A spasso tra Befane e Befani

 

Gaspare , Melchiorre e Baldassarre, noti come i tre  Re Magi,  amanti dei segreti del cielo e desiderosi della verità, non disponendo di  un  navigatore satellitare ma solo di una cometa da seguire, lungo il loro cammino verso Betlemme chiesero informazioni a una vecchia. Costei non volle accompagnarli, ( già all’ epoca c’era il detto mai fidarsi degli sconosciuti anche se dal portamento regale) e rimase a  casa. Poi ci pensò  e si pentì; preparò quindi un cesto pieno  di dolci e uscì a cercarli. Man mano lungo la strada distribuì dolci ai bambini che incontrava nella speranza  che uno di essi fosse Gesù.

La leggenda narra che da allora vagherebbe per il mondo  facendo regali ai bambini per farsi perdonare.La Befana è vecchia e brutta come l’anno trascorso, ormai vetusto,buono per esser bruciato e cedere  il passo a quello nuovo che sta nascendo. Infatti in molti paesi all’ inizio dell’anno c’è l’usanza di bruciare un fantoccio, coperto di  vestiti logori. Invece la consuetudine dei doni è un  buon auspicio per l’anno nuovo.

Di recente in occasione dell’Epifania  c’è un pullulare mediatico di frasi augurali per tutte le donne,associate indistintamente alla Befana  a prescindere dall’età e dall’aspetto. Forse è un po’ un augurio scaramantico perché la parte  più brutta, consueta e vecchia  della personalità femminile lasci spazio  a quella più innovativa , generosa e bella?

La fantasia del popolo romano ha attribuito alla Befana anche un marito, con cui viveva “molto, ma molto lontano”, descritto come uno spauracchio terribile, ricordato all’ occorrenza dalle mamme .Il Befano, bruttissimo , gobbo e arcigno era una specie di orco che divorava i bambini  monelli.

Stasera a Super Quark trasmetteranno  un documentario  speciale sulla Befana, sul suo  modo di volare, di riprodursi, di nutrirsi ecc… Ma  io mi chiedo: cosa  avete raccontato a Piero Angela della vostra vita?

Buona Befana! :)

 

I folarielli

La tradizione napoletana vuole che a conclusione delle cene di Vigilia e dei pranzi di Natale e Capodanno il palato stramazzi sazio, ma  estasiato da un vario  assortimento di dolci  e sciosciole (frutta   secca ).Le più comuni noci di Sorrento, nucelle (nocciole), arachidi infornate, castagne r’u prevete (del prete) volteggiano sulle tavole con  altre prelibatezze, particolarmente gustose e ipercaloriche,cioè  datteri, fichi secchi e prugne ricoperti di  cioccolato o ripieni di noci, nocciole  o mandorle.

 Un cenno particolare meritano i cosiddetti “folarielli” o follovielli, involtini di uva passa o fichi secchi e frutta candita, che sono un prodotto tipico di Sorrento consumato soprattutto durante le feste di Natale.

 Pare che fossero noti già agli antichi romani che utilizzavano perlopiù foglie di fico, vite e platano, attualmente sostituite da quelle di limone, cedro e arancio, legate poi con fili di rafia.

 Il nome può derivare  da “folium volvere” (avvolgere la foglia) oppure da follare (pigiare ) o ancora, secondo un etimo popolare meno dotto e più incerto, da folliculus (sacchetto o guscio).

La lavorazione dell’uva è più lunga e complessa  dell’essiccazione dei fichi perchè l’uva viene  prima lavata nel vino bianco, poi essiccata, bollita  nel mosto, infine  infornata e aromatizzata con pezzetti di frutta candita, di solito arancia.

 Eccoli qui…attenzione che si ingrassa solo a guardarli   :)

L’Enigma svelato sulla facciata del Gesù Nuovo di Napoli

Una scoperta musicale, risalente ormai a circa due anni fa,  mi è venuta in mente passeggiando nel centro storico di Napoli. Sul bugnato della facciata del Gesù Nuovo sono incisi strani segni, di circa dieci centimetri, che fino a qualche tempo fa si credeva  fossero i simboli delle diverse cave, da cui provenivano le pietre  utilizzate per le bugne a forma di diamante, oppure, secondo un’altra interpretazione, si pensava che rivelassero segreti alchemici, capaci di caricare la pietra di energie positive dall’esterno verso l’interno dell’edificio. 

 

In verità questo attirò energie negative, forse perché gli operai non posero correttamente le pietre. Ultimato nel 1470 da Novello da San Lucano come civile abitazione per i potenti Sanseverino, l’edificio subì una serie di sciagure: fu confiscato da Pedro di Toledo nel 1547, perché i Sanseverino appoggiarono la rivolta popolare contro l’Inquisizione, fu poi donato ai gesuiti che lo trasformarono da palazzo in chiesa. Anche la chiesa, però,  non ebbe buona sorte: prima fu incendiata, poi più volte crollò la cupola e infine ne furono cacciati i gesuiti. Solo durante la seconda guerra mondiale, fortuna volle che una bomba, caduta sul soffitto di una navata, non esplodesse.

Sta di fatto che più di recente  lo storico dell’arte rinascimentale napoletana, Vincenzo De Pasquale, e  i  musicologi ungheresi Csar Dors e Lorànt Réz hanno capito che quei segni erano lettere dell’alfabeto aramaico, corrispondenti a note musicali. In pratica il bugnato è un pentagramma sul quale è scritta una melodia musicale per strumenti a plettro, che si legge da destra a sinistra e dal basso verso l’alto, dura circa tre quarti d’ora (qui per ascoltarla). Gli studiosi hanno deciso di intitolarla “Enigma”.

Lo storico De Pasquale ha spiegato che  i Sanseverino già fecero incidere note musicali nel loro palazzo a Lauro di Nola e che queste note in aramaico furono dimenticate forse per effetto della Controriforma che dettò rigide norme per l’arte, cancellando tutto ciò che di terreno potesse contrastare con le verità trascendenti del cattolicesimo. I gesuiti s’adoprarono  in tal senso ma, ironia della sorte, il padre gesuita Csar Dors, esperto di aramaico, ha contribuito a scoprire il segreto musicale della facciata del Gesù Nuovo.

 Un altro mistero svelato in una città d’arte dalla storia infinita. 

I microcosmi in terracotta di Marcello Aversa

Tra i tanti grandi artisti del presepe di oggi merita un’attenzione particolare il maestro Marcello Aversa di Sant’Agnello, paese della costiera sorrentina, che ha saputo trasformare l’artigianato in arte ed esportare l’antica tradizione presepiale e i suoi microcosmi in terracotta, conquistando meritatamente una fama internazionale. 

“Microcosmi in terracotta” era il titolo di una mostra delle opere di Marcello Aversa del 2007.  Da adolescente iniziò a lavorare  nell’azienda paterna, piccolo opificio che produce laterizi a Maiano (Sant’Agnello) negli anni ’80  si appassionò al  presepe napoletano del ‘700  e  curò  le prime scenografie nelle chiese della penisola sorrentina. Ben presto maturò una straordinaria abilità tecnica e sensibilità artistica riuscendo a  creare capolavori di terracotta in miniatura. Infatti Aversa modella, con  una stecca e uno spillo, piccoli personaggi, alti da  8 mm ad un massimo di 10 cm, e li  inserisce  in una scenografia, in un microcosmo di argilla che, infornato a 920 ° , si trasforma in un’opera d’arte. Con passione e dedizione ricerca la perfezione nella minuziosa  attenzione per i più piccoli particolari delle tegole delle case, delle foglie e degli animali, delle espressioni dei volti e dei risvolti di un vestito, senza trascurare l’armonia dell’insieme.

Ai presepi si affiancano scene di vita napoletana  che prendono vita in gruppi di  musici e danzatori oppure nelle rappresentazioni, sempre in terracotta, delle processioni della settimana santa tipiche della tradizione sorrentina.

 

“Maestri in mostra”: quando l’artigianato diventa arte

La terza edizione di “Maestri in mostra – il presepe napoletano a Villa Fiorentino, Sorrento”  anche quest’anno offre  una varia e splendida panoramica sull’arte presepiale.

Oltre cinquanta artisti e  maestri del presepe espongono  opere che, nel rispetto dei canoni del ‘700 e dell’800, rivelano perfezionismo tecnico, cura dei particolari, creatività e armonia d’insieme sia in gruppi presepiali o blocchi monoscenici,  sia in soggetti avulsi da un contesto presepiale e  modellati singolarmente come opera d’arte a se stante. 

  

Durante  la dominazione spagnola a Napoli  si affermò una scuola di presepistica che iniziò a definire le regole per costruire il pastore napoletano. Il corpo, alto circa  trentacinque centimetri , era di stoppa con un’anima di filo di ferro, le mani e i piedi di legno, gli occhi di vetro, la  testa e il collo di terracotta.
Ancor oggi le teste, l’una diversa dall’ altra, sono prima modellate a mano, poi  cotte secondo un particolare procedimento. La  tecnica di pittura della testa e degli arti  è lunga e complessa per poter rendere delicatamente sfumati l’incarnato e le mani della  Vergine, degli angeli e  delle nobildonne , secchi e bruni i visi e le mani  dei popolani. 

Grande cura si dà alla vestitura dei soggetti. Dopo un’attenta ricerca storica, il manichino viene ricoperto con i  costumi dell’epoca  e dei vari luoghi . Semplici e grezzi  sono i vestiti dei mendicanti e dei contadini, raffinati ed eleganti quelli di re e dei ricchi, impreziositi da ricami, rifiniture, bordini e merletti, sete e pregiate stoffe anticate. Stessa ricercata attenzione  per le calzature e gli accessori ( i gioielli, pugnali, bastoni, bisacce, grembiuli).

La caratterizzazione di alcuni personaggi, espressivi negli sguardi o nei gesti,  incuriosisce  e sorprende per ragioni diverse.

 

Le varie tipologie di minuterie, cioè piccoli oggetti in miniatura che arricchiscono cortei,  interni, botteghe (utensili di uso comune, frutta e ortaggi, pesci , strumenti musicali, fischi, ceramiche) testimoniano una cura minuziosa e attenzione per ogni minimo particolare, dettate da un’autentica passione.

 

Alcuni presepi sono miniature in scale  ridottissime, che sorprendono non poco .Tra questi le straordinarie opere di Vincenzo Garofalo che, con corallo,minerali, ametiste,quarzo,citrino,barite e  fossili marini,creano invece un’atmosfera quasi fiabesca.

 

Il gruppo dei presepisti di Sant’ Agnello,  per la prima volta, al di fuori dalla Chiesa parrocchiale  dei santi Prisco e Agnello, ha esposto un presepe di grandi dimensioni che ha la caratteristica di riprodurre fedelmente scorci di luoghi caratteristici della penisola sorrentina . In primo piano spiccano le  tre scene basilari del presepe, cioè la natività, l’annuncio e la taverna , mentre sullo sfondo si intravede la costa  napoletana fino a Procida. Lo sguardo cade sul ponte a due arcate e sui  bastioni  con la porta occidentale , detta di Massa o di S. Bacolo o della Potenza riprodotti in base a una veduta di Achille Gigante ( 1823-1846) ,che si trova nel Museo di san Martino, e a un bozzetto di  Theodore Duclere (1815-1869).

 

Quest’anno la mostra si è arricchita dell’eccezionale esposizione dei pastori del Duomo di Castellammare di Stabia, che sono una delle più suggestive testimonianze dell’arte sacra in Campania tra il ‘700 e l’800. La caratteristica di questo presepe è l’insolita dimensione dei pastori, alti tra i 90 e 140 centimetri e gli abiti settecenteschi, finemente ricamati e cuciti a mano. Essi appartengono alla collezione del vescovo stabiano Francesco Saverio Petagna, risalente a  150 anni fa, poi deterioratasi, poi ritrovata e completamente  restaurata nel 2004. 

Sotto una galleria fotografica che comunque non basta a rendere merito ai tanti e tanti capolavori esposti.

La mostra è aperta al pubblico fino al 13 gennaio 2013.

Villa Fiorentino- Corso Italia, 53- Sorrento

Ingresso gratuito.

Un evento da non perdere!

 

Ode al primo giorno dell’anno

 

Lo distinguiamo dagli altri

come se fosse un cavallino

diverso da tutti i cavalli.

Gli adorniamo la fronte

con un nastro,

gli posiamo sul collo sonagli colorati,

e a mezzanotte

lo andiamo a ricevere

come se fosse

un esploratore che scende da una stella.

  

Come il pane assomiglia

al pane di ieri,

come un anello a tutti gli anelli: i giorni

sbattono le palpebre

chiari, tintinnanti, fuggiaschi,

e si appoggiano nella notte oscura.

  

Vedo l’ultimo

giorno

di questo

anno

in una ferrovia, verso le piogge

del distante arcipelago violetto,

e l’uomo

della macchina,

complicata come un orologio del cielo,

che china gli occhi

all’infinito

modello delle rotaie,

alle brillanti manovelle,

ai veloci vincoli del fuoco.

  

Oh conduttore di treni

sboccati

verso stazioni

nere della notte.

Questa fine dell’anno

senza donna e senza figli,

non è uguale a quello di ieri, a quello di domani?

 

 Dalle vie

e dai sentieri

il primo giorno, la prima aurora

di un anno che comincia,

ha lo stesso ossidato

colore di treno di ferro:

e salutano gli esseri della strada,

le vacche, i villaggi,

nel vapore dell’alba,

senza sapere che si tratta

della porta dell’anno,

di un giorno scosso da campane,

fiorito con piume e garofani.

  

La terra non lo sa: accoglierà questo giorno

dorato, grigio, celeste,

lo dispiegherà in colline

lo bagnerà con frecce

di trasparente pioggia

e poi lo avvolgerà

nell’ombra.

 

 Eppure

piccola porta della speranza,

nuovo giorno dell’anno,

sebbene tu sia uguale agli altri

come i pani

a ogni altro pane,

ci prepariamo a viverti in altro modo,

ci prepariamo a mangiare, a fiorire,

a sperare.

  

Ti metteremo

come una torta

nella nostra vita,

ti infiammeremo

come un candelabro,

ti berremo

come un liquido topazio.

 

 Giorno dell’anno nuovo,

giorno elettrico, fresco,

tutte le foglie escono verdi

dal tronco del tuo tempo.

 

 Incoronaci

con acqua,

con gelsomini aperti,

con tutti gli aromi spiegati,

sì,

benché tu sia solo un giorno,

un povero giorno umano,

la tua aureola palpita

su tanti cuori stanchi

e sei,

oh giorno nuovo,

oh nuvola da venire,

pane mai visto,

torre permanente!

  

(Pablo Neruda, Terzo libro delle odi, 1957)

Trad. Alessandra Mazzucco

Cari amici e lettori, tanti, tanti auguri di un sereno 2013!

Maria

Meglio aggiungere vita ai giorni che non giorni alla vita (Rita Levi Montalcini)

 

Rita Levi Montalcini, premio Nobel per la medicina nel 1986 e senatrice a vita dal 2001, è stata una delle donne che hanno fatto l’Italia. Nel ’36 si rifugiò in Belgio, anni dopo rientrò a Torino per proseguire la ricerca sulle cellule nervose, allestendo un laboratorio in camera da letto, finchè nel 1947 raggiunse gli Stati Uniti ove lavorò per venti anni.

Una donna straordinaria che ha attraversato e superato il ‘900 investendo tempo, energie e intelligenza principalmente nella  ricerca scientifica, anche dopo aver rinunciato a incarichi  per sopraggiunti limiti di età, e più di recente in campagne di interesse sociale e ambientale.

Con parole mai banali la Signora Levi Montalcini ha trasmesso la determinazione di chi ha  passione e forza  interiore, la saggezza e l’intelligenza dei grandi, la fede laica  ispirata al  bisogno di conoscenza che l’ha animata sempre e ovunque, anche nei periodi più cruciali della sua vita.

Una figura emblematica del nostro secolo, tra le più stimate e amate. Una donna che ha scelto di vivere disinteressandosi della propria persona, in nome della libertà di pensiero e di una continua ricerca  tendente a scoprire verità nei misteriosi meandri della mente umana.

“Posso dire che l’unico ideale per cui ho lavorato è stato quello di aiutare gli altri e forse per questo la ricerca mi ha dato molto di più di quanto potessi sperare”.

Grazie, splendida Signora!

 

La minestra maritata o pignato grasso.

La minestra maritata è un antico piatto napoletano che di solito si preparava  per il  pranzo di Natale e di Santo Stefano, ma anche di Capodanno e Pasqua. La ricetta ha subito variazioni nel tempo anche perché alcuni ingredienti sono limitatamente  reperibili o utilizzati .

Ecco cosa ho scoperto nel “Breviario della cucina napoletana” di Mario Stefanile,  un libretto che raccoglie curiosità e divagazioni letterarie  su alcuni piatti tipici di Napoli e dintorni. Già il nome è tutto un programma: un breviario, che mi ricorda brevi lezioni  sulle sacre tradizioni gastronomiche,  tramandate di generazione in generazione e distribuite, mese per mese, in occasione delle  festività e delle celebrazioni dei santi. Sì perché  a Napoli ogni occasione, sacra e profana, è buona per gustare un piatto o un dolce tipico.

 La minestra maritata “ è  stata per secoli la pietanza di gala della cucina napoletana, adesso è l’insegna di un Ordine gastronomico che tenta di rinverdirne la fama, almeno presso le generazioni più giovani, meno attente alle patrie glorie.

Venne a Napoli forse con la dominazione spagnola (una variante della “olla podrida” spagnolesca) e vi restò a trionfare almeno fino ai primi decenni del Novecento, in città e in campagna.

Fatta di cicoriette gentili, di verze, di cavoli cappucci e di altri ortaggi tipici della campagna napoletana; messa a cuocere in un brodo lento, ottenuto dalla carne da lesso, con cotenne di maiale e guance e orecchie e muso del medesimo animale e, come se non bastasse ancora, con salsicce di terza qualità, povere residue salsicce ottenute dalla lavorazione dei suini e perfino l’osso spolpatissimo di un prosciutto, tutto insieme in un grande e capace paiolo.

Eppure alla fine, fra tanti grassi un che di finissimo, di vellutato , di gentile, di decantato: e quelle verdure e quegli ortaggi e quelle carni varie tutte a fare non già, come pure si sospetterebbe, un intruglio immangiabile ma una pietanza di una sua classe robusta ma non grossolana, schietta ma non sguaiata, ricca senza tracotanza: una minestra davvero ben maritata che fu l’orgoglio delle vecchie massaie e che ancora oggi fa cimentare qualche nostalgica signora in una preparazione che richiede oltre tutto un gran mucchio di tempo, oltre che di pazienza, moneta fuori corso per le frettolose cuciniere di oggi.”

Mi reputo una frettolosa cuciniera , ggiovane così così, forse anche poco attenta alle patrie glorie, ma sicuramente non vecchia massaia , per cui non sono dedita alla preparazione di questo piatto, ma ho aiutato una zia, ben zavorrata alle antiche tradizioni, a prepararlo. Innanzitutto  lo consiglio quando si hanno tanti commensali, perché vi assicuro che alla fine si ottiene un pentolone di minestra maritata che può bastare fino a Pasqua.

 Ingredienti.

Le quantità sono a piacere. I pezzi di carne, perlopiù di maiale, sono a vostro gusto.

Io suggerisco 3 kg di verdure a foglie tra bietole, cicoria, un po’ di  verza, piccole scarole, broccoletti, torzelle ( se le trovate), un po’ di borragine o catalogna.

2 carote

2 patate

1 cipolla

1 costa di sedano

2-3 costine di maiale

uno zampino di maiale

un osso di prosciutto

un po’ di salsiccia

un pezzo di bollito o mezza gallina

sale q.b.

un peperoncino

un po’ di pecorino o parmigiano grattugiato

 Preparazione.

La minestra maritata si prepara con 6-7 tipi di verdure  a foglie (bietole, cicoria, verza, borragine o catalogna, scarulelle, torzelle o broccoletti.

Il giorno prima si prepara  un brodo con le carni elencate sopra, due carote, due patate  una cipolla e una costa di sedano. Si lascia bollire il tutto in un litro e mezzo di acqua a fuoco lento per circa due ore, si tolgono prima  la schiuma che si forma in superficie, e infine gli odori (carote, patate, cipolla e sedano), a cottura ultimata delle carni. Si sgrassa il brodo freddo, togliendo con un cucchiaio il grasso che si è addensato, si estraggono le carni che si mettono da  parte in un piatto, e si continua a filtrare il brodo.

In pentole diverse, perché è diverso il tempo di cottura, si dà un bollo a ogni verdura in acqua salata.

Si porta di nuovo a ebollizione il brodo con la carne, si regola di sale e, una volta scolate ben bene tutte le verdure, si calano nel brodo aggiungendo un peperoncino piccante.Si lascia cuocere per un quarto d’ora a  fuoco basso, per amalgamare i sapori, e si lascia riposare.

La minestra va servita  con un pezzetto di carne per ogni commensale e un po’ di parmigiano o pecorino grattugiato.

 A pensarci bene “Breviario della cucina napoletana” potrebbe anche indicare una raccolta di salmi e orazioni da recitare con devozione a Santa Pazienza, mentre si spignatta, per invocare  la buona riuscita della minestra maritata  :)

 

Al galoppo nella storia infinita del presepe napoletano.

Durante  la dominazione spagnola a Napoli  si affermò una scuola di presepistica che iniziò a definire le regole per costruire il pastore napoletano. Il corpo, alto circa  trentacinque centimetri , era di stoppa con un’anima di filo di ferro, le mani e i piedi di legno, gli occhi di vetro, la  testa e il collo di terracotta.

Nel ‘700 si verificò un processo di laicizzazione nell’ allestimento del  presepe napoletano che rappresentava realisticamente costumi,  personaggi, paesaggi e il gusto dell’epoca e quindi sconfinò sempre più dalle  chiese e dai salotti dei nobili nelle case dei borghesi e dei più umili .  

Re Carlo di Borbone fu un appassionato di presepi e, quando nel 1759 salì al trono di Spagna, portò con sé artigiani e artisti presepiali, promuovendo la diffusione del presepe in tutta Europa. Anche re Ferdinando di Borbone  incentivò l’arte presepiale  che diede un impulso al lavoro artigianale di sarti, falegnami, orefici, fabbri, stuccatori , ramai, ricamatori, armaioli .Grazie al grande scultore G. Sammartino il presepe napoletano conquistò il riconoscimento  di vera espressione artistica.

Nell’800  iniziò il declino del presepe napoletano .Con la fuga di re  Ferdinando a Palermo e poi con la fine della Repubblica  napoletana nel 1799, molti presepi privati furono smembrati in successioni ereditarie o in  vendite, o portati in Francia. Con il rientro dei Borbone  a  Napoli, dopo il periodo francese (1806-1815), riemerse la passione per il presepe e allestimenti importanti furono realizzati nella reggia di Portici e di Capodimonte. La crisi economica dal 1822 al 1840 e l’unità  d’Italia determinarono  cambiamenti sociali, politici ed economici così, per fare fronte a difficoltà economiche , i grandi allestimenti presepiali di nobili famiglie furono venduti a pezzi, parte di essi furono ricollocati su scogli di sughero (lo scoglio è la  base che ospita la Natività ) .Via via le collezioni private risultarono incomplete e ben presto si allestirono scogli monoscenici che rappresentavano solo il gruppo della Natività, della taverna, della fontana, di angoli di case e di strade. Il presepe dell’800 si caratterizzò per la fedele riproduzione di scene di vita quotidiana e allo stesso tempo di maggiore sacralità nell’uso di tinte forti nei gruppi della Natività e nell’adorazione di pastori con mani protese verso il Salvatore .Il presepe piacque alla borghesia che curò una scenografia popolare che rispecchiava la vita delle piazze, delle case, dei cortili e delle botteghe. Anche le statuine cambiarono: a differenza di  quelle del Settecento furono realizzate totalmente con la  terracotta, più facilmente riproducibili in serie e più piccole, fino ad un minimo di 4 cm, dette moschelle. Se in origine i piccoli pastori erano collocati in lontananza , nell’800 popolarono presepi in miniatura.

Nel ‘900 decadde l’arte presepiale:  in tempo di guerra gli antichi pastori spesso furono venduti per necessità o per disinteresse sia  da privati che da preti, finendo in collezioni private. Solo alla fine degli anni ’70 si ebbe una rinascita della cultura presepiale  grazie anche al recupero  delle tradizioni natalizie e degli antichi mestieri. Si riscoprirono i pastorari di San Gregorio Armeno che pian piano hanno suscitato interesse in giovani divenuti poi grandi artisti del presepe.

 

Tra i demoni di ieri e di oggi nel presepe… e non solo.

 

“Certo l’immaginario popolare napoletano è ricchissimo di aneddoti”, nota Roberto De Simone. “Si vuole che sulla Terra, nel periodo da Santa Lucia all’Epifania, oltre ai santi ci siano esseri demoniaci che si tengono lontani con l’incenso ed erbe pungenti.”

Il diavolo, simbolo del male e dell’imperfezione, apparteneva al presepe nello scenario di vita e morte, realtà e immaginazione, sacro e profano, religione e magia. Poi è scomparso insieme ad altre figure esoteriche e straordinarie cedendo il posto a derelitti, deformi e  mendicanti, riprodotti con estremo realismo nel  presepe del ‘600 . Il diavolo è il simbolo del malessere dell’anima, di una maligna forza sovrannaturale che svuota, ossessiona, acceca, immobilizza e soggioga  nel male e nel terrore.

 I demoni presenti in forma subdola nelle menti e nell’animo umano, hanno preso consistenza grazie alla maestria tecnica e alla creatività dei famosi Fratelli Scuotto che reinterpretano la tradizione in forme artistiche sempre nuove  e originali nella bottega “La Scarabattola” in via dei Tribunali, nel centro storico di Napoli.

 

Qui  pare quasi che le creature diaboliche si autocompiacciano  di essere ammirate nella loro mostruosità o ammaliante bellezza artistica, come per dire che bisogna temere ciò che è intangibile e invisibile e si insinua in forme più subdole.

Un girotondo di angeli dannati e beffardi ostenta sfacciatamente se stessa ed esula dalle figure stereotipate del presepe artigianale. Orride e fantastiche creature, a volte goffe, ambigue e  quasi ridicole, a volte sensuali, affascinanti e seducenti, spodestate dall’immaginario collettivo hanno preso forma grazie ai fratelli Scuotto. Non sembrano artefici di incubi, né di malefici, ma appaiono neutralizzate dalla loro visibilità rivelata, esorcizzate dall’ intrigante ed originale raffinatezza dell’opera d’arte.

 I demoni sono circondati  da un’umanità di sofferenti  ed esclusi,  ricreati in modo originale, vittime di pregiudizi, di imprudenza, di ingiustizie, di  paure come gli appestati, il femminiello, gli schiavi, i bambini rapiti da Maria a’ Manilonga, la suicida Mafalda, lo Zi Michele atterrito dal Lupo Mannaro. A loro si  contrappongono schiere di angeli, luminose  e dolci  Natività, e  sono arginati  dal capitone su meridiana, frazionato per  rompere la linearità del tempo con la speranza di arrestare gli eventi nefasti e rigenerare un tempo nuovo, più equo e giusto.

  

Eccone alcuni, esposti nella mostra “Tradizione in azione” del  2009.

Flagromor  è l’urlo di Satana, vive nel suo fiato e alimenta roghi blasfemi appiccati per riti pagani.

Bersyl  ha rughe incise dagli artigli del demonio per rubare la fiducia degli uomini in nome della saggezza.

 

 

 

Demorciso, plasmato da Lucifero nell’argilla, è l’immagine della vanità dell’uomo e si nasconde nei riflessi compiaciuti degli specchi. La sua esistenza è andata sparendo nell’inganno della bellezza effimera, che lo ha ridotto all’inconsistenza del suo stesso riflesso.

 

Gelfo 333, troppo curioso per scrutare nelle fiamme del male, ha scorso l’altra metà del tutto ove alberga il bene. Pertanto è stato punito da Satana che gli ha cavato un occhio.

Raptoreves: in inverno il demone bianco (nella prima foto del post) si allea con Satana per confondersi nel gelido freddo delle anime perse che hanno smarrito il calore della speranza.

A fine inverno gli subentra Lividus Gruneraptor (nella seconda foto del post), suo alter ego, che vive nelle ombre dei giorni estivi. Il demone nero segue le prede, fino al calar del sole, per trafugare i sogni dell’uomo fino a rubargli l’anima.

Questo percorso d’arte tra tradizione e contemporaneità, tracciato con genialità dai fratelli Scuotto, si riassume nella figura del Pulcibastiano,trafitto dai corni delle molteplici contraddizioni di una città dalle tante emergenze. Ha  un’espressione di sofferenza sul viso per le spine che si innestano sul suo tronco vitale. “Pulcinella è in scena come ortodossa maschera di napoletanità e anche come emblema di cambiamento.” (Salvatore Scuotto).

Esprime “Il cruento trapasso dallo stadio di superstizione a quello di super azione e martirio. Necessario dolore pagato al miracolo della rinascita urgente e inevitabile come la muta di un serpente che vuole crescere.” 

La sua visione, all’interno della sala,  mi fu  anticipata da un piccolo Pulcinella coricato sulla luna sul pozzo del cortile di San Lorenzo, uno dei  complessi conventuali più importanti del Medioevo napoletano. Abbracciato alla sua malinconia, sembrava avvilito, stanco, inerte. La luna si frapponeva alla demoniaca Maria ‘a Manilonga che dagli abissi continua nel nostro immaginario ad allungare gli artigli per rapire bambini imprudenti. La luna piena lo sostiene ancor oggi,  gli dona  un’aura quasi surreale, sospesa tra il passato, presente e futuro delle tradizioni e della cultura napoletana, che compensano una napoletanità a volte colpevole, ma il più delle volte bistrattata da altri mali. La luna indica trasformazione, crescita, rinnovamento ciclico e fa sperare che trasmetta energia a Pulcinella perché torni ad essere  burlone, scanzonato, vitale, malandrino senza dovere più vendere l’anima al diavolo del facile compromesso e dell’illecito.

Se il piccolo Pulcinella, di ieri e di oggi, crea l’attesa di una nuova risata e suscita qualche profonda emozione, significa che vive ancora in tanti. Come la voglia di rialzarsi e riscattarsi.