano uniti e per i quali avevano combattuto insieme. Scoppió uno scandalo e  Crispi fu accusato di bigamia. In veritá fu poi assolto, ma non dalla regina Margherita di Savoia  che si rifiutó  di stringergli la mano e gli tolse il saluto.

 Rosalia rimase a Roma dove morí in povertá. La sua salma é in un loculo concesso gratuitamente dal Comune di Roma.

 

Un’altra patriota sepolta al Verano é Giuditta Tavani Arquati (1832-1867) che, incinta del quarto figlio, morí col marito , con il figlio dodicenne Antonio e altri cospiratori durante il massacro nel lanificio Ajani a Trastevere. La tentata insurrezione contro il governo di  Pio IX e  la mancata rivolta del popolo romano contro il Papa Re  anticiparono la disfatta garibaldina di Mentana del 1867. In effetti la vera unitá d’Italia si ebbe nel 1870 quando la breccia di porta Pia segnó la fine dello Stato pontificio.

Due anni fa ho celebrato e festeggiato il 150 ˚ dell’Unitá d’Italia  non solo con un tricolore esposto sul balcone, ma ho voluto ringraziare idealmente nel cimitero del Verano tutti coloro, e sono davvero tanti, che hanno contribuito alla storia e alla cultura dell’Italia. Dopo avere girovagato a lungo e letto  centinaia di lapidi (ahimé non basta la mappa), mi sono emozionata dinanzi al piccolo ritratto di Rosalia, l’ umile lavandaia che divenne un’intrepida patriota. In Via della Lungaretta 97 a Trastevere ho invece  scovato una targa e un busto che  ricordano  Giuditta Tavani Arquati, divenuta  il simbolo della lotta per la liberazione di Roma.

 

 

 Rosalia Montmasson e Giuditta Tavani Arquati sono due protagoniste del Risorgimento italiano, che sfidarono i tempi e i costumi con scelte di vita che  all’epoca dovevavo apparire- a dir poco-  inusuali. Entrambe tradite, piú che dalle dinamiche del cuore e del potere, soprattutto dalla storia… una storia che ancora oggi, a mio parere, risulta scritta e interpretata  dagli  uomini.

 

Le donne del Risorgimento

In occasione del 152° anniversario dell’Unità d’Italia riprendo post a me cari , scritti in occasione del 150°,  per ricordare  personaggi, a volte poco noti, del nostro Risorgimento.

 “Il Risorgimento delle donne. Da icona del patriottismo a patriota” è  un bellissimo  filmato  didattico realizzato da  Annalisa Costagli e Giacomo Verde che attraverso la pittura, scritti e foto hanno documentato la presenza attiva e  il contributo delle donne, di diversa estrazione socio-culturale, all’unità e all’indipendenza dell’Italia, alle prime forme di democrazia e alle pari dignità dei sessi.

 Protagoniste poco conosciute del Risorgimento, le donne operarono senza visibilità né  riconoscimento di ruoli politici, promuovendo nei salotti il  fermento intellettuale dell’epoca , partecipando alla lotta risorgimentale come combattenti e assistenti dei feriti, continuando a lavorare nei campi o in casa, in attesa di lettere o notizie dei familiari lontani.

In occasione della celebrazione dell’Unità d’Italia  è doveroso ricordare anche questo aspetto della storia italiana   perché come scrisse  Cristina Trivulzio di Belgiojoso nel 1866

 

“Vogliano le donne felici ed onorate dei tempi avvenire rivolgere tratto tratto il pensiero ai dolori ed alle umiliazioni delle donne che le precedettero nella vita, e ricordare con qualche gratitudine i nomi di quelle che loro apersero e prepararono la via alla non mai prima goduta, forse appena sognata, felicità!”

 Qui il link per “Il Risorgimento delle donne. Da icona del patriottismo a patriota”

 Buona visione!

Il grande pi greco

 

La data  14 marzo richiama il 3,14 cioè il  ᴫ (pi greco) ed è un giorno dedicato all’affascinante Signor ᴫ

Il grande pi greco

 

 Degno di meraviglia è il numero pi greco

tre virgola uno quattro uno.

Le sue cifre seguenti sono ancora tutte iniziali,

cinque nove due, perché non ha mai fine.

Non si fa abbracciare sei cinque tre cinque con lo sguardo,

otto nove con il calcolo,

sette nove con l’immaginazione,

e neppure tre due tre otto per scherzo, o per paragone

quattro sei con qualsiasi cosa

due sei quattro tre al mondo.

Il più lungo serpente terrestre dopo una dozzina di metri s’interrompe.

Così pure, anche se un po’ più tardi,  fanno i serpenti delle favole.

La fila delle cifre che compongono il numero Pi greco

non si ferma al margine del foglio,

riesce a proseguire sul tavolo, nell’aria,

su per il muro, il ramo, il nido, le nuvole, diritto nel cielo,

per tutto il cielo atmosferico e stratosferico.

Oh come è corta, quasi quanto quella di un topo, la coda della cometa!

Quanto è debole il raggio di una stella, che s’incurva nello spazio!

Ed ecco invece due tre quindici trecento diciannove

il mio numero di telefono il tuo numero di camicia

l’anno mille novecento settanta tre sesto piano

numero di abitanti sessanta cinque centesimi

giro dei fianchi due dita una sciarada e una cifra,

in cui vola vola e canta, mio usignolo

e si prega di mantenere la calma,

e così il cielo e la terra passeranno,

ma il Pi greco no, quello no,

lui sempre col suo bravo ancora cinque,

un non qualsiasi otto,

un non ultimo sette,

stimolando, oh sì, stimolando la pigra eternità

a durare.

 

Wislawa Szymborska

Da Cicatrici di guerra: il Clan delle Cicatrici

Una delle tante ragioni per cui ho iniziato a scrivere riguarda  la violenza contro le donne per raccontare, commentare , indignarmi sulle tante forme di discriminazione, abuso, maltrattamento, intolleranza contro la donna, alcune abiette e lontane , altre più subdole e sottili . Pian piano riprenderò questo tema, purtroppo sempre attuale.

Il femminicidio in atto è più evidente e denunciato, e non bastano solo le parole per fermarlo e interventi giudiziari per reprimerlo. Occorre una cultura che promuova il rispetto dell’identità di genere,  basata sull’ affettività e sul riconoscimento delle rispettive diversità, emozioni e sentimenti,  che insegni a trasporsi nell’ altro, per prevenire la violenza non solo contro le donne, ma contro tutti coloro ritenuti diversi o comunque percepiti come contrapposti. La rabbia latente esplode con un’aggressività che rivela l’incapacità di gestire le proprie emozioni e riconoscere quelle altrui non solo  in fondamentali svolte di vita, ma anche  in occasione di una partita di calcio o di  un parcheggio negato.

 Spesso in  occasione della Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne ho esortato a uscire dal silenzio .Oggi parlo del segreto, di quelle cose che  le donne non riescono a  dire ma, se svelate, con consapevolezza e aiuto-  ascolto esterno, può consentire alle vittime di violenza a recuperare l’istinto alla vita, quello che Clarissa Pinkola Estés nel saggio “Donne che corrono coi lupi” ed Frassinelli , definisce la Donna Selvaggia intesa come forza psichica potente, istintuale e creatrice, a volte soffocata da paure, insicurezze e stereotipi.

Non basta segnalare il  crimine, occorre trovare dentro di sè la forza di svelare il segreto per poter reagire. Ci sono strutture e persone in grado di recepire e aiutare nei centri anti violenza. Tante sono le denunce ma  un’esigua percentuale di donne si presenta ai colloqui per una consulenza psicologica, sebbene sia tutelata la loro privacy, perché permane non solo la paura di ritorsioni ma soprattutto la remora di svelare il segreto, di rivivere l’esperienza dolorosa.  Parlare ed elaborare il lutto ci fanno risorgere dalla zona morta, ci consentono di lasciarci alle spalle il culto mortale dei segreti. Dal lutto usciremo bagnate dal pianto non dalla vergogna. Solo così forse si  potrà tornare a vivere, anche se cambiate. È un atto d’amore  verso noi stesse oltre che una testimonianza utile per tutti.

 Da Cicatrici di guerra:il Clan delle Cicatrici 

 Le lacrime sono un fiume che vi conduce a qualche parte. Il pianto crea attorno alla barca un fiume che porta la vostra vita- anima. Le lacrime sollevano la vostra barca al di sopra degli scogli, delle secche, portandovi in un posto nuovo, migliore.

Esistono oceani di lacrime che le donne non hanno mai pianto, perché sono state addestrate a portare i segreti della madre e del padre, i segreti degli uomini, i segreti della società, e i loro segreti giù nella tomba. Il pianto della donna è stato considerato piuttosto pericoloso, perché allenta le serrature e i chiavistelli sui segreti che porta. In verità, per il bene dell’anima selvaggia, è meglio piangere. Per le donne le lacrime sono l’avvio dell’iniziazione nel Clan elle Cicatrici, questa tribù eterna di donne di ogni colore, di tutte le nazionalità, di tutte le lingue, che attraverso le epoche hanno vissuto qualcosa di grande, e hanno conservato l’orgoglio.

Tutte le donne hanno storie personali ampie nella portata e possenti nel numen, come nelle favole. Ma c’è un tipo di storia, in particolare, connessa con i segreti delle donne, specie quelli legati alla vergogna; contengono alcune delle storie più importanti cui una donna possa dedicare il suo tempo.

Per la maggior parte delle donne queste storie segrete sono incastonate non come pietre preziose in una corona, ma come nera ghiaia sotto la pelle dell’anima.

…i segreti di un maggior numero di donne riguardano la violazione di un codice sociale o morale della cultura, della religione, o del sistema personale dei valori. Alcuni di questi atti, eventi, scelte, in particolare e connesse alle libertà femminile in tutti gli aspetti dell’esistenza, erano spesso considerati dalla cultura vergognosamente sbagliati per le donne, ma non per gli uomini.

Il problema delle storie segrete avvolte nella vergogna è che separano la donna dalla sua natura istintiva, che è prevalentemente gioiosa e libera. Quando nella psiche c’è un oscuro segreto, la donna non può avvicinarsi a esso, e anzi si protegge da qualunque contatto con ciò che potrebbe rammentarglielo o far sì che la sofferenza già cronica diventi ancora più intensa…..

 

Di solito i segreti presentano gli stessi temi che si ritrovano nei drammi…i segreti, come le fiabe e i sogni, seguono inoltre gli stessi modelli e le stese strutture del dramma. Ma i segreti, invece di seguire la struttura eroica, seguono la struttura tragica. Il dramma eroico  inizia con un’eroina in viaggio. Talvolta non è desta da un punto di vista psicologico. Talvolta è troppo gentile e non percepisce il pericolo. Talvolta è già stata maltrattata e si abbandona alle mosse disperate della creatura in cattività. Comunque inizi, l’eroina cade poi negli artigli di qualcosa o qualcuno, e viene amaramente messa alla prova. Poi, grazie alla sua intelligenza e alle persone che di lei si curano, viene liberata e si leva più alta.

Nella tragedia l’eroina è ghermita, costretta, o portata agli inferi e poi sopraffatta, mentre nessuno ode le sue grida,ovvero le sue implorazioni vengono ignorate. Perde la speranza, perde il contatto con la preziosità della sua vita, e crolla…Il modo per ritrasformare una tragedia in dramma eroico  è svelare il segreto, parlarne con qualcuno, scrivere un altro finale, esaminare la parte in esso avuta e i propri attributi nel reggerlo. Si scoprono in pari misura dolore e saggezza…

 La persona che ha conservato un segreto a proprio detrimento resta sepolta dalla vergogna. In questa condizione universale, il modello medesimo è archetipo:l’eroina è stata costretta a fare qualcosa oppure, per la perdita dell’istinto, è rimasta intrappolata in qualcosa. Tipicamente, è impotente di fronte alla triste situazione. È in qualche modo legata alla segretezza da un giuramento o dalla vergogna. Si adatta per paura di perdere l’amore, il rispetto, la sussistenza esistenziale. Le donne sono state avvertite che taluni eventi, scelte e circostanze della loro esistenza, di solito connessi al sesso, all’amore, al denaro, alla violenza e/o ad altre difficoltà imperversanti nella condizione umana, sono estremamente vergognosi e pertanto non degni di assoluzione….

Nell’archetipo del segreto, un incantesimo viene gettato come una rete nera su parte della psiche femminile, e lei viene spinta a credere che il segreto non dovrà mai esser rivelato, e inoltre deve credere che, se lo rivelerà, tutte le persone per bene con le quali avrà a che fare l’ insulteranno per l’eternità. Questa ulteriore minaccia, insieme alla vergogna, fa sì che la donna non porti un fardello solo ma due.

Questo minaccioso incantesimo è un passatempo solamente tra le persone che occupano uno spazio angusto e nero nei loro cuori. Tra le persone che provano amore e calore per la condizione umana, è vero il contrario. Aiuteranno a disseppellire il segreto, perché sanno che produce una ferita che non si rimarginerà finchè alla cosa non saranno dati voce e testimone…

 

La donna dai capelli d’oro. 

C’era una volta una donna strana ma assai bella dai lunghi capelli d’oro sottili come grano filato. Era povera, non aveva né madre né padre, e viveva da sola nei boschi e tesseva su un telaio fatto con rami di noce scuro. Un tipo brutale, che era figlio del carbonaio, cercò di costringerla al matrimonio, e lei nel disperato tentativo di comprarne la rinuncia, gli regalò una ciocca di capelli d’oro.

Ma lui non sapeva o non si curava del fatto che era oro spirituale, non denaro, quello che gli aveva dato, e quando volle vendere i capelli come una qualsiasi mercanzia al mercato, la gente lo canzonò e pensò che fosse pazzo.

 

In collera, di notte tornò alla capanna della donna, la uccise con le sue mani e ne seppellì il corpo accanto al fiume. Per molto tempo nessuno si accorse della sua assenza. Nessuno si curava del suo cuore e della sua salute.Ma nel sepolcro i capelli d’oro della donna presero a crescere e a diventare sempre più lunghi. I magnifici capelli ondulati si sollevarono in spire attraverso la terra nera, e crebbero sempre di più fino a ricoprire la tomba di un campo di ondeggianti giunchi d’oro.I pastori tagliarono i giunchi per farne flauti, e quando presero a suonarli, i piccoli flauti cantarono e non smisero più di cantare.

 

Qui giace la donna dai capelli d’oro

Assassinata e nel suo sepolcro,

uccisa dal figlio del carbonaio

perché desiderava vivere.

 

E così l’uomo che aveva tolto la vita alla donna ai capelli d’oro fu scoperto e portato in giudizio,e coloro che vivono nei boschi selvaggi del mondo, come facciamo noi, furono di nuovo al sicuro.

 Se il messaggio manifesto è l’invito a stare attenti quando ci si trova nei luoghi solitari del bosco, il messaggio profondo è che la forza vitale della bella donna solitaria, personificata nei capelli continua a crescere e a vivere e a emanare conoscenza conscia anche se tacitata e sepolta…Questo frammento è bello e prezioso, e inoltre ci parla della natura dei segreti e anche, forse, di che cosa viene ucciso nella psiche quando la vita di una donna non è tenuta nel debito conto. In questo racconto, l’assassino della donna che vive nei boschi è il segreto. Lei rappresenta una kore, quell’aspetto della psiche femminile che è la donna-che-non –si-sposerà-mai. La parte della donna che vuole stare in solitudine è mistica e solitaria in un modo bello, ed è occupata a selezionare e tessere idee, pensieri e imprese. È questa donna solitaria e ripiegata su se stessa che è soprattutto ferita da traumi o dal dover mantenere un segreto… questo senso integrale dell’io che ha bisogno di avere poco attorno per essere felice; questo cuore della psiche femminile che tesse nel bosco sul telaio di noce scuro, ed è in pace.

Nella favola nessuno indaga sull’assenza di questa donna vitale…Non è insolito nelle favole né nella vita reale…

Spesso la donna che ha dei  segreti incontra la medesima reazione. Sebbene la gente percepisca talvolta che al centro il suo cuore è trafitto, per caso o intenzionalmente chiude gli occhi sulla sua evidente ferita.

Ma in parte il miracolo della psiche selvaggia è che, per quanto una donna sia “uccisa”, sebbene sia ferita, la sua vita psichica continua , e risale in superficie, cresce, e nei momenti di pienezza canta, canta. Allora l’ingiusto male subito viene appreso a livello conscio, e la psiche inizia la ricostruzione.

 È interessante non vi pare? che la forza vitale di una donna possa continuare a crescere anche se lei è apparentemente senza vita. È la promessa che anche nelle condizioni più misere la vitale forza selvaggia manterrà vive e fiorenti le nostre idee, anche se, per un po’, sotto terra. Col tempo riusciranno a spuntare. Questa forza vitale non lascerà tutto quieto finchè non saranno rivelate le circostanze e il luogo del delitto.

Come per i pastori della storia, ciò implica respirare profondamente e liberare il respiro- dell’anima o pneuma attraverso le canne, per conoscere come stanno veramente le cose nella psiche e che cosa bisognerà fare. Occorre cantare. Il lavoro di scavo seguirà…

Quando una donna mantiene un segreto vergognoso, l’enorme quantità di auto biasimo e tortura che deve sopportare è tremenda a vedersi…La donna selvaggia ( con istinto alla vita) non può vivere così. I segreti vergognosi diventano ossessivi…sono come un filo spinato che le si stringe attorno alle budella se cerca di liberarsi. Sono distruttivi non soltanto per la sua salute mentale, ma anche per le sue relazioni con la DonnaSelvaggia. La Donna selvaggia scava, getta tutto per aria, mette in fuga. Non seppellisce né dimentica. Se per caso seppellisce, rammenta che cosa e dove, e ben presto si preoccuperà di dissotterrarla.

Questa favola e altre simili sono medicamenti da applicare a queste segrete ferite; sono un incoraggiamento, un consiglio e una risposta. Dietro alla saggezza della favola sta il fatto che, nelle donne come negli uomini,le ferite inferte all’io, all’anima e alla psiche con i segreti o altro, fanno parte dell’esistenza dei più. Né può essere evitata la cicatrizzazione. Ma esistono delle cure, ed è assicurata la guarigione…Reprimere il materiale segreto circondato dalla vergogna, dalla paura,dal senso di colpa o dall’umiliazione in effetti sbarra tutte le altre parti dell’inconscio prossime al luogo del segreto….Se tuttavia una donna desidera serbare i suoi istinti e la capacità di muoversi liberamente nella psiche, può rivelare il suo o i suoi segreti a un essere umano degno di fiducia, tutte le volte che lo ritiene necessario. Di solito una ferita non viene disinfettata e poi abbandonata a se stessa:viene pulita e medicata più volte mentre va guarendo… Chi lo ascolta lo fa col cuore aperto e trasale, rabbrividisce, prova quel dolore senza crollare…così una donna comincia a riprendersi dalla vergogna ricevendo il soccorso e le cure che le mancarono al momento del trauma…ma rimarrà certo una cicatrice. Al cambiare del tempo la cicatrice dorrà ancora. Questa è la natura del vero lutto… Quando un segreto non viene confidato il lutto continua, per tutta la vita. …Parlare ed elaborare il lutto ci fanno risorgere dalla zona morta, ci consentono di lasciarci alle spalle il culto mortale dei segreti. Dal lutto usciremo bagnate dal pianto non dalla vergogna.

 

Nel lutto,  la Donna Selvaggia sarà con noi. Lei e l’Io istintuale. Può sopportare le nostre urla, i nostri lamenti e il nostro desiderio di morire senza morire. Applicherà i migliori medicamenti là dove il dolore è più  insopportabile…Proverà dolore per il nostro dolore, e lo sopporterà, senza fuggire. Anche se molte saranno le cicatrici, è bene ricordare che, nella resistenza alla tensione e alla pressione, la cicatrice è più forte della pelle.

 

Autismo : vivere dietro uno specchio

Difficile spiegare l’autismo  perché si manifesta in modi diversi e ha  cause controverse. Non è facile stabilire un contatto con un autistico, soprattutto con un bambino, ma quando si riesce non c’è nulla al mondo di più bello e gratificante perché  lo specchio si infrange e si vede l’altro.

Vi propongo uno scritto da Angel Rivière, professore di psicologia evolutiva presso l’Università Autonoma di  Madrid, scomparso nel 2000 dopo aver dedicato tutta la sua vita professionale all’autismo.

 SONO AFFETTO DA AUTISMO, ECCO CHE COSA CHE MI PIACEREBBE DIRTI

 1. Aiutami a capire, organizza il mio mondo ed aiutami ad anticipare quello che succederà. Dammi ordine, struttura, non il caos.

2. Non ti angosciare per me, perché anch’io mi angoscio, rispetta i miei ritmi. Avrai sempre l’opportunità di relazionarti con me se capisci i miei bisogni e la mia maniera così particolare di capire la realtà. Non ti buttare giù, è normale che io vada sempre avanti.

 3. Non mi parlare troppo, né troppo velocemente. Le parole non sono “aria” che non pesa come a te: per me possono essere un carico molto pesante. Molte volte non sono il miglior modo di rapportarsi con me.

 4. Come gli altri bambini, gli altri adulti, ho bisogno di condividere il piacere e mi piace fare bene le cose,anche se non sempre ci riesco. Fammi sapere in qualche modo quando le ho fatte bene e aiutami a farle senza errori. Quando faccio troppi errori, mi succede come a te, mi irrito e finisco per rifiutarmi di fare le cose.

 5. Ho bisogno di più ordine di te, di capire in anticipo le cose che mi accadranno. Dobbiamo patteggiare i miei rituali per convivere.

 6. Per me è difficile capire il senso di molte delle cose che mi chiedono di fare. Aiutami tu a capire. Cerca di chiedermi di fare delle cose che abbiano un senso concreto e decifrabile per me. Non permettere che mi annoi o che rimanga inattivo.

 7. Non  mi invadere eccessivamente.  A  volte  voi  persone  “normali”  siete  troppo  imprevedibili, troppo rumorosi, troppo stimolanti. Rispetta le mie distanze, ne ho bisogno, ma non mi lasciare solo.

 8. Quello che faccio non è contro di te; se mi arrabbio, mi faccio del male, distruggo qualcosa o mi muovo in eccesso,  è  perché  è  difficile  capire  o  fare quello  che  stai  chiedendo.  Già  faccio  fatica a capire  le intenzioni degli altri, quindi non attribuirmi delle cattive intenzioni.

 9. Il mio sviluppo non è assurdo, anche se è difficile da capire. Ha una sua logica. Molti dei comportamenti che voi chiamate alterati sono il mio modo di affrontare il mondo  con questa mia  speciale maniera di essere e di percepire. Fai uno sforzo per capirmi.

10. Voi siete troppo complicati. Il mio mondo non è né complesso né chiuso, anche se ciò ti sembra strano. Il mio mondo è talmente aperto, senza veli né bugie, così ingenuamente esposto agli altri, che sembra difficile  da  capire.  Io non  abito  in una  “fortezza  vuota”  ma  in  una pianura  talmente aperta  che può sembrare inaccessibile. Sono molto meno complicato di voi persone “normali”.

 11. Non mi  chiedere  di  fare  sempre  le  stesse  cose,  non esigere  sempre  la  solita  routine.  Non  diventare autistico per aiutarmi, sono io l’autistico! 

 12. Non sono soltanto un autistico, ma sono anche un bambino, un adolescente, un adulto. Condivido molte delle  cose dei  bambini,  degli  adolescenti  e degli  adulti  che  voi  chiamate normali.  Mi  piace  giocare, divertirmi, voglio bene ai miei genitori, sono contento se riesco a fare bene le cose. Ci sono molte più cose che ci possono unire che non dividere.

 13. E’  bello  vivere  con  me.  Ti  posso dare  tante  soddisfazioni,  come  le altre  persone.  Ci  può essere  il momento in cui io sia la tua migliore compagnia.

 14. Non  mi  aggredire  chimicamente.  Se  ti  hanno  detto  che devo  prendere dei  farmaci  fammi  controllare periodicamente da uno specialista.

 15. Né  i  miei  genitori  né  io abbiamo  colpa  di  quello  che  mi  succede.  Non  ce  l’hanno  nemmeno  i professionisti che mi aiutano.  Non serve a niente darsi le colpe l’un con l’altro. A volte le mie reazioni e i miei comportamenti possono essere difficili da capire e da affrontare, ma non è colpa di nessuno. L’idea di colpa produce soltanto sofferenza, ma non aiuta.

 16. Non mi chiedere in continuazione di fare cose che io non sono capace di fare. , ma chiedimi invece di fare cose che io sono in grado di fare. Aiutami ad essere più autonomo, a capire meglio, a comunicare meglio, ma non mi dare aiuto in eccesso.

 17. Non devi cambiare la tua vita completamente perché convivi con una persona autistica. A me non serve che tu ti senta giù, che ti chiuda in te stesso, che ti deprima. Ho bisogno di essere circondato da stabilità e di benessere emozionale per sentirmi meglio.

 18. Aiutami con naturalezza, senza che diventi un’ossessione. Per potermi aiutarmi devi avere anche tu dei momenti di riposo, di svago, di cose tue. Avvicinati a me, non te ne andare, ma non ti sentire costretto a reggere un peso insopportabile.

 19. Accettami così come sono, non mettere condizioni al tuo accettare che io non sia più autistico, lo sono. Sii ottimista ma senza credere alle favole o ai miracoli. La mia situazione normalmente migliora anche se non si potrà parlare di guarigione.

 20. Anche se per me è difficile comunicare e non posso capire le sfumature sociali, ho dei pregi rispetto a voi  che  vi  considerate  “normali”.  Per  me è difficile  comunicare,  ma non inganno.  Non ho  doppie intenzioni  né  sentimenti  pericolosi.  La  mia  vita  può essere  soddisfacente  se  semplice ed  ordinata, tranquilla, se non mi chiedi in continuazione di fare solo cose che sono difficili per me. Essere autistico è un modo di essere, anche se non è quello normale, la mia vita di autistico può essere così bella e felice come  la  tua  che  sei  “normale”.  Le  nostre  vite  si  possono  incontrare e possiamo  condividere  molte esperienze.

 Traduzione di Malèn Tortajada Caro. Da qui

 

Vi consiglio “Mon petit frère de la lune” (Il mio fratellino dalla luna) di Frédéric Philibert , un video molto poetico come le parole dei bambini, semplici, essenziali, dolci e chiare. 

“Dobbiamo essere pazienti per riuscire a catturare la luna con un filo d’oro e avvicinarla al nostro vecchio pianeta”

Chiesa di San Giovanni a Carbonara, Napoli

 

Via San Giovanni a Carbonara, in origine  aperta fuori dalle mura della città, fino alla fine del medioevo fu destinata alla raccolta e alla combustione dei rifiuti (storia vecchia!).Su un terreno donato dal nobiluomo Gualtiero Galeota  gli Agostiniani iniziarono a costruire nel 1343   una chiesa e un convento che furono ultimati all’inizio del XV secolo durante il regno di re Ladislao d’Angiò- Durazzo. Questo è uno dei complessi religiosi più particolari e  belli della Napoli del Quattro e del Cinquecento, realizzato in molteplici periodi.

 

Vi si accede da una scala ellittica a doppia rampa del 1707 , frutto dell’ingegno di Ferdinando Sanfelice, un  grande architetto che trasformò le scale in un elemento architettonico scenografico. La scalinata conduce alla cappella di Santa Monica (XIV secolo) ove si trova il sepolcro di Ruggero Sanseverino realizzato da Andrea da Firenze. La chiesa fu nascosta dalla costruzione della cappella Somma del XVI secolo e pertanto vi si accede dal portale laterale ornato da testine di animali e foglie, da stemmi angioini e dal sole splendente  dei Caracciolo.

 L’edificio consta di un’unica navata a croce latina con cappelle aggiunte e,  soprattutto nel presbiterio, conserva l’originaria struttura gotica. In fondo spicca il monumento funebre  del re di Napoli  Ladislao (1428), espressione artistica del primo Rinascimento, caratterizzato da logge, nicchie, sculture, figure allegoriche come le quattro Virtù poste alla base. È ornato dalle statue di Ladislao e di sua sorella Giovanna II, che gli successe e gli  dedicò l’imponente monumento funebre, alto 18 metri e sormontato da un re a cavallo che, cosa piuttosto rara da vedersi in una chiesa,  brandisce una spada. La parete laterale all’altare ospita la Crocefissione del Vasari. 

 

Oltrepassando il sepolcro del re, si accede all’abside che ospita la splendida cappella Caracciolo del Sole (1427) a pianta ottagonale. Qui si trova  un altro sepolcro, attribuito ad Andrea da Firenze (1443), eretto per  l’amante della regina Giovanna II, Ser Gianni Caracciolo, assassinato  nel 1432. Incantevole nelle tante sfumature del blu è il pavimento maiolicato di stile toscano , interessanti sono gli affreschi murali di Leonardo da Besozzo e Perinetto da Benevento raffiguranti le storie della Vergine e scene di vita eremitica. 

 

A lato del presbiterio si apre la cappella Caracciolo di Vico in puro stile rinascimentale (ultimata nel 1516). È a pianta circolare e  ricca di arcate, colonne, nicchie, sarcofagi, statue raffiguranti gli esponenti del casato Caracciolo. Di fronte all’entrata della chiesa si trova l’altare di Miroballo di scuola lombarda ,iniziato nel XVI secolo da Jacopo della Pila e terminato da Tommaso Malvito. Racchiude  un imponente gruppo di statue ed   è decorato con scene della vita di san Nicola da Tolentino, dipinte nel Quattrocento,  una Vergine con Bambino di Michelangelo  Naccherino (1601) e le statue di sant’Agostino e san Giovanni Battista di Annibale Caccavello. La cappella di Somma a sinistra dell’ingresso fu eretta tra il 1557 e il 1566 su disegno del D’Auria e dal Caccavello, che realizzarono rispettivamente la parte inferiore dell’altare (Assunta) e il sepolcro di Scipione di Somma  di fronte alla porta di accesso.

Scendendo a piedi dal rione Sanità,  mi ha attratto la scala monumentale  della Chiesa di San Giovanni a Carbonara che ho poi visitato.  Ogni volta che vado a Napoli, da turista fai da te, scopro sempre qualche raffinata bellezza nascosta, perciò mi affascina questa città che si concede un po’ alla volta nei suoi quartieri più popolosi e nelle oltre cinquecento chiese, nonostante altri clamori sviino l’attenzione su altri fronti.

Napoli si ama o si odia, senza mezze misure. Napoli meraviglia nel bene e nel male, è un sorriso compiaciuto e un pugno allo stomaco, una metropoli dalle emozioni contrastanti e contraddittorie che ti scaraventano dal buio alla luce quando meno te l’aspetti. Una città che ti fa abbassare lo sguardo per la vergogna e ti solleva lo spirito di fronte a capolavori dimenticati o repressi nel suo ventre, che meriterebbero altra memoria, e ti commuovono come quando riconosci un talento o un cuore gentile  in una persona che a prima vista appare insignificante. Quando arrivi a Napoli percepisci la confusione del rumore e del movimento,  quando te ne vai porti dentro il fascino intrigante delle razze miste, il languore di una gloria passata che la mala sorte non riesce a rovinare del tutto, come la sensazione di un bacio rubato.

 

 

Le stelle filanti

 

 

Le stelle filanti 

Perché si chiamano stelle filanti?
Non sono mica stelline del cielo?
Ma sono strisce a colori sgargianti,
fatte di carta che pare di velo.
Sembran piuttosto festoni gettati
da casa a casa, da pianta a pianta;
collane, dondoli colorati,
dove il vento ci balla e ci canta.
Poi, le notti di luna piena
un raggio d’oro ci fa l’altalena.

 

Mario Lodi

 

Diversità ovvero non fa la stessa viva sensazione il solletico a tutte le persone

Diverso è colui che si presenta con un’identità, una natura, una conformazione nettamente distinta rispetto ad altre persone. Si tende a riferire la diversità  all’ etnia, al sesso, alla religione, alla condizione sociale o personale. Diverso da chi?

 In genere diverso è chi si discosta dal gruppo prevalente che, con la sua precisa fisionomia ed intrinseca e distintiva omogeneità, dà un senso di appartenenza culturale e sociale.  La diversità più evidente può suscitare disagio in chi si identifica nei più: spesso suscita curiosità, perplessità, talvolta timore…mai comunque indifferenza. Di primo acchito si percepisce la diversità perché radicati alla propria identità, abituati e ancorati a fissi parametri di riferimento. Penso anche all’omologazione estetica che fa capo a modelli stereotipati, propinati dalla moda del momento, imposti sempre più dai media e tacitamente condivisi. In questa dominante uniformità, dettata da un senso di appartenenza e di sicurezza, in realtà esiste una diversità nella sfera emotiva e cognitiva dei singoli.

Nella collettività apparentemente uniforme dei più, ciascuno ha una propria specificità e individualità, che va oltre i dati anagrafici e  le proprie radici. Ne sono prova  la varietà di pensieri, sensazioni, emozioni, sentimenti: in parte sono universalmente sentiti, anche se generati da diversi contesti di vita, altri sono affini, ma non sempre uguali, altri ancora opposti, contrastanti o, per meglio dire, semplicemente diversi. Inoltre ciascuno  ha una propria indole e carattere, attitudini, convinzioni, fede, abitudini che lo contraddistinguono e influiscono o condizionano  scelte diverse.

 La diversità però non è solo tra i singoli, ma si sviluppa pian piano anche nel singolo.Col tempo la persona si arricchisce grazie alle diverse esperienze sociali, culturali, professionali e nelle varie fasi della vita cambia e diviene. Acquisisce capacità, competenze, responsabilità, potenzialità diverse. Nutre ambizioni, aspettative ed interessi diversi. Vive esperienze, occasioni di scontro, confronto e crescita diverse. I più evidenti mutamenti naturali sono accompagnati da cambiamenti più profondi, non sempre consapevoli, che riguardano il modo di pensare, di sentire e di rapportarsi, di aprirsi o chiudersi al mondo esterno e agli altri. La vita e l’età cambiano l’individuo in  un impercettibile talvolta ciclico divenire che fa parte del processo di maturazione della persona. Si diventa un po’ ibridi di se stessi, extracomunitari del proprio io originario.

In tenera età si parte da una visione egocentrica e gradualmente si costruisce prima la percezione di sé e della propria identità personale e collettiva, per poi cogliere la diversità altrui come un qualcosa di avulso da sé nelle sue molteplici forme, imparando pian piano a confrontarsi e, si spera, ad accettarla e rispettarla. Ciò non implica necessariamente condivisione, ma riconoscimento della diversità per poi passare ad un’eventuale e successiva volontà di conoscerla.

Chi reagisce con ferma e rigida chiusura è ancora agli inizi di un processo di maturazione, erge un muro senza spiragli dentro di sé. Mi è piaciuta molto l’immagine della porta scorrevole in  “L’eleganza del riccio” di Muriel Barbery, un romanzo eccezionalmente delicato sia nella forma che nel contenuto.

Rifacendosi ad un film giapponese, la protagonista riflette

“…ero rimasta affascinata dallo spazio vitale giapponese e dalle porte scorrevoli che rifiutano di fendere lo spazio in due e scivolano dolcemente su guide invisibili.

Giacchè quando noi apriamo una porta, trasformiamo gli ambienti in modo davvero meschino. Offendiamo la loro piena estensione e a forza di proporzioni sbagliate vi introduciamo un’incauta breccia…” A riguardo di una porta aperta “ nella stanza dove si trova, introduce una sorta di rottura… che spezza l’unità dello spazio. Nella stanza contigua provoca una depressione, una ferita aperta e tuttavia stupi

da, sperduta su un pezzo di muro che avrebbe preferito essere integro. In entrambi i casi turba i volumi, offrendo in cambio soltanto la libertà di circolare, la quale peraltro si può garantire in molti altri modi. La porta scorrevole, invece evita gli ostacoli e  glorifica lo spazio. Senza modificarne l’equilibrio, ne permette la metamorfosi. Quando si apre, due luoghi comunicano senza offendersi. Quando si chiude, ripristina l’integrità di ognuno di essi. Divisione e riunione avvengono senza ingerenze. Lì la vita è una calma passeggiata, mentre da noi è simile a una lunga serie di violazioni.”

 

Un equilibrato, pari, moderato, rispettoso scambio di aperture e chiusure, di simultaneo confronto all’ esterno e radicamento alla propria individualità. Forse per riconoscere la diversità basterebbe la fluidità di una porta scorrevole.

 

I bambini nascosti e Irena Sendler

Durante l’Olocausto furono assassinati circa due milioni di bambini. Si stima che circa venti, trentamila bambini di età inferiore ai quattordici anni, tra i quali molti neonati, siano sopravvissuti alla guerra perché affidati dai genitori a persone di buon cuore  e a istituzioni cristiane o perché rimasero a lungo nascosti in vari rifugi . Alcuni bambini nascosti sopravvissero da soli nelle foreste e nei fienili, vivendo in un continuo stato d’allerta.

“Non eravamo come gli altri. Nessun altro poteva capire il nostro passato. Noi, i bambini dell’Olocausto, eravamo stati ignorati, le nostre parole troppo deboli per essere ascoltate. Invisibili, portavamo il nostro fardello in silenzio e da soli.

Avevo 12 anni nel 1942 quando, nel pieno della notte, dei soldati tedeschi a Żabno, in Polonia, dove vivevamo, mi puntarono addosso una pistola e mi chiesero dove fosse mio padre. Dissi che non lo sapevo. scesero nello scantinato dove mio padre si nascondeva e gli spararono a morte. Mia madre, mia sorella Rachel e io dovemmo fuggire in un fattoria nelle vicinanze…

La proprietaria ci fece rimanere controvoglia, ignorandoci totalmente. Rimanemmo lì per due anni e mezzo.In tutto quel tempo non ci diede mai nemmeno un bicchiere d’acqua…Potevo uscire solo quando non c’era la luna. Se mi avessero visto sarei stata spacciata…dovevamo bisbigliare – per due anni e mezzo non parlammo mai con un tono di voce più alto del sussurro! Né potevamo uscire con la luce del sole. Eravamo attaccati alla vita con un filo sottile, sempre infreddoliti, con la paura delle ombre, di corsa, in ascolto. Ogni giorno, ogni notte, portava del nuovo terrore. Era un’esistenza veramente terribile ma, nonostante fossi così spaventata, non ho mai pensato di darmi per vinta “(Ann Shore (Hania Goldman), in seguito divenne presidente della Hidden Child Fundation).

Ci furono però anche persone che si esposero in prima persona per aiutare i più indifesi, cioè le migliaia di bambini che morivano di fame, freddo e tifo nel ghetto di Varsavia. Dal 1939 al 1942 nel ghetto furono trasferite dai villaggi centinaia di migliaia di ebrei; nel 1941 c’erano oltre 400.000 persone, tra le quali tanti bambini, che si pensava di sterminare lentamente per fame. I più piccoli impararono ad uscire dal ghetto, spesso attraverso le fogne, per raggiungere la zona ariana in cerca di qualcosa da mangiare per sé e per gli altri, sfidando tanti pericoli e la sorveglianza dei soldati. Quelli rimasti orfani furono abbandonati a loro stessi per le strade. In seguito furono deportati nei lager, perlopiù a Treblinka. (informazioni  tratte da “Il futuro spezzato- i nazisti contro i bambini”, di Lidia Beccaria Rolfi e Bruno Maida.)

Un‘infermiera ed assistente sociale, Irena Sendler, ebbe il permesso di lavorare nel ghetto di Varsavia; spesso si spacciò per tecnico di condutture idrauliche per collaborare con la Resistenza polacca e portare in salvo circa 2500 bambini ebrei, nascondendo i più piccoli nella cassetta degli attrezzi e i più grandi in un sacco di iuta. Si avvalse del prezioso aiuto di un cane addestrato a stare nel camion e ad abbaiare per avvisare dell’arrivo dei nazisti o per coprire il pianto dei bambini. Quando fu scoperta, Irena subì la violenza dei soldati tedeschi che le spezzarono braccia e gambe. A guerra finita cercò di rintracciare i genitori sopravvissuti di quei bambini, dei quali aveva scritto i nomi veri accanto a quelli falsi in elenchi ben nascosti in barattoli sepolti sotto un albero del suo giardino; sistemò molti orfani presso famiglie affidatarie ed istituti. Al parlamento polacco che nel 2007 la proclamò eroe nazionale, Irena scrisse “Ogni bambino salvato con il mio aiuto è la giustificazione della mia esistenza su questa terra, e non un titolo di gloria”

Tempo fa è stata proposta per il premio Nobel per la pace, ma non è stata nominata. Nel 2008 è volata via all’ età di 98 anni.