Cinabro

Tempo fa io e la mia amica Filo ci siamo azzardate a scrivere un raccontino a due tastiere. Buona lettura!  :)

Le tre. La luna scorticava la pelle oleosa del mare di luce sulfurea, appena sufficiente a scorgere le sagome degli alberi e il profilo degli scogli  davanti alla villa. Qualche nuvola brucava il chiarore lattiginoso. Non si udiva altro rumore dello sciacquio lento delle onde sulla riva sassosa.

Marta uscì dall’ombra al riparo del muro. Guardò la luna e le venne in mente un verso “C’è tanta solitudine in quell’oro”, ma non ricordava l’autore.

Si concentrò con freddezza su ciò che stava per compiere. Tirò il cappuccio di lattice sulla testa, chiuse la cerniera della muta subacquea, infilò la torcia e il coltello nella cintura e si immerse con un lieve fruscio nell’acqua nera.

 La grande luna segna la strada obbligata. Lo stesso cammino percorso ogni giorno, ora splende solo in parte, come la bianca signora, elegante , distaccata, assorta che gridava, che cercava appigli in qualcosa che le era negato. Quella mattina aveva detto con voce astiosa: “Devi andartene Maddalena. Lui non ti vuole più vedere, ed è meglio per tutti. Sei giovane, ti rifarai una vita, una vita tua per davvero. E’ tempo che tu vada, che strappi le radici. Una pianta non può avere radici su quelle di un’altra. Una delle due è destinata a soccombere. Buona fortuna!”

Fortuna! Penso alla mia fortuna, sola, su questa nave, dove l’odore della salsedine e l’umidità serale mi coprono come uno scialle, mentre parto senza sapere nulla della mia destinazione. La luna splende su un cammino che altri hanno tracciato per me, non ho mai potuto scegliere un granchè, finora. Non ho scelto l’amore. Pietro ha scelto me. Sono stata attratta dalla sua gentilezza, l’ho seguito e mi sono lasciata guidare, ma la vita che porto in grembo lo ha allontanato da me, per sempre.

 

Nel pomeriggio aveva effettuato un accurato sopralluogo intorno al muro di cinta che circondava il parco e la villa. L’ingresso principale era costituito da un ampio portale secentesco ligneo incardinato a due pilastri e sormontato da un timpano ovale sul quale era scolpito un uroboro che  conservava ancora la traccia sbiadita  delle scaglie rosse e nere con le quali era stato in origine rivestito il serpente.

Quando lo vide, Marta  fu certa di aver trovato quello che cercava..

Nel darle le indicazioni per rintracciare la villa, la nonna  le aveva descritto minuziosamente quel portale e il simbolo scolpito sul timpano. Il legno del portone pareva ben conservato e non mostrava  fessure dalle quali poter dare un’occhiata all’interno. Da fuori era possibile vedere soltanto l’intricato fogliame  di eucaliptus, alberi del pepe, palme, ulivi in parte ricoperti di edera che facevano del parco una foresta lussureggiante e in  stato di abbandono. Della villa, disabitata da molti anni, si scorgeva appena la torretta color cinabro che sovrastava il corpo principale dell’edificio.

Il muro, alto tre metri, proseguiva sul lato ovest lungo il sentiero che conduceva alla spiaggia per poi svoltare a sud  a ridosso della scogliera in una piccola insenatura dal fondale basso e sabbioso. La nonna le aveva assicurato che l’unica via di accesso alla villa era il cancello che dava sulla scogliera. Un tempo, quando davanti alla casa si stendeva una lunga distesa di sabbia oltre la scogliera, da quel cancello si accedeva direttamente alla spiaggia. La signora vi faceva lunghe passeggiate al mattino presto quando il mare era calmo, d’estate, tutta vestita di bianco con un cappello a larghe tese che la riparava dal sole. Era sempre nervosa, tormentata dall’emicrania, e quelle camminate solitarie, a suo dire, la ristoravano.

Il cancello c’era ancora. Marta l’aveva visto nel pomeriggio  nuotando nell’acqua della baia, divorato dal salino e ostruito fino a metà da cumuli di alghe secche. Negli ultimi tempi la fisionomia della baia era cambiata. Le mareggiate invernali  spingevano le onde fino a penetrare oltre le sbarre di ferro del cancello, nel giardino, depositando alghe, sassi e sabbia sul terreno ormai incustodito. Non doveva essere facile per una persona fragile di nervi, nei giorni di tempesta e di mistral, sopportare il fragore delle onde che si schiantavano a due passi dal muro della villa.

 Questo viaggio è interminabile. Sulla nave c’è odore di disperazione e miseria. C’è odore di paura. Ho vomitato tutta la mia solitudine, il silenzio, la delusione, la rabbia, l’ingenuità. Ho abbassato lo sguardo per evitare ogni forma di contatto con uomini così diversi da quelli del mio paese, così diversi da Pietro. Lui sbirciava dietro la finestra mentre raccoglievo fiori in giardino per la tavola, mi scrutava con sguardo attento e curioso, mi sorrideva con dolcezza nei rari momenti di intimità. “Ti dipingo coi colori freschi della tua giovinezza” diceva. Non mi ha nemmeno salutata.

 La notte era pastosa, immobile, impregnata dell’odore umido di salmastro e resina di pino.

Marta scivolava con lente bracciate smuovendo appena l’acqua. Il mare richiudeva all’istante gli strappi che lei  lasciava dietro di sé. La luce opaca della luna era sufficiente a rischiarare il punto dove nel pomeriggio aveva stabilito di approdare. Mise un piede su uno spuntone di roccia , si issò in piedi e raggiunse senza difficoltà la soglia del cancello. Appostata dietro il muro, attese che i battiti del cuore rallentassero il galoppo che le scalciava nel petto. Fin qui era andato tutto  secondo i piani, ora doveva affrontare la parte più difficile.

Ripassò mentalmente la pianta della casa che aveva disegnato sulla base delle indicazioni fornite dalla nonna. Lo studio era al secondo piano sul lato est ed era l’unica stanza che da quel lato avesse un balcone .La nonna ricordava che il giardiniere, su ordine della Signora, aveva fatto arrampicare con cura su quel balcone  un glicine che negli anni era diventato un magnifico pergolato di tralci contorti, aggrovigliati tra loro come spire di serpente  che già  in aprile diventava una cascata di grappoli viola procurando  un’ombra screziata, profumata dove Pietro  si sedeva spesso  a leggere o disegnare.

Marta si augurava che il glicine fosse rimasto al suo posto.Si sporse dal muro e puntò lo sguardo oltre le sbarre del cancello. Buio. Silenzio.

Gli ombrelli neri dei pini marittimi gettavano ombre scure nascondendo parte della facciata sud della casa. Si intravedevano alcune persiane chiuse e quel rosso cinabro così intenso delle pareti che nel chiarore lunare appariva quasi nero.

Estrasse da una cerniera laterale della muta i guanti e li indossò. Si aggrappò alle lance acuminate, appoggiò i piedi sulla sbarra orizzontale  e con un balzo scavalcò il cancello atterrando dall’altra parte sul tappeto di alghe secche .Attese qualche istante.Pensò che doveva sbrigarsi. Improvvisamente si sentiva inquieta. Percepiva una vaga insidia, una trappola. Voleva essere al più presto lontano da lì. La casa ora le pareva sinistra e minacciosa. Si diresse velocemente verso il lato est. I suoi passi erano attutiti dal folto strato di aghi di pino che ricopriva il sentiero.

Il glicine era là. Un intrico di foglie e rami che stritolavano la ringhiera del balcone.Saggiò la resistenza del tronco rugoso e si sollevò fino alla terrazza. La luna proiettava una lunga ombra sul pavimento corroso. Due finestre. Senza esitare si avvicinò a quella di sinistra. Il legno marcio delle persiane cedeva facilmente. Usò il coltello per svellere alcune stecche e infilare la mano per tirare su il gancio. La persiana si aprì senza rumore.

Cominciava a sudare nella muta di gomma. Sfilò il cappuccio e rimase in ascolto.

Più di ogni altro, aveva temuto il momento di rompere i vetri della finestra. L’effrazione della finestra poteva scatenare la sirena di qualche allarme, sebbene dubitasse che la villa fosse dotata di un simile  impianto.In ogni caso aveva previsto questa evenienza e sapeva che avrebbe avuto tutto il tempo di portare a termine l’operazione prima che giungesse qualcuno.

 La maternità, l’abbandono di Pietro, la vita famigliare con Giacomo in un paese così diverso e lontano dal mio, mi hanno fatta crescere all’improvviso, ma mi reputo fortunata. Giacomo era un gran lavoratore, silenzioso, poco incline alla risata ma buono e, a modo suo, sapeva essere affettuoso e premuroso. Pietro però non l’ho mai dimenticato. Una volta ho provato a scrivergli. L’attesa di una risposta, una qualunque risposta che non è mai arrivata, mi ha logorato per qualche tempo. Il silenzio uccide lentamente più di un diniego. Ho riversato le mie energie in mia figlia, in lei ho mantenuto le mie radici e amato ciò che ero stata a mio tempo. Ed ora, dopo tanti anni, la lettera di questo sconosciuto che mi riporta alla casa da dove sono partita. Per Marta, devo farlo per Marta, lei deve conoscere il mio segreto.

 Con il manico della torcia vibrò un colpo deciso. I vetri andarono in frantumi schiantandosi con fracasso sul pavimento all’interno della stanza.

Marta si ritrasse in fretta e si appoggiò al muro. Sentiva il sordo pulsare del cuore  nelle orecchie. Nessun allarme era scattato. Le parve di udire l’abbaiare di un cane poco lontano. Guardò l’orologio: le tre e trenta. Presto. Doveva fare presto. Il suo aereo partiva alle sette. Aprì la maniglia che chiudeva la finestra ed entrò nella stanza.  Accese la torcia e la puntò alle pareti. L’informatore aveva detto che  il quadro si trovava ancora appeso al muro davanti allo scrittoio. Pietro non aveva mai permesso a nessuno di toccarlo o rimuoverlo dal suo posto. Marta non esitò a riconoscerlo. La luce vivida della torcia illuminava una tela incorniciata in mezzo alla parete  che ritraeva una giovane donna seduta a cucire accanto alla finestra col viso rivolto di tre quarti verso colui che la dipingeva. I capelli biondi ramati sprigionavano scintille di fuoco raccolti sul capo in una morbida acconciatura. Alcune ciocche sfuggivano dallo chignon e ricadevano con grazia sul collo contornato da una collana di granati da cui pendeva un ciondolo che raffigurava lo stesso uroboro del portale della villa.

La donna del quadro era sua nonna.

 Un detto popolare dice “Ogni cosa a suo tempo”. Forse. So solo che il tempo ritrovato all’ improvviso squarcia la memoria dei ricordi . Una sensazione, una frase, una melodia… nel mio caso una lettera, non quella da parte sua, tanto attesa e mai arrivata che mi aiutasse a farmene una ragione, bensì  di uno sconosciuto. A volte le vite procedono  in parallelo e non sempre per scelta. La giovinezza aiuta a rinnovarsi, a lasciarsi coinvolgere con l’ incoscienza dell’ età, a disperdere le ombre  e inseguire le stagioni. Ora quei fili che parevano spezzati  si rinsaldano, quasi  per risarcirmi e confermarmi ciò che volevo credere e salvare . In fondo le  cose belle del cuore tornano sempre. Il risentimento le ha solo coperte. Forse è  la prima volta che scelgo davvero, che riesco a riconoscere uno spazio a quel silenzio che mi ha consentito di diventare ciò che sono. 

 Qualcuno la chiamava da lontananze remote. Udiva il suo nome pronunciato dalla  voce sconosciuta di un uomo che parlava italiano. Lentamente la sua coscienza emergeva galleggiando su acquitrini paludosi tra dense spirali di nebbia e improvvisi squarci di luce che le impedivano di vedere. Non riusciva ad aprire gli occhi. Ansimava mentre correva sul viale verso il cancello stringendo la sacca impermeabile che conteneva la tela del quadro. Il suo corpo allenato scattava con falcate poderose verso la meta, la mente lucida teneva a bada la paura che la attanagliava. Aveva raggiunto il cancello, le mani aggrappate alle sbarre,coi muscoli tesi delle braccia si era sollevata da terra puntando i piedi sulla stanga orizzontale.

Aveva fatto in tempo a vedere un drago bianco che divorava la luna.Un colpo improvviso le era esploso in testa ed era caduta all’indietro sul tappeto di alghe secche.

Spalancò gli occhi e si sedette di scatto sul letto. Una fitta lancinante alla base del cranio le strappò un gemito di dolore. Si portò una mano alla testa e si accorse di indossare ancora la muta. La stanza dove si trovava era debolmente illuminata da una luce rosata che proveniva da un abatjour accanto al letto.

Prima di riuscire a formulare un pensiero, una sagoma nera uscì dall’ombra

-Marta…non temere. Sono tuo amico. Non voglio farti del male-

L’uomo era alto, magro, sui quaranta, abbronzato, i capelli dorati come quelli di Marta. Parlava italiano a bassa voce con accento francese.

-Bastardo- sibilò lei tastando la cintura per afferrare il coltello – sei tu che mi hai colpito. Chi sei? Che intenzioni hai?-

-Il tuo coltello ce l’ho io. Te lo restituisco dopo. Non temere ti dico, sei libera, non voglio trattenerti né denunciarti, il quadro è tuo .Devi riportarlo a Maddalena. Sono passati sessant’anni, ma deve sapere che Pietro non l’ha mai dimenticata. Io  volevo solo vederti, conoscerti …Mi chiamo Enrico …sono tuo cugino di secondo grado.

-Bel modo di fare conoscenza- disse Marta – per poco non mi ammazzavi!

-Scusami. Sei stata troppo veloce. Non avevo scelta.

Marta si guardò intorno. La tensione di quella notte cominciava a sciogliersi. Un po’ di calore circolava nei suoi muscoli rigidi, sempre all’erta. Aprì la cerniera della muta per liberare le braccia.

– Tieni. Indossa questi.- L’uomo le passò una maglietta e dei pantaloni corti

-Sei tu l’informatore!

-Sì. Sono io. Avevo lasciato un numero di telefono nella lettera che ho spedito a Maddalena. Avresti dovuto contattarmi. Hai corso un brutto rischio a entrare nella villa come una ladra.

-Non ne sapevo niente. E poi io faccio a modo mio. Sono venuta a prendere il quadro, non mi interessa altro.

-Lo immagino!

Marta arrotolò la muta e la mise in una borsa. Si avvicinò alla finestra. La luna era scomparsa dietro il promontorio lasciando una caligine bianca che  schiariva il cielo.

Era quasi l’alba.

Guardò l’orologio. Se si sbrigava sarebbe riuscita a prendere l’aereo.

-Perché hai fatto tutto questo?-

Sussurrò la donna voltandosi a guardare Enrico.

Il parco e la villa sono stati venduti a una società che ne farà alloggi turistici. Pietro ha lasciato solo debiti. Tutto quello che vedi andrà perduto, distrutto. Lui voleva che Maddalena sapesse che non l’aveva dimenticata e che  avesse il ritratto che le apparteneva. C’è anche questa.-

Le porse un sacchettino di pelle . Marta lo prese e fece scivolare in mano una collana di granati con un ciondolo che raffigurava l’uroboro.

-Il cerchio si chiude.-  Disse con un sospiro.- Peccato che sia così tardi!-

Enrico si  mise le mani in tasca  e le andò vicino.

-Sono anni che vi cerco. Maddalena era sparita senza lasciare tracce.

– Fu costretta ad andarsene, ma il suo cuore non si è mai allontanato da questa casa.-

– Assomigli molto al ritratto del quadro. – mormorò Enrico scostandole una ciocca di capelli dal viso.

 

Marta vide il sole levarsi sul mare dal finestrino dell’aereo. Borges. Prima di sprofondare nel sonno  le era tornato  in mente il nome del poeta.

Non è mai troppo tardi per capire che nulla è vissuto invano.

 

Supercalifragilistichespiralidoso

Super  cali  fragi  listi  che spira  lidoso…

Mi è venuta in mente la lunga parola magica di Mary Poppins, uno straordinario garbuglio senza senso.

Da bambina provavo a ripetere a lungo qualche scioglilingua, quei bisticci di parole con suoni affini e difficili da pronunciare. Nella speranza di poter gareggiare con  una cugina che era bravissima a ripeterli più volte, dopo mille snervanti tentativi  riuscii ad imparare soltanto 

   Sopra la panca la capra campa, sotto la panca la capra crepa 

Trentatre trentini entrarono a Trento, tutti e trentatre trotterellando

 A mo’ di tormentone mi cimentavo bene nella tiritera di Apelle finchè mia madre, esasperata, mi zittiva, senza però riuscire ad interrompere il mio attacco di ridarella, sia per  Apelle che per lei che si spazientiva.

 Apelle , figlio di Apollo

fece una palla di pelle di pollo

tutti i pesci salirono a galla

per vedere la palla di pelle di pollo

fatta da Apelle figlio di Apollo.

 

Ma ce ne sono alcuni curiosi , scovati in wikipedia, che non riesco nemmeno a leggere, figuriamoci se li imparo.

  Questo va segnalato ai sindacati.   

Se la serva non ti serve,
a che serve che ti serva
di una serva che non serve?
Serviti di una serva che serve,
e se questa non ti serve,
serviti dei miei servi.
 

 

Questo invece ai servizi sociali.

Al pozzo dei pazzi una pazza lavava le pezze.

Andò un pazzo e buttò la pazza con tutte le pezze nel pozzo dei pazzi.

 

Saggiamente  senza senso.

 Sa chi sa se sa chi sa
che se sa non sa se sa,
sol chi sa che nulla sa
ne sa più di chi ne sa.

 

Il seguente è politicamente sempre attuale. 

Se l’arcivescovo di Costantinopoli si disarcivescoviscostantinopolizzasse,

ti disarcivescoviscostantinopolizzeresti tu?

No, io non mi disarcivescoviscostantinopolizzerei

se l’arcivescovo di Costantinopoli si disarcivescoviscostantinopolizzasse!

 

Questo in dialetto milanese deve essere stupendo da ascoltare. È all’insegna del “Pensa un po’ ai tacchi tuoi” o “Chi fa i tacchi da sé, fa i tacchi per tre”.

 

Ti che te tachet i tac, tacum i tac!

Mi che tac i tac, tacà i tac a ti che te tachet i tac?

Tachete ti i to tac!

“Tu che attacchi tacchi, attaccami i tacchi!
Io che attacco tacchi, (dovrei) attaccare i tacchi a te che (come me) attacchi tacchi?
Attaccati i tacchi da solo!”

In inglese mi pare indigesto in tutti i sensi.

 Peter Piper picked a peck of pickled peppers. If Peter Piper picked a peck of pickled peppers, how many pickled peppers did Peter Piper pick?

“Peter Piper prese un sacco di peperoni sott’aceto. Se Peter Piper prese un sacco di peperoni sottaceto, quanti peperoni sottaceto ha preso Peter Piper?” 

 

E per finire uno scioglilingua di   buon auspicio

 Oggi seren non è,
domani seren sarà
e se non sarà seren
si rasserenerà.

 E’ una mia impressione o sono veramente impronunciabili? Ne conoscete altri?

M… come mamma

Postcard issued by the Northern Pacific Railway for Mother’s Day 1915.

Anticamente si diceva Mater sempre certa est, pater numquam…(la madre è sempre certa, il padre mai) anche perché non esisteva ancora l’esame del DNA. La mamma, o meglio l’universalmente nota come  mammà, cioè colei che ci dà l’imprinting dalla nascita, è festeggiata con una ricorrenza civile in tutto il mondo. Un modo per ricordare e riconoscere il valore della maternità…

…che non saprei nemmeno definire se come mistero biologico, dogma religioso, magia del sentimento, forza dell’istinto e della natura , semplice calcolo delle probabilità che vede l’unione, casuale o meno, proprio di quelle due cellule da cui siamo discesi proprio noi o proprio i nostri figli. Quando nasce una vita ci si sente soli, anche se circondati da tante persone, ci si confronta con la vita, quella vera, non quella di fatti e persone, ma con la scintilla che dà origine al primo battito e al primo respiro, con il  mistero e il miracolo della natura.

Comprendi che tutto dipende da te ma non provi un senso di onnipotenza, semmai paura di non farcela in una responsabilità così grande che ti ha investito più o meno consapevolmente, con più o meno amore e alla fine te l’ assumi comunque perchè è una legge naturale, un rituale di sempre, un ciclo che è nato e deve giungere al compimento finale perché ne ricominci un altro. E per quanti corsi preparatori tu possa avere frequentato, in quel momento è un istinto primordiale che ti guida e che guida tutte le donne, quelle assistite in strutture ospedaliere e quelle che generano in un deserto, per strada, in casa o in una roulotte.
Ogni timore, ogni solitudine, ogni disorientamento cessa quando nasce il figlio. L’intimità biologica e la tacita intesa di madre e figlio è violata quando viene alla luce il figlio, che diviene il figlio del padre, il figlio di tutti e del mondo. Quel figlio che pian piano scopri  di amare da sempre e in cui impari a riconoscere parte di te giorno per giorno, in cui rivivi un po’ la tua vita pregressa, le tue emozioni, i tuoi pensieri che sono generalmente comuni a tutti gli uomini e a tutte le donne . È una ciclicità universale che va avanti da sé, perché la vita continua, senza limiti di spazio e di tempo, sospesa tra l’infinitamente grande dell’universo e l’infinitamente piccolo dell’umano sentire e della quotidianità . Nella fragilità tipica dell’essere umano intuisci che ogni mamma è un tramite tra una provvisoria volontà umana e un’eterna volontà, forse divina.

 
Dedico questo post a tutte le mamme ma soprattutto a quelle mamme che non hanno potuto vedere il loro piccolo, a quelle che da sole, con silenziose dignità e rinunce, crescono i loro figli  e a quelle donne tanto materne, pur non avendo provato la gioia della maternità, perché tutti possiamo ricordarci che la maternità non è mai uno sbaglio, un inganno o una colpa, ma semplicemente un prodigio della natura.

Per Genova – 7 maggio 2013

Vasto, dentro un odor tenue vanito

Di catrame, vegliato da le lune

Elettriche, sul mare appena vivo

Il vasto porto si addorme;

S’alza la nube delle ciminiere

Mentre il porto in un dolce scricchiolìo

Dei cordami s’addorme: e che la forza

Dorme, dorme che culla la tristezza

Inconscia de le cose che saranno

E il vasto porto oscilla dentro un ritmo

Affaticato e si sente

la nube che si forma dal vomito silente.

 (da “Genova” – Dino Campana)

 

Ciao, piccola ombra!

Tempo fa ho avuto l’occasione di vedere due volte il video “Transizioni…dal nido alla scuola dell’infanzia” che aiuta a capire le difficoltà che i piccoli affrontano passando dalle braccia di mamma e papà al contesto educativo della prima infanzia. Vi descrivo alcune sequenze che mi son sembrate particolarmente significative.

 Un bimbo saluta la tata e poi corre a salutare la mamma. Si ferma sulla soglia di una porta interna e la chiama. Lei lo saluta con la mano, sorridendo a distanza , lui ricambia e  si volta perplesso. Nei passi incerti e nello sguardo del bambino che esita, chiedendosi se seguirla o restare, si percepisce una scelta di crescita. Decide  di rimanere nel nido a giocare con gli altri bambini.

 Un piccolo si rannicchia nel lettino per la nanna pomeridiana; si raggomitola pian piano cercando la posizione del sonno. Si chiude come in un uovo, in posizione fetale. Cerca col piedino, simile a un cordone ombelicale non reciso, il contatto con la puericultrice seduta vicino per vegliare.

 Una bimba di circa due anni trotterella nel cortile e all’ improvviso scopre la sua ombra. La fissa stupita mentre  anch’ essa si ferma. Si china per toccarla, muove le braccia e ne segue i movimenti . Infine esclama “È Giulia”. Ride soddisfatta e la saluta.

 Quanta vita c’è in queste immagini comunemente reali. Tutta la vita è  annunciata nei suoi misteri a quei bambini che ci hanno testimoniato le loro prime scoperte. L’hanno fatta ripercorrere agli adulti presenti, emozionati non poco di fronte alle loro esperienze, conquiste e gesti rituali. Il distacco da un genitore che s’allontana genera  l’ intuizione della necessità della separazione, non dettata dall’ egoismo ma da scelte di vita professionale e si conclude con un  primo passo verso la reciproca autonomia affettiva. “Papà, tu vai  ma so che ci sei e ritornerai”. Una certezza mai tradita che è stata un costante leitmotiv della mia vita.

Quante volte i miei figli hanno cercato un contatto rassicurante per cullarsi e tornare all’ origine prima di sprofondare nella quiete del sonno. Mi  ha però commosso  la scena dell’ombra, esclusiva e fedele compagna nel cammino. Quell’ ombra, a nostra immagine e somiglianza, ci segue silenziosa quando è proiettata dietro di noi. Dispettosa e  burlona sembra schernirci quando è davanti,  anticipa il passo, alleggerisce il peso del tempo, altera le dimensioni. 

Quei bambini, che giocando imparavano a conoscere se stessi, gli altri e lo spazio circostante, si sono agganciati con la loro innocente spontaneità all’ infanzia e alla memoria di tutti.  Tutta la vita è lì, dentro quelle immagini. Nell ’incanto silenzioso del  sonno che culla i sogni e suscita tenerezza e  protezione. Nelle prime transizioni che creano turbamento finchè non  si ripristinano nuovi equilibri affettivi, costruendo pian piano  nella mente la certezza della presenza a distanza, e si impara ad accettare e a  sopportare qualsiasi attesa. La vita è in quell ’ombra fuggevole che sparisce e ricompare all’ improvviso,  si anima gioiosa al nostro passaggio quando la luce illumina la strada. Nell’ uniformità del colore nero assomma tutti i colori delle emozioni vissute, il senso dello stupore di fronte al nuovo, l’entusiasmo della scoperta e la soddisfazione delle piccole conquiste. È Giulia, ma anche Maria, Francesco, Sara, Luigi… In essa si è affacciata l’ anima infantile di ciascuno e, ridendo quasi compiaciuta, ha regalato un po’ di meraviglia.

È un’impressione…

Per anni ho oscillato su brevi, medie e lunghe distanze attraversando in treno  quasi tutta l’Italia. Su e giù  sui treni FFSS ( cioè  “fate finta siete soddisfatti”) oggi detti  Trenitalia. Forse sarebbe meglio solo Treni. Per un po’ sono stata quieta, o meglio mi sono spostata con altri mezzi, e ho avuto nostalgia di  viaggiare sulla strada ferrata. È un’impressione che nulla sia cambiato sui treni in tanti anni e non solo in meglio, grazie ai confortevoli treni ad alta velocità, quali i Freccia Rossa o Eurostar.

 Innanzitutto  ci sono quasi solo porte scorrevoli, di quelle che dimezzano la silhouette del viaggiatore che non si sbriga a scendere. Un sistema di apertura decisamente migliore di quelle porte che si spingevano in fuori e automaticamente fuoriusciva il predellino. Bisognava chiedere ad Ercole la forza per aprire quella porta e puntare bene i piedi per terra. Chi non aveva un buon stacco di coscia faceva  stretching, allungando le zampe come un fenicottero, per toccare pian piano il marciapiede sottostante oppure doveva zompare dall’ultimo scalino del predellino facendo sfoggio di virtuoso equilibrismo. L’incauto viaggiatore rischiava di finire sotto le rotaie,  a meno che non si avvinghiasse saldamente alla sbarra laterale di appoggio e vi ruotasse intorno in  una sorta di improvvisata  lap dance. Se aveva al seguito i figli, si cimentava in un gioco di logica. Un po’ come per il trasbordo di capra, lupo e cavoli da una riva all’altra del fiume in modo che il lupo non mangiasse la capra e la capra i cavoli.  Doveva valutare se  lanciare giù prima i bagagli o i figli, sperando non si volatilizzassero,  o precederli tutti, ammonendo la prole perchè stesse ferma e non si infilasse nel bagno del treno. Una volta sulla banchina trovavi i facchini, soppiantati da comodi carrelli portabagagli e dalle più agevoli valigie con le rotelle. Peccato che a Genova non ci  siano i carrelli, perché rotolerebbero molto bene nelle scalinate dei sottopassaggi e quindi si consiglia di soppesare armi e bagagli qualora si debba effettuare un cambio treno.

 Oggi molti vagoni  non sono più suddivisi in scompartimenti. Senza barriere interne i viaggiatori stanno  tutti insieme appassionatamente per guadagnarsi le indulgenze, mentre ascoltano pazientemente  almeno 35 telefonate della signora, seduta sette posti più avanti, che saluta gli amici e parenti appena lasciati e altrettanti amici e parenti ai quali preannuncia l’arrivo. Gli uomini non sono da meno: spesso parlano animatamente  di lavoro, a quattr’occhi o per cellulare. Tacciono solo  per montare e smontare il pc portatile, mobilitando il passeggero dirimpettaio che li guarda ammirato, finchè scopre che tutto l’ambaradan serve ad ingannare il tempo con un solitario. Ma volete mettere il fascino suscitato da un ultramoderno pc con quello di un antiquato mazzo di carte sparpagliato sul tavolino? Allora il viaggiatore, allietato sempre dalla logorroica signora, contempla il paesaggio fuori dal finestrino. Un’opera surreale resa evanescente da  vetri mai lavati che hanno reso inutili quei tendoni, pesanti per il tessuto o lo sporco annidato, che non facevano filtrare nemmeno un raggio di sole.

Oggi i treni offrono anche più servizi. Prima l’assetato viaggiatore doveva  attraversare più carrozze per arrivare al vagone ristorante e acquistare una bottiglietta d’acqua a meno che, durante una fermata del treno, non partecipasse all’ arrembaggio collettivo dell’unico venditore fermo sulla banchina, sbracciandosi e sporgendosi a mezzo busto fuori dal finestrino. Da anni sui treni gira il trespolo ambulante, il carrello- mini bar, che fino a qualche tempo fa avanzava squillante nei corridoi. Pareva arrivasse un monatto. Ora è preceduto da silenziosi  megatrolley che  scivolano da soli nel corridoio, facendo strike di tutti i malcapitati che incontrano a portata di rotelle, e da un’orda  di passeggeri che improvvisamente invadono lo scompartimento, dove prontamente si eseguono le  grandi manovre di gambe accavallate, che si disaccavallano per fare più spazio, in una  salutare ginnastica di arti anchilosati .

 A lungo andare il viaggiatore diventa un equilibrista, abile a non ustionarsi col bicchierino di caffè bollente, sia quando ritira gli spiccioli del resto che quando apre la  bustina dello zucchero  e del cucchiaino. Inoltre si tempra stoicamente grazie a  benefiche escursioni termiche, simili a quelle di una  sauna finlandese seguita da un’immersione nell’acqua gelida, e impara ad adattarsi a temperature da disidratazione e a quelle da eskimo.  D’estate sboccia come in una serra, si trasforma in una rosa spampinata a causa del sistema di aria condizionata, spesso non funzionante, e dei finestrini bloccati. Quando intravede un posto libero, nei pressi dell’unico finestrino aperto, in preda all’istinto di sopravvivenza si precipita  per occuparlo e mettere il viso in direzione della folata di ossigeno. Poi s’ingegna contro l’effetto serra, disdegnando l’alternativa di tornare  a casa o a piedi o a nuoto. Prova  ad aprire la porta di comunicazione tra due vagoni e -mamma bella, non è un’impressione- di solito non ci riesce. Un passeggero corre invano in suo aiuto, quindi  sopraggiunge pure qualcun altro. E così dopo l’immane sforzo di aitanti bicipiti   -Apriti sesamo! – la porta scorre. Mentre i cavalier serventi proseguono  nel serpentone ferrato in cerca di un posto a sedere più aerato, con nonchalance il viaggiatore resta  in piedi nel passaggio tra le vetture per godersi la  bella corrente d’aria e ballare la tarantella per mezz’ora, riuscendo così  a rinfrescarsi.

 Uno dei vantaggi principali dei viaggi in treno è il rafforzamento del sistema immunitario. Decenni fa si credeva che ai bambini facesse bene respirare la puzza del letame nelle stalle. Adesso basta aprire una porta delle toilette per farsi tanti, tanti anticorpi. Non appena una vocina squillante urla Pipììììììì la giovin signora, col pupetto al collo, s’affretta a raggiungere  un bagno libero o  aperto. Se è fortunata, lo troverà  dall’altra parte del vagone, altrimenti proseguirà nella sua corsa, mentre  tutti  cedono  il passo, timorosi di dover assistere a qualche altra forma di evacuazione immediata.

 Altra meraviglia dei treni italiani riguarda l’illuminazione. Una volta pareva che negli scompartimenti ci fossero i fuochi fatui per cui  l’appassionato di lettura  come minimo perdeva un paio di diottrie in 800 km di percorrenza. Adesso i treni sono ben illuminati: a giorno di notte, per guardarsi bene da eventuali malintenzionati notturni,  e  a notte di giorno, perché magari l’impianto di illuminazione viene attivato solo dopo avere lasciato al buio  a lungo i passeggeri ( nelle tante gallerie del Ponente ligure, per esempio).

 Oggi poi il viaggiatore non rischia più  di appisolarsi e di scendere alla stazione sbagliata. Sui treni ad alta velocità una gentile signorina o un tenebroso speaker preannuncia  le fermate, prima in italiano poi in inglese, strepita invitando a non parlare ad alta voce e ad abbassare la soneria dei cellulari, fa buona compagnia con frequenti e rinnovati auguri di buon viaggio. Il rassegnato passeggero impara presto a memoria   la litania e mentalmente la completa con un “baci, abbracci e salutam  a’ soreta”, agognando un po’ di silenzio. Persa la concentrazione per decodificare sommariamente ciò che tenta di leggere, può sempre giocare  a inseguire le nuvole che intravede dal finestrino, intrattenersi in piacevoli conversazioni coi compagni di viaggio, estraniarsi  con la musica diffusa dall’ i-pod del vicino che perfora anche i timpani altrui.

Quando la gente è sfollata, esausto e annoiato inizia a rilassarsi . Ma è ora  di scendere. Prepara il bagaglio con sufficiente anticipo per non rischiare di incappare nella porta non funzionante del vagone e si prepara diligentemente allo sbarco.

Sulla banchina scorge una faccia sorridente che lo accoglierà  con un immancabile “Hai fatto buon viaggio?” al quale risponderà laconicamente “Sì, grazie”e un abbraccio finale compenserà  ogni disagio.

 

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La valigia

‘A fatica

È una necessità , un’ambizione, una passione, una vocazione, una missione, una fortuna . A volte frustrazione e rinuncia. Una sfida. Indipendenza e dipendenza, flessibilità, mobilità, sedentarietà, movimento, lontananza. Crescita, progresso, relazione, interesse, confronto, competizione, creatività, ingegno, manualità, talento, concentrazione, soddisfazione o scontento, ripetitività, alienazione, allenamento e resistenza. Operosità. Responsabilità.

Assorbe, sfibra, motiva, gratifica, stanca, logora, stressa, arricchisce, sfrutta, condiziona, orienta. Tempra. Mette in gioco… a volte in discussione. Costruisce un progetto di vita più ampio, dà dignità e identità sociale, nobilita, talvolta abbrutisce.

 Qualunque esso sia, è il lavoro: investimento di tempo, energie, risorse, capacità, competenze, potenzialità, impegno, costanza, fatica. Diritto della persona e dovere sociale.

Morire sul lavoro è cadere con onore sul fronte di una quotidianità che appartiene a tutti.La morte bianca assolve nel martirio ma ci condanna a un intimo dolore.

 Oggi aggiungo che  i suicidi dei nuovi martiri del lavoro  ci marchiano a fuoco  con un bruciante  senso di colpa di fronte a tanta impotenza e negazione di questo basilare diritto-dovere. Sono tempi difficili in cui c’è ben poco da festeggiare; è tempo di aiutare concretamente i disoccupati e coloro che vivono il lavoro in condizioni di precarietà e di sfruttamento. È tempo  di dare  risposte sociali più concrete, di garantire ‘a fatica. 

La cipolla – Wisława Szymborska

La cipolla è un’altra cosa.

 Interiora non ne ha.

 Completamente cipolla

 fino alla cipollità.

 Cipolluta di fuori,

 cipollosa fino al cuore,

 Potrebbe guardarsi dentro

 senza provare timore.

 

In noi ignoto e selve

 di pelle appena coperti,

 interni d’inferno,

 violenta anatomia,

 ma nella cipolla – cipolla,

 non viscere ritorti.

 Lei piú e piú volte nuda

 fin nel fondo e cosí via.

 

 Coerente è la cipolla,

 riuscita è la cipolla.

 Nell’una ecco sta l’altra,

 nella maggiore la minore,

 nella seguente la successiva,

 cioè la terza e la quarta.

 Una centripeta fuga.

 Un’eco in coro composta.

 

La cipolla, d’accordo:

 il piú bel ventre del mondo.

 A propria lode di aureole

 da sé si avvolge in tondo.

 In noi – grasso, nervi, vene,

 muchi e secrezione.

 E a noi resta negata

 l’idiozia della perfezione.

 

Wisława Szymborska

Pasta aumm aumm

  Non è la ricetta tradizionale delle penne aumm aumm con melanzane e mozzarella. Il nome è stato adottato dalla mammà del consorte, cuoca provetta. Aumm aumm in napoletano significa di nascosto. Un piatto non proprio nascosto visto che occorre mobilitare una pentola con  tre-quattro padelle ed impegnare tutti i fornelli del piano di cottura. Io lo associo a quel verso che si fa per dire “uhm che buono!” oppure all’ aaaaaùùmmm emesso dalla mammina esausta nel tentativo di fare spalancare la bocca al bebè inappetente. In tal caso dubito molto che un bebè  possa gradire la pasta  con peperoni e melanzane.

 In termini di tempi di  preparazione la ricetta  è di media velocità, ma si consideri che vale come piatto unico e quindi si risparmia il tempo necessario per preparare un secondo. A riguardo dei tempi  di strafogamento e digeribilità…  beh tutto dipende dalla voracità del commensale e dal suo metabolismo. 

Ingredienti per 4 persone:

  400 g di mezzi fusilli (in alternativa cavatappi o  reginette)

 1-2  melanzane

 1 peperone

 una dozzina di pomodorini

aglio e  basilico
 una cipolla

 400g circa di salsiccia

 olio di oliva

Lavare e asciugare gli ortaggi. Mettere a bollire l’acqua per la pasta.
Friggere separatamente  le melanzane tagliate in piccoli pezzi e i peperoni tagliati a listarelle sottili. In un’altra padella versare i  pomodorini spezzettati, un po’ di aglio tritato, basilico e le melanzane fritte. Lasciare insaporire per qualche minuto fino a quando il sughetto di pomodori si sia tirato.Cuocere la pasta. 

In un tegame largo imbiondire una cipolla, tagliata finemente, in  un filo di olio di oliva. Aggiungere e cuocere la salsiccia sbudellata e frantumata in piccoli pezzi. Aggiungere poi  i peperoni e la salsiccia nel sugo di melanzane. Lasciar cuocere insieme per pochi minuti perché si amalgamino i sapori. Volendo si può aggiungere un peperoncino piccante. Condire la pasta  col sugo aum aum.

 Buon appetito!

 

La Resistenza a Roma e l’eccidio del Ponte dell’Industria

Un memorabile 25 aprile a Roma. Un grande corteo è poi partito dall’ Arco di Costantino  per confluire a Porta San Paolo. Tanti giovani e meno giovani  per festeggiare  e ricordare la Resistenza italiana che esordì proprio  a Roma, quando il 10 settembre 1943 militari e civili italiani si opposero all’ occupazione tedesca della capitale, iniziata dopo l’annuncio dell’armistizio dell’8 settembre e della ritirata del re Vittorio Emanuele III e di Badoglio che il 9 settembre avevano abbandonato gli italiani e lasciato l’esercito  allo sbando.

Sin dalla notte dell’8 settembre avvennero combattimenti alla periferia della città ma  i militari italiani furono costretti a ritirarsi. La mattina del 10 una parte di questi confluì a Porta San Paolo dove si erano radunati  i civili giunti spontaneamente od organizzati dai partiti antifascisti. Qui iniziò la battaglia contro le truppe tedesche, numericamente molto più forti, e s’innalzarono barricate rovesciando le vetture dei tram. 

Qui morirono circa 400 civili, tra cui 43 donne, e anche carabinieri e militari italiani. Tra questi l’operaio diciottenne Maurizio Cecati ,colpito a morte mentre incitava i suoi compagni alla lotta; il fruttivendolo Ricciotti, accorso dai mercati generali; il professore di  storia dell’arte del liceo classico “Visconti”, Raffaele Persichetti,  prima medaglia d’oro della Resistenza. Uomini, donne e ragazzi  combatterono  con i superstiti dei “Granatieri di Sardegna”, i Lancieri del battaglione “Genova Cavalleria” e alcuni reparti della divisione “Sassari”. Il generale Giacomo Carboni, comandante del Corpo d’armata motocorazzato, mandò i carabinieri a staccare i manifesti disfattisti, che annunciavano trattative con i tedeschi, e diffuse  la notizia dello sbarco degli alleati ad Ostia e dell’arrivo delle divisioni “Ariete “ e “Piave” a Roma. La gente accorse e seguì i rappresentanti dei partiti antifascisti, tra i quali combatterono Luigi Longo, Ugo La Malfa, Sandro Pertini e Bruno Buozzi. I mezzi corazzati tedeschi  segnarono poi la fine della drammatica ed eroica battaglia della Porta San Paolo. A Porta San Paolo, presso la piramide Cestia, nel  quartiere Ostiense è nata la Resistenza italiana.

Tornando a casa a piedi ho attraversato  il Ponte dell’Industria che ricorda altre tristi vicende della nostra storia.

Il 26 marzo 1944 il generale Kurt Maeltzer, comandante  della città di Roma , emise  un’ordinanza con la quale si riduceva da 150 a soli 100 grammi la razione quotidiana di pane per i civili. Così in alcuni quartieri, quali Ostiense, Portuense e Garbatella,  le donne protestarono davanti ai forni, soprattutto quelli che si credeva producessero pane bianco per le truppe di occupazione.

La gente affamata iniziò a ribellarsi: il 1° aprile fu assalito il forno Tosti, nel quartiere Appio, il 6 aprile invece fu bloccato e depredato a Borgo Pio un camion che doveva consegnare il pane alla caserma della Guardia Nazionale Repubblicana.  Il 7 aprile 1944, un venerdì di Pasqua,  sul Ponte  dell’Industria, detto anche “Ponte di ferro” nel quartiere Ostiense, truppe nazifasciste bloccarono dieci donne ,sorprese con pane e farina, e per rappresaglia contro gli assalti ai forni le fucilarono. Le vittime erano Clorinda Falsetti, Italia Ferracci, Esperia Pellegrini, Elvira Ferrante, Eulalia Fiorentino, Elettra Maria Giardini, Concetta Piazza, Assunta Maria Izzi, Arialda Pistolesi, Silvia Loggreolo.  Secondo alcune testimonianze, una delle dieci donne sarebbe stata condotta sotto il ponte e stuprata dai soldati tedeschi e da repubblichini fascisti, prima di essere assassinata con un colpo di pistola alla testa. Oggi una lapide, all’estremità del ponte, ricorda  il triste eccidio del Ponte dell’Industria .

Il 3 maggio 1944 Caterina Martinelli ,come altre donne esasperate dalla fame dopo un inverno di stenti, partecipò all’assalto di un forno nella borgata Tiburtino III. Mentre tornava a casa dai suoi sei figli, con una neonata in braccio e una pagnotta stretta al petto, fu assassinata in strada dai militari della PAI (Polizia Africa Italiana)con una raffica di mitra. La donna cadde sulla figlia, che si salvò ma ebbe la spina dorsale lesionata. Per attenuare il furor di popolo contro i restrittivi provvedimenti e le repressioni, le autorità nazifasciste decisero quindi alcune distribuzioni straordinarie di generi alimentari di prima necessità. Anche Radio Londra elogiò l’operato delle donne romane.

 È doveroso ricordare coloro che hanno reso possibile la liberazione dell’Italia e la nascita della Repubblica democratica.
W il 25 aprile!