Skip vero

 

uHZvyzy

Nel 2002 decisi di adottare un cucciolo dopo avere vagliato l’aggravio di tempo ed energie che avrebbe richiesto e avere ripetuto a me stessa che il cane è cane, non  è un figlio anche se entra comunque a far parte della famiglia. Skip era un bastardino di media taglia, un incrocio tra uno  spinone e un barbone, oggi si dice un meticcio, io preferisco dire  “self – made dog”, come tempo fa mi spiegò un commentatore del blog,  perché il bastardino si fa da solo nella genìa e nella vita canina.

Insieme a una decina di compagni di sventura, fu sequestrato ad un tizio che li teneva chiusi al buio e in condizioni igienico- sanitarie non adatte. Durante una visita al canile avevo notato uno spinone marrone e dei cagnetti molto vispi che scorrazzavano in un recinto. Mi piacquero subito ma la signora del canile mi spiegò che si stavano abituando gradualmente sia alla luce che a rapportarsi con l’uomo, in quanto cresciuti in totale abbandono. Esclusi la possibilità di adottarne uno perché avevo due figli piccoli e non sarebbe stato prudente prendere un cane adulto, poco avvezzo all’uomo e per di più in casa. Già a volte era difficile dirimere i bisticci e addomesticare i figli, non osavo complicarmi la vita  con un cane un po’ selvatico. La signora aggiunse che tra tutti quei cani sequestrati c’era anche un cucciolo di dieci giorni che andai subito a vedere. La mamma era di taglia  piccola, col pelo biondo  un po’ mosso come le altre cagnette. In cuor mio decisi all’istante, ma mi riservai di dare una risposta insieme al consorte e ai figli perché potevamo scegliere anche tra altri cuccioli del  canile. Tutti fummo conquistati da quel batuffolo rosso.

 Una volta svezzato, dopo circa un mese, ci avrebbero avvisati per andare a prenderlo. La telefonata arrivò dopo solo due settimane. Ci scervellammo a lungo sul nome da dare al nuovo membro della tribù. Impresa non facile :  Idefix, Napoleone, Cesare, Zazù, Rox …finchè mi venne in mente il titolo del film Il mio cane Skip. Skip, suonava bene. Skip è un nome breve, squillante, facilmente recepibile, dà proprio l’idea del salto. Fu aggiudicato il nome Skip. Il giorno dopo a me e mio figlio si accodò  pure il nonno e un po’ emozionati andammo in processione al canile.  Il cucciolo non era più come lo ricordavamo. La signora mi porse  una palla di pelo rosso che a stento riuscivo a trattenere in braccio e subito iniziò  a scodinzolare, a leccare la mano, ad alzare la zampotta, che faceva presagire una taglia sicuramente non piccola. “Mater semper certa est, pater  numquam” dicevano gli antichi. Intuii che il padre doveva essere lo spinone, l’unico cagnone del gruppo.

 Giunti a casa, ci fu lo storico incontro con le due tigri che con Skip avevano in comune solo la provenienza: dal canile lui e dal gattile loro. I miei gatti non avevano mai visto un cane. Il cane non conosceva i gatti e fiducioso zompettò  verso le belve spodestate. La loro immediata reazione fu una solenne soffiata, inarcata di coda e balzo su un mobile sul quale rimasero appollaiati per circa una settimana, scendendo solo di notte o quando la cosa rossa movente non era nei paraggi. Skip era più piccolo dei gatti, ma di corporatura più  robusta e baldanzoso nei movimenti. Il famelico Tigro, pur di non rinunciare alla pappa, imparò presto a mantenerlo a distanza, soffiando e artigliando. Gri Gri invece ne era incuriosita, lo seguiva da lontano oppure l’ osservava dall’ alto, finché un giorno inavvertitamente si scontrò con il nuovo arrivato, che usciva  trotterellando dalla cucina. Il canetto, sorpreso, si fermò intimorito e si accucciò, come aveva ben presto imparato quando incrociava il signor  Gatto, Gri Gri invece, con mio sommo stupore, non scappò via ma si sedette guardinga di fronte a lui. Stettero fermi a guardarsi per qualche minuto, lui con le orecchie basse e lei con le orecchie ben alzate, finchè  la gatta con nonchalance se ne andò. Quella notte Gri Gri lo annusò mentre dormiva come sempre in una cesta, salì sulla cassapanca e lì si addormentò. Così fece in seguito: la gatta lo vegliava, forse aveva capito che era piccolo e innocuo e il suo istinto materno vinse la diffidenza .

Divennero ben presto compagni di gioco e di malefatte. Un’allegra associazione a delinquere. Lei si acquattava sulla sedia per allungare una  zampa sull’ignaro amico che passava e si guardava intorno senza capire. Ci fu un periodo in cui i miei figli subirono sgridate ingiuste per le carte di caramelle o cioccolatini che trovavo sul divano o sotto il tappeto. Un pomeriggio, mentre guardavo la tv, sentii un rumore sulla credenza. Gri Gri spingeva una caramella con la zampa giù verso il cucciolo che, scodinzolando, stava in trepida attesa, poi  prontamente la ingoiò e la gatta continuò. La volta successiva lui riuscì a scartarla e lei, come un pattinatore di hockey su ghiaccio, con l’involucro improvvisò uno slalom sul pavimento del salotto, finché lo portò trionfalmente in bocca sul divano. Quando osò tornare alla carica del porta bon bon fu paralizzata dal mio inatteso, urlato e  solenne “scendi giù” e si defilò di corsa. Occhio che non vede, cuore che non desidera: da quel giorno chiusi a chiave i dolci.

Skip

Skip è stato con noi per circa 15 anni,  come Tigro e Gri Gri, e tutta la tribù di bipedi e quadrupedi al completo ha condiviso in un rapporto quasi simbiotico viaggi, traslochi, gite, cure, operazioni, le varie fasi della vita, nostre e loro, con punti di partenza e traguardi, crescita e svolte.

In effetti ho continuato un po’ la tradizione di famiglia: mio nonno allevava cani da caccia ma,  quando gli anni e lo stato di salute lo costrinsero a stare in casa, preferì adottare cani meticci e abbandonati insegnando a me e ai miei cugini a familiarizzare con loro, a capirne l’indole e il linguaggio, che è universale a prescindere dalla provenienza e dal pedigree.

Ogni cane ha una sua storia che si tesse con la nostra: se Dusky è stato il cane della mia infanzia e adolescenza, ricevuto in regalo al mio decimo compleanno dopo anni di suppliche e solo dopo un mio deciso sciopero della fame, Skip è stato quello dell’infanzia, dell’adolescenza e parte della giovinezza dei miei figli. Con quel bastardino c’è stato  feeling dall’ inizio, un cane che doveva rimanere tale ed è diventato l’ombra silenziosa e presente che si accucciava ai miei piedi e compariva porgendo il muso per una carezza nei momenti in cui mi fermavo, ritrovandomi  un po’ nei suoi occhi, capaci di parlare come sanno fare gli occhi dei cani. Cane scemetto e furbo per golosità, forte  ma non dominante, coraggioso ma  mai feroce, fedele ma non succube, testardo a volte dispettoso, cane ridens come un cane dei fumetti, elegante e fiero come sanno esserlo i cani.

skipGrazie amico mio, animella da alter ego, resti tatuato dentro molto più di questo nickname, adottato come  segno  di riconoscenza per te perché  “I cani sono i maghi dell’universo. Basta la loro presenza per trasformare in persone sorridenti quelle arcigne, in persone meno tristi quelle che lo erano: sono generatori di rapporto. Il cane ama con tutto il cuore e perdona facilmente, può correre a lungo e lottare. Ode e vede in modo diverso dall’essere umano, con un forte udito può captare la selvaggia e misteriosa natura femminile, divenendone un tramite tra lei e il rimanente genere umano.” ( da “Donne che corrono con i lupi”-  Clarissa Pinkola Estés).

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17 febbraio 2015- Giornata Nazionale del Gatto

Non poteva mancare su questo blog un post per gli amici felini, che ricordo ogni anno in occasione della Giornata Nazionale del Gatto. Quest’anno vi presento i due piccoli di casa, che ci hanno regalato un po’ di spensieratezza in questi mesi  in cui ho accompagnato all’inevitabile traguardo mio padre.

 

Kiki 1

 In una piovosa sera di ottobre  mi portarono a casa un trovatello, Kiki 1°; bello bello bello e tanto affettuoso. Era  il mio  “lemurino  procionello” con  due  zaffiri  negli occhi splendenti, che però  è zompato troppo presto nel mondo verde azzurro dei gatti.

Kiki 1 procione

 

 

 

 

 

Per lui ho pianto così tanto che mio marito, forse per non sentirmi più, pensò bene di consolarmi regalandomi Kiki 2° che  ci ha subito distratti da altri pensieri con la sua vivacità, mostrandosi  giocherellone, selettivo  e coccolone.

Kiki 2 piccolo

 Kiki primo piano piccolo

 

 

 

 

 

 

.

Dopo qualche settimana gli ho cercato un fratellino adottivo perché sono dell’opinione che due gatti sono meglio di uno, sicuramente per loro che trovano un compagno di scorribande , per noi umani invece la coppia si rivela ben presto  una piccola associazione a delinquere. In un piovoso  sabato io e consorte siamo andati invano al canile in cerca di un gattino , più o meno della stessa età di Kiki. Dopo qualche giorno la responsabile mi ha telefonato dicendomi che le avevano portato una gatta e un micetto rosso da una colonia felina dell’entroterra. Le chiesi di tenermelo che sarei andata a prenderlo il giorno dopo. Non c’era nemmeno bisogno di vederlo, sentivo che era arrivato il mio Russulillogatto. Rosso come l’ avevo sempre desiderato, perché  di solito i gatti rossi sono un po’ speciali e anche simpaticamente  pestiferi. L’indomani , sotto una pioggia torrenziale che aveva allagato la strada per il canile e interrotto la viabilità, dopo un lungo giro tra pozzanghere , vigili e pompieri, io e consorte siamo sbarcati al canile e abbiamo adottato il “Russillo”, prontamente e ufficialmente  battezzato al cospetto del veterinario con il nome “ Russò”, che fa molto Jean Jacques, ma in effetti sta per RussulilloRussò piccolo (piccolo rosso in napoletanish). Arrivati a casa, Russò è saltato dalle mie braccia per andare incontro a Skip vero e gli ha fatto subito le fusa, cosa da non credere dato che invece a Kiki bastava intravedere il cane  da lontano per diventare più gonfio e irto di un pesce palla.

 

 Per due settimane le piccole belve in miniatura sono state separate, anche per timore di qualche malattia che colpisce i gattini,  finché è finalmente arrivato il fatidico giorno del primo incontro. Mi ero illusa che avrebbero subito familiarizzato e invece Kiki si trasformava ancora in una palla di pelo, mentre il piccolo rosso era sempre più  incuriosito e desideroso di andare incontro a quell’essereKiki principino alfa indemoniato e minacciosamente gnaolante. Se avevo temuto una difficile e lenta familiarizzazione con il cane, invece adesso dovevo preoccuparmi  della gelosia possessiva di Kiki, il principino Alfa. Fatto sta che soffia  e graffia oggi, soffia domani, dopo circa una settimana Kiki si è degnato di osservare Russulillo e sul morbido lettone di casa i due felini hanno iniziato a  conoscersi lottando.  La panterina siamese, un po’ più grande, mordeva il gattino rosso che da subito si è rivelato una lince, capace di difendersi tenacemente  cercando di mordere l’avversario sulle zampe posteriori fino a Russò piccola lincemiagolare esausto la resa. Dopo un paio di giorni di baruffe, sempre più giocose, Kiki è diventato pian piano protettivo con Russò:  oggi  gli miagola come una mamma gatta, lo cerca, lo coccola, gli cede il piatto e l’altro da buon Ruspallegro, di soprannome e di fatto, ne ha subito approfittato, diventando un prode e provocatorio combattente, anzi un  piccolo gatto guappo che avanza impettito nella sua fiera “minuscolità”,  ancheggiando  e muovendo la lunga e  pelosissima coda  di scoiattolo.

Kiki e Russò

Che dirvi se non che da quattro mesi  animano  questa casa con fusa ,corse, rincorse e  capitomboli  che fanno perdonare la semi distruzione dell’albero di Natale, i mattutini risvegli domenicali, i tentativi di  intrusioni nella lavastoviglie, nelle borse della spesa, in una qualsiasi cosa che abbia un minimo di capienza ( scarpe comprese),  l’invadenza studiata ad hoc per  impedire  a me e  consorte di leggere a letto, dopo avere preparato un morbido giaciglio zompettando  con nonchalance sul  nostro petto.

Kiki dormiente

Auguri a tutti i gatti, gattoni, gattini, amabili gattacci !

Kiki dormiente 1Russò al pc

Kiki primo piano

Russò 

Ciao, Tigro bello.

Tigrotigro bello

 

 Cortese maestà, nobile amica,

degnati di sedere accanto a me;

occhi ardenti nel lampo e nel sorriso,

occhi d’oro, fulgente paradiso,

dove leggo una pagina infinita.

Questo di pelo stupendo tesoro,

tra chiaro e scuro,

seta arruffata, morbida e lucente

come nubi e bagliori della sera

ripaga la carezza riverente

con gentilezza lusinghiera.

 

Algernon Swinburne

Tigro sornione

Sembra l’incarnazione di ogni cosa soffice, serica, priva di qualunque asperità nella sua struttura; un sognatore la cui filosofia di vita è dormi e lascia dormire.

 Saki

tigro 1

Di colpo, quasi come

se si svegliasse, si volta e fissa i suoi

occhi su di te, con stupore, ritrovi

di fronte a te il tuo stesso sguardo,

racchiuso nei suoi occhi tondi…

come un insetto estinto.

 

M.R. Rilke

 

Un affettuoso pensiero al mio maestoso, elegante e  peluscioso Signor Gatto di casa.

Grazie, Tigro bello. 

 

17 febbraio- Festa del Gatto

targa gatti

 

Il 17 febbraio è la festa  del Gatto, nata in Italia nel 1990. Quest’anno poche righe   per una delle mie piccole tigri,  che ci manca tanto. Giorgio Celli, che  ha avuto l’abilità di farci capire gli animali e le loro relazioni  con l’ambiente e  di  amalgamare   la poesia con  la scienza  della vita scrisse “Mentre il mondo dell’uomo è un mondo di razionalità e di emozioni, perché la nostra razionalità tende sempre a limitare le emozioni, nel caso degli animali il mondo è principalmente di emozioni, poi ci sono isole di razionalità”.

In questo senso Gri Gri ci ha insegnato tanto.

gri gri e fra

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Ciao Gri Gri

gri gri estate 2013

 

A febbraio dell’anno scorso scrivevo “Sono trascorsi circa quattordici anni, e i miei figli a quattro zampe ci hanno seguito nella nuova casa in città. Si sono adattati al nuovo ambiente anche se a volte scopro Gri Gri che, assorta, sbircia dietro la finestra. Forse rimpiange un po’ la terrazza dove amava sdraiarsi al sole.Sì, in fondo i gatti non differiscono troppo dagli umani.

gri gri giovane

Gri Gri ,  protagonista della nostra vita familiare e di alcuni dei  miei post preferiti sui gatti e sulle sue prodezze natalizie  nel  presepe, è  ancora qui nelle mie riflessioni che telepaticamente voleranno   verso il  mondo verde e azzurro dei gatti. È stata una gatta  speciale, furba , a volte  troppo intelligente per essere un gatto, al punto tale che credevo fosse uno spiritello indomito e protettore della casa.

Gri Gri, affettuosa con l’inseparabile Skip vero e il piccolo di casa, ormai ventenne, che vegliava durante il sonno stando accovacciata sul suo petto e guardandolo in viso . Mi accoglieva al rientro a casa miagolando, e mi precedeva in cucina di mattina, saltando sul marmo e fuseggiando .Se mi attardavo a scrivere al computer o a guardare la tv, si accoccolava in braccio e miagolando mi accompagnava in camera per acciambellarsi sul letto, pronta a riappropriarsi del suo  vero posto di guardiana del sonno ( letto del secondogenito)  non appena sentiva rientrare mio figlio. Gri Gri che, indispettita, al rientro dal week end ci guardava dall’alto del letto a ponte , tenendo le orecchie basse e l’aria offesa o, per dispetto e diffidenza nei confronti di estranei, rimaneva nascosta per qualche ora. La rivedo ancora quando  da cucciola si arrampicava  su fino al quarto piano di un palazzo vicino saltando sui  condizionatori d’aria. Tigro la seguiva , un po’ impacciato, e lei agilmente raggiungeva una signora anziana che li aspettava con i croccantini, per poi scendere giù in fretta e furia.

gri gri sul tetto

 

 Da giovane amava esplorare i tetti  e arrivava festosa con la coda incriccata portando come trofei una penna di piccione o un guscio d’uovo, poi ha preferito  stendersi al sole  sul tetto o stare seduta sul muretto della terrazza a godersi la fresca aria del mattino e  a contemplare le  prime ombre della sera, a volte mimetizzandosi tra i fiori. Quante volte di notte ha miagolato disperata, guidandomi in cucina, fino a quando non aprivo il balcone della terrazza per lasciare rientrare Tigro che, come al solito,  era rimasto chiuso fuori. Quante volte al mattino mi ha svegliata ,sfiorando i capelli, se tardavo ad alzarmi. Le piaceva  osservare dall’alto, di un pensile della cucina, di una libreria, di una tenda.  Non le sfuggiva mai nulla, anche di recente, anche quest’estate quando si stava arrendendo al brutto male che non l’ha resa molto diversa dagli umani.

 Qualcuno ha scritto che “per soddisfare un gatto, deve essere creata una nuova condizione di esistenza: a metà strada tra dentro e fuori”. Con lei  sono stata in empatia più che con  tutte le decine di gatti che hanno attraversato la mia vita, con nessun altro felino c’è stato  un rispetto reciproco di tempi e spazi, un’affettuosa complicità e  riconoscenza che si conclamava nel buongiorno del mattino e nel relax della sera. Quanta dignità hanno i gatti nella resa, si appartano in silenzio per non dare fastidio, anche se desiderano  protezione e rassicuranti carezze.  Se le è meritate  tutte, la mia cara Gri Grinella perché non è stata un  semplice gatto ma il mio Gatto, il Gatto della mia  famiglia, una costante e affettuosa presenza di questi ultimi quindici anni che ci ha accompagnati tutti in un periodo di crescita ,non solo nel passaggio dall’infanzia alla giovinezza dei miei figli, ma negli anni  di slancio, di cambiamenti, di un’età più matura. Qualche giorno fa  ho constatato che non ero ancora  emotivamente pronta a questo distacco, per quanto razionalmente l’avessi previsto otto mesi fa e me lo ripetessi spesso.

Gri Gri

 

Ciao, piccola Gri Gri, ti rivedrò ancora sulla terrazza di casa nostra , quella dove prendevi  il sole, perché gli spiritelli felini ricompaiono  sempre nei posti che hanno amato di più.

Grazie per esserci stata, per avermi concesso la tua amicizia e per le cose belle che hai regalato a tutti noi.

 

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Arriva Natale…

La signora Gioconda

Gioconda si chiamava così in onore della famosa opera del Ponchielli, tanto amata  da suo padre.  Sua madre era una donna molto bella ma forse anche un po’ agguerrita: ebbe infatti tre mariti. Rimasta vedova dei primi due, osò ripudiare il  terzo, che aveva preferito volar dietro ai commerci e alla bella vita, e diventò un’abile amministratrice. Gioconda era la figlia tanto attesa, nata dall’ ultimo matrimonio, ma ben presto divenne la  testimone dell’ennesima solitudine affettiva; ne pagò quindi le conseguenze con un’infanzia trascorsa sì nell’ agio, ma anche in solitudine e in un  ruolo troppo stretto, dettato dalla società dell’epoca. Era figlia del suo tempo anche nella sottomissione alla volontà materna e nella precoce saggezza,  frutto della rigida educazione che le fu impartita. L’intima sofferenza dell’anima spesso rende perspicaci: percepì sempre la colpa di esser figlia di un uomo, a lei descritto come ingrato, che le lasciò il nome e un vago ricordo.Il suo più grande atto di ribellione quindi consistette nel parlarne di rado.

 La sua giornata scorreva nell’ alternanza di un rosario, lettura di libri, che uno zio le prestava di nascosto, e sporadiche visite a parenti. Ogni tanto si interrompeva per soffermare lo sguardo davanti a sé, verso le colline cosparse di aranceti che si intravedevano dalla finestra, in cerca di nuovi orizzonti. Forse ripeteva mentalmente qualche verso o inseguiva qualche pensiero ed emozione dentro di sé. Probabilmente gli stessi che non sfuggivano a quella bambina, nata nel suo stesso giorno  ma circa sessant’anni più tardi, che riposava sul suo lettone e la osservava furtivamente, con discrezione. La piccola spostava poi lo sguardo verso i dolci profili del tondo della Sacra Famiglia, non a caso il quadro preferito di Gioconda.

 In età avanzata la signora non era bella, come dicevano fosse stata in gioventù, ma conservò  un sorriso dolcemente contagioso e una pronta ironia che la rendevano aggraziata ed interessante. Le stesse qualità che anni prima catturarono il cuore di un giovane, tanto ambito dalle ragazze del luogo. Lui aveva occhi azzurri, un sorriso sincero, un  portamento sicuro e un’aria distinta che non passavano inosservati. La notò e iniziò a scriverle dopo aver chiesto il permesso a sua madre. Tra i due iniziò una fitta corrispondenza con missive che  riassumevano gli impegni della giornata. Ogni lettera, sigillata da una promessa d’ amore e da una dichiarazione di fede nella Provvidenza, era accompagnata da una foglia di edera in quelle di lui e da una rosellina o un fiore di campo in quelle di lei. Lo scambio epistolare si svolgeva grazie al fidato mulattiere o qualche fornitore che avvicinava la tata di Gioconda. Le giornate trascorrevano nella trepida attesa di quelle lettere,  finchè furono annunciate le nozze. Un grande e atteso evento, cui parteciparono anche gli zii lontani, compreso quello che viveva a Londra.

 Così Gioconda finalmente potè uscire da sola e iniziò a sperimentare l’amore e la vita, anche quando lui partì per la seconda volta per  il fronte. Altre parole scritte custodivano un legame profondo che nessuna vicenda personale e storica poteva scalfire. Tra le due guerre ebbero sette figli ma sopravvissero solo le ultime quattro figlie. Durante la seconda guerra lui fu richiamato alle armi, ma per poco tempo perché, ammalatosi, fu mandato a casa dove  ben presto decise di occuparsi anche dei tanti nipoti, rimasti orfani di entrambi i genitori. Gioconda, all’insaputa del marito che era al fronte, vendette il corredo ricevuto in dote e i gioielli di famiglia che non indossava mai. Inoltre dovette cedere il suo appartamento al comando angloamericano, mentre aitanti giovanotti dormivano giù  nel deposito che, prima dello smantellamento, era riservato ai cani da caccia e agli attrezzi agricoli. Insieme alla cognata vigilava quando i soldati sbirciavano le ragazze più grandi, ostentando sorrisi maliziosi e smaglianti senza osare più di tanto. Le sue figlie erano ancora bambine e la più temeraria  un giorno osò dire “ no meat (to) dogs, meat to me” perché la fame si faceva sentire, più del freddo e della mancanza di abiti e scarpe. La spontanea “sfrontatezza” le procurò un piatto di polpette. Gli ufficiali  stimavano quelle donne energiche che in tempi difficili fronteggiarono in silenzio i lutti, le difficoltà e gli stenti della guerra, industriandosi  come potevano tra figli piccoli da accudire, faccende domestiche  e parenti sfollati dalla città colpita dai bombardamenti.

Nell’atrio del portone montagne di divise e cappotti smessi giacevano a testimoniare giovani vite spezzate. Un giorno anche quei ragazzi partirono, lasciando l’eco di parole straniere e di risa sonanti. A Montecassino la storia interruppe il corso della loro vita. La guerra finì. L’azienda di famiglia, già caduta in bassa fortuna durante il fascismo, naufragò  insieme ai velieri dediti al commercio marittimo oltreoceano.

 Gioconda aveva il suo da fare quotidiano e acquisì senso pratico e determinazione, più per necessità che per scelta.  Con il marito si impose perché tutti i nipoti e le figlie studiassero, e possibilmente in scuole  pubbliche. Egli non si oppose per gli studi classici, teologici, tecnici e magistrali ma ebbe qualche resistenza per il liceo artistico in città dove poi iscrisse una delle figlie. Del resto anche uno zio era pittore e i suoi  quadri di scene e cani da caccia ne erano testimonianza. Apparentemente distaccato, con quella figlia era in sintonia anche se  la rimproverava perché troppo esuberante ed estroversa, perché andava sempre in bicicletta e giocava a tamburello meglio dei ragazzi del paese, che facevano a gara per sfidarla nel gioco e conquistarla in amore. Quella figlia straordinaria, formatasi in città, in seguito con ironia e sobrietà dimostrò che la vera libertà  non necessita né di conferme affettive né dei consensi  di una società all’epoca limitante, se non quelli della propria coscienza; preferì non sposarsi e trasmettere ad alunni e nipoti l’amore per le arti, il bello, la natura, il nuoto, la vita nella sue varie sfaccettature. E Gioconda, se si rammaricava per le sue mancate nozze, in fondo si compiaceva dell’anticonformismo di quella figlia, con la quale visse in simbiosi fino alla fine.

 Sin da ragazza  amava la musica e il canto, che le permettevano di interpretare emozioni sul fluire delle note. Anche in età avanzata si concedeva il lusso di andare ai concerti serali di Ravello con la figlia e la bambina, che  trascorreva le vacanze estive a casa sua. Per l’occasione indossava uno scialle e il vestito buono, poco difforme da quello solito, sempre a piccoli pois o fiorellini azzurri su fondo nero o blu. La bambina contemplava davanti a sé le sfumature violacee che univano mare e cielo nel crepuscolo, poi congiungeva le stelle in disegni immaginari ispirati dalla musica . “ La musica si ascolta a occhi chiusi. Vibra dentro e trascina” e così si rannicchiava sotto il suo scialle. Rientravano a notte fonda con la 500 dalla capote abbassata. Talvolta cantavano, finchè la bimba si addormentava sul sedile posteriore, cullata dalle curve tortuose della costiera amalfitana. 

 Gioconda credeva. Chissà se per convinzione o  per bigottismo. Aveva comunque approfondito  la dottrina .Ogni settimana contattava un prete per le messe da celebrare nella  cappella, che divenne un punto di riferimento per tutto il vicinato, amici e parenti. La fede non le tolse mai il sorriso e la capacità di accettazione, anche quando dovette affrontare la lunga malattia del marito e lutti prematuri. Se la fede fu per lei un sostegno costante, invece la generosità divenne una regola di vita verso chi le chiedeva consiglio o si trovava in difficoltà e non osava chiedere. Divideva quel poco che aveva: un pacco di zucchero, pasta e caffè, a volte un piatto di frittelle di fiori di zucca, ortaggi appena raccolti nell’orto, accompagnati dall’immaginetta di qualche santo e Madonna, che di buon ora la bambina consegnava a persone sconosciute, percependo il significato di quel gesto da cordiali saluti e ringraziamenti o da sguardi tacitamente riconoscenti.

 La sua casa era il ritrovo di tanti… delle figlie, dei nipoti, pronipoti  e cognate/i partiti per le missioni, per mare e terre lontane in cerca di fortuna nel dopoguerra, per scelta o vocazione. Quella casa era sempre aperta a tutti e la  porta non era mai chiusa a chiave. La domenica mattina gli uomini si riunivano per discutere di politica con suo marito, costretto a letto; di pomeriggio i  bambini giocavano in cortile fino a sera inoltrata, quando qualche mamma non li chiamava dal balcone. Allora la grande sala da pranzo si animava  di donne, che improvvisavano la cena, e di uomini che rientravano dal lavoro. Intanto Gioconda ascoltava dai più piccoli il resoconto della giornata oppure organizzava con due figlie le attività di ricamo per la mostra di  beneficenza.

  La gente del paese andava periodicamente a farle visita . La bambina disponeva su un vassoio i bicchieri che poi portava camminando pian piano per timore di farli cadere. Offriva sciroppo di amarene, nocino, amaro di mirto o giulebbe di limone che aveva aiutato a preparare, selezionando i frutti migliori, filtrando e travasando più volte con garze sottili. Mentre giocava  con uno dei tanti gatti di casa, osservava gli occhi e i gesti degli ospiti. Ascoltava i loro aneddoti, racconti, i frammenti di saga familiare cercando di districarsi nella sua mente infantile tra gli intrecci genealogici, in cui spesso si smarriva, e di ricostruire logicamente  la storia dei fatti e degli affetti .

 In tarda età Gioconda usciva di rado ma a un rituale estivo non rinunciò mai. Ogni estate doveva fare sette, otto bagni  al mare. Quando la 500 gialla, con la capote sempre alzata, arrivava nel borgo marinaro, i vecchi pescatori uscivano dai munazeni e le andavano incontro per salutarla. Le ricordavano i figli, ormai uomini e perlopiù naviganti, e le presentavano le nuore e i nipoti.

La bambina rideva  quando assisteva ai preparativi per l’immersione in mare perchè Gioconda non indossava un normale  costume da bagno, ma una palandrana di cotone nero, lunga fino al ginocchio, abbottonata sul davanti e con le mezze maniche. Mutandoni neri, una sorta di bermuda, completavano l’abbigliamento da spiaggia. Come riuscisse a  galleggiare, era un mistero! Teneva il mento in alto e la testa diritta, cercando di non bagnare i capelli raccolti, e muoveva le mani in fuori per spostare leggermente l’acqua. Si beava  nel mare  limpido e fresco sotto i costoni rocciosi ed esortava la bambina a tenersi a distanza, forse perché temeva di bere o di affondare trascinata giù dalla pesante palandrana. La piccola  la precedeva, nuotava sott’acqua fingendo di cercare conchiglie e stelle marine sul fondale. In realtà era incuriosita da quella specie di elegante manta nera che avanzava lentamente .Un giorno un anziano pescatore volle portarle in barca a remi . La superba costa alta che si stagliava nel cielo terso, le acque cristalline e la nostalgia indussero Gioconda a  rivivere un passato ormai remoto nella rievocazione ironica di famiglie e personaggi, che con i loro soprannomi e aneddoti popolano la storia di ogni paese.

  L’estate trascorreva placidamente tra persiane socchiuse per mantenere un po’ di fresco nell’antica casa durante la siesta pomeridiana. La bambina giocava tra le ante a specchio dell’armadio: si divertiva a congiungerle quanto più poteva per vedere la propria immagine riflessa per decine di volte, all’infinito. Correva alla finestra non appena sentiva suonare il campanello, sperando di dover calare giù il cestino. Aveva imparato, dopo qualche disastro, a mollare pian piano la corda arrotolata e a tirarla su ancor più lentamente per non farla oscillare e rovesciare  la bottiglia di latte fresco che una vicina consegnava ogni sera. Altri passatempi consistevano nella preparazione di infusi di erba e petali di fiori nell’alcool per ottenere miscele colorate o nell’usare il macinino per tritare i chicchi di caffè. Appena poteva, sgattaiolava con il cane in giardino per andare su una bicicletta sgangherata e giocare con i cugini, contendendo poi l’amaca per riposarsi. Il divertimento più spassoso però era nell’orto: trascinava  a fatica la pompa lungo il viale e poi innaffiava tutto. Bagnata e sporca di terra, fiera rientrava in casa portando un cesto pieno di pomodori, basilico, prugne ammaccate e trovate in terra,  fiori freschi recisi maldestramente (…tanto i santi non avrebbero notato questo particolare). Gioconda non la sgridava ma l’ aiutava a ripulirsi. Se invece era esausta per una giornata trascorsa al mare, alle prodezze domestiche la bambina preferiva il riposo sul lettone e, dietro un giornalino,  spiava sottecchi . Lei stava seduta al tavolo tondo intarsiato mentre lavorava all’uncinetto; all’improvviso con tono teatrale improvvisava uno spiritoso dialogo con il  Signor Gatto di turno che partecipava miagolando, fuseggiando e spingendo la testa sotto la sua mano per farsi accarezzare. Entrambi alludevano  alla bambina e le facevano  capire che l’avevano scoperta. Nell’ultimo periodo interrompeva il lavoro, stava immobile e osservava in silenzio davanti a sè. Forse si smarriva in una preghiera, un ricordo o un presentimento…

La Signora Gioconda capiva più di quanto non desse a vedere, non si adirava mai e quando doveva dire qualcosa di importante o serio, affrontava con indiretta ironia l’argomento, ricorrendo a  metafore, aneddoti e domande. Con la sua presenza trasmetteva una serena fermezza e con la sua compostezza un  apparente distacco dalle umani passioni.

Pareva che vivesse in un mondo suo, dipinto dalla garbata gentilezza, da una taciuta  forza d’animo, dalla coerenza e fede ai principi, dalla discreta e  pudica ritrosia a esternare impulsivamente le emozioni più forti e i pensieri più profondi.Un mondo fermo ed immutabile nel tempo, in una casa senza orologi. Tempo scandito dai fiori di stagione e tralci di edera raccolti in giardino, dai racconti, dai quadri, dai mobili, dagli affetti.

Un mondo di radici mai strappate che mi appartiene, come il patrimonio interiore di  cose semplici e belle che mi ha donato nonna Gioconda.

 

La casa

Scrissi questo post il 10 aprile 2009, nel giorno del mio compleanno, per i terremotati dell’Aquila pensando  tanto a una casa, punto di riferimento della mia vita tra le tante che ho abitato, strattonata dal  terremoto del 1980.

Oggi ripubblico questo post per tutti coloro che hanno vissuto e vivono ancora  gli effetti devastanti dei terremoti e delle alluvioni perché non siano dimenticati e trovino la forza di ricostruire, in tanti sensi.

 “Mai come quest’anno la Passione è tangibile negli sguardi che rivelano sgomento, muto dolore, disorientamento, fragilità emotiva, sofferenza dell’anima. Difficile recuperare quando si resta colpiti negli affetti e nelle radici più profonde, quando si perdono i punti di riferimento della propria storia personale, del senso di appartenenza collettiva, sia sociale che culturale. Tutto sembra ruotare intorno a quei feretri di pietre che svelano spudoratamente mobili rotti, piccole cose a ricordo di chi ha vissuto tra quelle mura, ormai violate e annientate.

Se i muri delle case potessero parlare, narrare saghe familiari,vicende personali, le tante passioni che vi hanno dato vita con amori, nascite, cambiamenti, abbandoni. La casa raccoglie il tempo vissuto. Nelle sue fondamenta e nei  muri portanti affondano le nostre radici. La casa non ruba mai. Nasconde nel perpetuarsi di generazioni la ciclicità delle stagioni della vita. Non importa se sia grande o piccola, modesta o lussuosa. È la casa. La casa che offre rifugio e sicurezza. Un punto di partenza e di approdo, quasi un padre adottivo che vincola, orienta, accoglie comunque. Si affaccia sulle strade di vite diverse, scalda cuori, culla sogni, speranze e riposi.

 Quando crolla una casa si perde parte di sè, di quel tempo trascorso, costato fatica, fede, gioia, entusiasmo e conquiste. È un lutto di radici, perdita di un qualcosa che appartiene più di quanto si creda e di cui ci si accorge quando non si possiede più. Con essa si perde una certezza, un testimone silenzioso della propria interiorità perché non è   solo un recinto di quattro mura, ma uno specchio dell’anima e della propria quotidianità,  visibili a chi ci si proietta dentro. Le sue voci e rumori accompagnano, la sua violazione ferisce come un’intima violenza, il suo danneggiamento è un’amputazione di parte di sè, la sua distruzione è uno strappo lancinante.

 Quando si cambia casa si ricomincia di nuovo. A volte dal niente, a volte recuperando un quadro, un mobile, oggetti utili o cari per mantenere un legame col passato e ció che rappresenta. A tutto c’ é rimedio tranne che alla morte. È vero. Una casa si ricostruisce, ma la precedente, quella che rappresenta l’infanzia o fasi della vita significative, non si dimentica. Mancano i suoi odori, le sue correnti d’aria, luci e ombre, silenzi e rumori, geometrie di leggere aperture e massicce chiusure, i suoi difetti e pregi che la rendevano unica e speciale, la spazialità delle piccole cose che le davano una dimensione e un ordine a volte illogico ma funzionale, un significato comprensibile a chi la viveva.

La casa cambia quando vengono a mancare le sue persone. Cessa quell’ empatia di passi, di discreta intesa, di intima dialettica. Perde la sua voce originaria per acquisirne e ricrearne una nuova.

 Una nuova casa svelerà arcani segreti in altro modo. Sprigionerà un’altra atmosfera, un altro calore,  un’ altra semplice e sicura certezza. Sì sicura certezza: perché la casa deve essere un tempio che custodisce la sacralitá della vita e degli  affetti che danno significato all’esistenza. Non dovrebbe mai essere una tomba di lacrime e sangue, come quelle macerie che hanno unito nel dolore tutta l’Italia.”