Tutti al mare (seconda parte)

Forse questo articolo aiuta a capire la mia insofferenza per l’affollamento estivo , comunque bisogna pur guadagnarsi le indulgenze e imparare a sopportare e inoltre anch’io sono stata una madre costretta a rincorrere il proprio figlio pestifero sulla spiaggia visto che si buttava in acqua pur non sapendo nuotare. Degno figlio di sua madre!

Premetto inoltre  che io e i miei cugini eravamo ben felici di sottoporci all’estivo addestramento spartano…quasi para militare.

puolo

 

Ogni anno torno alla “mia” spiaggia,a quel che resta di quella spiaggia perché lì è sorto un elitario stabilimento balneare con un comodo solarium frequentato da opulenti clienti ipergriffati, quelli che ostentano status symbol, strilli e un presunto esprìt de finesse . Ormai non è più prudente nuotare da una baia all’altra a causa dei motoscafi che sfrecciano di continuo lasciando puzzolenti scie di nafta. Non  ci sono più i vecchi pescatori, non ci sono tante stelle marine ma solo conchiglie e qualche granchietto , non ho più il coraggio di addentrarmi nelle grotte marine e di mangiare frutti di mare crudi appena pescati, ma  ogni volta che torno lì , penso a quanto sono stata fortunata .
Quando trascorrevo le vacanze estive a casa di mia nonna a Sorrento, desiderate per tutto l’anno perché ritornavo alle mie radici e ai miei affetti, andavo al mare con zii, zie e cugini. Arrivati a piedi ad un paese di pescatori che sorgeva sul mare, gli adulti prendevano una barca a remi sulla quale caricavano borse e bottiglie di acqua e noi bambini, sei cuginetti molto affiatati , dai 6 agli 8 anni, seguivamo la barca a nuoto per arrivare a una splendida baia, conosciuta da pochi. Lì c’era un mare caraibico con acque cristalline solcate soltanto da barche a remi di pescatori. Questi ci conoscevano, ci soccorrevano quando ci facevamo male, ci riportavano a riva se eravamo stanchi o in difficoltà . Era la “nostra” spiaggia fatta di sabbia e scogli dove  ci raggiungevano a nuoto o in barca gli amici e dove siamo cresciuti insieme per molte estati.

dal web

dal web

Da bambini, ci divertivamo a esplorare grotte e a giocare nelle sorgenti di acqua sulfurea ( insomma facevamo una sorta di idromassaggio naturale!), a raccogliere stelle marine, conchiglie, a mangiare ricci di mare e patelle, senza timore di prendere l’epatite, a correre sugli scogli, a fare torte e castelli con la sabbia nera decorandoli con le pietrine colorate. Più tardi imparammo a costruire il vulcano cimentandoci per ore nello scavare pian piano il camino , facendo attenzione a non fare franare le pendici …e ci sentivamo soddisfatti quando alla fine di lunghe discussioni raramente pacifiche, per portare a termine il nostro Vesuvio in miniatura, riuscivamo ad accendere la carta sotto e a farlo fumare.
I nostri tatuaggi permanenti erano graffi e tagli sui piedi e sulle gambe, talvolta spine di ricci,  ma non piangevamo mai troppo perché sapevamo che se ci fossimo lamentati, saremmo tornati prima a casa . In compenso però, tornati a casa, la sola vista dell’ago bruciato, che serviva ad estrarre le spine dei ricci, bastava a farci improvvisare sceneggiate esagerate, per avere anche due coccole in più, e a turno ci confortavamo dicendoci che non era nulla , ben sapendo che prima o poi sarebbe toccato ad ognuno di noi perché tanto avremmo continuato a disubbidire ai grandi pur di scappare a giocare tra gli scogli.
Stavamo al mare per 5- 6 ore, anche perché andavamo in una spiaggia isolata e lontana dal paese e facevamo un solo bagno cha durava quanto la permanenza in spiaggia! Non avevamo mai fame perchè eravamo troppo indaffarati a scorrazzare liberi, per cui pranzavamo a casa al ritorno. Per tornare a casa dovevamo nuotare di nuovo fino al paese dei pescatori e poi fare circa un chilometro in salita sotto il sole del primo pomeriggio per raggiungere le auto parcheggiate all’ombra degli ulivi. Due miei cugini ambivano ad arrivare per primi e correvano avanti prendendo in giro me e le mie cugine che, preferivamo non replicare e camminare in silenzio ascoltando il frinire delle cicale. Un contadino ci aspettava in cima alla salita per offrirci un po’ di granita al limone.

 capo di sorrento

In quella spiaggia abbiamo trascorso anche le estati della nostra adolescenza: eravamo sempre più numerosi,a volte una quarantina tra ragazzi e ragazze .Ci conoscevamo tutti e giocavamo a pallanuoto e a pallavolo, facevamo gare di tuffi e di nuoto, senza distinzione tra maschi e femmine. Tutto  però diviene e muta, così finì la pace quando la spiaggia fu scoperta anche dai vacanzieri domenicali, amanti degli strilli e delle radio, quelli che sbarcavano dagli yacht con gli ombrelloni con la tenda intorno , simile a quelle dei beduini del deserto.Sorsero ben presto problemi di convivenza dal giorno in cui accidentalmente un pallone finì in un piatto di pasta e lenticchie che una mater matronissima reggeva inseguendo per tutta la spiaggia il piccolo destinatario che, ignudo, scappava di qua e di là per sottrarsi all’imboccamento forzato.

 Intanto la cava di pietra dietro la spiaggia fu venduta e quando iniziarono i lavori per lo sfruttamento turistico di quella zona, noi iniziammo ad emigrare. Io lo ero già da molti anni. Lo studio e il lavoro ci divisero: ognuno di noi ha poi preso la sua strada, ma d’estate ritorniamo alle nostre radici ed è sempre bello ritrovarsi lì coi propri figli, coniugi o compagni e continuare a ridere e a divertirci. Anche se la vita ci ha cambiati, i ricordi di quelle estati spensierate ci uniscono ancora e ci fanno recuperare con un po’ di nostalgia un senso di appartenenza.

Tutti al mare (prima parte)

Come è bello andare al mare!  Cercare di sdraiarsi al sole recuperando qualche centimetro di spiaggia in modo da non sentire l’odore degli abbronzanti e del sudore dei vicini ma, come sempre, non appena ho finito tutte le operazioni d’assetto da spiaggia,cioè la  sistemazione del telo da spiaggia e del libro o del quotidiano che leggo solo se la giornata non è ventosa, spalmatura dell’ olio ultraprotettivo che tanto non mi risparmia la scottatura di routine, attivazione del cellulare qualora decida di essere reperibile, arriva qualcuno che si piazza ai miei piedi. È il solito seguace dell’ aggregazionismo da luogo pubblico o aperto al pubblico . Questa è una sindrome che si manifesta in tutti i luoghi, aperti o chiusi, in cui si debba prendere posto: nei treni, nei cinema, su un prato, su una spiaggia. Non colpisce mai i primi arrivati, quelli veramente liberi che decidono di sedersi dove meglio credono, ma perlopiù i secondi arrivati e poi tutti gli altri, cioè quelli che, dopo vari tentennamenti, tendono sempre a sedersi nei pressi di chi li ha preceduti. Poiché mi pare brutto stare stesa al sole e dare i piedi in faccia a qualcuno, faccio una rotazione così se tutti sono allineati con la testa a nord e i piedi a sud, io ho una posizione divergente, da nord-ovest a sud –est.

 Poi cerco di concentrarmi sulla lettura. Di recente, grazie all’avanzare precoce di non so che per cui leggo automaticamente senza capire, ho scoperto che riesco a seguire di più la trama di un bel romanzo avvincente che a leggere un settimanale femminile che dovrei cercare di decodificare di continuo per i numerosi inglesismi  ma mi compiaccio che il livello medio culturale delle lettrici italiane sia in ascesa. Infatti ho l’impressione che le donne italiane stiano diventando “globalmente poliglotte”-ma forse sarebbe più corretto dire polliglotte ( linguaggio dei gallinacei e tipicamente femminile) .

Ad un certo punto desisto dalla lettura perché qualche mater matronissima inizia a sfoggiare con varie tonalità di voce il solito repertorio di raccomandazioni e  “ indicazioni educative da spiaggia pronte all’uso”, inefficaci dai tempi del nautilus ( provare per credere :) ).Quindi mi sforzo di rilassarmi in una sorta di training autogeno, durante il quale invece di ripetere mentalmente  “pensa al tuo corpo, estraniati da esso…” ripeto “ pensa ai fatti tuoi, che sono già abbastanza…”.

Poiché la curiosità è femmina, riesco sempre a captare qualche battibecco tra moglie e marito vacanzieri e mi auto discolpo dicendomi che può essere sempre utile la comprensione dei vari dialetti regionali . Gli argomenti più discussi riguardano le spese, il menu di mezzogiorno, il programma delle  vacanze e il carattere del coniuge.

 

Quando ormai la mia pelle fuma, inizio a osservare il mare per vedere se c’è almeno un metro quadrato libero per una piccola immersione. Di solito aspetto l’esodo delle 12.30. L’orologio biologico non perdona…mai! Allora assisto a  un repentino fuggi – fuggi di padri che smontano l’accampamento da bagnanti super attrezzati (ombrelloni, sedie, lettini, canotti , salvagenti) e di madri che raccolgono secchielli e palette, teli da spiaggia, ciabatte, maschere per poi svestire e rivestire bambini che piangono o scappano. Dopo queste frenetiche attività che durano almeno venti minuti, i vari nuclei familiari, finalmente ricomposti, sciamano sul lungomare per andare a rifocillarsi.

La spiaggia è più libera e posso osservare con calma la discesa dei bagnanti del secondo turno, cioè degli amanti della tintarella. Arrivano in gruppo o da soli: si spalmano per almeno mezz’ora con creme che emanano effluvi fino a  tre chilometri  di distanza e sanno resistere fermi al sole per ore, immobili come lucertole .Quando qualcuno inizia ad accendere la radio o a fumare, da buona discendente di Moby Dick, decido di andarmene a nuotare. È il momento più opportuno: mare – si spera – pulito, e sgombro da pedalò, canotti e da quelle signore che piuttosto si ustionano il cuoio capelluto ma non si bagnano mai i capelli e guai, se per caso, un po’ d’acqua osi sfiorare la loro messa in piega. Di solito quando risalgo a riva, provo a spostarmi in modo da non avere segnali di fumo nella mia direzione, decisa a prendere un po’ di sole finchè qualcuno nei paraggi comincia a parlare a voce alta dei fatti propri, di un lui o una lei di turno. Secondo me stare sdraiati sulla spiaggia induce le persone a rilassarsi e a comunicare, a fare una sorta di autoanalisi: è come se stessero su un lettino di uno psicanalista e via…vita morte e miracoli, storie di conquiste, tradimenti, sofferenze, riappacificazioni narrate a ruota libera, il tutto intervallato da una miriade di riferimenti a telefonate e conversazioni private o non. Altro che Beautiful !

Allora non mi resta altro da fare che una bella passeggiata fino alla doccia, di modo che al ritorno sposto nuovamente il telo.

 

Nonostante tutto continuo ad andare al mare, a lucertolare come tutti e mi consolo pensando che “la pazienza è la virtù dei forti” invece di ammettere che ho un’ incipiente forma di intolleranza estiva per quei rituali comuni a tanti, me compresa, tipici della fauna di qualsiasi spiaggia .

 

La dama bianca

Mi piace esplorare con lo sguardo le grandi città che si raccontano nella solenne vastità delle piazze, nei monumenti solitari, sui portali di antiche  chiese, tra gli  sconfinati viali alberati  e gli  zampilli iridati delle fontane, e scrutare  con il naso all’insù le finestre, i balconi, i tetti di imponenti palazzi, muti testimoni di storia vissuta. In città  mi sento anonimamente libera di osservare con discrezione le  tante persone che incrocio per strada, sui mezzi pubblici o nelle stazioni affollate. Genova è una città particolarmente austera e poco caotica, a differenza di altre che stordiscono, e qualche tempo fa  ho avuto l’occasione di riscoprirla a tratti,  tra una corsa e l’altra.

 

 Unico imprevisto dell’afosa giornata è stata la coda alla biglietteria della stazione ferroviaria per cui ho  dovuto rinunciare all’ Intercity del ritorno. Il successivo era previsto dopo circa quattro ore, quindi non mi  restava altro da fare che prendere un treno regionale. Rassegnata al supplizio che mi attendeva,  mi sono seduta nella sala d’aspetto per riposare le zampe e finire di leggere il quotidiano, ingannando così l’attesa.

 

Ad un tratto ho intravisto una sagoma bianca e ho alzato gli occhi.

Fiera, ostentava un abitino bianco, che scopriva il ginocchio. Le bretelle erano fermate ai lati da due passanti dorati e sandali pitonati, con tacchi troppo alti e a spillo, slanciavano polpacci nervosi. Ha sfilato per un paio di volte avanti e indietro, come in passerella, conscia di non passare inosservata a causa del vestito aderente e trasparente. Dava l’impressione di aspettare un qualcuno che non c’era. Si è seduta ad un tavolino del bar, ha accavallato le gambe con spudorata disinvoltura mentre fumava  una sigaretta. Il rossetto acceso contrastava coi lunghi capelli rossi e grandi occhiali neri a maschera coprivano il volto, senza riuscire a  celare i segni dell’età  nelle pieghe laterali della bocca. Poi si è alzata. Indomita e inarrendevole ha aspettato a lungo, guardandosi intorno e continuando a volteggiare nei pressi del tabellone degli orari,  tra comitive di ragazzi con gli zaini in spalla e famiglie in partenza per le vacanze. Infine è andata via.

 

Dopo poco ho raggiunto con mia figlia il binario sotterraneo per prendere il treno che ci avrebbe riportate a casa. Lì sotto si incanalava una corrente d’aria fresca che faceva quasi rabbrividire. Un continuo via vai di turisti  con trolley voluminosi, stanchi pendolari, donne accaldate con bambini irrequieti al seguito  mi hanno distratta.

Per terra spiccava la macchia bianca. Era di nuovo lei. Stava rannicchiata, in modo composto, sulla borsa. L’appariscente e provocante dama ultrasessantenne non aveva più l’aria spavalda di prima. Sembrava delusa, quasi restia a mostrarsi. D’un tratto  mi appariva fragile nella sua sfida contro quel tempo in cui la natura reclama il suo dazio e cessa la stagione del bell’ apparire a ogni costo. In quell’angolo c’era una donna ridimensionata dalla sua solitudine, immobile nella sua inutile attesa, muta nel rumore circostante. Non dominava più un immaginario palcoscenico ma, assorta nei suoi pensieri, delusa pareva che lo stesse osservando da lontano.

La malinconia, confermata da movenze più naturali e discrete,  le restituiva la bellezza dei suoi anni.

 

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Mea culpa (seconda parte)

Tra compiti e lezioni, giochi elettronici e primi innamoramenti i bambini passano dall’infanzia all’adolescenza e capiscono più di quanto si pensi. Intuiscono che l’apparente idillio tra mamma e papà in realtà sottende una tacita guerra fredda, talvolta una contrastata guerra di coppia, e diventano irascibili ed irrequieti. Spesso si rifugiano in un mondo fantastico perché non accettano quello reale, talvolta simulano precocemente quello reale forse per sentirsi più grandi e forti nel sopportarlo. Il ragazzino attraversa la fase del no assoluto, trasgredisce per affermare se stesso nel graduale processo di costruzione della propria identità. Questo è il periodo più critico per l’adolescente e spossante per i genitori che sovente si sentono inadeguati a fronteggiare le sue provocazioni; talvolta ne diventano complici sia perché è più facile dire sì , che non occorre né motivare nè mantenere, sia perché non accettano gli inevitabili cambiamenti naturali e rincorrono un’apparente eterna giovinezza ponendosi a livello del figlio ( anzi i papà ambirebbero porsi a livello delle sue compagne di scuola) , evitando eventuali e sane frustrazioni che consentirebbero di crescere ad entrambi. Il papà si prodiga sciorinando consigli ( degni di un prontuario tascabile ) per l’usa e getta perché il rampollo consegua successi in conquiste, non proprio sentimentali ; la madre –antenne talvolta è in competizione con la figlia e brilla al sentirsi dire “sembrate due sorelle” …peccato che questo complimento, piacevole per lei, si traduca in una mazzata per la figlia adolescente che si sente perennemente brutto anatroccolo .

 Insomma i genitori si defilano come educatori ( parola che è sinonimo di Matusalemme) in quanto troppo impegnati a sbarcare il lunario, ad allenarsi in palestra, a mantenere relazioni sociali e a innescarne altre più stimolanti ed appaganti per accorgersi ben presto che la routine logora qualsiasi relazione, sia ufficiale che ufficiosa. Sono indaffarati a programmare diete, impegni di lavoro, vacanze spesso forzate ed estenuanti, espressione di status sociale più che vissute come momento di pausa per ritrovarsi insieme .La famiglia si riduce a una comunità più che di incontro, di scontro e scarico di tensioni ove talvolta manca la vera comunicazione, dove ognuno procede in compartimenti stagni, impegnato a correre per fare le stesse cose in un rituale quotidiano .

 vignetta pv madre figlio

Non c’è mai abbastanza tempo per ascoltarsi e ascoltare .Si fanno meccanicamente tante azioni senza interpretarle emotivamente e così il tempo scivola addosso col suo carico di ore e di logorìo moderno. Spesso i ragazzini, in balìa di se stessi e delle loro pulsioni emotive che non sanno ancora decifrare, non hanno “paletti fissi”e trasgrediscono sempre più, perché subentra la noia . Vanno oltre la solita prepotenza di gioco nei campetti…talvolta giocano con la vita propria o dello  “sfigato” di turno o della carina del branco. Tutto fa spettacolo sul palcoscenico del sè egocentrico , spesso frustrato da insuccessi, mancanza di punti di riferimento, solitudine e tedio per cui le ragioni della forza divengono un mezzo di affermazione sociale. Il più delle volte sono i genitori che, disorientati, hanno perso la forza della ragione , o più semplicemente quella del buonsenso; abdicando ad un ruolo, forse non compreso o troppo invadente, preferiscono rivivere attraverso i loro figli parte di sé accorgendosi che le perplessità, gli entusiasmi, i perché , le aspettative sono di tutti i ragazzi, a prescindere dai salti generazionali. Talvolta però perdono di vista se stessi, troppo proiettati nell’ immediatezza del contingente e agognano ad una sorta di anno sabbatico per evadere un po’, lasciando che gli altri si organizzino un po’ da soli e capiscano che non si deve dare nulla per scontato .

Il non plus ultra sarebbe poter disporre non solo di tempo ma anche di uno spazio proprio: basterebbe un albero sul quale appollaiarsi ogni tanto per ritrovare se stessi e in cui ammortizzare un po’ gli sfoghi esistenziali dei figli alle prese coi primi amori, con il rendimento scolastico e le diatribe tra coetanei . “Cosa vorresti fare da grande?” . Mammà e papà s’illuminano d’immenso immaginando l’avvenire radioso del figlio, sul quale a volte riversano le loro aspettative ingombranti. Da bambina non sapevo mai cosa rispondere. Sinceramente non lo so nemmeno adesso, forse perché non ho ancora capito quando si diventa grandi. In ogni fase della vita ci si sente immaturi e pronti ad affrontare solo quella precedentemente trascorsa, grazie al cosiddetto senno del poi.“ Mamma da grande vorrei…” e giù una serie di propositi. Quanti ne ho sentiti negli ultimi quindici anni ( farò il giocattolaio così giocherò sempre, o lavorerò in uno zoo, anzi solo nel recinto dei coccodrilli…ingegnere, medico, veterinario, parrucchiera, broker, pilota).

Nei momenti critici o di delusione per cui i miei figli si sfogano dei loro insuccessi e minacciano scelte drastiche, se riesco a non cedere ad una crisi isterica, cerco di sdrammatizzare con aria ironicamente seria dicendo : “Figlia mia, mal che vada, tu potresti farti suora e tu, figlio mio, diventare un gesuita colto o missionario (anche se a livello relazionale mia figlia rivoluzionerebbe il monastero e cambierebbe il look delle consorelle creando incidenti diplomatici con la Santa Sede) . Pensate un po’: non avreste problemi di casa, di lavoro, di cuore, nessuno stress ( bè forse quello dell’astinenza). La vita trascorrerebbe lentamente in grazia di Dio al rintocco delle campane (che noia! che scandirebbero le più importanti fasi del giorno. Vi dedichereste al giardinaggio , alla cucina (frugalmente dietetica ed insipida), allo studio (aperto?), alla contemplazione (mistica): sarete in pace con voi stessi e con il mondo ( ma quale mondo?).” Dopo aver mandato me a quel…monastero, dimentichi del precedente clima apocalittico : “Mamma , stasera posso andare in discoteca? Torno presto che domani devo studiare con Vale…” E l’ altro: “Ciao, esco con gli amici. Ci vediamo più tardi!” .

Allora, , dopo il solito interrogatorio Dove vai- con chi vai- a che ora torni, li saluto con il tradizionale “Mi raccomando!”, ma da buona mammà gongolante compiacendomi di quanto siano unici e splendidi (perché ogni scarrafone è bell a’mamma soia), penso:

 “Andate, non sono gli anni della nostra vita che contano, ma la vita dei nostri anni. Per tutto il resto, c’è tempo.”

 

 

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Mea culpa (prima parte)

 

Mea culpa (prima parte)

Ah, nessuno insegna a fare il genitore! Lo si diventa così , più o meno volutamente, ma una cosa è appagare il naturale desiderio di maternità e paternità, altra cosa è fare il genitore. In effetti parlo per esperienza mia personale che però ho riscontrato esser comune a tanti. Quando si diventa biologicamente genitori non si pensa a tutto ciò: si è troppo impegnati in una sorta di narcisistico compiacimento a contemplare il primogenito, rivendicato nella somiglianza fisica e caratteriale da chi parla aggiornando in soliloqui il pubblico, inizialmente interessato poi magari esasperato, sulle fasi di crescita e sui normali progressi del neonato, vissuti come eccezionali.
Finchè il bambino è piccolo, condiziona soltanto coi suoi ritmi. Sin dall’inizio fa capire che sarà cosa ardua accudirlo, soprattutto se non dorme la notte perché ha l’orologio biologico da sincronizzare. Con istintiva dedizione i neogenitori non desistono e, assonnati e barcollanti come zombi dopo nottate insonni, continuano a svolgere il rituale di un corretto allevamento della prole dettato da manuali di pedagogia e dall’onnisciente mammà perché il bebè cresca sano, forte e vivace. Col passar del tempo cercheranno di sopravvivere …!
Il bebè mette a dura prova la pazienza della coppia , che spesso deve limitare la vita sociale e le uscite serali un po’ perché siffatte mansioni stancano, un po’ perché sente il bisogno e il piacere di starsene a casa col piccolo, soprattutto se di giorno è affidato ad una baby sitter. La pazienza è la virtù dei forti… soprattutto quando il bebè non mangia ma trattiene per un’ ora la pappa in bocca a mò di criceto.e la mammina si strema a furia di mimare l’aeroplano che vooooolaaaa o l’automobilina di papi che entra nel garage, nella speranza che deglutisca (mentre in cuor suo avrebbe l’incoffessata voglia di stringergli le narici e farlo boccheggiare). A nulla serve lasciarlo a digiuno illudendosi che, affamato, reclami il cibo, se non ad alimentare sensi di colpa nella genitrice che si sente madre snaturata ed irresponsabile ( e guai se lo venisse a sapere la supermatronissima suocera !). Quando finalmente il cucciolo d’uomo ha mangiato tre cucchiaiate di pappa, perché il resto è spiaccicato tutto intorno, è quasi ora di cena. La neomamma si prepara per il rientro del capotribù, invocando il genio di Mastro Lindo e inveendo contro la pubblicità ingannevole .
Il paterfamilias, stanco della giornata lavorativa, il più delle volte esordisce con : “Ciao cara, tutto bene? Come sta il mio piccoletto?” “Si caro,tutto bene!” E lui, il piccoletto, si esibisce in una serie di gorgheggi festosi che seducono entrambi. Intanto da sposina bradipescamente ammaliante, la mamma si sveltisce istericamente, si organizza calcolando i minuti necessari per conciliare i rari appuntamenti dal parrucchiere e dall’estetista con le esigenze del bebè . Il suo orologio biologico ha un’accelerata che la rende ansiosa di riuscire a fare tutto. Rinuncia a preparare manicaretti, torte e cenette ma diventa esperta nel preparare piatti sbrigativi grazie alla santa pentola a pressione e al beatissimo microonde, per avere più tempo libero per sé. Non ha ancora capito che più diventa efficiente, più avrà da fare.

 

Diviene una multi tasking ambulante e ipercinetica, anche quando porta per ore a passeggio il piccolo, sperando che si stanchi, corre freneticamente e si consola pensando che almeno la salutare passeggiata le abbia fatto perdere qualche etto del sovrappeso accumulato in gravidanza e per i pasti trangugiati ad opera di mammà o in piedi davanti al frigo.

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Più tardi il piccolo inizia a gattonare e a scoprire – chissà perché – innanzitutto le cose più pericolose che possono esserci in una casa: prese elettriche in cui si divertirebbe a infilar le dita se non fosse fermato da un ululato “NO”, il water dove poter fare sguazzare i giocattoli, con sommo gaudio dell’idraulico che per pietà fa tariffe da abbonamento per sturare i tubi, i fornelli perché il clic clic dell’accensione automatica lo intrigano ; poi, consolidandosi sulle gambette, inizia a camminare e ad arrampicarsi. All’ improvviso sta seduto trionfante su un tavolo, intento a giocare con le caramelle di un porta bon bon situato là sopra …così taaaaaaaante , belle e colorate da volerle ingoiare con la carta. Si esercita a stare in piedi nel seggiolone e sul passeggino dopo aver buttato all’aria calzini e scarpette divenendo un appartenente alla tribù dei piedi nudi. Il novello Speedy Gonzales si intrufola dappertutto, come un gatto: negli armadi, sotto i letti, nel ripostiglio. Esplora il mondo circostante col quale si sente un tutt’uno: solo così scopre ed impara. Impara, per esempio, che tutto ha un suono, e poco importa se rompe i timpani di chi è nei paraggi…le pentole, i piatti e i giochini che lascia cadere di continuo .

Si accorge che anche lui emette suoni diversi, dai dolci trilli, pronunciati all’orsacchiotto al quale sorride allegramente, alle urla selvagge, qualora sia contrariato . Insomma l’ adorabile figlio dà conferma che sarà un’impresa “addomesticarlo” e la mater amabilis si assuefa sempre più alla sua creatura, inconsapevole dell’incipiente sua metamorfosi. Di rado percepisce le sue grida e lo lascia scorrazzare in attesa di captare il primo sbadiglio di stanchezza nella speranza che cada in un sonno ristoratore…per entrambi . Il Papà condivide amorevolmente le gioie del piccolo e lo accudisce di sera o nel tempo libero; talvolta invece inizia a sentirsi trascurato dalla moglie e preferisce trovarsi qualche altro amabile diversivo ( la partita a calcetto o il dopocena con gli amici è un classico). Di qui scatta una molla che si ripercuoterà come un pugnale qualche decennio più tardi nella vita della coppia. Poi il piccolo inizia a parlare e diventa più semplice comunicare con lui: si spiega molto bene anche a forza di nghin-ghì e nghèn-ghè che un genitore attento sa ben interpretare come richiesta di soddisfacimento di bisogni primari (urge pannolino pulito, voglio il ciuccio , sono stanco, pappaaa!), espressione di un complimento o di un modo scherzoso per attirare l’attenzione. Trascorso il periodo di iniziale accudimento, la mamma riprende a lavorare .Tragici sensi di colpa la attanagliano e sferrano un inevitabile primo taglio all’ invisibile cordone ombelicale che la legano alla sua naturale appendice. Allora telefona spesso alla baby sitter per sapere come sta il bebè e gli parla per telefono, aggiorna di continuo i colleghi /e delle novità del baby prodigio quasi per non interrompere la sua naturale devozione e sentirlo lì con lei…ma soprattutto per esorcizzare il suo senso di colpa.

Cerca di concentrarsi sul lavoro ma non aspetta altro che precipitarsi a casa, dopo aver fatto una gimkana tra i carrelli del supermercato. Si completa la metamorfosi: è divenuta una vera e Italica mammà, quella che detronizza il marito e al vertice delle priorità mette il figlio: Lui , la luce dei suoi occhi, l’eletto, il reuccio di casa, il più bello bravo , buono e speciale che possa esserci perché è così “et nunc et semper et in saecula saeculorum”. Nondimeno il papà è orgoglioso dell’erede, per aver assicurato discendenza alla sua famiglia, e ne è fiero perché è intelligente e forte come lui. Lo accontenta in tutto perché il bambino non deve subire le privazioni che ha patito lui da piccolo e diviene il più delle volte il suo compagno di giochi, abdicando al suo ruolo di educatore. Sembrano trascorsi secoli dall’occhiata più che eloquente di mia madre che proclamava perentoriamente “Stasera vi chiarite con vostro padre” per interrompere lo snervante contenzioso in corso tra me e mio fratello maggiore cui , da buona sorellina “rompi…” tenevo testa per godere della stessa sua libertà in nome di un’antesignana par condicio. Nella trepida attesa di chiarirmi a quattr’occhi col paterfamilias mi placavo a lungo. Il più delle volte tutto si risolveva in un’ animata e dibattuta , spesso ironica e riconciliante tavola rotonda.

Intanto il bambino cresce, inizia a frequentare la scuola: si confronta in un contesto nuovo , non esclusivamente ludico, e in una prima comunità allargata di pestiferi. Le maestre sono le virago , quelle che impongono regole di convivenza tra coetanei, non sempre condivise dalla famiglia ignara del gene l’unione fa la forza e inizialmente incapace di capire la differenza che intercorre tra la scuola e casa propria popolata da uno o due o tre pargoli ( ma si ricrede dopo che i compagnetti di scuola hanno giocato a frisbee coi piattini di patatine e popcorn e letteralmente smontato pezzo per pezzo la casa durante quella che doveva essere un’allegra festa di compleanno) . Dopo massacranti saggi di danza e tornei di basket, lunghi anni di catechismo, festeggiamenti vari a cadenza fissa nei week-end, visite pediatriche e odontoiatriche, periodici richiami di vaccinazioni e pluricollezioni di figurine e pupazzetti, i bambini maturano e i genitori- si spera-  arrivano al primo giro di boa…

Speriamo che sia…femmina?

Nel 2008 una nota della Presidenza del Consiglio dei Ministri inviata dal Sottosegretario di Stato per i diritti e le pari opportunità invitava le scuole a riflettere su un fenomeno che sembrava assumere sempre più caratteri di “emergenza sociale”.

“ In Europa  tra le cause di morte delle donne  di età compresa tra i 16 e 44 anni, le brutalità commesse tra le mura domestiche  sono in testa alle statistiche , prima degli incidenti stradali e del cancro. In Italia  i  dati di un’indagine ISTAT pubblicata lo  scorso febbraio, stimano in quasi 7 milioni (31,9% delle donne di età tra i 16 e 70 anni)  le donne che hanno subito violenza fisica o sessuale nel corso della vita ( il 23,7% violenze sessuali, il 18,8% violenze fisiche, più del 10% entrambe). Nell ’ultimo anno un milione 150mila donne hanno subito violenza.  Circa un milione stupri o tentati stupri ad opera del partner o conoscente. Quasi un milione e mezzo di donne hanno subito violenze sessuali prima dei 16 anni e in un quarto di casi ad opera di un parente. In due terzi dei casi è stata ripetuta. Alla violenza fisica e sessuale si associa spesso quella psicologica. Dalle interviste risulta che il 95% dei casi di episodi di violenza non sono stati denunciati e un terzo delle donne non ne ha parlato con nessuno.

L’AOGOI (Associazione ostetrici ginecologi ospedalieri italiani) denuncia  che le violenze domestiche sono la seconda causa di morte in gravidanza, dopo l’emorragia, per le donne dai 15 ai 44 anni.

Il Ministero delle pari opportunità, impegnato  da tempo in  una politica di contrasto, ritiene che si debba affrontare il fenomeno sul piano culturale per incidere sui modelli di identità di riferimento: è un’emergenza per un paese come il nostro che vuole essere civile e democratico. La scuola come comunità educante, nella costruzione di percorsi formativi , può fare molto perché i ragazzi e le ragazze crescano insieme nel rispetto reciproco  delle proprie identità.”

 Dopo questo bollettino di guerra tra i sessi, percepii allarmismo sociale che però mi pare ancor oggi confermato dai sempre più frequenti fatti di cronaca.Scrissi  questo post nel settembre del 2008, ma  esitai a lungo a pubblicarlo in quanto  molto personale e triste perché si riferisce a fatti e persone che ho conosciuto sia  in piccoli paesi di provincia  che in  una metropoli, capitale delle contraddizioni dove alla devianza e all’arte di arrangiarsi fanno da contrappasso la vivacità culturale, l’umanità e l’ironia della sua gente . In questi anni l’elenco delle donne maltrattate si è allungato, includendo anche  ragazze e donne che mai avrei immaginato così in difficoltà. Decisi di aprire un blog e di scrivere sulla violenza contro le donne , per raccontare, argomentare, sensibilizzare e purtroppo ne vedo  ancora confermata  la necessità.

 Ricordo   una compagna di classe sempre silenziosa e assorta, principessa di un talamo proibito, e  una ragazzina rimasta vedova a diciassette anni  con  un bambino di diciotto mesi di cui era madre e sorella; quest’ultima fu convinta a  sposare un ragazzo poco più grande di lei, morto ammazzato dopo un anno di matrimonio. Ripenso a  R. di cinquant ’ anni  sottratta dal figlio adolescente  ai calci e pugni di un marito manesco, a  M .scappata lontano dalle botte del compagno,con due dei tre figli, forte  del miraggio di un nuovo amore, a  S.  picchiata sistematicamente dal marito anche quando era incinta…la rabbia e la consapevolezza  di un’età più matura l’hanno cambiata e, dopo quasi venti  anni di matrimonio, lei aspetta un lavoro fisso per  troncare col passato e quell’ uomo che oggi piange dicendo che è cambiato anche lui. Rivedo S., che è riuscita a rifarsi una vita dopo anni con un marito che la ossessionava, e M. che nel figlioletto ha trovato la forza di lasciare il marito che la mandò all’ospedale per avere leggermente scostato il lenzuolo mentre di notte allattava il bambino. Cito E., un uomo, che ha deciso di amare, ridare il sorriso e  un nuovo figlio a L . e sostenere lei e i suoi  quattro figli dopo che lei osò  denunciare l’ex marito, uomo  e padre  violento.

Non dimentico  una ragazza dell’est in una caotica  stazione ferroviaria: il volto completamente viola, troppo tumefatto per essere caduta dalle scale, e due trolley  enormi  per contenere quanto più possibile, compreso  il mio tacito  augurio di buona fortuna.

Ricordo una ragazzina allo sbando tra  droga, sesso e rock’n roll per sfuggire ad una situazione di grave disagio familiare; voleva continuare a studiare e si preoccupava che  la sorellina più piccola non facesse le sue scelte. Indelebili nella memoria le ragazzine dai 10 ai 15 anni  che il Tribunale dei Minori  di una grande città aveva tolto alle famiglie e che aiutavo durante le attività del doposcuola. A volte in contesti “particolari” l’abiezione  è vissuta come  normale perché non si ha l’opportunità di conoscere alternative di vita veramente normali , compresa la  specificità  dei ruoli parentali .

Anni fa  una madre ventenne mi disse  “mio figlio deve studiare, non deve crescere disgraziato come me, né essere fetente come suo padre”. Aveva occhi azzurri, profondi e un po’ duri, lineamenti delicati, il viso tirato e stanco, tacchi alti e  calze a rete smagliate.

Scrivo però per A. che frequentava una stazione ferroviaria. La vedevo spesso di sera quando tornavo a casa perché  prendeva il  mio treno. Una volta la vidi  implorare una dose a  un ceffo  che la  derideva e la molestava davanti ad un gruppo di derelitti per mostrare quanto lei  fosse incapace di reagire, scheletrica e  senza denti. Una sera A. si sedette vicino a me e iniziò a raccontarsi. Mi chiese  se fossi  sposata . Le risposi che non ci pensavo nemmeno e che  studiavo; avevo 22 anni, lei due meno di me. Mi raccontò una storia purtroppo comune, priva di affetti familiari, fatta di degrado , di un amore sbagliato che la iniziò alla tossicodipendenza e alla prostituzione, di un figlio sottrattole alla nascita, di tentativi inutili di smettere e  di una deriva   inarrestabile in una periferia troppo povera. Se ne andò appoggiandosi ad un ragazzo per raccogliere quanto rimaneva nelle siringhe abbandonate lungo i binari. Pareva una di quelle farfalle che hanno perso la polvere magica dalle ali e annaspa per terra. Qualche sera più tardi  A. volò via ai piedi della scalinata della stazione, finalmente libera dalla dipendenza e dalle mortificazioni.

 È stato un caso incontrarla? Due solitudini diverse: io impegnata a costruirmi un futuro mentre lei voleva dimenticare un passato ingombrante e sopravvivere al presente.

 E ancora adesso penso a quelle ragazzine, ormai  donne.  Alcune stavano prendendo coscienza  di quanto subìto, altre non accettavano il distacco da quella che era comunque la loro famiglia, anche se degenere , la cui costante fissa  era l’assenza o latitanza della madre e  l’istinto del possesso brutale da parte di familiari, spesso  la mancanza di consapevolezza, a volte  la solitudine e l’incapacità di reagire. Saranno riuscite a conciliarsi con se stesse  per sorridere ed amare ? Una volta un medico un po’ cinico mi disse: “Qui per cambiare le cose, certi neonati andrebbero soppressi nella culla o tolti subito alle famiglie”. In tutte queste donne ho sempre colto un grande disorientamento e  sofferenza. Certe storie e certi occhi non si dimenticano, mai.

 Dopo tanto tempo  mi chiedo come  mai sia cambiato ben poco. Quasi ogni giorno i mass media  denunciano  casi di violenza , tentata, episodica, sistematica su bambine e donne …testimonianze delle  ragioni della forza, del disprezzo, della frustrazione inconscia, di una rabbia e bestialità indomabili, di una mentalità arretrata e irrispettosa.

 

Nel 2008 decisi di aprire un blog  anche per  dare voce a voi donne che a fatica avete acquisito o state acquisendo consapevolezza, al vostro  silenzio, al vostro   isolamento, al senso di  impotenza e di vergogna…perché ognuna di voi   aveva diritto a quella  parte di cielo che vi è stata  negata durante quelli che dovevano essere gli anni più belli e spensierati, e perchè qualcuno   riesca a capire che c’è violenza e abuso anche quando si approfitta consensualmente  della   giovane età , della miseria o della disperazione e riesca a vedere un’anima oltre le ali di farfalla.

 

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È un’impressione…

Per anni ho oscillato su brevi, medie e lunghe distanze attraversando in treno  quasi tutta l’Italia. Su e giù  sui treni FFSS ( cioè  “fate finta siete soddisfatti”) oggi detti  Trenitalia. Forse sarebbe meglio solo Treni. Per un po’ sono stata quieta, o meglio mi sono spostata con altri mezzi, e ho avuto nostalgia di  viaggiare sulla strada ferrata. È un’impressione che nulla sia cambiato sui treni in tanti anni e non solo in meglio, grazie ai confortevoli treni ad alta velocità, quali i Freccia Rossa o Eurostar.

 Innanzitutto  ci sono quasi solo porte scorrevoli, di quelle che dimezzano la silhouette del viaggiatore che non si sbriga a scendere. Un sistema di apertura decisamente migliore di quelle porte che si spingevano in fuori e automaticamente fuoriusciva il predellino. Bisognava chiedere ad Ercole la forza per aprire quella porta e puntare bene i piedi per terra. Chi non aveva un buon stacco di coscia faceva  stretching, allungando le zampe come un fenicottero, per toccare pian piano il marciapiede sottostante oppure doveva zompare dall’ultimo scalino del predellino facendo sfoggio di virtuoso equilibrismo. L’incauto viaggiatore rischiava di finire sotto le rotaie,  a meno che non si avvinghiasse saldamente alla sbarra laterale di appoggio e vi ruotasse intorno in  una sorta di improvvisata  lap dance. Se aveva al seguito i figli, si cimentava in un gioco di logica. Un po’ come per il trasbordo di capra, lupo e cavoli da una riva all’altra del fiume in modo che il lupo non mangiasse la capra e la capra i cavoli.  Doveva valutare se  lanciare giù prima i bagagli o i figli, sperando non si volatilizzassero,  o precederli tutti, ammonendo la prole perchè stesse ferma e non si infilasse nel bagno del treno. Una volta sulla banchina trovavi i facchini, soppiantati da comodi carrelli portabagagli e dalle più agevoli valigie con le rotelle. Peccato che a Genova non ci  siano i carrelli, perché rotolerebbero molto bene nelle scalinate dei sottopassaggi e quindi si consiglia di soppesare armi e bagagli qualora si debba effettuare un cambio treno.

 Oggi molti vagoni  non sono più suddivisi in scompartimenti. Senza barriere interne i viaggiatori stanno  tutti insieme appassionatamente per guadagnarsi le indulgenze, mentre ascoltano pazientemente  almeno 35 telefonate della signora, seduta sette posti più avanti, che saluta gli amici e parenti appena lasciati e altrettanti amici e parenti ai quali preannuncia l’arrivo. Gli uomini non sono da meno: spesso parlano animatamente  di lavoro, a quattr’occhi o per cellulare. Tacciono solo  per montare e smontare il pc portatile, mobilitando il passeggero dirimpettaio che li guarda ammirato, finchè scopre che tutto l’ambaradan serve ad ingannare il tempo con un solitario. Ma volete mettere il fascino suscitato da un ultramoderno pc con quello di un antiquato mazzo di carte sparpagliato sul tavolino? Allora il viaggiatore, allietato sempre dalla logorroica signora, contempla il paesaggio fuori dal finestrino. Un’opera surreale resa evanescente da  vetri mai lavati che hanno reso inutili quei tendoni, pesanti per il tessuto o lo sporco annidato, che non facevano filtrare nemmeno un raggio di sole.

Oggi i treni offrono anche più servizi. Prima l’assetato viaggiatore doveva  attraversare più carrozze per arrivare al vagone ristorante e acquistare una bottiglietta d’acqua a meno che, durante una fermata del treno, non partecipasse all’ arrembaggio collettivo dell’unico venditore fermo sulla banchina, sbracciandosi e sporgendosi a mezzo busto fuori dal finestrino. Da anni sui treni gira il trespolo ambulante, il carrello- mini bar, che fino a qualche tempo fa avanzava squillante nei corridoi. Pareva arrivasse un monatto. Ora è preceduto da silenziosi  megatrolley che  scivolano da soli nel corridoio, facendo strike di tutti i malcapitati che incontrano a portata di rotelle, e da un’orda  di passeggeri che improvvisamente invadono lo scompartimento, dove prontamente si eseguono le  grandi manovre di gambe accavallate, che si disaccavallano per fare più spazio, in una  salutare ginnastica di arti anchilosati .

 A lungo andare il viaggiatore diventa un equilibrista, abile a non ustionarsi col bicchierino di caffè bollente, sia quando ritira gli spiccioli del resto che quando apre la  bustina dello zucchero  e del cucchiaino. Inoltre si tempra stoicamente grazie a  benefiche escursioni termiche, simili a quelle di una  sauna finlandese seguita da un’immersione nell’acqua gelida, e impara ad adattarsi a temperature da disidratazione e a quelle da eskimo.  D’estate sboccia come in una serra, si trasforma in una rosa spampinata a causa del sistema di aria condizionata, spesso non funzionante, e dei finestrini bloccati. Quando intravede un posto libero, nei pressi dell’unico finestrino aperto, in preda all’istinto di sopravvivenza si precipita  per occuparlo e mettere il viso in direzione della folata di ossigeno. Poi s’ingegna contro l’effetto serra, disdegnando l’alternativa di tornare  a casa o a piedi o a nuoto. Prova  ad aprire la porta di comunicazione tra due vagoni e -mamma bella, non è un’impressione- di solito non ci riesce. Un passeggero corre invano in suo aiuto, quindi  sopraggiunge pure qualcun altro. E così dopo l’immane sforzo di aitanti bicipiti   -Apriti sesamo! – la porta scorre. Mentre i cavalier serventi proseguono  nel serpentone ferrato in cerca di un posto a sedere più aerato, con nonchalance il viaggiatore resta  in piedi nel passaggio tra le vetture per godersi la  bella corrente d’aria e ballare la tarantella per mezz’ora, riuscendo così  a rinfrescarsi.

 Uno dei vantaggi principali dei viaggi in treno è il rafforzamento del sistema immunitario. Decenni fa si credeva che ai bambini facesse bene respirare la puzza del letame nelle stalle. Adesso basta aprire una porta delle toilette per farsi tanti, tanti anticorpi. Non appena una vocina squillante urla Pipììììììì la giovin signora, col pupetto al collo, s’affretta a raggiungere  un bagno libero o  aperto. Se è fortunata, lo troverà  dall’altra parte del vagone, altrimenti proseguirà nella sua corsa, mentre  tutti  cedono  il passo, timorosi di dover assistere a qualche altra forma di evacuazione immediata.

 Altra meraviglia dei treni italiani riguarda l’illuminazione. Una volta pareva che negli scompartimenti ci fossero i fuochi fatui per cui  l’appassionato di lettura  come minimo perdeva un paio di diottrie in 800 km di percorrenza. Adesso i treni sono ben illuminati: a giorno di notte, per guardarsi bene da eventuali malintenzionati notturni,  e  a notte di giorno, perché magari l’impianto di illuminazione viene attivato solo dopo avere lasciato al buio  a lungo i passeggeri ( nelle tante gallerie del Ponente ligure, per esempio).

 Oggi poi il viaggiatore non rischia più  di appisolarsi e di scendere alla stazione sbagliata. Sui treni ad alta velocità una gentile signorina o un tenebroso speaker preannuncia  le fermate, prima in italiano poi in inglese, strepita invitando a non parlare ad alta voce e ad abbassare la soneria dei cellulari, fa buona compagnia con frequenti e rinnovati auguri di buon viaggio. Il rassegnato passeggero impara presto a memoria   la litania e mentalmente la completa con un “baci, abbracci e salutam  a’ soreta”, agognando un po’ di silenzio. Persa la concentrazione per decodificare sommariamente ciò che tenta di leggere, può sempre giocare  a inseguire le nuvole che intravede dal finestrino, intrattenersi in piacevoli conversazioni coi compagni di viaggio, estraniarsi  con la musica diffusa dall’ i-pod del vicino che perfora anche i timpani altrui.

Quando la gente è sfollata, esausto e annoiato inizia a rilassarsi . Ma è ora  di scendere. Prepara il bagaglio con sufficiente anticipo per non rischiare di incappare nella porta non funzionante del vagone e si prepara diligentemente allo sbarco.

Sulla banchina scorge una faccia sorridente che lo accoglierà  con un immancabile “Hai fatto buon viaggio?” al quale risponderà laconicamente “Sì, grazie”e un abbraccio finale compenserà  ogni disagio.

 

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Quanta fretta, ma dove corri?

Chi va piano, va sano e va lontano è la morale della favola di Esopo sulla lepre e la tartaruga.Oggi  quasi tutti, oberati da mille impegni, si  lamentano di non avere tempo sufficiente per riuscire a fare tutto. Si programma ogni cosa, compresi il tempo libero o le semplici pause pranzo, secondo una studiata ed inderogabile tabella di marcia:di corsa si va in palestra o in piscina, si pranza approfittando di vedere lui / lei o fissando appuntamenti di lavoro…

Si vive all’insegna del fast: fast food (pasti veloci) ai quali si è contrapposto lo slow food “per promuovere il diritto a vivere il pasto innanzitutto come un piacere di sensi assopiti, per  insegnare a gustare e a degustare”. Fast vacanze nel week end o veri e propri tour de force pianificati  nei minimi dettagli che poco rispondono all’esigenza di riposarsi. Fast nel consumismo imperante dell’usa e getti, nella mentalità della toccata e fuga anche nei rapporti interpersonali, sbrigativi e poco impegnativi. Del resto però anche il romantico colpo di fulmine trascinante e coinvolgente non scarseggiava di velocità, , chissà se per un sentimento più duraturo. Anche lo sviluppo delle tecnologie ha velocizzato la comunicazione, spesso svilendola della sua completezza, e soprattutto il pensiero e l’operatività. Ma  forse il vero problema non è tanto la velocità…quanto la fretta.

Non è detto che la fretta soddisfi la velocità, anzi, le azioni  svolte in fretta spesso implicano maggiori probabilità di errori che richiedono poi ulteriore dispendio di tempo ed energie per essere corretti.La fretta, o meglio l’aver fretta, è una dimensione interiore che fa percepire il poco tempo a disposizione,anche se a volte il tempo non manca.

La vita è una processione. Chi è lento la trova troppo veloce e si fa da parte; chi è veloce la trova lenta e si fa da parte. (Kahlil Gibran)

 Ma non si rinuncia a vivere. Si vive in base ai propri ritmi, lenti o veloci. Ritmi che a volte si possono regolare, a volte invece no.

Penso alle mamme acrobate, di cui hanno parlato recentemente i giornali, assillate da impegni di famiglia, casa e lavoro, dai loro molteplici ruoli pubblici e privati, che rischiano di andare in tilt,di dimenticare e di rimuovere responsabilità basilari come risposta inconscia a un carico a lungo andare troppo gravoso. Penso alla mobilità tipica di alcune professioni che richiede frequenti spostamenti ogni settimana, alla flessibilità oraria, a tutto ciò che impedisce di avere un ritmo di vita cadenzato, fisso e prestabilito. Ciò non significa disporre poi di più tempo libero, ma l’imprevedibilità, gravità o mancata conoscenza di eventi  e l’entità di adempimenti e responsabilità scatenano  battaglie contro l’orologio. E di qui si innesca un circolo vizioso: si diventa iperattivi, ci si lancia nel futuro più o meno immediato, perdendo di vista il presente, senza  osservarsi intorno e senza assaporare la quotidianità, si scandisce la durata di ogni attività in nome di un’efficienza ad ogni costo. Si corre anche quando si potrebbe farne a meno e si diventa stressati. Lo stress è una sindrome di adattamento alle molteplici e  varie sollecitazioni e ogni individuo vi reagisce in modo diverso, ma costante fissa è  la  fretta.Talvolta si è in grado di fronteggiare l’evento in sé ma non il suo esito diverso dalle proprie aspettative. Già perché chi corre, di solito pianifica, progetta ,velocizza il pensiero, cerca di prevedere sempre più cause ed effetti a livello razionale. Poi entrano in gioco  le risposte emotive, non sempre adeguate, sulle quali la persona  dall’orologio biologico accelerato rischia di franare.

 Che dire? La consapevolezza non basta…mi sento chiamata in causa in prima persona se considero quel proverbio africano: “Ogni mattina in Africa, una gazzella si sveglia, sa che deve correre più in fretta del leone o verrà uccisa. Ogni mattina in Africa, un leone si sveglia, sa che deve correre più della gazzella, o morirà di fame. Quando il sole sorge, non importa se sei un leone o una gazzella: è meglio che cominci a correre.Ma corrono entrambi per sopravvivere. E noi umani?

 Forse per non avere fretta occorrerebbe riuscire a ritagliarsi spazi e tempi per sé in cui poter ritrovarsi e fermarsi per riflettere, coltivare interessi propri, riuscire a esternare e a comunicare con altri per lasciar decantare l’ansia e ammortizzare l’affanno dell’inevitabile corsa della giornata.

Lo scrittore latino, il cui nome è già un bel biglietto di presentazione, cioè Gaio Svetonio Tranquillo diceva Festina lente. (Affrettati lentamente) cioè procedi riflettendo con calma e il poeta Orazio Carpe diem quam minimum credula postero (Cogli l’attimo fuggente confidando il meno possibile nel futuro) e Dona praesentis cape laetus horae  (Cogli felice i doni di questo momento).

Ma tra il dire e il fare c’è di mezzo un mare di fretta.

 

Grazie, grazie, grazie…

Io non so voi  ma  oggi  trovo questa immagine quando apro la pagina di Google . Ho pensato che qualcun altro condividesse con me quello che mia cugina aulicamente definisce  genetliaco  e che io, forse tardivamente,  solo da qualche anno ho scoperto  che significa  compleanno.

Poi ho spostato il mouse  per capire di chi era la festa  ed è inequivocabilmente apparsa la scritta “Buon compleanno maria!”. Ho  subito pensato che era diretto a me-modestia a parte-  perché i personaggi famosi sono festeggiati con tanto di nome e cognome e simboli della loro fama , e in google+  io sono maria  con la m minuscola e mi piacciono  i dolci  (ecco l’ho confessato).

 Allora non contenta ho preso i pad ho aperto pagina di Google e tac, ‘nata vota  (un’altra volta), “Buon compleanno maria!”  ( da leggere con voce di  monaciello ).

Qualche ignoto birbante  del web mi ha fatto uno scherzo innocente o forse è un automatico trucco tecnologico – non so-  , sta di fatto che per me è  una piacevole sorpresa , tanto gradita  da meritare un post e un pubblico ringraziamento.

E mo’ non mi dite che l’augurio non era per me  e l’ho sognato  😀

Un, due, tre…cinquantuno, pillicciò!

Ebbene sì, ci sono. Ci sono tutti e cinquantuno, tondi tondi. Sono nella traversata  dell’oltre  mezzo secolo, dei cinquant’anni. Caspita! Se li pronuncio lentamente,cin-quan-tu-no-an-ni  sembrano davvero tanti. Come mi sento? Come dagli -anta in su, forse solo più corazzata. Finalmente posso spaparanzarmi comodamente nella mezza età.

Ho sbirciato in un libretto sul linguaggio segreto delle date di nascita e riconosco che mi hanno “pittata” (dipinta) abbastanza bene.

Sono nata nel giorno dell’audacia (augh!). In pratica- come è scritto- ho il coraggio di essere me stessa (coraggio o incoscienza?) e di portare a compimento progetti ed idee (capatosta sono). Pur non avendo paura dell’opposizione altrui (dei figli pestiferi, vero?) o di dover combattere per affermare il mio modo di vita, non cerco quasi mai il confronto diretto (anche se a volte non è facile domare l’impulsività). La mia audacia non diventa mai temerarietà (meno male!): è piuttosto una forza morale basata su saldi princìpi e sul comune buon senso (almeno  ‘sti “-anta” servono a qualcosa). Ad un certo punto della vita, dovrò affrontare un radicale cambiamento di professione, quando l’insorgere della mia vera vocazione spazzerà via anni e anni di preparazione a un altro lavoro (vuoi vedere che mi ritirerò davvero in un convento senza preoccupazioni di casa, famiglia e lavoro , come auspico nei  momenti critici ?). Si tratta di un momento davvero importante nella mia vita (faciteme stà quiet che di recente ho cambiato città). Agli occhi altrui può sembrare che io corra troppi rischi (tranquilli, ho le spalle larghe), o che mi comporti in maniera sconsiderata (perché oso stanare?…lei mi capisce amme)

 È scritto che amo molto la mia professione (fin troppo…) e questo, insieme a una gran sete di indipendenza (chi fa da sé, fa per tre), rende alquanto difficile una normale vita familiare (le peregrinazioni lavorative del consorte ve le siete scordate?). Eppure paradossalmente avrei bisogno di sentirmi sistemata, per questo tenderò ad aggrapparmi a un homo comprensivo che dovrebbe sostenermi (mò appendo un cartello sul letto. “Consorte sostienimi” – ‘na parola sostenermi a cinquant’anni!  :D)

I nati nel mio giorno si distinguono in due tipi (mi ritrovo in entrambi, è grave?): il tipo solitario, che lavora da solo ai propri progetti, sviluppando uno stile, un’abilità, un talento tutto suo, in condizioni di relativo isolamento dagli altri (è vero perché ho bisogno di ritrovarmi nella solitudine); il secondo tipo è una luminosa stella sociale, un leader (direi piuttosto un panzer) animato da uno zelo missionario (e qui ricasca il convento…) che può galvanizzare gli altri attirandoli verso una comune grande impresa (di pulizia?). Benchè tenda a suscitare apprezzamento (o timore) e sia un po’ vanitosa (giàggià), da vera guerriera (augh!) conosco bene i miei limiti e anche se, per curiosità o desiderio di capire, mi spingo fino alla soglia del proibito (ehhhh?), raramente lo oltrepasso (ahhhhhh, volevo dire). Mi consigliano di:

calmare la mia intensità e tenere a freno il lato troppo ossessivo-costrittivo del mio carattere (posso uccidere il super ego?)

godere i semplici piaceri della vita (avete interrogato il mio frigorifero?)

seguire il cuore qualche volta, non sempre la testa (decapitatemi!), e imparare a spegnere, quando è necessario, il mio motore (quando lo spegnerò , vorrà dire che non ci sarà più tempo per nulla.)

Devo coltivare la capacità di rilassarmi (sante parole!), per non lasciarmi deprimere e debilitare da temporanei insuccessi (non mi arrendo! Doppio augh!).Sarà bene avere un’area privata e personale in cui rifugiarmi periodicamente per ricaricarmi (già fatto: ho tempi e interessi miei).

 Come arietina sono governata dal potente ed energico Marte (Er belligerante), sono fiera e dinamica, ostinata (e ci credo, oltre alle corna di sfondamento dell’ariete mi trovo pure quelle di attacco dell’ ascendente toro!) e curiosa (una vera scimmia).  Non la prendo molto bene quando vengo fraintesa (aprite bene le ‘recchie, no?) o scambiata per qualcosa che non sono (e ci credo!).

Avrei la forza di procedere nello sviluppo dei miei progetti (poi mi spiegate ch’aggia progettà di così importante), anche se non vengo notata (meno male!) prima o poi alcuni si accorgeranno della mia personalità (poveri loro) e delle mie doti (scarsette in verità) e quasi con devozione (è scritto proprio così…) saranno pronti ad adorarmi e a venerarmi (ma dico io, pure santa mi fanno diventare? Aspettate prima che vada in convento, no?). Non è detto che sia un’egocentrica (bontà vostra), è più facile che insegua i miei sogni ( o i sogni inseguano me, che dormo sempre meno) e tenda ad esteriorizzare le mie sfide personali e interiori (a cinquant’anni e più  non ho pudore di parlare di me). Di fronte a difficoltà che non prevedono la possibilità di soluzioni esterne, posso cercare risposte all’interno di me (scusate ma quale altra chance avrei ?), accettando una necessaria modificazione della personalità (la donna è mobileee…)

 E come quando si giocava a nascondino, si faceva la conta e si gridava trentuno pillicciò, che non so cosa significhi, oggi aggiorno il post e mi va di scrivere cinquantuno pillicciò, per scovare non i tanti  anni della mia vita, ma per rivedere la vita dei miei, tanto cari, cinquantun anni.