La signora Gioconda

Gioconda si chiamava così in onore della famosa opera del Ponchielli, tanto amata  da suo padre.  Sua madre era una donna molto bella ma forse anche un po’ agguerrita: ebbe infatti tre mariti. Rimasta vedova dei primi due, osò ripudiare il  terzo, che aveva preferito volar dietro ai commerci e alla bella vita, e diventò un’abile amministratrice. Gioconda era la figlia tanto attesa, nata dall’ ultimo matrimonio, ma ben presto divenne la  testimone dell’ennesima solitudine affettiva; ne pagò quindi le conseguenze con un’infanzia trascorsa sì nell’ agio, ma anche in solitudine e in un  ruolo troppo stretto, dettato dalla società dell’epoca. Era figlia del suo tempo anche nella sottomissione alla volontà materna e nella precoce saggezza,  frutto della rigida educazione che le fu impartita. L’intima sofferenza dell’anima spesso rende perspicaci: percepì sempre la colpa di esser figlia di un uomo, a lei descritto come ingrato, che le lasciò il nome e un vago ricordo.Il suo più grande atto di ribellione quindi consistette nel parlarne di rado.

 La sua giornata scorreva nell’ alternanza di un rosario, lettura di libri, che uno zio le prestava di nascosto, e sporadiche visite a parenti. Ogni tanto si interrompeva per soffermare lo sguardo davanti a sé, verso le colline cosparse di aranceti che si intravedevano dalla finestra, in cerca di nuovi orizzonti. Forse ripeteva mentalmente qualche verso o inseguiva qualche pensiero ed emozione dentro di sé. Probabilmente gli stessi che non sfuggivano a quella bambina, nata nel suo stesso giorno  ma circa sessant’anni più tardi, che riposava sul suo lettone e la osservava furtivamente, con discrezione. La piccola spostava poi lo sguardo verso i dolci profili del tondo della Sacra Famiglia, non a caso il quadro preferito di Gioconda.

 In età avanzata la signora non era bella, come dicevano fosse stata in gioventù, ma conservò  un sorriso dolcemente contagioso e una pronta ironia che la rendevano aggraziata ed interessante. Le stesse qualità che anni prima catturarono il cuore di un giovane, tanto ambito dalle ragazze del luogo. Lui aveva occhi azzurri, un sorriso sincero, un  portamento sicuro e un’aria distinta che non passavano inosservati. La notò e iniziò a scriverle dopo aver chiesto il permesso a sua madre. Tra i due iniziò una fitta corrispondenza con missive che  riassumevano gli impegni della giornata. Ogni lettera, sigillata da una promessa d’ amore e da una dichiarazione di fede nella Provvidenza, era accompagnata da una foglia di edera in quelle di lui e da una rosellina o un fiore di campo in quelle di lei. Lo scambio epistolare si svolgeva grazie al fidato mulattiere o qualche fornitore che avvicinava la tata di Gioconda. Le giornate trascorrevano nella trepida attesa di quelle lettere,  finchè furono annunciate le nozze. Un grande e atteso evento, cui parteciparono anche gli zii lontani, compreso quello che viveva a Londra.

 Così Gioconda finalmente potè uscire da sola e iniziò a sperimentare l’amore e la vita, anche quando lui partì per la seconda volta per  il fronte. Altre parole scritte custodivano un legame profondo che nessuna vicenda personale e storica poteva scalfire. Tra le due guerre ebbero sette figli ma sopravvissero solo le ultime quattro figlie. Durante la seconda guerra lui fu richiamato alle armi, ma per poco tempo perché, ammalatosi, fu mandato a casa dove  ben presto decise di occuparsi anche dei tanti nipoti, rimasti orfani di entrambi i genitori. Gioconda, all’insaputa del marito che era al fronte, vendette il corredo ricevuto in dote e i gioielli di famiglia che non indossava mai. Inoltre dovette cedere il suo appartamento al comando angloamericano, mentre aitanti giovanotti dormivano giù  nel deposito che, prima dello smantellamento, era riservato ai cani da caccia e agli attrezzi agricoli. Insieme alla cognata vigilava quando i soldati sbirciavano le ragazze più grandi, ostentando sorrisi maliziosi e smaglianti senza osare più di tanto. Le sue figlie erano ancora bambine e la più temeraria  un giorno osò dire “ no meat (to) dogs, meat to me” perché la fame si faceva sentire, più del freddo e della mancanza di abiti e scarpe. La spontanea “sfrontatezza” le procurò un piatto di polpette. Gli ufficiali  stimavano quelle donne energiche che in tempi difficili fronteggiarono in silenzio i lutti, le difficoltà e gli stenti della guerra, industriandosi  come potevano tra figli piccoli da accudire, faccende domestiche  e parenti sfollati dalla città colpita dai bombardamenti.

Nell’atrio del portone montagne di divise e cappotti smessi giacevano a testimoniare giovani vite spezzate. Un giorno anche quei ragazzi partirono, lasciando l’eco di parole straniere e di risa sonanti. A Montecassino la storia interruppe il corso della loro vita. La guerra finì. L’azienda di famiglia, già caduta in bassa fortuna durante il fascismo, naufragò  insieme ai velieri dediti al commercio marittimo oltreoceano.

 Gioconda aveva il suo da fare quotidiano e acquisì senso pratico e determinazione, più per necessità che per scelta.  Con il marito si impose perché tutti i nipoti e le figlie studiassero, e possibilmente in scuole  pubbliche. Egli non si oppose per gli studi classici, teologici, tecnici e magistrali ma ebbe qualche resistenza per il liceo artistico in città dove poi iscrisse una delle figlie. Del resto anche uno zio era pittore e i suoi  quadri di scene e cani da caccia ne erano testimonianza. Apparentemente distaccato, con quella figlia era in sintonia anche se  la rimproverava perché troppo esuberante ed estroversa, perché andava sempre in bicicletta e giocava a tamburello meglio dei ragazzi del paese, che facevano a gara per sfidarla nel gioco e conquistarla in amore. Quella figlia straordinaria, formatasi in città, in seguito con ironia e sobrietà dimostrò che la vera libertà  non necessita né di conferme affettive né dei consensi  di una società all’epoca limitante, se non quelli della propria coscienza; preferì non sposarsi e trasmettere ad alunni e nipoti l’amore per le arti, il bello, la natura, il nuoto, la vita nella sue varie sfaccettature. E Gioconda, se si rammaricava per le sue mancate nozze, in fondo si compiaceva dell’anticonformismo di quella figlia, con la quale visse in simbiosi fino alla fine.

 Sin da ragazza  amava la musica e il canto, che le permettevano di interpretare emozioni sul fluire delle note. Anche in età avanzata si concedeva il lusso di andare ai concerti serali di Ravello con la figlia e la bambina, che  trascorreva le vacanze estive a casa sua. Per l’occasione indossava uno scialle e il vestito buono, poco difforme da quello solito, sempre a piccoli pois o fiorellini azzurri su fondo nero o blu. La bambina contemplava davanti a sé le sfumature violacee che univano mare e cielo nel crepuscolo, poi congiungeva le stelle in disegni immaginari ispirati dalla musica . “ La musica si ascolta a occhi chiusi. Vibra dentro e trascina” e così si rannicchiava sotto il suo scialle. Rientravano a notte fonda con la 500 dalla capote abbassata. Talvolta cantavano, finchè la bimba si addormentava sul sedile posteriore, cullata dalle curve tortuose della costiera amalfitana. 

 Gioconda credeva. Chissà se per convinzione o  per bigottismo. Aveva comunque approfondito  la dottrina .Ogni settimana contattava un prete per le messe da celebrare nella  cappella, che divenne un punto di riferimento per tutto il vicinato, amici e parenti. La fede non le tolse mai il sorriso e la capacità di accettazione, anche quando dovette affrontare la lunga malattia del marito e lutti prematuri. Se la fede fu per lei un sostegno costante, invece la generosità divenne una regola di vita verso chi le chiedeva consiglio o si trovava in difficoltà e non osava chiedere. Divideva quel poco che aveva: un pacco di zucchero, pasta e caffè, a volte un piatto di frittelle di fiori di zucca, ortaggi appena raccolti nell’orto, accompagnati dall’immaginetta di qualche santo e Madonna, che di buon ora la bambina consegnava a persone sconosciute, percependo il significato di quel gesto da cordiali saluti e ringraziamenti o da sguardi tacitamente riconoscenti.

 La sua casa era il ritrovo di tanti… delle figlie, dei nipoti, pronipoti  e cognate/i partiti per le missioni, per mare e terre lontane in cerca di fortuna nel dopoguerra, per scelta o vocazione. Quella casa era sempre aperta a tutti e la  porta non era mai chiusa a chiave. La domenica mattina gli uomini si riunivano per discutere di politica con suo marito, costretto a letto; di pomeriggio i  bambini giocavano in cortile fino a sera inoltrata, quando qualche mamma non li chiamava dal balcone. Allora la grande sala da pranzo si animava  di donne, che improvvisavano la cena, e di uomini che rientravano dal lavoro. Intanto Gioconda ascoltava dai più piccoli il resoconto della giornata oppure organizzava con due figlie le attività di ricamo per la mostra di  beneficenza.

  La gente del paese andava periodicamente a farle visita . La bambina disponeva su un vassoio i bicchieri che poi portava camminando pian piano per timore di farli cadere. Offriva sciroppo di amarene, nocino, amaro di mirto o giulebbe di limone che aveva aiutato a preparare, selezionando i frutti migliori, filtrando e travasando più volte con garze sottili. Mentre giocava  con uno dei tanti gatti di casa, osservava gli occhi e i gesti degli ospiti. Ascoltava i loro aneddoti, racconti, i frammenti di saga familiare cercando di districarsi nella sua mente infantile tra gli intrecci genealogici, in cui spesso si smarriva, e di ricostruire logicamente  la storia dei fatti e degli affetti .

 In tarda età Gioconda usciva di rado ma a un rituale estivo non rinunciò mai. Ogni estate doveva fare sette, otto bagni  al mare. Quando la 500 gialla, con la capote sempre alzata, arrivava nel borgo marinaro, i vecchi pescatori uscivano dai munazeni e le andavano incontro per salutarla. Le ricordavano i figli, ormai uomini e perlopiù naviganti, e le presentavano le nuore e i nipoti.

La bambina rideva  quando assisteva ai preparativi per l’immersione in mare perchè Gioconda non indossava un normale  costume da bagno, ma una palandrana di cotone nero, lunga fino al ginocchio, abbottonata sul davanti e con le mezze maniche. Mutandoni neri, una sorta di bermuda, completavano l’abbigliamento da spiaggia. Come riuscisse a  galleggiare, era un mistero! Teneva il mento in alto e la testa diritta, cercando di non bagnare i capelli raccolti, e muoveva le mani in fuori per spostare leggermente l’acqua. Si beava  nel mare  limpido e fresco sotto i costoni rocciosi ed esortava la bambina a tenersi a distanza, forse perché temeva di bere o di affondare trascinata giù dalla pesante palandrana. La piccola  la precedeva, nuotava sott’acqua fingendo di cercare conchiglie e stelle marine sul fondale. In realtà era incuriosita da quella specie di elegante manta nera che avanzava lentamente .Un giorno un anziano pescatore volle portarle in barca a remi . La superba costa alta che si stagliava nel cielo terso, le acque cristalline e la nostalgia indussero Gioconda a  rivivere un passato ormai remoto nella rievocazione ironica di famiglie e personaggi, che con i loro soprannomi e aneddoti popolano la storia di ogni paese.

  L’estate trascorreva placidamente tra persiane socchiuse per mantenere un po’ di fresco nell’antica casa durante la siesta pomeridiana. La bambina giocava tra le ante a specchio dell’armadio: si divertiva a congiungerle quanto più poteva per vedere la propria immagine riflessa per decine di volte, all’infinito. Correva alla finestra non appena sentiva suonare il campanello, sperando di dover calare giù il cestino. Aveva imparato, dopo qualche disastro, a mollare pian piano la corda arrotolata e a tirarla su ancor più lentamente per non farla oscillare e rovesciare  la bottiglia di latte fresco che una vicina consegnava ogni sera. Altri passatempi consistevano nella preparazione di infusi di erba e petali di fiori nell’alcool per ottenere miscele colorate o nell’usare il macinino per tritare i chicchi di caffè. Appena poteva, sgattaiolava con il cane in giardino per andare su una bicicletta sgangherata e giocare con i cugini, contendendo poi l’amaca per riposarsi. Il divertimento più spassoso però era nell’orto: trascinava  a fatica la pompa lungo il viale e poi innaffiava tutto. Bagnata e sporca di terra, fiera rientrava in casa portando un cesto pieno di pomodori, basilico, prugne ammaccate e trovate in terra,  fiori freschi recisi maldestramente (…tanto i santi non avrebbero notato questo particolare). Gioconda non la sgridava ma l’ aiutava a ripulirsi. Se invece era esausta per una giornata trascorsa al mare, alle prodezze domestiche la bambina preferiva il riposo sul lettone e, dietro un giornalino,  spiava sottecchi . Lei stava seduta al tavolo tondo intarsiato mentre lavorava all’uncinetto; all’improvviso con tono teatrale improvvisava uno spiritoso dialogo con il  Signor Gatto di turno che partecipava miagolando, fuseggiando e spingendo la testa sotto la sua mano per farsi accarezzare. Entrambi alludevano  alla bambina e le facevano  capire che l’avevano scoperta. Nell’ultimo periodo interrompeva il lavoro, stava immobile e osservava in silenzio davanti a sè. Forse si smarriva in una preghiera, un ricordo o un presentimento…

La Signora Gioconda capiva più di quanto non desse a vedere, non si adirava mai e quando doveva dire qualcosa di importante o serio, affrontava con indiretta ironia l’argomento, ricorrendo a  metafore, aneddoti e domande. Con la sua presenza trasmetteva una serena fermezza e con la sua compostezza un  apparente distacco dalle umani passioni.

Pareva che vivesse in un mondo suo, dipinto dalla garbata gentilezza, da una taciuta  forza d’animo, dalla coerenza e fede ai principi, dalla discreta e  pudica ritrosia a esternare impulsivamente le emozioni più forti e i pensieri più profondi.Un mondo fermo ed immutabile nel tempo, in una casa senza orologi. Tempo scandito dai fiori di stagione e tralci di edera raccolti in giardino, dai racconti, dai quadri, dai mobili, dagli affetti.

Un mondo di radici mai strappate che mi appartiene, come il patrimonio interiore di  cose semplici e belle che mi ha donato nonna Gioconda.

 

La mitica pastiera

La pastiera è un dolce di antiche e leggendarie origini, tipico della cucina napoletana e del periodo pasquale.

Si narra che in primavera la sirena Partenope emergesse dalle acque del Golfo di Napoli  per salutare con canti di gioia le genti della costa. Un giorno sette belle fanciulle furono inviate per omaggiarla  con  preziosi e semplici prodotti della terra e del lavoro dell’uomo: farina, ricotta, uova ( simbolo della vita), grano, inebriante acqua di fiori d’arancio, seducenti spezie del lontano Oriente e  infine zucchero. Partenope  pose questi doni ai piedi degli dei che la ringraziarono amalgamandoli magicamente in una pastiera, più  dolce del suo canto che incantava uomini e dei.

“L’antica pastiera dall’apparenza casalinga, onesta, sincera, color del legno stagionato, decorata col suo modesto traliccio incrociato di pasta frolla. Intanto è un dolce a metà. Il suo sapore è delicatissimo, composto come è dai chicchi di grano primaticcio ammorbiditi e ammollati, da una buona ricotta, da pezzetti di cedro, umida e fragrante d’acqua di fior d’arancio. È un dolce che sa di primavera e di nozze, di innocenza e d’infanzia, di sole e di serenità, un dolce d’altri e forse più felici, almeno più tranquilli tempi (da “Breviario della cucina napoletana” di Mario Stefanile)

 

Un dolce talmente  squisito, da ridare  il sorriso a tutti…

A Napule regnava Ferdinando

Ca passava e’ jurnate zompettiando;

Mentr’ invece a’ mugliera, ‘Onna Teresa,

Steva sempe arraggiata. A’ faccia appesa

O’ musso luongo, nun redeva maje,

Comm’avess passate tanta guaje.

“A Napoli regnava Ferdinando (Ferdinando II di Borbone) che passava le giornate “zampettando”; mentre invece sua moglie, donna Teresa ( Maria Teresa d’Austria) stava sempre arrabbiata. La faccia triste, il muso lungo, non rideva mai, come se avesse passato tanti guai…”( e ci credo… dopo 12 figli e un consorte allegramente zampettante al fianco)

 Finchè un giorno la cameriera propose alla regina un dolce nuovo, che piaceva a uomini , donne e bambini. La pastiera addolcì la regina tanto da strapparle un sorriso. Il re esclamò:

“E che marina!

Pe fa ridere a tte, ce vò a Pastiera?

Moglie mia, vien’accà, damme n’abbraccio!

Chistu dolce te piace? E mò c’o saccio

Ordino al cuoco che, a partir d’adesso,

Stà Pastiera la faccia un pò più spesso.

Nun solo a Pasca, che altrimenti è un danno;

pe te fà ridere adda passà n’at’ anno!”

“E che marina! Per farti ridere ti ci vuole una pastiera? Moglie mia, vieni qua, abbracciami. Questo è il dolce che ti piace? E ora che lo so, ordino al cuoco che, a partir da oggi, faccia più spesso ‘sta pastiera. Non solo a Pasqua, chè altrimenti è un danno: per farti ridere deve passare un anno!”

 Probabilmente la pastiera, come la conosciamo oggi, nacque dall’estro culinario di un’ignota suora, una delle tante dedite alla preparazione di dolci che allietavano le tavole imbandite  di nobili e ricchi borghesi.

 I piatti tipici della tradizione napoletana hanno il pregio o il difetto di non rispecchiare mai un’unica ricetta: sono spesso “insubordinati” nelle dosi e negli ingredienti. Non solo, ma ogni famiglia custodisce gelosamente quella variante che rende il piatto speciale e diverso dalla ricetta base. Come ad esempio la pastiera di cui si trovano ricette con uova e ricotta, con crema pasticcera oppure  con i tagliolini.

 La pastiera mi è cara perché l’ associo a mia madre. Premetto che a tutt’oggi non si cimenta nei dolci se non negli struffoli e nella pastiera, che merita effettivamente un plauso anche per le irregolari strisce incrociate di pastafrolla che sono la sua inconfondibile firma.Mamma dedica un’uscita speciale solo per acquistarne gli ingredienti. Qualche giorno prima di prepararla, mette il grano a mollo nell’ acqua. Il giorno successivo lo cuoce nel latte. E al terzo giorno assisto alla vera resurrezione di mamma. Per soddisfare le richieste di amici e conoscenti, per un giorno intero inforna e sforna dolci di vario diametro, e non vuole essere assolutamente  disturbata in un rituale che le appartiene e al quale ha rinunciato solo due volte in vita sua, a causa del  terremoto e di un grave lutto familiare.

Alla pastiera sono legati aneddoti indimenticabili nella storia della mia  famiglia.Una volta mamma mi telefonò chiedendomi  di ritirare la spesa nel negozio di fronte casa sua e la cosa mi parve alquanto strana perché ha sempre, ma sempre fatto tutto da sola. Non appena mi vide, il salumiere esclamò: “Signora, ho preparato le uova per sua madre. Mi scusi , ma a che cosa servono 60 uova?” Ignara di tutto, capii che erano iniziate le grandi manovre pasquali da pastiera. Fu così che anche il salumiere si guadagnò il suo piccolo e dolce tributo pastieresco.

Poiché le specialità gastronomiche di famiglia si trasmettono ancora di generazione in generazione  (ebbene sì), per anni le ho chiesto la ricetta  della pastiera. In effetti non l’ho mai ricevuta perché lei, come mia suocera, dosa tutto ad occhio e  io non potevo permettermi, in tempo e disponibilità, di cimentarmi in un dosaggio da 60 uova.

Finalmente un giorno ho scoperto la ricetta della bisnonna Sofia e ho imparato a cucinarla, finchè un  bel giorno mio padre in buona fede osò dire che la mia pastiera era buona quasi come quella di mamma. Non l’avesse mai detto! Si sfiorò un incidente coniugale dopo circa 40 anni di matrimonio perché  lei si adombrò; da allora le lasciai volentieri il primato e ancor più volentieri la fatica.Di recente ho ripreso a prepararla con  quel piccolo segreto di mamma che la rende speciale.

Per noi tutti,  la pastiera rappresenta un po’ l’energia, la sostanza e la dolcezza di mia madre. 

Pastiera della bisnonna Sofia.

  Ingredienti:

 

500 g di grano

½  l. di latte

100 g. burro

3 cucchiai di zucchero

1 bastoncino di cannella

100 g di cedro candito tagliato a pezzetti

1 kg di zucchero

1 kg di ricotta

12 uova

buccia  di limone grattugiata

un bastoncino di cannella

essenza di fior d’arancio (una fialetta)

 

Mettere il grano in acqua tiepida e sale per almeno mezza giornata, dopo averlo pulito e sciacquato a lungo.Calarlo in un litro e mezzo d’acqua fredda e lasciarlo bollire (altrimenti comprare il grano già ammorbidito).Cuocere a fuoco lento il grano, già ammorbidito, nel latte, burro, cannella, zucchero e un po’ di sale finchè non si scuoce .

In due terrine battere separatamente i tuorli e gli albumi d’uovo, poi unirli.In un’altra terrina lavorare la ricotta con lo zucchero e versarvi poi il grano cotto nel latte.Aggiungere le uova sbattute, il cedro a pezzetti, il bastoncino di cannella e la fiala di fior d’arancio. Lasciare riposare un po’.

 

Ingredienti per la crema pasticcera

 

300g zucchero

2 uova intere + 4 rossi d’uovo

1 l di latte

120 gdi farina o amido

 un bastoncino di vaniglia ( in alternativa uso una bustina di vanillina)

 buccia grattugiata di limoni verdi .

 

In una pentola lavorare le uova con lo zucchero.Aggiungere un po’ alla volta la farina continuando a mescolare, poi il latte, la buccia di limone e la vaniglia e amalgamare.Cuocere a  fuoco basso mescolando di continuo con un cucchiaio di legno per evitare che la crema si attacchi e si formino grumi. Fare addensare la  crema .

Versare  la crema nell’impasto precedente, lasciar raffreddare  e infine unirvi anche mezzo bicchierino di whisky e qualche goccia di angostura ( variante mia e di mamma che dà un po’ di colore). Mescolare delicatamente. Togliere i bastoncini di cannella.

 Pastafrolla ( ma di solito uso quella surgelata).
 250-300 g di farina

125-150 g di 

zucchero a velo

150 g di burro o strutto

3 tuorli d’uovo

un bicchierino di rum

Mescolare  e lavorare la  farina,lo zucchero e il burro. Aggiungere i tuorli e il rum, comprimendo delicatamente.Foderare una teglia con la pasta frolla, versare l’impasto della pastiera.Preparare strisce di pasta frolla, larghe1-2 cm, da incrociare sull’impasto.

Cuocere a 180° C per un’ora e un quarto circa. Lasciare raffreddare la pastiera e infine cospargere di zucchero a velo.

La valigia

 

La valigia. Di cuoio, tela, plastica o metallo, con manici o rotelle, di varia grandezza per contenere quanto può esser utile in viaggio. Non è solo un accessorio ma anche un  testimone di quelle parentesi, più o meno incidenti, che formano il percorso della vita.

Viaggi unici o a cadenza periodica, con destinazione prefissata o senza meta e ritorno, viaggi di lavoro e di studio, di divertimento, di trasferimenti più o meno definitivi. Ho sempre osservato lungo le banchine dei porti e  delle stazioni , ai check – in degli aeroporti e in autostrada il bagaglio dei viaggiatori, talvolta per captare frammenti di esistenza.

Valigie violate  durante i controlli negli aeroporti, talvolta smarrite, valigie in attesa, allineate e solitarie, nella speranza che qualcuno, già disperato per aver perso gli effetti personali, le riconosca e le   riprenda. Valigie leggere di chi insegue riposo, svago e lavoro, di chi ama conoscere  luoghi, persone e culture diverse e valigie pesanti  di chi va oltre per lasciare certezze franate o  ricongiungersi ad affetti lontani, per sfuggire a realtà rivisitate con occhi diversi o per inseguire prospettive di vita migliore.

 Per anni ho immaginato una valigia  di cartone. Quella che lo accompagnò nel dopoguerra. Uno strano presentimento lo aveva indotto a  tornare a casa e scoprì che sua  madre, ancora giovane, da poche ore  era partita improvvisamente per un viaggio senza ritorno. Allora raccolse i ricordi, il senso di colpa per non averla accompagnata (ma non fu avvisato per timore che gli fosse troncata  la possibilità di  carriera in Accademia ), i sogni e le sue giovani forze di diciannovenne e partì con il fratello maggiore in cerca di fortuna. Il mare l’accolse e viaggiò per molto tempo e per lunghi periodi, inizialmente per lenire un dolore, poi per costruire un futuro alle sue sorelle e alla sua nuova famiglia.

 La sua valigia era sempre pronta: per partenze dovute ad emergenze  improvvise su navi negli oceani e nei porti di tutto il mondo. Una valigia foriera di imprevisti , distacchi e di attese…ma era certo che sarebbe tornato e che in tanti l’avremmo sempre aspettato.

Una volta fece una valigia per non abbassare ingiustamente  la testa in  controversie di lavoro. Scelse la lontananza ma poi mise umilmente da parte l’orgoglio per privilegiare gli affetti. Dopo tanti anni, quando temeva di lasciare tutto per sempre, ha cercato di giustificarsi. Gli ho risparmiato le parole. Non doveva  scusarsi. Ho apprezzato quel suo gesto , anche se allora lo interpretai con i moti del cuore in quanto ignara delle vere ragioni che mi furono spiegate anni dopo. Quella valigia esprimeva il tentativo di affermazione della sua dignità di persona oltre che di lavoratore, con un atto di rivolta soffocato poi dal ruolo di padre.A volte però si è più grandi nel sottomettersi mantenendo le distanze e assumendosi altre responsabilità, che nel mettere alle strette scappando.

 Più volte ho fatto e visto fare le valigie. Erano  piene di malinconica incertezza , solidi affetti e gagliarde speranze che hanno consentito di conoscere luoghi stupendi e persone speciali.

Sin da bambina ho avuto la mia valigia piena di magliette e costumi da bagno. L’aspettavo per tutto l’anno perché segnava la mia vacanza estiva a casa dei nonni, il mio recupero di radici, di aneddoti e racconti di capitani, missionari e di tante donne, di spensieratezza estiva e complicità  con i cuginetti che non volevo più lasciare a fine agosto.

Più tardi alla valigia seguì un borsone leggero pieno di libri, ideali, cambi di stagione e nostalgia di casa che si affievolì col tempo. Il ritorno quindicinale a casa, divenne via via sempre meno frequente:  mensile, trimestrale ed infine solo durante le feste comandate. Peregrinando in treno  su e giù per l’Italia mi sentivo un’apolide, o meglio  un’extracomunitaria di casa mia,  finchè finì il nomadismo studentesco e decisi di divenire stanziale, mettendo su famiglia, e dopo qualche anno iniziai a lavorare.

Ero una pendolare come tanti con una valigetta sempre piena di carte , di impegni e di corse contro il tempo. Dopo aver cambiato in quattro anni quattro sedi di lavoro e quattro case, traslocando con due pargoletti al seguito, proclamai solennemente che in futuro avrei viaggiato solo per divertimento e che il mio prossimo trasloco sarebbe stato solo per riposare beatamente in un loculo. Come non detto, perché la vita è imprevedibile.

 Così per un lungo periodo mi sono fermata per ammortizzare i frequenti cambiamenti, ma in casa mia c’è sempre una valigia pronta: la sua. Partenze, attese  e ritorni e  l’istinto di fare valigie…credo facciano ormai parte del nostro DNA, da generazioni. Ha contagiato anche i nostri figli che ora per motivi di studio e vacanza, domani per seguire orme ataviche, impazienti di partire preannunciano futuri viaggi.

 Memore ancora del mio girovagare per stazioni  e aeroporti a mo’ di peripatetica profuga, trascinando su un carrello i bagagli sui quali stavano ben appollaiati i miei figli irrequieti con tutto l’occorrente necessario per accudirli nei periodi di ricongiungimento familiare,  ora mi accontento di un semplice trolley per  pause periodiche, brevi  e di assoluto riposo a casa mia nel Nord. Sì perché i cambiamenti fanno parte della vita, c’è chi li sopporta e chi li cerca, e due anni fa non ho perso l’occasione di vivere nella bellissima Roma.

 Viaggiare non è solo interruzione, distacco o lontananza  da ciò che dà calore e certezza perché conosciuto, ma è scoperta del nuovo grazie a un’ottica diversa, senso di avventura e curiosità, “abbandono di un programma ordinario a favore del caso, rinuncia del quotidiano  per lo straordinario” (Herman Hesse).

È l’inizio di una  parentesi per costruire una vita interessante, dinamica e  mai monotona, per sentire l’alternanza della dolce melodia, che ancora al passato, e di ritmiche originalmente diverse, briose e allegre che fanno danzare  verso inesplorati orizzonti .  

“Viaggiare è come sognare: la differenza è che non tutti, al risveglio, ricordano qualcosa, mentre ognuno conserva calda la memoria della meta da cui è tornato.”   ( Edgar Allan Poe) manon smetteremo di esplorare. E alla fine di tutto il nostro andare ritorneremo al punto di partenza per conoscerlo per la prima volta.” (Thomas  Stearns Eliot), perché “il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi” (Voltaire).

 

 Dedicato a mio padre.

 

La porta rossa

Il rosso capta l’attenzione, ferma la corsa, espelle nel gioco, segnala neutralità e tregua per aiuti umanitari, richiede intervento immediato per imminente pericolo di vita.

Il  rosso simboleggia l’amore romantico e quello carnale dei sensi che, come un vino corposo, inebriano e sfrenano, scaldano e suggellano legami. Indica un debito da pagare in denaro o già  saldato col sangue del martirio , della Passione, della rivoluzione  che cambiò la storia, di un toro che rincorre il drappo traditore. Il rosso stoppa e ammutolisce quando avvampa sulle guance  per eccessiva timidezza e vergogna in cuori sensibili e preziosi come rubini .

Rosso è il fuoco che dà luce e calore, purifica o distrugge .

 Rosso è il colore di una porta, simile ad altre, ma questa  volta è tanto rossa. Mi siedo di fronte e, mentre aspetto che si schiuda, il suo rosso cinabro mi attrae. Segna un confine tra la vita normale e quella sospesa. È un varco che all’ inizio si teme di oltrepassare. Incute soggezione. Lì davanti si perde ogni ruolo, ogni condizionamento, età, esperienza.  L’anima si contrae nella sua nudità.  Si veste di speranza mentre il corpo scompare sotto un camice verde per accedere al limbo. 

L’atmosfera ovattata della sala regala risposte alle vanità di tutti i giorni. Non è un mondo fatato ma lì si riesce a credere a ogni benefico incantesimo e a trovare parole magicamente banali per distrarre e infrangere quella densità emotiva che paralizza. Poi l’anima  si riveste dei soliti panni  e, allontanandosi da quella frontiera, respira, si distende, si allarga,  diventa  leggera e più forte. E ogni cosa  è ridimensionata nei suoi colori e spessori, perché quella porta cambia prospettiva, recupera e filtra l’essenza della vita rendendola linearmente semplice e lieve.

 

Caro amico ti scrivo così mi distraggo un po’ e siccome sei molto lontano, più forte ti scriverò…

Lucio Dalla. Lo ricordo da sempre. Ricordo la sua esibizione al festival di Sanremo con 4 marzo 1943 che determinò l’acquisto di uno dei miei primi dischi. Per me , nata agli inizi degli anni ’60, le sue canzoni hanno accompagnato la mia vita, soprattutto  gli anni in cui si ama sognare e si temono un po’ le incognite del futuro. Ha scrutato spesso il mare, quel mare così altero che però unisce popoli e cuori, custode della vita primordiale, di abissi e di pensieri profondi , a volte fastidiosi, che indomabili e silenziosi sgusciano sotto la sua protezione.

Quanti grandi poeti della musica abbiamo avuto in Italia; alcuni speciali, veramente grandi, sempre attuali. Che forza comunicativa hanno le canzoni! A volte può più una canzone che cento discorsi; arriva ovunque, a tutti. Spesso sembra banale, ma se ripeti il testo t’accorgi che dentro c’è tanto. Dalla, un musicista alla continua ricerca di nuove sperimentazioni musicali, ci ha cantato. Per cinquant’anni  ha cantato i ragazzi di sempre, schiarendo i pensieri e le emozioni  in cui più generazioni si riconoscono. Con la sensibilità e l’intelligenza  del  poeta ha captato gli occhi di tanti e colto le diverse forme della solitudine e della paura, l’ebbrezza delle passioni, i continui quesiti sul futuro, sulla vita, su dio, sul potere riconoscendo l’umanità  ed una  speranza che può nascere dalla forza dell’amore e dell’unione perché “Io credo che il dolore ci cambierà ….e dopo chi lo sa se ci vedremo in quale città,  l’amore ci salverà”(Henna) e se “questa vita è una catena/qualche volta fa un po’ male/guarda come son tranquillo io/anche se attraverso il bosco/con l’aiuto del buon dio/stando sempre attenti al lupo”

Ha cantato l’istinto alla vita per quel figlio che nascerà e non avrà paura/ chissà come sarà lui domani/ su quali strade camminerà… e se è una femmina si chiamerà futura./ Il suo nome detto questa notte/ mette già paura/sarà diversa, bella come una stella/ sarai tu in miniatura ….

Perché la vita continua, anche  se cambia lo scenario sul palcoscenico della vita, e ricomincia daccapo.

In un’intervista dichiarò “Ma dove sto meglio è Napoli. La città dove la mia creatività si esalta”. Lo ricordo con il panama e gli occhialini tondi seduto ad un tavolino del Fauno, in piazza Tasso a Sorrento. La splendida veduta sul golfo di Napoli, che si può ammirare dall’Hotel Vittoria dove soggiornò, gli ispirò la famosa Caruso.

Per noi che viviamo lontano, portandoci negli occhi la bellezza di quei luoghi  e nelle nostre radici  la fortuna e la maledizione del mare, quei versi sono stati un po’ il leitmotiv di un’età più matura.

“Potenza della lirica dove ogni dramma è un falso

che con un po’ di trucco e con la mimica puoi diventare un altro

ma due occhi che ti guardano, così vicini e veri

ti fan scordare le parole, confondono i pensieri

così diventa tutto piccolo, anche le notti là in America

ti volti e vedi la tua vita come la scia di un’elica…”

 

A Lucio Dalla dedico questo mare, un modo come un altro per ringraziarlo perché, come ci siamo detti io e consorte,  “Siamo cresciuti con le sue canzoni” . Forse è vuota retorica, come tuonerà la solita critica dei divergenti, ma è anche la  constatazione del nostro  ennesimo giro di boa e di quel periodico bilancio con domande, che rendono così intensa e speciale la vita.

 

Cosa sarà

che fa crescere gli alberi e la felicità,

che fa morire a vent’anni anche se vivi fino a cento.

Cosa sarà a far muovere il vento a far fermare il poeta ubriaco

a dare la morte per un pezzo di pane o un bacio non dato

Oh cosa sarà,

che ti svegli al mattino e sei serio

che ti fa morire di dentro di notte

all’ombra di un desiderio,

Oh cosa sarà,

che ti spinge ad amare una donna bassina e perduta

la bottiglia che ti ubriaca anche se non l’hai bevuta.

 

 Cosa sarà che ti spinge a picchiare il tuo re

che ti porta a cercare il giusto dove giustizia non c’è.

Cosa sarà che ti fa comprare di tutto

anche se è di niente che hai bisogno

cosa sarà, che ti strappa dal sogno.

Oh cosa sarà,

 che ti fa uscire di tasca dei no, non ci sto

che ti getta nel mare e ti viene a salvare,

Oh cosa sarà,

che dobbiamo cercare, che dobbiamo cercare.

 

Cosa sarà che ci fa lasciare la bicicletta sul muro

e camminare la sera con un amico a parlare del futuro.

Cosa sarà questo strano coraggio, paura che ci prende

e ci porta ad ascoltare la notte che scende.

Oh cosa sarà…Quell’uomo e il suo cuore benedetto

che è sceso dalle scarpe e dal letto,

si è sentito solo.

È come l’uccello che è in volo,

come l’uccello che è in volo si ferma e guarda giù.

 

(Dall’album “Lucio Dalla”, 1979)

 

Le opere, dedicate a Lucio Dalla, sono state esposte in una sezione della mostra “Terra, Acqua e Fuoco” del 2012 

In fondo i gatti non differiscono troppo dagli umani

Tigro e Gri Gri fanno parte della mia tribù da oltre dieci anni e sono inseparabili compagni di Skip vero. Ogni tanto capita di ricordare quando ci recammo al canile e scoprimmo che c’era un reparto detto “gattile”, termine mai sentito, che ospitava mici abbandonati.

In una gabbia divisa in tre piani, una mamma gatta allattava due gattini, mentre altri tre a stento trotterellavano con la codina alzata. Ero andata lì coi miei figli con l’intenzione di sceglierne uno, ma ne portai a casa soltanto due 😉 , svezzati da poco. Tigro e Gri Gri appartenevano a due cucciolate diverse: la prima era stata affidata al gattile da una signora che non era riuscita a sistemarla diversamente; stessa sorte per Tigro e un suo fratello quasi gemello. La responsabile mi convinse a prendere due micetti perché, soprattutto da piccoli, non avrebbero sofferto la solitudine. Col senno del poi condivido che due gatti non solo si fanno compagnia ma sono uno spasso di scorribande, rincorse, nascondini, salti, fughe e capriole. Un’allegra associazione a delinquere 😀 . Erano talmente piccoli da stare nel palmo della mano e perdersi nel trasportino, enorme per loro. Pensare che adesso c’entrano a stento.

Impararono presto a esplorare la grande terrazza, a sconfinare sul tetto della casa a fianco, curiosando nelle abitazioni altrui, fino a raggiungere, con un’impervia arrampicata sui condizionatori d’aria, un’ anziana signora che li chiamava dal quarto piano offrendo loro croccantini. Conquistarono la stima dei vicini perché divennero presto il terrore dei piccioni che nidificavano sotto le tegole. Ogni tanto li scoprivo acquattati che puntavano possibili prede pennute, ma alla fine orgogliosamente impettiti si accontentavano di portare gusci di uova e qualche sparuta piumetta. Solo una volta dovetti intervenire tempestivamente, brandendo la scopa, per scacciare dall’antenna parabolica un gabbiano reale, con le ali spiegate, pronto  ad avventarsi su una temeraria ed incosciente Gri Gri che da dieci minuti si stava esibendo in miagolii e scodinzolamenti tipici del  rituale di caccia.

 Con il tempo sono cambiati anche i gattoni; hanno qualche chilo in più e sembrano gradire di più le coccole. In fondo non differiscono troppo dagli umani.

Tigro è diventato un placido gattone, elegante nel regale portamento di tigre in miniatura, impreziosito dalla pettorina e dai guanti bianchi. È il tipico gatto sornione che dorme o finge di dormire, sempre pronto a scattare non appena sente invitanti effluvi di pappatoria. Se non dorme, mangia. Cosa strana, si avvicina fuseggiando e fa gli onori di casa quando arrivano ospiti o persone a lui sconosciute.

Gri Gri invece è molto più vivace, ma timorosa e diffidente al punto tale che le basta sentire voci insolite per volatilizzarsi. È talmente furba che scova nascondigli sempre nuovi, anche perché sa aprire gli armadi con le ante scorrevoli. Cerca la nostra compagnia e si accoccola vicino a noi sul divano mentre guardiamo la tv o leggiamo. È tenera, ma diventa una furiosa  tigre in fuga non appena apro la fialetta antipulci: terrorizzata schizza in alto su un mobile non appena, credo, ne sente l’odore. Mi sono sempre chiesta cosa ci sia in quell’intruglio. Gri Gri è il peluche preferito di mio figlio, ormai “ piccolo” solo perché l’ultimo nato in famiglia, che mi sorprende non poco quando le parla dolcemente e la prende in braccio con delicatezza. Sono lontani i tempi in cui tagliò le vibrisse a Tigro che, saltando, perse l’equilibrio e volò dal terrazzo al piano di sotto miaolando così forte da fare affacciare diverse persone dei palazzi intorno. Un’avventura memorabile le operazioni di recupero del gatto spaventato e quelle di persuasione educativa per un figlio pestiferissimo.

 L’anno dopo adottammo Skip vero e all’inizio la convivenza con i gatti non fu facile.

Ancora ricordo lo storico incontro con le due tigri che con Skip avevano in comune solo la provenienza. Dal canile lui e dal gattile loro. I miei gatti non avevano mai visto un cane. Il cane non conosceva i gatti e fiducioso zompettò verso le belve spodestate. La loro immediata reazione fu una solenne soffiata, inarcata di coda e un repentino balzo su un mobile sul quale rimasero appollaiati per circa una settimana, scendendo solo di notte o quando la cosa rossa movente non era nei paraggi. Skip era più piccolo dei gatti, ma più robusto di corporatura e baldanzoso nei movimenti.

 Il famelico Tigro, pur di non rinunciare alla pappa, imparò presto a mantenerlo a distanza, soffiando e artigliando. Gri Gri invece ne era incuriosita, l’ osservava dall’alto e da lontano, finchè un giorno inavvertitamente si scontrò con il nuovo arrivato, che usciva trotterellando dalla cucina. Il cane, sorpreso, si fermò intimorito e si accucciò, come aveva ben presto imparato quando incrociava il signor Gatto. Gri Gri invece, con mia sommo stupore, non scappò via. Si sedette guardinga di fronte a lui. Stettero fermi a guardarsi per qualche minuto: lui con le orecchie basse e lei con le orecchie ben alzate, finchè  la guappa gatta  con nonchalance se ne andò. Quella notte Gri Gri annusò Skip che dormiva in una cesta ai piedi del letto, salì sulla vicina cassapanca e lì si addormentò. Da quel dì iniziò a vegliarlo, forse aveva capito che era piccolo e innocuo e il suo istinto materno vinse la diffidenza .

  In poco tempo sono diventati compagni di gioco e di malefatte. Ancor oggi lei si acquatta sulla sedia per allungare una  zampa sull’ ignaro amico che passa e si guarda intorno senza capire. C’è stato un periodo in cui i miei figli hanno subito ingiuste sgridate per le carte di caramelle o cioccolatini che trovavo sotto il tappeto o i cuscini del divano. Un pomeriggio, mentre guardavo la tv, sentii un rumore sulla credenza : Gri Gri spingeva una caramella con la zampa, giù verso il cane che, scodinzolando, stava in trepida attesa. Skip prontamente la ingoiò. La gatta continuò. Questa volta lui riuscì a scartarla e lei, come un pattinatore di hockey su ghiaccio, con l’involucro improvvisò uno slalom sul pavimento del salotto, finchè portò il suo trofeo sul divano. Quando osò tornare alla carica del porta bon bon fu paralizzata dal mio inatteso, urlato e  solenne “scendi giù” e si defilò di corsa. Occhio che non vede, cuore che non desidera: da quel giorno chiusi a chiave i dolci. 

Sono trascorsi circa quattordici anni, e i miei figli a 4 zampe ci hanno seguito nella nuova casa in città. Si sono adattati al nuovo ambiente anche se a volte scopro Gri Gri che, assorta, sbircia dietro la finestra. Forse rimpiange un po’ la terrazza dove amava sdraiarsi al sole.

Sì, in fondo i gatti non differiscono troppo dagli umani.

 

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 Non è facile conquistare l’amicizia di un gatto 

Non è facile conquistare l’amicizia di un gatto

 Il 17 febbraio sarà la Festa Nazionale del Gatto. Alle mie belve di casa, che hanno adottato Skip vero stringendo con lui un’affettuosa amicizia da associazione a delinquere, allietata da allegre  scorribande, ho  dedicato qualche post che pubblicherò volentieri. Oggi vorrei ricordare i  tanti gatti coi quali sono vissuta sin da bambina, prima a casa di nonna e poi a casa mia.

 Vediamo da dove posso cominciare questa lunga saga felina.

 La prima gatta della nonna, che ricordo, si chiamava Topa, però era una gatta. E io, a cinque anni, non riuscivo a capire perché mai si dovesse chiamare Topa; forse perché era colore orzo, mezza spelacchiata con occhi giallo senape. Amava molto ascoltare con il nonno le canzoni di Ornella Vanoni, trasmesse in tv.

La Gegia era  una gatta che non si può definire una bella gatta. Aveva un pelo di un nero che sfumava nel viola. Invece di miagolare gnaognalava con una voce straziante Era molto indipendente e incuteva soggezione coi suoi grandi occhi gialli che brillavano al buio. Secondo me incarnava qualche monaciello, perché compariva e scompariva all’improvviso. A quel tempo c’era pure il bellissimo Bijoux, dal mantello vellutato d’argento con due occhioni verde smeraldo e il Rosso, famoso non solo per le prodezze venatorie ma anche per l’abilità a saltare sulle maniglie ed aprire le porte. Suo compagno era Caribù,  cosiddetto per la folta  pelliccia invernale,bianca con chiazze a strisce. Era il tipico gatto sornione  che finge di non vedere e non sentire.  Un giorno si addormentò dentro il  focolare della cucina, che fungeva da inceneritore,  e ne schizzò fuori bruciacchiato quando la nonna vi accese un piccolo falò. Fortuna volle che i suoi miagolii la indussero ad aprire lo sportello evitando così di cuocere un gattò al forno.

Sandrino invece era un maestoso gattone dal pelo lungo. Amico inseparabile della nonna, sedeva sul tavolo tondo quando lei ricamava e pareva ascoltarla quando inscenava scherzosi dialoghi, chiamandolo Signor Gatto. Ogni mattina  condivideva con lei  il latte corretto con il whisky che lo faceva ondeggiare sul davanzale. Grazie a lui imparai molto presto a fare la spesa, perché la nonna non gli faceva mai mancare papponi di riso e alici.

Indimenticabile è Zigo Zago, una panterina  nera in miniatura con tondi occhi gialli, che mi  faceva intonare a squarciagola  il motivo “Ziiigo Zaaago , piccolo maaago”.

 Molto più tardi arrivò Biòs (vita), una dolce micetta  bianca. Fu chiamata così perché  sottratta da mia zia al regno dei morti del cimitero. In verità era molto viva perché ben presto sfornò tre mici. In contemporanea il destino portò Bissi Bissi ,un micino bianco e nero che io e mia cugina estraemmo da un bidone della spazzatura, incuriosite dai suoi flebili lamenti.  Temendo di portarlo a casa della nonna, già popolata di gatti, spesso abbandonati da ignoti sul portone di casa , lo nascosi  in un deposito del  giardino. Quando mia zia usciva per andare al lavoro, io andavo in giardino e gli somministravo latte diluito col contagocce. Il micetto poi imparò a camminare , seguendomi ovunque. Quando rientravo in casa, lo lasciavo nel deposito. Ma i piccoli mici crescono e quindi  iniziò a esplorare i dintorni, venendo allo scoperto. Io e mia cugina confessammo l’accaduto  e mia zia, apprezzando il nobile gesto, lo accolse nella tribù felina.  Una volta tornò col pelo non più bianco,ma sporco e unto di grassa fuliggine, perché forse era andato a dormire su una caldaia. Così pensai bene di lavarlo. Lo pulii con estrema cautela per timore di un’artigliata,  inizialmente con una spugna inumidita, poi  osai immergerlo in una bacinella , piena di acqua e bagnoschiuma. È stato l’unico gatto di mia conoscenza, che non solo amava fare il bagno ma anche essere asciugato col phon.

Rugiò ( si legge alla francese , ora lo scrivo Rougeau) , come rivela il suo  nome, era un gatto rosso. Una mattina vidi tre gatti rossi, allineati su un pergolato . Le tre civette di Ambarabàciccicoccò mi richiamano quell’immagine. Per due giorni la zia pensò che  avessi le traveggole perché parlavo continuamente di statuari gatti sul pergolato che lei non riusciva a vedere. Finalmente al terzo giorno i tre compari si degnarono di farsi scorgere e fu salva la mia reputazione. Le tre anime rosse erano state abbandonate nel giardino da una signora che si era trasferita in un’altra città.  Rougeau pian piano si fece accarezzare e arrivò in casa. Dopo un iniziale assedio alla Maina, un merlo indiano che in seguito ai miei lunghi tentativi di addestramento riuscì a pronunciare “Maina”, “Marì” ( che soddisfazione! Ma giuro che le parlavo in italiano doc) e Ciccià ( nome del cane), Rougeau si mise l’anima in pace e desistette dalle voraci ambizioni. Imparò presto a coricarsi per terra, ad allungare le zampe per aprire un mobile basso della cucina e a rovesciare la scatola dei croccantini.

Romeo era invece  uno dei tre figli di Biòs. Per un paio di anni si comportò come un indolente gattone domestico, fino a quando  madre natura lo portò a scoprire il seducente mondo delle gatte e si inselvatichì. Divenne il boss del rione e cambiò pure voce. Che potere hanno le gatte morte innamorate! La voce roca ben si addiceva allo sfregio sotto l’occhio  e all’ orecchia mozza, forse trofei  di duelli notturni con qualche rivale in amore. A volte lo  incontravo per strada e lo chiamavo. Si avvicinava ma non si lasciava più accarezzare. Ne perdemmo le tracce, ma lo ricordiamo sempre con ammirazione per la conquistata libertà di gatto randagio.

Dei gatti della casa della nonna è sopravvissuto Fusarello che gode ancora di ottima salute. Un giorno nascose una biscia viva in un cesto. Di sera  andò a scovarla e  scatenò un putiferio e un fuggi fuggi generale, simile a quello causato dalla fuiuta del capitone dalle vasche delle pescherie nel periodo natalizio. Un suo fratello, Gri Gri, detto Capucchione,  è venuto a mancare poco tempo fa. Un gatto strano. Era talmente timido che stava sempre nascosto dietro una cristalliera. Si lasciava  prendere e accarezzare solo dalla zia. Col tempo imparò a vincere la timidezza e a volte entrava pure in cappella e ascoltava (?) la messa. Un giorno si ammalò e mia cugina lo portò dal veterinario. Un’altra zia,  trovandolo addormentato, pensò che fosse morto e così lo seppellì in giardino. In verità  l’ignaro Capucchione era sotto l’effetto dell’anestesia e mia cugina corse a salvarlo. Dopo la drammatica, non voluta esperienza, il redivivo visse ancora felice e contento a conferma del detto che a volte si può “ nascere sotto una buona stella”.

Quando con la mia famiglia mi trasferii in Liguria, continuai a coltivare  il mio feeling felino. Un’unica e selvatica  gatta randagia approdò nel giardino di casa e da lei ebbe origine una lunga discendenza.

Ogni giorno Mamma Gatta si avvicinava al balcone della cucina in cerca di qualcosa da mangiare. Ogni sera la aspettavamo e ci impensierivamo se tardava a venire. A lei devo la più naturale lezione di educazione sessuale perché un pomeriggio , sentendola miagolare in modo strano, la vidi mentre partoriva un micetto. Grazie a lei capii che i gatti nascono dal culetto, mentre i bambini continuavano a nascere dalla pancia della mamma, perché gli umani non sono gatti. Beata ingenuità dei miei dieci anni che  mi faceva immaginare una straordinaria dilatazione dell’ombelico  dal quale uscivano i bebè. Non riuscivo a spiegarmi altrimenti l’utilità di quel buco che i gatti non avevano.

Mamma gatta non tornò più, quindi adottammo i suoi cuccioli. Pallino diventò  il raìs del rione. Lo inseguivo quando afferrava per la collottola i micini appena nati, cercando di avere per sé le attenzioni di mamma gatta. Un chiaro esempio di sciovinismo ed egoismo felino. Suo fratello, detto il Grigio, era molto diverso. Aveva  un pelo vellutato, color grigio scuro, e grandi occhi giallo-verdi,  come il più aristocratico  certosino,  e soffriva invece di  crisi di identità. Divenne l’ inseparabile amico del mio bassotto Dusky. Di sera lo aspettava sullo zerbino del portone e, camminandogli a  fianco, se ne andava a dormire con lui nella cuccia. Poi dicono “ cani e gatti…”

Celestina invece era una gattina dolcemente timorosa e molto silenziosa.  Mia madre aveva un debole per lei e le parlava di nascosto.  Alle 17. 30 Celestina si sedeva  sulla scala esterna e aspettava mio padre che rientrava dal lavoro. Riconosceva il clacson dell’auto e gli andava incontro, come fanno i cani. Poi lo seguiva fin sull’uscio di casa. Forse capiva che a breve avremmo cenato e le avremmo dato da mangiare. Chissà! Delle prodezze feline di quegli anni ricordo  un’insolita seduta di gatti in semicerchio. Sembravano ipnotizzati, quasi cementati per terra. All’interno dell’ assembramento c’era un riccio. Sì un porcospino ben avvoltolato, che era sconfinato nel mio giardino. Poveretto! Era circondato da una schiera di curiosi cacciatori che ci omaggiavano un giorno sì e uno no di cadaveriche prede ( uccellini, lucertole, insetti, gusci di uova, topolini, a volte pure qualche biscia). Dopo un quarto d’ora di silenzioso appostamento, l’incauto riccio osò  fare spuntare il naso. I gatti , sempre seduti,  concentrati  fissavano la nuova vittima. Non appena il riccio tirò fuori la testa, Celestina con un balzo gli si avventò sopra rimbalzando subito all’indietro, come se avesse ricevuto una scossa elettrica. Liberai la povera bestiola dall’assedio e la riportai nella pineta confinante col giardino.

 I gatti sono sempre stati i miei compagni di gioco e stavo ore intere a  osservarli, cercando di decifrare il linguaggio della coda e delle orecchie e  tentando di imitare i loro miagolii. Circa quattordici anni fa ho deciso di adottarne due, Tigro e Gri Gri. Pure il consorte ha vinto l’iniziale diffidenza e ha imparato a parlottare coi gatti. Mio figlio non va a dormire se prima non ha salutato Gri Gri, che poi quatta quatta si appallottola ai suoi piedi. Che dire? Fanno ormai parte della famiglia, trasmettono affetto, ci si rispecchia un po’ in loro, si acquattano nel trolley quando captano immediate partenze, ci vengono incontro quando rientriamo a casa, ci fanno compagnia con la loro silenziosa presenza, ci coccolano con le fusa e ci logorano con miagolii insistenti. Ma quando si nascondono, ci mancano.

 I gatti sono regalmente eleganti, misteriosi e istintivi; scelgono chi amare e non dipendono da nessuno. Sono semplici nei loro bisogni primari ma eternamente cuccioli nell’ entusiasmo e curiosità, affascinanti quando ci osservano e sembrano capire. Interlocutori attenti, muti eppur presenti, abitudinari ma non facilmente addomesticabili .

Un gatto è un gentiluomo. Sotto quel pelo morbido si trova ancora uno degli spiriti più liberi del mondo ( Eric Gurney ) perché Non è facile conquistare l’ amicizia di un gatto. Vi concederà la sua amicizia se mostrerete di meritarne l’ onore, ma non sarà mai il vostro schiavo. (Théophile Gautier ).

  

Don Liunàrd

Don Liunàrd era un personaggio particolare, noto da generazioni in tutta la  penisola.Un ex navigante che  pare avesse perso il senno in seguito alla prematura morte della moglie. Aveva una figlia, cresciuta ed educata  in un istituto di suore,  che lui vedeva periodicamente e che, quando si sposò,  provò invano ad accudire il padre.

Era di alta statura e aveva una  corporatura possente, con ampie spalle e muscolosi bicipiti, tipici di chi ha svolto lavori pesanti . Da sempre me lo ricordo calvo. Si rasava la testa e la barba sotto la fredda acqua corrente di una fontana pubblica.Si svegliava all’alba e girovagava per le strade, da quelle costiere a quelle più interne, a tutte le ore del giorno, anche sotto la fredda pioggia invernale o nella  canicola di agosto.E non s’ammalava mai.

 Non sapevo dargli un’età. So solo che molti anni fa si spostava in bicicletta, seguito da cani randagi , suoi compagni di vita. Più tardi invece iniziò a camminare a piedi, trascinando  la bicicletta per il manubrio , cercando di non perdere tutte le pezze appese sulla canna e il copricapo del giorno. Talvolta le sue pezze, cioè gli abiti smessi che gli venivano regalati, testimoniavano il suo passaggio perchè ,ordinatamente allineate, stavano ben stese ad asciugare sulle ringhiere dei giardini pubblici. Infatti, pur vivendo per strada, era molto pulito. Ogni giorno si lavava nei bagni pubblici, si radeva e faceva il bucato. Ma era uno spirito libero: non voleva vivere in una casa, nemmeno in quella che aveva donato a sua figlia. Preferiva continuare a navigare tra la gente e le strade del paese e dormire negli uliveti e aranceti dietro il cimitero.

Aveva l’abilità di stupire con fogge sempre diverse, talvolta quasi da scena. D’estate indossava un pesante cappotto e d’inverno girava a torso nudo, incurante della temperatura delle stagioni, di tutto e di tutti.Spesso indossava un elmetto tedesco, una camicia bianca e sventolava una sorta di bandiera  in segno di resa. A volte invece indossava una parrucca dai lunghi capelli biondi mettendo in mostra i pettorali. Non era per nulla femmineo, né volgare, anzi!Emanava l’innata fierezza di un guerriero in lotta contro i suoi fantasmi. Come quando nel bel mezzo di un comizio elettorale comparve con una casacca viola e un  elmo da vichingo dalle lunghe corna che,  chissà dove,  aveva trovato.

 Aveva sempre l’aria compita, anche quando la gente lo salutava scherzosamente chiamandolo per nome e sorrideva divertita del suo abbigliamento. Pareva  quasi compiaciuto di attirare l’attenzione e far ridere di sé , o meglio, far sorridere la gente regalando un po’ della sua stravaganza… ma non lo dimostrava eccessivamente. Non parlava mai e di rado rispondeva ai saluti con un cenno del capo o della mano. Solo i suoi  sguardi erano eloquenti.Non chiedeva nulla. A turno i  pasticcieri, i baristi , i fruttivendoli e  la gente del posto gli offrivano da bere, la colazione, la frutta, un pasto caldo. Lui accettava e ringraziava, ma  non entrava nelle case per non disturbare. Andava su una panchina o in un giardino per  consumare e dividere il pasto coi suoi cani, poi ripassava per restituire le stoviglie vuote.Non ha mai fatto male a nessuno. Anzi si raccontava che avesse messo in fuga dei ladri che aveva sorpreso di notte mentre cercavano di intrufolarsi in una casa.

Solo allo spuntar del sole e a  notte fonda  si sentiva riecheggiare la sua voce per le vie deserte. A volte cantava a squarciagola . All’alba, passando a piedi per la via principale e  agitando un barattolo di  latta dove bruciava incenso, urlava: “Scetatev, ch’a sorg!” (Svegliatevi, che sorge!) e  con gli occhi fissi a est continuava “Tu sì, ch’a si n’omm e’ parola”(Tu sì che sei un uomo di parola). Suscitava chiacchiere ed ilarità quando sotto le finestre , tra il serio e il faceto , gridava “Scetat’, cornuto!” oppure“ ‘Sta signora, nun è ‘na signora” (Svegliati cornuto!…Questa signora non è una signora).

Il paese è piccolo e pieno di devozione: tutti sanno tutto di tutti . Don Liunàrd più degli altri  perchè sotto la sua aria distratta, assente o assorta, celava un acuto spirito di osservazione. Chissà a cosa pensava, quando non recitava sul palcoscenico del proprio Io. Secondo me, capiva…e anche bene.

 In  una fredda mattina di febbraio, imbacuccata in un cappotto nero, lo incontrai su un ponte mentre andavo a prendere il treno . Eravamo solo noi due. Nessuna automobile o camion dei rifiuti in circolazione. Lui avanzava a piedi, seguito dai suoi cani, oscillando l’ incensiere e parlando in dialetto con gli occhi rivolti verso il sole nascente. Non so se avessi più paura o soggezione di quel vate fuori dal tempo avvolto da una camicia bianca. Sta di fatto che non attraversai. Proseguii sul suo stesso marciapiede cercando di mantenere una regolare andatura. Man mano che mi avvicinavo, declamava a voce sempre più forte col suo interlocutore immaginario, l’uomo di parola. Dentro avevo un po’ d’ansia , ma mi imposi di vincerla. Circa a  cinque passi da me, si fermò e ammutolì. Parve destarsi dal suo soliloquio. Avanzò , mentre i suoi cani trotterellavano festosi. Pure io, giovane e  testarda, continuai a camminare, temendo qualche improvvisa invettiva.

 Una fortuita coincidenza: due figure , una bianca e una nera in direzioni opposte sulla stessa scacchiera della vita. Forse entrambi in cerca di conferme, di promesse mantenute dalla sorte. Un ponte collegava la sua lucida follia alla mia lucida curiosità.

Quando ci incrociammo, mi disse con un tono di voce inaspettatamente pacato, quasi rassicurante : “Va’ sempr’ annanz co’ sole” (vai sempre avanti col sole). E mi benedisse con un’abbondante folata di incenso.

Anni fa ho saputo che Don Liunàrd se ne era andato solo e  in silenzio dall’uomo di parola. I suoi cani l’hanno cercato per giorni tra gli uliveti e gli aranceti, finchè qualcuno li ha accolti.E mi par di rivederlo ogni volta che passo nei pressi della fontana, dei giardini pubblici e sul ponte. La sua tacita presenza , quasi scenografica, le sue grida, i suoi rituali appartengono ormai ad una sorta di leggenda, a quegli aneddoti che la gente di paese continua a rievocare con un po’ di nostalgia. Come quando su uno specchio, appannato dall’alito, si dissolve  lentamente la traccia.

Ancor oggi in Liunàrd ognuno vede ciò che vuol vedere con una sorta di affettuosa riverenza per la sua diversità.

Come eravamo…a Carnevale

Da bambina mi travestivo sempre da pellerossa , armandomi di scudo e pugnale  rigorosamente finti, per rivendicare con i cugini e mia sorella l’appartenenza  alla Tribù dei Piedi Scalzi e la libertà, almeno a Carnevale, di urlare, correre a piedi nudi nel giardino e dipingermi il viso col rossetto e i tappi di sughero bruciati. Negli anni dell’adolescenza, in cui ero piuttosto disorientata sui miei naturali cambiamenti e sul mio futuro da grande, abbandonai l’usanza del travestimento per non complicarmi ulteriormente la vita col dilemma di un’identità carnevalesca.  

Ormai ventenne, apparentemente con le idee più chiare, iniziai ad accettare inviti a feste in maschera, pur non sapendo assolutamente come fare. Non  potendo  permettermi di noleggiare un costume, decisi di confezionarli  con ciò che trovavo negli armadi e con l’aiuto di una zia che sapeva cucire. La prima volta indossai  una giacchetta di raso rossa, ottenuta in prestito, pantaloni e top nero. Un cilindro o bombetta, il trucco e le pailettes  mi aiutarono a fare la mia sporca figura. L’anno successivo ero piuttosto agguerrita e quindi mi vestii da rivoluzionario francese, con tanto di mantello e tricorno nero, camicia extralarge bianca e  stivali fuori dai pantaloni. Il cerone bianco mi dava un’aria esageratamente pallida, se non funerea, ma anche  misteriosamente tenebrosa.La terza volta mi improvvisai  esploratrice in Africa: riciclai pantaloni estivi e sahariana beige, i soliti stivali e, dopo una supplica di giorni, riuscii ad indossare l’originale cappello da esploratore inglese appartenuto a nonsochi e scovato in uno dei tanti armadi della nonna. Ma non ci fu verso di completare il travestimento portando a spasso il fucile del nonno.

 Sono poi balzata ai Carnevali dei miei figli. Trasformai la primogenita in una paffuta Paperina dal becco arancione e candide piumotte, e più tardi in una tenera Primavera finchè, ormai in grado di intendere e volere almeno un costume carnevalesco, lei ne scelse uno da zebra. Sì, proprio da zebra,e lo indossò per un bel po’di anni. Anche quando divenne troppo piccolo, ne reclamò un altro che dovetti far cucire di proposito. Sin da piccola preannunciava lo spirito di tifosa giuventina e un’autostima altalenante dalle stelle alle stalle, dal bianco al nero senza sfumature intermedie.

 Il secondogenito, dopo una breve parentesi da Peter Pan, fedele sempre fu- taratàn zambù- all’Uomo Ragno. In tutto. Non solo nelle collezioni di pupazzetti e figurine, ma soprattutto nell’abilità ad arrampicarsi dappertutto. Imparò presto, ancor prima di camminare, a scalare  tutto ciò che poteva pregiudicare la sua incolumità. Il suo esordio fu sul tavolo con le rotelle, poi prudentemente smontate per evitare che slittasse nella cristalliera di fronte, per dare l’arrembaggio al porta bon bon che regalmente vi trionfava. In seguito passò alle sbarre del lettino che scavalcava di notte in cerca dei ghinghin , cioè i tre ciucciotti che misteriosamente sfuggivano dalla barriera dei paracolpi. Memorabile fu la conquista della vetta del pitosforo nel giardino della scuola materna sul quale rimase appollaiato un bel po’, fino a quando le maestre trovarono una scala e lo fecero atterrare tra i comuni bipedi umani.

Dopo una fase dark, semi reale, e un’altra horror, per fortuna solo carnevalesca, anche i figli hanno smesso di travestirsi. Guai se oso associare al Carnevale il loro estroso look serale. Meno male che ignorano il mio che, alla loro età, ne vantavo uno indescrivibile…tutti i giorni. 😉

 E voi che cosa ricordate del Carnevale?

 

Lo zero scappato

Dopo lunghi anni di asilo, per cui nel cestino mia madre metteva la gamella con le polpette o la frittatina , Pri  Pri ( una specie di coniglietto spennacchiato che in origine doveva essere di peluche) e qualche pentolina giocattolo che immancabilmente le bambine più grandi mi fregavano, iniziai la prima elementare in una scuola parificata a cinque anni  con quasi un anno di  anticipo rispetto ai miei compagni di avventure scolastiche.

Ero più piccola di età e di statura, per cui il primo giorno di scuola notai che il  mio banco era in prima fila, anzi doveva essere quello della prima fila. La maestra però accontentò una mia compagna che fece un capriccio snervante e occupò indebitamente la mia postazione. Finii all’ultimo banco. Il problema era che da laggiù non vedevo bene e probabilmente non seguii le indicazioni della maestra, che era una suora A un certo punto si avvicinò e mi diede un quaderno con un esercizio apparentemente facile. Dovevo unire i puntini che tracciavano una A in stampatello maiuscolo…ma non sapevo che dovevo unirli tracciando una linea unica partendo dal primo puntino in basso  a sinistra proseguendo verso l’alto per poi discendere, come su uno scivolo, verso l’ultimo puntino in basso  a destra formando una linea spezzata .E io, secondo la mia logica infantile, unii i puntini con una miriade di linee che s’intersecavano a più non posso, intessendo una bella ragnatela di linee traballanti e storte. La maestra ripassò per controllare il compito e il mio capolavoro artistico fu definito sgorbio. Prima mi beccai una sgridata umiliante e, secondo  me, immeritata per lo sforzo che avevo fatto e la convinzione di avere svolto bene il compito. Poi sul quaderno comparve un misterioso segno circolare, sbarrato da una linea obliqua. Dalla veemenza con cui era stato inciso e dagli strepiti della suora, intuii che aveva un brutto significato. Era uno Zero Spaccato. Io guardavo quel nuovo sgorbio affascinante: lo Zero spaccato, sbarrato, tagliato che,  nel resoconto che diedi ai miei genitori , chiamai Zero scappato.  Ma perché sbarravano gli zero? Per timore che vi anteponessero un 1 e si trasformassero in 10?  Per sottolineare che era irrimediabilmente zero…un insieme vuoto, un annullamento senza speranza di rimedio? Per un bambino che non conosce il significato dei numeri che poteva significare? Infatti io non conoscevo lo zero scappato e mi chiedevo perché mai fosse scappato sul mio quaderno. Capii solo che il mio compito era sbagliato. Così nel tentativo di rimediare al disastro, bagnai la gomma con la saliva e … zac zac , a forza di sfregare su quello sgorbio di A  scritto con la penna (perché usavamo subito la penna, anche se non sapevamo tenerla in mano) feci un bel buco sul foglio. Vi lascio immaginare l’espressione di sconforto della maestra e la mia per avere fallito nell’impresa. Quando mio padre venne a prendermi a scuola, strepitai che a scuola non volevo più andarci. Da buona ariete (con corna da sfondamento) e ascendente toro ( con corna da attacco) sin da piccola era difficile dissuadermi dai miei convincimenti. Piansi disperatamente, convinta di porre fine alla carriera scolastica e ignara di quel che mi avrebbe poi riservato la vita. Infatti, anni dopo, a mia madre che mi prospettava un futuro da insegnante, urlai “Insegnante io? Piuttosto vado in convento”. E infatti ci sono finita , svoltando drasticamente da altre prospettive professionali. A scuola però, non in convento – almeno per ora !. Comunque sia e  nonostante tutto, mi piace insegnare e grazie a quella maestra imparai  tante altre cose.

  La suora aveva una bacchetta ma non come quella della fata di Cenerentola o Harry Potter. Anch’essa era magica visto che riusciva a farci stare fermi, muti e apparentemente attenti. Era luuuuuuuuunga fino alla terza fila di banchi e tac tac ticchettava sul banco se osavamo distrarci. Mio fratello ebbe la sfortuna di esser mancino. Sì perché all’epoca la sinistra era considerata la mano del diavolo. Mio nonno lo difendeva strenuamente da quelle cape di pezza (suore) che lo obbligavano a scrivere con la mano destra. La Divina Provvidenza volle che un bel giorno mio fratello  si rompesse il braccio destro cadendo durante una delle sue solite corse in bici . Così da quel giorno fu diabolicamente  libero di scrivere con la mano sinistra e in seguito divenne ambidestro.

 Io non avevo questa capacità, ma  in compenso avevo lo stress di scrivere fioretti da offrire al Sacro Cuore di Gesù. Sempre grazie alle suore, avevo il terrore dei crocefissi perché mi avevano fatto vedere il film “ Marcellino, pane e vino” con esiti forse  inaspettati perché il crocefisso parlante mi spaventava. Il quadro del Sacro Cuore era esposto trionfalmente in aula e io osservavo incuriosita quel cuore rosso palpitante. Carò Gesù ti prometto che…e giù a scervellarmi. Finchè un giorno scrissi in rima Caro Gesù, prometto che non conto più .Certo che le esperienze che si fanno da piccoli si ricordano bene. Questo perchè un giorno la suora disse di contare sulle dita per 8 da 0 a 80.Sì 80, me lo ricordo bene. Oggi in prima si arriva fino al numero  20, al massimo 30. In prima non è facile imparare a contare sulle dita, soprattutto usando le due mani. Non so come feci, so solo che i miei numeri non corrispondevano a quelli della mia compagna di banco, ma imperterrita proseguii. Dopo lunghi bisticci con i polpastrelli sulle mie guance arrivai a 80. Era la prima volta che riuscivo a svolgere un compito esatto. Fui l’unica a non deludere le aspettative della maestra su 35 bambini. Mi aspettavo che agli elogi della suora seguisse una bella manciata di caramelle, colorate e di zucchero…quelle che si potevano comprare con 10 lire durante la ricreazione o si ricevevano in premio per compiti corretti e precisi. La maestra mi premiò con  un ritaglio di libro raffigurante un fiore. Non era la solita margherita , fiore più gettonato nei disegni dei bambini, bensì era un fiore nuovo e diverso: un’ortensia. Poiché ero capatosta, le dissi che preferivo le caramelle. Mi rispose che erano finite. Quando a ricreazione tirò fuori il barattolo per vendere le ultime rimaste, tornai alla carica. Nisba! Indispettita tornai a posto e mi ripromisi di nuovo di non andare più a scuola. Quando mia madre venne a prendermi, iniziai a piangere spiegandole l’accaduto e quella volta  spettò a lei sciropparsi le mie rimostranze. La maestra però aveva sempre ragione. Punto. Anzi punto fermo.

 Sostenni l’esame di primina e l’anno successivo, trasferitici in un’altra città, frequentai le scuole pubbliche. Ho bei ricordi della seconda e terza elementare, delle gare di tabelline, degli esercizi di grammatica e della classe femminile di 32 bambine guidata da  un’anziana  maestra , prossima alla pensione. Ancora ricordo una compagna di classe  dai lunghissimi capelli  intrecciati in acconciature che secondo me richiedevano oltre che bravura almeno un’ora di preparazione, il turno pomeridiano di lezione e il Signor Direttore che tutti i giorni  passava nei corridoi alla fine delle lezioni e ci salutava mentre recitavamo il Salve, o Regina. Anche in quel periodo non capivo tante cose…per esempio “A te ricorriamo esuli figli di Eva … Orsù dunque, avvocata nostra…” Quell’orsù era indigesto più di esuli e avvocata. C’è voluto un po’ di tempo – meglio tardi che mai!- per apprendere che non era un termine dialettale per dire orso.

 Ci trasferimmo ulteriormente, stavolta al Nord, e sempre in una scuola pubblica finii il ciclo delle elementarie- Deo gratias!- , senza altri trasferimenti, proseguii gli studi fino al liceo. Ebbi finalmente l’opportunità di confrontarmi con i  maschietti in una classe mista. All’inizio fu uno sfacelo. Ero in una classe di bambini pestiferi. Tutti erano incuriositi da me perché non conoscevo le parolacce locali, ma recuperai in fretta. Riuscii ad impormi nel gruppo di coetanei perché ricordavo tutti i numeri delle figurine e mi destreggiavo bene nel contrattare gli scambi.

 Della maestra però non ho un bel ricordo: altro che integrazione e pari opportunità… Grazie a lei e alle mie corna di ariete e toro messe insieme in una spaventevole caparbietà caratteriale, decisi di riscattarmi in un altro modo cioè dimostrando che anch’io potevo essere brava a scuola, ma esclusivamente  per un senso personale di rivalsa. Del suo plauso per il mio buon rendimento scolastico non m’importava nulla, perché percepivo una sorta di discriminazione che riguardava la mia persona e la mia sudicia (del sud) provenienza.

 A distanza di tempo la ricordo ancora. Senza rancore, forse con un po’ di sufficiente tolleranza. In fondo s’adoprava come meglio sapeva fare, rispecchiando la sua formazione.

 E qualcuno rimpiange nostalgicamente l’insegnante unico? In una società che richiede sempre più capacità di confrontarsi ed elasticità mentale, mi pare un contraddittorio anacronismo rispondente più all’esigenza di contenere la spesa pubblica che ad un’ottimizzazione di risorse per migliorare la scuola.