Skip vero

 

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Nel 2002 decisi di adottare un cucciolo dopo avere vagliato l’aggravio di tempo ed energie che avrebbe richiesto e avere ripetuto a me stessa che il cane è cane, non  è un figlio anche se entra comunque a far parte della famiglia. Skip era un bastardino di media taglia, un incrocio tra uno  spinone e un barbone, oggi si dice un meticcio, io preferisco dire  “self – made dog”, come tempo fa mi spiegò un commentatore del blog,  perché il bastardino si fa da solo nella genìa e nella vita canina.

Insieme a una decina di compagni di sventura, fu sequestrato ad un tizio che li teneva chiusi al buio e in condizioni igienico- sanitarie non adatte. Durante una visita al canile avevo notato uno spinone marrone e dei cagnetti molto vispi che scorrazzavano in un recinto. Mi piacquero subito ma la signora del canile mi spiegò che si stavano abituando gradualmente sia alla luce che a rapportarsi con l’uomo, in quanto cresciuti in totale abbandono. Esclusi la possibilità di adottarne uno perché avevo due figli piccoli e non sarebbe stato prudente prendere un cane adulto, poco avvezzo all’uomo e per di più in casa. Già a volte era difficile dirimere i bisticci e addomesticare i figli, non osavo complicarmi la vita  con un cane un po’ selvatico. La signora aggiunse che tra tutti quei cani sequestrati c’era anche un cucciolo di dieci giorni che andai subito a vedere. La mamma era di taglia  piccola, col pelo biondo  un po’ mosso come le altre cagnette. In cuor mio decisi all’istante, ma mi riservai di dare una risposta insieme al consorte e ai figli perché potevamo scegliere anche tra altri cuccioli del  canile. Tutti fummo conquistati da quel batuffolo rosso.

 Una volta svezzato, dopo circa un mese, ci avrebbero avvisati per andare a prenderlo. La telefonata arrivò dopo solo due settimane. Ci scervellammo a lungo sul nome da dare al nuovo membro della tribù. Impresa non facile :  Idefix, Napoleone, Cesare, Zazù, Rox …finchè mi venne in mente il titolo del film Il mio cane Skip. Skip, suonava bene. Skip è un nome breve, squillante, facilmente recepibile, dà proprio l’idea del salto. Fu aggiudicato il nome Skip. Il giorno dopo a me e mio figlio si accodò  pure il nonno e un po’ emozionati andammo in processione al canile.  Il cucciolo non era più come lo ricordavamo. La signora mi porse  una palla di pelo rosso che a stento riuscivo a trattenere in braccio e subito iniziò  a scodinzolare, a leccare la mano, ad alzare la zampotta, che faceva presagire una taglia sicuramente non piccola. “Mater semper certa est, pater  numquam” dicevano gli antichi. Intuii che il padre doveva essere lo spinone, l’unico cagnone del gruppo.

 Giunti a casa, ci fu lo storico incontro con le due tigri che con Skip avevano in comune solo la provenienza: dal canile lui e dal gattile loro. I miei gatti non avevano mai visto un cane. Il cane non conosceva i gatti e fiducioso zompettò  verso le belve spodestate. La loro immediata reazione fu una solenne soffiata, inarcata di coda e balzo su un mobile sul quale rimasero appollaiati per circa una settimana, scendendo solo di notte o quando la cosa rossa movente non era nei paraggi. Skip era più piccolo dei gatti, ma di corporatura più  robusta e baldanzoso nei movimenti. Il famelico Tigro, pur di non rinunciare alla pappa, imparò presto a mantenerlo a distanza, soffiando e artigliando. Gri Gri invece ne era incuriosita, lo seguiva da lontano oppure l’ osservava dall’ alto, finché un giorno inavvertitamente si scontrò con il nuovo arrivato, che usciva  trotterellando dalla cucina. Il canetto, sorpreso, si fermò intimorito e si accucciò, come aveva ben presto imparato quando incrociava il signor  Gatto, Gri Gri invece, con mio sommo stupore, non scappò via ma si sedette guardinga di fronte a lui. Stettero fermi a guardarsi per qualche minuto, lui con le orecchie basse e lei con le orecchie ben alzate, finchè  la gatta con nonchalance se ne andò. Quella notte Gri Gri lo annusò mentre dormiva come sempre in una cesta, salì sulla cassapanca e lì si addormentò. Così fece in seguito: la gatta lo vegliava, forse aveva capito che era piccolo e innocuo e il suo istinto materno vinse la diffidenza .

Divennero ben presto compagni di gioco e di malefatte. Un’allegra associazione a delinquere. Lei si acquattava sulla sedia per allungare una  zampa sull’ignaro amico che passava e si guardava intorno senza capire. Ci fu un periodo in cui i miei figli subirono sgridate ingiuste per le carte di caramelle o cioccolatini che trovavo sul divano o sotto il tappeto. Un pomeriggio, mentre guardavo la tv, sentii un rumore sulla credenza. Gri Gri spingeva una caramella con la zampa giù verso il cucciolo che, scodinzolando, stava in trepida attesa, poi  prontamente la ingoiò e la gatta continuò. La volta successiva lui riuscì a scartarla e lei, come un pattinatore di hockey su ghiaccio, con l’involucro improvvisò uno slalom sul pavimento del salotto, finché lo portò trionfalmente in bocca sul divano. Quando osò tornare alla carica del porta bon bon fu paralizzata dal mio inatteso, urlato e  solenne “scendi giù” e si defilò di corsa. Occhio che non vede, cuore che non desidera: da quel giorno chiusi a chiave i dolci.

Skip

Skip è stato con noi per circa 15 anni,  come Tigro e Gri Gri, e tutta la tribù di bipedi e quadrupedi al completo ha condiviso in un rapporto quasi simbiotico viaggi, traslochi, gite, cure, operazioni, le varie fasi della vita, nostre e loro, con punti di partenza e traguardi, crescita e svolte.

In effetti ho continuato un po’ la tradizione di famiglia: mio nonno allevava cani da caccia ma,  quando gli anni e lo stato di salute lo costrinsero a stare in casa, preferì adottare cani meticci e abbandonati insegnando a me e ai miei cugini a familiarizzare con loro, a capirne l’indole e il linguaggio, che è universale a prescindere dalla provenienza e dal pedigree.

Ogni cane ha una sua storia che si tesse con la nostra: se Dusky è stato il cane della mia infanzia e adolescenza, ricevuto in regalo al mio decimo compleanno dopo anni di suppliche e solo dopo un mio deciso sciopero della fame, Skip è stato quello dell’infanzia, dell’adolescenza e parte della giovinezza dei miei figli. Con quel bastardino c’è stato  feeling dall’ inizio, un cane che doveva rimanere tale ed è diventato l’ombra silenziosa e presente che si accucciava ai miei piedi e compariva porgendo il muso per una carezza nei momenti in cui mi fermavo, ritrovandomi  un po’ nei suoi occhi, capaci di parlare come sanno fare gli occhi dei cani. Cane scemetto e furbo per golosità, forte  ma non dominante, coraggioso ma  mai feroce, fedele ma non succube, testardo a volte dispettoso, cane ridens come un cane dei fumetti, elegante e fiero come sanno esserlo i cani.

skipGrazie amico mio, animella da alter ego, resti tatuato dentro molto più di questo nickname, adottato come  segno  di riconoscenza per te perché  “I cani sono i maghi dell’universo. Basta la loro presenza per trasformare in persone sorridenti quelle arcigne, in persone meno tristi quelle che lo erano: sono generatori di rapporto. Il cane ama con tutto il cuore e perdona facilmente, può correre a lungo e lottare. Ode e vede in modo diverso dall’essere umano, con un forte udito può captare la selvaggia e misteriosa natura femminile, divenendone un tramite tra lei e il rimanente genere umano.” ( da “Donne che corrono con i lupi”-  Clarissa Pinkola Estés).

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“Il resto è silenzio” (William Shakespeare)

Mina Saqr

Un paio di scarpe slacciate. Non per percorrere ma per fermarsi e lasciare l’indizio di un salto dannato e liberatorio nello sfavillio di stelle sulla superficie notturna del mare. Nessuna ricerca ha fatto riemergere nuove tracce, parole dette, scritte, sguardi con domande e risposte, dubbi e certezze. Il silenzio  è la quiete prima  e dopo la tempesta , la calma del mare che  bruca  la riva senza forza, l’immobilità di luci che si spengono all’ improvviso . Un tempo senza durata, una stasi che scardina ogni dinamica, un’ambiguità  che respinge, un’attrazione che avvita nel profondo. Il silenzio ascolta nascosto nel pudore, insegna senza parlare, libera  e doma l’odio e l’amore, causa  persecuzione e salvezza,  irradia il  coraggio mascherato da fragilità e l’ignavia da omertà, segna l’Inizio e la fine di una storia qualsiasi.

“ Chi muore in silenzio si vendica della curiosità altrui.”(Alda Merini). Non è necessario né è dato sapere,  si può solo  soppesare quel  vuoto che invade, quella  lontananza che marchia, quella compagnia che avvicina alla solitudine  e all’ indefinito . “Se per dirlo bastano tre righe, bisogna limitarsi a quelle tre righe. Se per dirlo bastano tre parole, bisogna limitarsi a quelle tre parole. Se per dirlo basta una strizzata d’occhio, bisogna limitarsi a quella strizzata d’occhio. Se per dirlo basta una ruga, bisogna limitarsi a quella ruga. Se per dirlo basta il silenzio bisogna limitarsi a quel silenzio. Non aggiungere. Togli” (David Thomas). Togli per continuare ad osservare il mondo.

Bianca

bianca di ceriolo annamaria“Bianca – donna  e monaca tra cinque e seicento” è il libro di Anna Maria Ceriolo Verrando che documenta  e racconta con garbo la storia  vera  di una probabile monacazione subita  e risalente all’Italia del ‘600. Una microstoria dell’estremo Ponente ligure che è una finestra su un mondo scomparso  e poco conosciuto, ma soprattutto  è una vicenda della condizione femminile e di un’epoca di fermento, quella della Controriforma, attraverso eventi che incisero nella storia. Non poteva passare inosservata la dedica del libro  “Alle donne che ancora aspettano di poter realizzare la loro personale scelta di vita e il loro diritto all’ istruzione” perché Bianca è innanzitutto una donna, forse una delle tante bambine costrette o persuase dalle famiglie a entrare in educandato, finendo poi per  restarvi come novizie e infine monache, subendo un destino simile a quello di molte altre, in quanto la loro dote corrispondeva da un terzo a un ottavo circa di quella riservata alle fanciulle destinate al matrimonio. In quei conventi  spesso le bambine rimanevano perché  incoraggiate dalla presenza di zie o cugine che prima di loro erano state indotte a  intraprendere la stessa vita. Non c’era in effetti  alcuna libertà di scelta per le donne dell’epoca. Bianca però a modo suo si rivela audace e coraggiosa e ci parla della sua storia attraverso una lettera che Anna Maria Ceriolo trova  per caso  nella sezione di Ventimiglia dell’Archivio di Stato mentre esamina una filza del notaio Simone Lamberti senior, capofila di una schiatta di notai di Vallecrosia, e rintraccia una serie di dati ricavabili da compravendite di immobili e terreni, da locazioni, transazioni commerciali, quietanze varie, liti e testimonianze, ingaggi commerciali, testamenti, strumenti dotali e corredi di spose. Nota infatti che tra i fogli di filza, generalmente piegati a metà  e in verticale come un foglio protocollo, ce n’era uno più piccolo degli altri e piegato in tre parti. Da una parte il notaio aveva vergato regolari quietanze e pagamenti mentre dall’altra, sia l’intestazione che la parte finale rivelano una lettera privata. Anna Maria scopre così una segreta  lettera d’amore, proveniente da un convento, arrivata allo studio notarile e lì nascosta, scritta in risposta ad una precedente lettera del notaio Simone Lamberti senior. La voce di questa donna, discretamente colta, trapela dalla scrittura curata e  con  una determinazione  audace e insolita per quei tempi dichiara i suoi sentimenti . “Io facio come fa li arberi che alla primavera fioriscono, così mè intrevenuto adeso a me… Io vi amava come senper ò fatto”. La storica, incuriosita ed emozionata, trova anche la bozza di una risposta del notaio, risale al casato di Bianca, ricostruisce  una storia amorosa, tormentata  da lunghe e logoranti attese, l’ insofferenza per  una condizione di vita non voluta che spesso induceva le giovani monache a lasciarsi morire, la volontà di vivere i propri sentimenti.  Mi fermo per lasciare un po’ nel mistero la vicenda di Bianca, prima donna e poi monaca.

Presento la mia amica Anna Maria Ceriolo Verrando, insegnante di lettere e autrice della  tesi “Bordighera nella storia”  che fu pubblicata e inserita dal prof. Nino Lamboglia nella Collana Storico –archeologica della Liguria Occidentale. L’incontro con il Lamboglia fu per Anna Maria determinante  per rafforzare l’amore per la storia e le sue metodiche al punto tale da farla divenire un’appassionata ricercatrice d’archivio, che ha sempre diviso il suo tempo tra la famiglia, il lavoro, la ricerca delle fonti e la poesia. Affermata storica loco-regionale, ha ricevuto a Bordighera nel 2011 il prestigioso Parmurelu d’oro, premio annuale assegnato per meriti storico-letterari-artistici- scientifici  o impegno civile a chi ha reso lustro alla città di Bordighera.

Nella resistenza alla tensione e alla pressione la cicatrice è più forte della pelle.

82a2556cb9_5710110_lrgPer la Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne di quest’anno vi racconto una storia come tante altre, solo che è più recente e conosciuta direttamente. È la storia della mamma di S., di una donna di circa 30 anni. Un giorno venne a prendere la figlia di sette anni, mezz’ora  prima della fine delle lezioni. Aveva  fretta di andare via e stringeva una borsa della spesa. Passò poi a prendere il figlio più piccolo alla  scuola materna. Il giorno dopo arrivò a scuola il marito furibondo a chiedere notizie, ci disse che la moglie non era tornata a casa, forse era scappata con i due bambini. In verità in quella borsa della spesa c’erano pochi indumenti, i documenti,  quattro spiccioli e tanta disperazione. Quella donna è stata accolta in una struttura protetta, ne ha cambiate diverse, sempre in fuga da un uomo che ha setacciato la città “promettendo” a tutti che l’avrebbe trovata. Io e la collega  lo fronteggiammo  con un sorriso di circostanza e aggirammo le sue insistenti domande con risposte banalmente vuote.  Quell’uomo mi sembrava  poco  equilibrato e  infuriato, come un vulcano pronto a esplodere, in effetti a stento controllava la sua rabbia, in fondo aveva paura e cercava di crearsi alibi ripetendo, più a sé che a noi, che  “la moglie non aveva saputo tenerselo”.  Queste sono le mie impressioni perché  di fatto era un ceffo con precedenti penali, morboso con la figlia e violento con la moglie. Tutti sapevano nel suo condominio di otto piani, ma nessuno firmò mai la denuncia o accettò di testimoniare a favore della donna,  anche quando i vicini di casa la soccorsero e chiamarono l’ambulanza perché ferita alla testa da un’ascia. Sì un’ascia, che di certo a lui non serviva per andare nei boschi. Solo allora lei sporse denuncia ma poi la ritirò perché ” io avrei sopportato ancora, lui è così, poi si pente, ma quando ha iniziato con i figli non ce l’ho più fatta”. Da qualche anno quell’uomo è in galera, nemmeno i suoi familiari possono più avvicinare quei bambini. Unico contatto con la donna è stato concesso a due persone, che hanno testimoniato e che hanno fatto da tramite per farle avere vestiti, libri e giochi per i bambini, solidarietà e qualche soldo.  Lei non aveva  parenti, né un lavoro, né amiche, solo i figli. Si è fidata di una donna ed è stata aiutata da tante altre donne, che ancora le sono vicine, anche a distanza. Oggi penso soprattutto a lei. 

Giornata internazionale contro la violenza sulle donne 2015

 

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Cos’è la guerra?

dragoA volte mi spavento un po’ di me stessa. Ieri, pensando a un thread in un social network  sulle nostre paure infantili, ho iniziato a scrivere un post ricordando ciò che successe in una  mia classe quattro anni fa. Durante una conversazione, un bambino di sei anni mi chiese: “Maestra, cos’è la guerra?” Gli altri bambini iniziarono a ridere e a mimare sparatorie . Ebbi l’intuizione di tacere, perché in un primo momento pensai che scherzasse ma quando insistette, rivolto verso i compagni: “Embè, che ci avete da riiide? Cos’è la guerra?”,  mi ha completamente spiazzata. Dovevo trovare le parole giuste per un bambino di sei anni, ma non volevo sporcarlo con una spiegazione del reale. Mentre i compagni provavano a rispondergli , ho cercato di ricordarmi cos’era per me la guerra quando ero piccola. In pochi flash di memoria ho visto draghi e cavalieri, streghe, magie, diavoli (grazie a quel catechismo terrorizzante di cui ci infarcivano), indiani e cowboy. La guerra dei buoni e dei cattivi, a volte necessaria, per il lieto fine della storia. Una guerra interpretata da eroi e antieroi, spesso tra incantesimi e magie.

casa

Poi c’era un’altra guerra, quella narrata dai nonni, dagli zii e dai miei genitori: la guerra dei bombardamenti, della fame, dei parenti sfollati che arrivarono via mare da Napoli a casa dei nonni , dei soldati inglesi che occuparono l’appartamento dei nonni, della catasta di cappotti  da rammendare nell’atrio del portone , della nonna e della zia che vigilavano sulle figlie alle quali i soldati regalavano sguardi e sorrisi, carne in scatola e cioccolato. Fatti che mi incuriosivano, mentre mi rattristavano quelli di papà sulla fame e sul nonno che finì in un campo di prigionia in Egitto. Ieri volevo chiedervi se ricordate più o meno a che età, da bambini e da ragazzi, avete capito cos’è la guerra. Per  quel mio alunno,  che aspettava  una mia risposta, ho trovato parole banali, che non turbano, perché essa evoca solo parole nere: morte, distruzione, dolore, fame, perdita della casa, dei cari, delle fiabe e dell’ingenuità. “La guerra riguarda i grandi, che a volte non si capiscono o vogliono per forza qualcosa e diventano prepotenti e bisticciano”  “con i fucili e le mitragliatrici…” aggiunse il combattente di classe. In verità a quel bambino non volevo rispondere e mi sono poi chiesta che risposta si danno quei bambini che davvero vivono la guerra.

Ora sto pensando a cosa dire ai miei alunni di sette  anni se lunedì faranno domande sulla strage di Parigi.

 

Libertà di emigrare e diritto a non emigrare

Alcuni giorni fa  ho partecipato all’evento “Libertà di migrare” che prevedeva la mostra di semplici disegni fatti dai migranti alla frontiera di Ventimiglia, la lettura di alcune testimonianze raccolte da Monica e un’amica, che li hanno seguiti durante le attività, e un dibattito finale.

20151014_170140A Ventimiglia ci sono state centinaia e centinaia  di migranti in attesa di varcare i confini francesi, ma sempre respinti, infatti molti si sono poi diretti verso il Brennero sperando di riuscire a raggiungere  l’Inghilterra, la Norvegia, la Germania. Sono stati aiutati da enti, da associazioni, da volontari e dai ragazzi No Borders, che sono stati presenti al confine fino allo smantellamento del presidio, e hanno anche partecipato all’evento in un confronto – spero- chiarificatore e costruttivo.  

Il progetto di arte terapia,  curato da Monica Di Rocco, ha coinvolto volontariamente tanti giovani  africani, e prevedeva la rappresentazione grafico-pittorica di tre temi: 1.la libertà- 2. l’isola (tante isole vicine per formare un unico continente ove sia possibile convivere)  3.sogni, desideri, speranze. Il disegno più emblematico, realizzato da un giovane laureato del Sudan, è stato scelto come locandina dell’evento.

Negli altri emergono capanne colorate, ricordate o sognate con gli occhi dell’affetto, oppure violate e distrutte. Affiorano spesso barconi dove i migranti si intravedono a stento, mentre domina la scritta “Non si fa nulla per prevenire le migrazioni”. Tra capanne, cuori e ponti spicca “Vogliamo essere liberi in Sudan, vogliamo un nuovo Sudan!” Emergono catene spezzate, mappe e  mete ambìte: Parigi o Londra? Il mito dell’Europa dà speranza a chi ormai può solo guardare avanti per sopravvivere.

Ci sono state e ci sono polemiche a riguardo dei migranti. Resta il fatto che i conflitti, le persecuzioni, la fame e di conseguenza il fenomeno delle migrazioni,  sono stati a lungo ignorati dalla Comunità Internazionale. L’Unione Europea si è mossa solo quando ormai sulle spiagge del Mediterraneo sono sempre più approdati cadaveri e forse le manifestazioni spontanee della gente nelle piazze alla vista di tante immagini drammaticamente vere, compresa  quella del  piccolo Aylan, sono servite. Si è dovuto arrivare a questo per sensibilizzare i Governi europei ? Alcuni Stati sono ancora restii all’accoglienza, forse hanno già dimenticato i loro profughi, polacchi e ungheresi, che appena arrivati in Italia chiedevano asilo politico.

Per troppo tempo abbiamo  sentito slogan populistici, vorrei quindi condividere con voi alcune delle testimonianze che abbiamo letto al pubblico presente perché è  doveroso riportare altre voci, comprendere che le aspirazioni di questi giovani sono le stesse dei nostri figli, ricordare che l’istinto alla sopravvivenza è il motore della vita. Gli occhi spaesati dei tanti ragazzi nei pressi della stazione di Ventimiglia, mi hanno ricordato mio padre che nel dopoguerra, a 21 anni, partì per Genova in cerca di lavoro col fratello di qualche anno più grande, portando con sé una valigia di cartone  semivuota, ma piena di solitudine, affetti lontani e bisogno di trovare una strada, un qualsiasi lavoro. Alla fine della lettura, l’amica Monica  ci ha invitati a disegnare o scrivere qualcosa su un grande foglio di carta. Sono riuscita a scrivere soltanto  “ RESTIAMO UMANI !”

“Vengo dalla città. Ero un giornalista. Ho 40 anni. È dal  ‘94 che le cose sono peggiorate in Sudan, se sei nero. Gli arabi sono al potere. Gli arabi islamici sono al potere. Se scrivi una cosa che non gli piace, sei finito. Sono stato in carcere oltre cento volte. Sono stato aiutato più volte da Amnesty International: sono stato rifugiato in Kenia e in Ghana. Ma perché ritornavi a casa? Perché c’è la mia famiglia. Ecco la foto della mia terza figlia, ha 6 anni. Sono stato aiutato a scappare varie volte, ma non potevo rimanere troppo lontano da mia moglie e dai miei figli. Ho anche lavorato per un campo dell’UNHCUR nel Darfour. Quando sono stato via per più tempo, è stato in Ghana per otto mesi, ma mi è piaciuto molto più stare in Kenya. Quanto tempo sei stato in carcere nel tuo paese? Dipende, da dieci giorni ad alcuni mesi. Ti faccio vedere” (l’uomo si alza la maglietta e mostra una pancia che converge verso l’ombelico come se avesse subito un’operazione che ha lasciato un buco).

 

“Il mio viaggio fin qui è durato sei mesi. Sono partito dal Darfour nel marzo 2015. Ho preso una Toyota e ho viaggiato per tre giorni fino in Ciad Eravamo in 25. Si è sempre tra le 20 e le 27 persone su una Toyota. Quanto hai speso? 700 dollari. Poi mi sono fermato in un campo profughi e ho fatto dei lavoretti in giro. Anche lì la situazione è molto difficile. Dopo due mesi me ne sono andato. Con un’altra Toyota, di nuovo affollata, per attraversare il deserto. Cinque giorni molto difficili . Non vi siete fermati mai? Praticamente mai. La vedi questa bottiglia? Ecco questa serviva per tre giorni. La sete è dura. E poi l’autista, ma non solo quello che ho trovato io, era sempre ubriaco. Molto pericoloso. Ma sono arrivato in Libia. Qui ho lavorato per quattro mesi in un bar. Dieci  giorni fa sono partito con una barca. Ho speso 2000 dollari per la traversata del Mediterraneo, sono arrivato in Sicilia una settimana fa . Qual è stata per te l’esperienza più dura? I morti a casa, i morti nel deserto. Alla fine hai speso molto di più per arrivare in Europa in questo modo che se avessi preso un aereo? (risata contenuta) Dal Sudan partono in aereo solo il Presidente e la sua famiglia. Solo loro possono andare dove vogliono.”

“Io ci ho messo 13 giorni per attraversare il deserto di cui tre a piedi senza bere. Ci hanno lasciati in mezzo al nulla dopo 10 giorni…con chi è arrivato, non so come abbiamo fatto.  È stata molto dura, molto più dura del mare”.

“Per me il mare è stato molto più duro, non si respirava, ci si vomitava addosso l’un con l’altro, non ho visto la luce per una settimana. Quanto hai speso? 1800 dollari.”

“Ho 25 anni, vengo dal Sudan, dal Darfour. Sono della tribù degli Zakhoy, molti qui al campo sono Zakhoy. Non siamo partiti insieme, ma ci siamo incontrati qui in Italia, ci siamo riconosciuti perché parliamo la stessa lingua. Sono scappato dal Darfour perché là la situazione è molto difficile. Cosa intendi per difficile? Difficile. Ero arrivato al quarto anno di ingegneria, ma ho dovuto lasciarla. Il governo Al-Bashir arma la gente contro i cristiani e contro i Neri. Ci sono molte armi in giro ,anche i bambini possono essere armati. Così chi non è islamico…Ma tu lo sei? Sono musulmano, non islamico; se sei musulmano e non islamico, se sei nero e non arabo, sei sempre a rischio. Sei a rischio della vita, ma anche a rischio in ogni aspetto della tua vita. Io ero al pensionato universitario a Khartoun e perché non ero dei loro, venivo taglieggiato di continuo: “Vuoi  sempre la stanza? Devi pagare tot.” Magari dopo un po’ ti chiedono altri soldi. Non ero mai tranquillo.

Anch’io vengo dal Darfour. Ti faccio vedere questa foto. Lo vedi? Tutte le case sono state bombardate, anche sui raccolti cadevano le bombe. C’è una bellissima donna anziana qui!  Sì, solo donne anziane e bambini. Vedi queste cicatrici?  Sono state fatte da forbicine…fanno così su tutto il corpo. Chi? Gli Islamici.

“Veniamo dall’Etiopia. Abbiamo 20 e 22 anni. Abbiamo studiato ad Addis Abeba. Nostro papà è un politico ed è dovuto scappare alcuni anni fa . Si trova in Norvegia e dobbiamo raggiungerlo. Mio fratello è partito due anni fa, poi è finito in un carcere libico, nel caos che c’è là in Libia. Come famiglia non riuscivamo ad aiutarlo a distanza, così sono partito io e con l’aiuto di tutta la famiglia l’abbiamo tirato fuori. Quanto hai pagato? 1000 dollari. Che farete? Io e mio fratello vogliamo arrivare in Norvegia .Dobbiamo trovare nostro padre. Da quanto non avete sue notizie? Da tempo, ma lo vogliamo cercare.

Quali sentimenti provi adesso che dopo tutte queste fatiche, dopo questo sforzo trovi ancora le porte chiuse? È un sentimento contraddittorio. È un sentimento contenuto. Non so spiegarlo bene. Sono ancora in viaggio. Qui a Ventimiglia ci starò il tempo sufficiente per ripartire, non so, magari ancora una settimana.

 

Come hai saputo del presidio No Borders? Me lo hanno detto altri alla stazione di Ventimiglia. Perché non sei rimasto in stazione? Va bene qui. Il tempo per riprendersi e ripartire.

Il mio obiettivo è arrivare in Inghilterra. Voglio continuare i miei studi. Sono uno studente. Anche se l’Inghilterra è lo stato con le porte più chiuse? Proverò a passare. Non hai parenti in Europa? No, non ho nessuno, sono solo.

Io voglio arrivare tra la Germania e il Belgio. Ho parenti là.

Io voglio andare a Newcastle. In Darfour ho conosciuto una ONG di Newcastle, devo raggiungere quella città, ci sono amici là.

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Cose da non credere…

Qualche giorno fa,  mentre leggevo post sulla buona educazione e su alcuni casi di mancanza di rispetto, mi sono ricordata di una cosa strana che mi è capitata a Roma. Premetto che mi ero trasferita da qualche giorno e quindi mi sentivo frastornata nonché spaesata in quella moltitudine di strade e persone sconosciute. Era luglio e andai a fare la spesa prima che esplodesse l’insopportabile afa delle ore calde. Stavo in coda in un supermercato di prodotti per la pulizia della casa, per fortuna poco affollato.

 Avevo già sistemato la mia spesa sul nastro trasportatore e messo il divisore per consentire alla cliente successiva di sistemare la sua. Poi mi sono spostata avanti per mettere i prodotti nelle buste . Una signora, più o meno cinquantenne che era dopo di me, con nonchalance ha preso il “mio” Cif spray e lo ha messo sul nastro tra le cose che doveva pagare. Prontamente la cassiera è intervenuta dicendo che il Cif spettava a me e che aveva visto che l’aveva preso. D’altra parte io, sinceramente presa alla sprovvista da siffatto insolito e improvviso interessamento al mio Cif, ho solo ribadito che l’avevo preso io. La signora ha iniziato a strillare che era suo e che ci sbagliavamo. A sua volta la cassiera con tono deciso e forte “Ahò , t’avemo visto sai? Stava de quà, e tu ll’hai messo de llà. Cose da non crede… ” 

 L’altra sbraitava, quindi

A: avrei potuto strattonare il mio Cif , metterlo in busta e scappare dal supermercato, come un giocatore di rugby che prende la palla e corre verso la meta ;

B : fare una plateale sceneggiata napoletana con un finale intervento dei carabinieri e dei giornalisti e finire sul giornale per il Cif sfacciatamente rapito;

 C : mollare due ceffoni alla signora, riprendermi il Cif e scappare;

D : dire ” Signò, lo tenga pure, si vede che quello degli altri pulisce meglio “

E: mettermi a piangere e muovere a compassione la “rapitrice” del Cif.

 F: spargere il Cif sul pavimento gridando :”Se non potrà essere mio, non lo sarà di nessuno”.  

A voi la parola .

I casi della vita

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Tutti, chi più e chi meno, abbiamo sofferto del mal di scuola, talvolta per il disagio dimettersi alla prova nello studio, in un rapporto “conflittuale” con i compagni di classe o con uno o più insegnanti. Mettersi in gioco, come alunno e come docente, implica un reciproco, ma non scontato, dare per avere. In fondo a scuola il ragazzo si confronta con coetanei e adulti, che fanno richieste diverse da quelle dei familiari e stabiliscono un’interazione basata sulla stima reciproca e sulla motivazione all’ apprendimento.
Penso però che ognuno di noi abbia vivo dentro di sé anche il ricordo di un bravo insegnante, non necessariamente accomodante o indulgente nei voti, ma imparziale, obiettivo, appassionato. Un insegnante che sapeva distinguere il momento della lezione dalla libera conversazione, che non s’arroccava su un piedistallo ma sapeva porsi , senza confusione di ruoli, a livello dell’alunno accompagnandolo nella sua crescita con una presenza apparentemente distaccata ma costante.

Dopo le movimentate vicissitudini  di scuola elementare  in cui ebbi l’onore di conoscere uno zero scappato sul mio quaderno, trascorsi gli anni delle scuole medie in una classe turbolenta con ragazzi problematici, alcuni dei quali erano veri e propri bulli, tant’è che picchiarono il professore di lettere, un prete che insegnava nella scuola statale, incapace di difendersi anche verbalmente . All’epoca gli altri docenti intervennero compatti  nelle dinamiche relazionali della classe per garantire in qualche modo il diritto dovere allo studio a chi voleva imparare ed era intimorito da certi atteggiamenti. Stimavo di più l’insegnante fermo, risoluto, deciso a fare lezione a mantenere la disciplina che quello rilassato che assecondava i ragazzi  che imperterriti continuavano nelle loro provocazioni. Anni fa non si parlava di disagio giovanile e rischio di devianza come oggi. Alcuni di quei compagni di classe non arrivarono nemmeno a vent’anni, il resto continuò gli studi. Eppure della scuola tutto sommato ho un duplice ricordo. Un po’ angosciante se penso a certi insegnanti che rispecchiavano la loro formazione, non sempre  efficace, e ad alcuni odiosi compagni di classe. Integrarmi  più volte in un contesto nuovo, diffidente e poco accogliente non è stato facile, ma imparai a  selezionare le mie amicizie, a  fregarmene di alcuni e a  battagliare con altri e il successo scolastico fu per me anche un mezzo per affermarmi nel gruppo con un senso di rivalsa e riscatto. Allo  stesso tempo della scuola ricordo anche amicizie sincere, sopravvissute a distanza di tempo e spazio, e  insegnanti  coscienziosi come la mia professoressa di storia e filosofia . Mi incantava con le sue spiegazioni, mi motivò nello studio trasmettendomi interesse per le sue materie, che reputo molto formative, e un metodo di studio basato sul confronto di diverse interpretazioni storiografiche di fenomeni ed eventi storici. Precorse  i tempi insegnando la storia per filoni conduttori costanti, per favorire,  prima attraverso  l’analisi e poi la sintesi, una visione globale in un’ottica di cause effetti, senza  uno studio esasperato di nozioni.

Era imparziale, autorevole e molto esigente, ma metteva i ragazzi in condizioni di essere all’altezza delle sue richieste durante le temute interrogazioni. Non assegnava mai una lezione se non l’aveva prima spiegata, integrava e approfondiva il libro di testo, ci faceva prendere appunti  e fare collegamenti interdisciplinari. Aveva il tempo per interrogare tutti, anche perché al quinto anno di liceo  eravamo soltanto in  dieci, ben tartassati tutte le settimane, e se registravamo un’insufficienza, rispiegava l’argomento e ci interrogava  di nuovo per farci colmare le lacune.  Non ci ha mai fatto fare una verifica scritta, eppure i nostri temi di storia furono ben valutati all’esame di maturità.  Sembrava indifferente, ma dietro i suoi occhi azzurri e intelligenti, capiva più di quanto non desse a vedere. È stata una delle poche persone che riuscì a leggermi dentro in un periodo che per me era di gran confusione e perplessità. Me lo disse al termine del ciclo di studi delle superiori. Finito l’esame di maturità, che sostenni per ultima nell’ultimo giorno delle prove orali a fine luglio, semimorta a causa dell’ansiosa attesa del fatidico giorno e della tremarella, al risveglio di un sonno ristoratore di 27 ore  durante il quale i miei si chiesero se fosse il caso di  chiamare un medico o un prete, seppi che voleva parlarmi. Mi chiedevo cosa fosse successo di grave… o cosa avessi inconsapevolmente combinato.  Mi disse che aveva apprezzato il mio impegno nei tre anni e che  a  volte le occhiaie di una notte insonne parlavano più di me  e che, secondo lei, ero portata per la filosofia.  Allora la sola idea di diventare un’insegnante mi faceva scappare in tutt’altra direzione. Oggi ne sorrido ma allora vivevo in pieno la contestazione di qualsiasi cosa. Non condividevo le sue parole ma  solo dopo molti anni ho concluso che non si era sbagliata. Il mio primo esame universitario fu filosofia del diritto che  preparai senza sapere da che parte cominciare. Mi interessava la materia e la studiai nell’incertezza di avere capito e nel  dubbio perenne  di non saperne abbastanza. A Genova mi  iniziò ad interrogare un assistente universitario, poi si avvicinò il professore che continuò il colloquio. Io lo conoscevo solo di fama e non pensavo ad altro che a schizzare via dalla sedia. Alla fine del colloquio ritirai il libretto, lo aprii e non vidi nessuno scarabocchio, quindi pensai di essere stata bocciata, ma con la stretta di mano. Un ragazzo mi disse che era il suo ultimo esame prima della discussione della tesi e io  con l’anima sconsolata, alla sua richiesta, gli porsi il libretto,  lo girò e scandì un 29 . Non sapevo se ridere per il voto o piangere per la mia imbranataggine. Brillavo in autostima al punto tale che qualche anno dopo mollai gli studi, sebbene avessi una media alta e  mi mancasse un terzo degli esami per concludere il corso di laurea. Grazie però a quella professoressa  ho vissuto di rendita nella preparazione per una seconda maturità che sostenni da privatista più tardi, quando mia madre pose come condizione al mio matrimonio il conseguimento del diploma magistrale “perché nella vita non si sa mai cosa può succedere.” Portai nuovamente storia come prima materia. Il presidente della commissione era un severo preside di Varese, che mi fece fare un excursus filosofico ( meno male che portavo storia) e in cuor mio benedissi gli appunti del liceo  che avevo conservato come sacre reliquie.

Ho rivissuto un po’ la stessa trepidazione durante gli esami di maturità dei miei figli e tra le loro ansie, i libri e quaderni sparsi ovunque e le nottate di studio ho ripensato a quegli anni, a quell’ insegnante che  avrei voluto ringraziare ma mancò  dopo pochi mesi  dal nostro incontro in seguito ad una malattia di cui non parlava mai. Alla vigilia di ogni nuovo anno scolastico, che per me coincide con l’inizio delle lezioni che mi motivano nella scuola, rileggo come vademecum la traccia del tema della maturità magistrale che svolsi: Einstein, rivolgendosi ai giovani, disse loro: “Tenete bene a mente che le cose meravigliose che imparate a conoscere nella scuola sono opere di molte generazioni: sono state create in tutti i paesi della terra a prezzo di infiniti sforzi e dopo appassionato lavoro. Questa eredità è lasciata ora nelle vostre mani, perché possiate onorarla, arricchirla e un giorno trasmetterla ai vostri figli. E così che noi, esseri mortali, diventiamo immortali mediante il nostro contributo al lavoro della collettività“. Riflettete su questo appello a voi indirizzato.

Iniziai a scrivere ma  non ero convinta,  ricominciai il tema daccapo seguendo il bandolo di una matassa che pian piano si sgrovigliò dentro di me facendo emergere quei principi fondanti dell’insegnamento che all’epoca non conoscevo, ma  che forse avevo appreso indirettamente e inconsapevolmente dalla mia scuola, cioè da quella che avevo vissuto tra luci e ombre. Più tardi li ho ritrovati in occasione della preparazione per il concorso magistrale e ormai mi appartengono.

Il tema  piacque alla commissione e mi iniziò a fare capire quale fosse la mia strada. Lo scrissi  con l’anima pensando soprattutto alla mia professoressa che a tutt’oggi ricordo con grande stima, sia come insegnante che come persona. Grazie prof !

 

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  Dipende da come ci si pone…

 

17 febbraio 2015- Giornata Nazionale del Gatto

Non poteva mancare su questo blog un post per gli amici felini, che ricordo ogni anno in occasione della Giornata Nazionale del Gatto. Quest’anno vi presento i due piccoli di casa, che ci hanno regalato un po’ di spensieratezza in questi mesi  in cui ho accompagnato all’inevitabile traguardo mio padre.

 

Kiki 1

 In una piovosa sera di ottobre  mi portarono a casa un trovatello, Kiki 1°; bello bello bello e tanto affettuoso. Era  il mio  “lemurino  procionello” con  due  zaffiri  negli occhi splendenti, che però  è zompato troppo presto nel mondo verde azzurro dei gatti.

Kiki 1 procione

 

 

 

 

 

Per lui ho pianto così tanto che mio marito, forse per non sentirmi più, pensò bene di consolarmi regalandomi Kiki 2° che  ci ha subito distratti da altri pensieri con la sua vivacità, mostrandosi  giocherellone, selettivo  e coccolone.

Kiki 2 piccolo

 Kiki primo piano piccolo

 

 

 

 

 

 

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Dopo qualche settimana gli ho cercato un fratellino adottivo perché sono dell’opinione che due gatti sono meglio di uno, sicuramente per loro che trovano un compagno di scorribande , per noi umani invece la coppia si rivela ben presto  una piccola associazione a delinquere. In un piovoso  sabato io e consorte siamo andati invano al canile in cerca di un gattino , più o meno della stessa età di Kiki. Dopo qualche giorno la responsabile mi ha telefonato dicendomi che le avevano portato una gatta e un micetto rosso da una colonia felina dell’entroterra. Le chiesi di tenermelo che sarei andata a prenderlo il giorno dopo. Non c’era nemmeno bisogno di vederlo, sentivo che era arrivato il mio Russulillogatto. Rosso come l’ avevo sempre desiderato, perché  di solito i gatti rossi sono un po’ speciali e anche simpaticamente  pestiferi. L’indomani , sotto una pioggia torrenziale che aveva allagato la strada per il canile e interrotto la viabilità, dopo un lungo giro tra pozzanghere , vigili e pompieri, io e consorte siamo sbarcati al canile e abbiamo adottato il “Russillo”, prontamente e ufficialmente  battezzato al cospetto del veterinario con il nome “ Russò”, che fa molto Jean Jacques, ma in effetti sta per RussulilloRussò piccolo (piccolo rosso in napoletanish). Arrivati a casa, Russò è saltato dalle mie braccia per andare incontro a Skip vero e gli ha fatto subito le fusa, cosa da non credere dato che invece a Kiki bastava intravedere il cane  da lontano per diventare più gonfio e irto di un pesce palla.

 

 Per due settimane le piccole belve in miniatura sono state separate, anche per timore di qualche malattia che colpisce i gattini,  finché è finalmente arrivato il fatidico giorno del primo incontro. Mi ero illusa che avrebbero subito familiarizzato e invece Kiki si trasformava ancora in una palla di pelo, mentre il piccolo rosso era sempre più  incuriosito e desideroso di andare incontro a quell’essereKiki principino alfa indemoniato e minacciosamente gnaolante. Se avevo temuto una difficile e lenta familiarizzazione con il cane, invece adesso dovevo preoccuparmi  della gelosia possessiva di Kiki, il principino Alfa. Fatto sta che soffia  e graffia oggi, soffia domani, dopo circa una settimana Kiki si è degnato di osservare Russulillo e sul morbido lettone di casa i due felini hanno iniziato a  conoscersi lottando.  La panterina siamese, un po’ più grande, mordeva il gattino rosso che da subito si è rivelato una lince, capace di difendersi tenacemente  cercando di mordere l’avversario sulle zampe posteriori fino a Russò piccola lincemiagolare esausto la resa. Dopo un paio di giorni di baruffe, sempre più giocose, Kiki è diventato pian piano protettivo con Russò:  oggi  gli miagola come una mamma gatta, lo cerca, lo coccola, gli cede il piatto e l’altro da buon Ruspallegro, di soprannome e di fatto, ne ha subito approfittato, diventando un prode e provocatorio combattente, anzi un  piccolo gatto guappo che avanza impettito nella sua fiera “minuscolità”,  ancheggiando  e muovendo la lunga e  pelosissima coda  di scoiattolo.

Kiki e Russò

Che dirvi se non che da quattro mesi  animano  questa casa con fusa ,corse, rincorse e  capitomboli  che fanno perdonare la semi distruzione dell’albero di Natale, i mattutini risvegli domenicali, i tentativi di  intrusioni nella lavastoviglie, nelle borse della spesa, in una qualsiasi cosa che abbia un minimo di capienza ( scarpe comprese),  l’invadenza studiata ad hoc per  impedire  a me e  consorte di leggere a letto, dopo avere preparato un morbido giaciglio zompettando  con nonchalance sul  nostro petto.

Kiki dormiente

Auguri a tutti i gatti, gattoni, gattini, amabili gattacci !

Kiki dormiente 1Russò al pc

Kiki primo piano

Russò 

“Dipende da come ci si pone…”

piena del tevere 7

 

La città eterna degli angeli è lontana ma tanto presente nei miei occhi che continuano a vederne e a cercarne la bellezza. Una bellezza tanto vasta e invadente che  forse non basta una vita intera per viverla tutta, e centellino i ricordi di Roma  con parsimonia, come tutte le cose preziose che si custodiscono con cura in uno scrigno dentro di sé . A volte capitano cose che arricchiscono  tanto da rendere insignificante tutto ciò che prima ritenevi importante. 

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Un primo giorno di scuola come tanti altri, diverso solo perché a Roma e non più in Liguria. Una prima classe con bambini e genitori emozionati, come altri, come in passato noi con i nostri figli. Due fratellini, maschio e femmina  con un anno di differenza, sono accompagnati da un ragazzo e da un uomo in giacca e cravatta,che credevo il papà e invece , capisco, è un mediatore culturale. Saluta, mi dice chi verrà a prenderli, me li affida. Prendo per mano la piccola dai grandi occhi nocciola mentre il fratello, un po’ impettito, le sta vicino cercando di celare il senso di spaesamento nel nuovo contesto. Quando gli altri genitori vanno via, quel bambino mi porge un foglio. Sua mamma si presenta  a me e alle mie colleghe,  in una grafia curata comunica  che è molto contenta che i suoi figli inizino a frequentare la scuola, che spera di conoscerci presto e ci augura un buon inizio di anno scolastico. Un pensiero gentile sbocciato tra caratteri in stampato maiuscolo ed errori di ortografia, così insolitamente  gentile che mi commuovo.  Questi due bambini  sono di un’educazione, a dir poco, disarmante.

'a manoAbituate a bambini irrequieti ,  lamentosi che spesso si contendono i giochi e l’ attenzione degli adulti, non ci sembra vero che  loro stiano ben seduti, forse un po’ troppo timidi e disorientati. Lui dà sempre  la mano alla sorella, quasi per proteggerla, perché è minuta, un po’ più piccola delle bimbe della sua età  ma anche tanto bella. Anche l’ ometto, serio e  taciturno, è un bel bambino con gli stessi occhi color nocciola. Il loro silenzio tradisce un’attenzione ad ampio raggio verso tutte le persone e le cose che li circondano.  Dopo qualche giorno i bambini iniziano a familiarizzare con gli altri, con discrezione, senza insistere troppo, quasi con timore. 

prog muse“Qual è stato per te un momento in cui ti sei sentito felicissimo?” alle risposte un po’ scontate “Quando ho festeggiato il compleanno, quando ho ricevuto in regalo…, quando ho vinto giocando a calcio…” I.  ha risposto timidamente  :“Quando papà ha detto che potevo andare a scuola”, la bimba  invece: “ Quando mamma mi ha svegliato di notte e abbiamo mangiato insieme  pane e cioccolato”. L’anno dopo alla tradizionale domanda  “ Che cosa ti piacerebbe fare da grande?” oltre alle solite risposte “ il calciatore, la ballerina, la cantante, il veterinario, …” se  la bimba ha prontamente detto  “la ballerina” ( del resto ha una straordinaria abilità e armonia nei movimenti  nel seguire il ritmo) invece  l’ometto, che ben pondera le parole,  ha esordito  con “ lo studente modello” . Risposta  pertinente a quel suo desiderio e orgoglio di riuscire a imparare, che per lui  significa  riscattarsi dalla sensazione e dalla condizione di non essere mai ben accetti, di essere discriminati, additati perché rom.

In un campo di Roma quel bambino accudisce le sorelline, ma quella di sei anni  “  sa progetto Mus-e 1lavare i piatti (maestra) come una donna grande” e canta e gioca con la più piccola quando la mamma va a lavorare. Sono seguiti dai giovani dell’Arci che spesso fanno da tramite tra la scuola e la famiglia. Ho conosciuto i genitori  di quei bambini che sono venuti  a scuola indossando il loro vestito più bello. Io e le colleghe pensavamo che non si sarebbero presentati al colloquio, invece  in perfetto orario un ragazzo e una ragazza, di due anni più grandi di mia figlia, sono entrati  nell’ atrio  un po’ timorosi e impacciati. Lei, dai  lineamenti delicati, grandi occhi nocciola e lunghi capelli legati, era  gentile nei modi e nelle parole, aveva un che di regale nel portamento. Bella, davvero bella.  “Come vi trovate a Roma?” “Maestra , qui la gente non è cattiva, molto dipende da come uno si pone”. Lui più taciturno, forse diffidente o semplicemente imbarazzato. Quando è finito il colloquio ci hanno salutato abbracciandoci. Non siamo solite salutare i genitori in modo così espansivo, ma quel saluto spontaneo ci ha coinvolte. Quel congedo ha sciolto ogni perplessità e costruito un rapporto di fiducia.

Qualche settimana prima avevamo scritto a tutti i genitori un generico avviso di controllo dei bambini  per evitare casi di pediculosi e la giovane mamma  ci aveva scritto sul diario “Grazie, maestra.  Scrivi pure se vedi pitocchi,  scusa ma  non posso fare il bagno tutti i giorni ai miei figli. Grazie ,grazie”. Quella ragazza ha insegnato ai suoi figli a usare le posate e a stare composti a tavola, cosa rara al giorno d’oggi. Quei bambini arrivano puntualmente a scuola, tranne quando il campo si allaga con la pioggia e lo scuolabus non passa a prenderli . Non hanno sempre l’occorrente scolastico, come del resto anche altri bambini ai quali spesso provvediamo noi insegnanti,  ma sono sempre in ordine, pettinati e cambiati. Consegnano  i quaderni nuovi e si mostrano quasi con fierezza  con il grembiule nuovo  indosso, quando la mamma riesce  a comprarli .

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Quei bambini sono stati contenti di vedere il loro papà ben vestito e accolto tra gli invitati e le autorità all’ inaugurazione di un Progetto sui diritti dell’Infanzia  proprio in una  scuola d borgata, che qualche giornalista ha definito in una strada da piccolo Bronx, ma dove  ho trovato l’ennesima conferma  che la scuola e l’istruzione rendono possibile l’integrazione, un’integrazione che dipende da come ci si pone, reciprocamente.

Anni fa, quando il campo Candoni  fu al centro di un progetto interistituzionale all’avanguardia per l’integrazione,  in quella scuola prima dell’inizio  delle lezioni le assistenti comunali accoglievano tanti bimbi rom e provvedevano anche a lavare loro e i loro vestiti. Una scuola dove si lavora molto per contrastare ogni forma di disagio,dove ho insegnato volentieri  ma soprattutto  imparato tanto e lasciato un po’ di cuore.

20140309_105302Questa non è una fiaba, magari lo fosse e avesse un lieto fine, ma è una mia bella esperienza che ho voluto condividere per testimoniare che  non tutti i rom sono brutti, sporchi e cattivi come si è sentito tanto parlare di recente . A volte dipende da come ci si pone. Reciprocamente. A volte basterebbe ricordarsi  che tanti, troppi sono i bambini invisibili che vivono nei canneti o in  campi -discariche, come se fossero topi. Tanti dormono in furgoni freddi d’inverno e roventi d’estate  anche perché più sicuri dei campi sovraffollati dove la convivenza è difficile.  Mi hanno detto che quei miei alunni sono un’eccezione. Forse  lo è anche un’altra mamma rom che, dopo lo sgombero di un campo, ogni giorno percorreva  circa  tre chilometri  per accompagnare  due suoi figli a scuola e una mattina stava accovacciata in terra con un bimbo al collo perché, incinta e a digiuno, si era sentita male. Probabilmente due eccezioni non bastano a far saltare ogni pregiudizio ma sono state e sono per me e per altri  un prezioso e  tanto, tanto caro esempio.  

Buon Natale, amici miei ! SAM_2790