La valigia. Di cuoio, tela, plastica o metallo, con manici o rotelle, di varia grandezza per contenere quanto può esser utile in viaggio. Non è solo un accessorio ma anche un testimone di quelle parentesi, più o meno incidenti, che formano il percorso della vita.
Viaggi unici o a cadenza periodica, con destinazione prefissata o senza meta e ritorno, viaggi di lavoro e di studio, di divertimento, di trasferimenti più o meno definitivi. Ho sempre osservato lungo le banchine dei porti e delle stazioni , ai check – in degli aeroporti e in autostrada il bagaglio dei viaggiatori, talvolta per captare frammenti di esistenza.
Valigie violate durante i controlli negli aeroporti, talvolta smarrite, valigie in attesa, allineate e solitarie, nella speranza che qualcuno, già disperato per aver perso gli effetti personali, le riconosca e le riprenda. Valigie leggere di chi insegue riposo, svago e lavoro, di chi ama conoscere luoghi, persone e culture diverse e valigie pesanti di chi va oltre per lasciare certezze franate o ricongiungersi ad affetti lontani, per sfuggire a realtà rivisitate con occhi diversi o per inseguire prospettive di vita migliore.
Per anni ho immaginato una valigia di cartone. Quella che lo accompagnò nel dopoguerra. Uno strano presentimento lo aveva indotto a tornare a casa e scoprì che sua madre, ancora giovane, da poche ore era partita improvvisamente per un viaggio senza ritorno. Allora raccolse i ricordi, il senso di colpa per non averla accompagnata (ma non fu avvisato per timore che gli fosse troncata la possibilità di carriera in Accademia ), i sogni e le sue giovani forze di diciannovenne e partì con il fratello maggiore in cerca di fortuna. Il mare l’accolse e viaggiò per molto tempo e per lunghi periodi, inizialmente per lenire un dolore, poi per costruire un futuro alle sue sorelle e alla sua nuova famiglia.
La sua valigia era sempre pronta: per partenze dovute ad emergenze improvvise su navi negli oceani e nei porti di tutto il mondo. Una valigia foriera di imprevisti , distacchi e di attese…ma era certo che sarebbe tornato e che in tanti l’avremmo sempre aspettato.
Una volta fece una valigia per non abbassare ingiustamente la testa in controversie di lavoro. Scelse la lontananza ma poi mise umilmente da parte l’orgoglio per privilegiare gli affetti. Dopo tanti anni, quando temeva di lasciare tutto per sempre, ha cercato di giustificarsi. Gli ho risparmiato le parole. Non doveva scusarsi. Ho apprezzato quel suo gesto , anche se allora lo interpretai con i moti del cuore in quanto ignara delle vere ragioni che mi furono spiegate anni dopo. Quella valigia esprimeva il tentativo di affermazione della sua dignità di persona oltre che di lavoratore, con un atto di rivolta soffocato poi dal ruolo di padre.A volte però si è più grandi nel sottomettersi mantenendo le distanze e assumendosi altre responsabilità, che nel mettere alle strette scappando.
Più volte ho fatto e visto fare le valigie. Erano piene di malinconica incertezza , solidi affetti e gagliarde speranze che hanno consentito di conoscere luoghi stupendi e persone speciali.
Sin da bambina ho avuto la mia valigia piena di magliette e costumi da bagno. L’aspettavo per tutto l’anno perché segnava la mia vacanza estiva a casa dei nonni, il mio recupero di radici, di aneddoti e racconti di capitani, missionari e di tante donne, di spensieratezza estiva e complicità con i cuginetti che non volevo più lasciare a fine agosto.
Più tardi alla valigia seguì un borsone leggero pieno di libri, ideali, cambi di stagione e nostalgia di casa che si affievolì col tempo. Il ritorno quindicinale a casa, divenne via via sempre meno frequente: mensile, trimestrale ed infine solo durante le feste comandate. Peregrinando in treno su e giù per l’Italia mi sentivo un’apolide, o meglio un’extracomunitaria di casa mia, finchè finì il nomadismo studentesco e decisi di divenire stanziale, mettendo su famiglia, e dopo qualche anno iniziai a lavorare.
Ero una pendolare come tanti con una valigetta sempre piena di carte , di impegni e di corse contro il tempo. Dopo aver cambiato in quattro anni quattro sedi di lavoro e quattro case, traslocando con due pargoletti al seguito, proclamai solennemente che in futuro avrei viaggiato solo per divertimento e che il mio prossimo trasloco sarebbe stato solo per riposare beatamente in un loculo. Come non detto, perché la vita è imprevedibile.
Così per un lungo periodo mi sono fermata per ammortizzare i frequenti cambiamenti, ma in casa mia c’è sempre una valigia pronta: la sua. Partenze, attese e ritorni e l’istinto di fare valigie…credo facciano ormai parte del nostro DNA, da generazioni. Ha contagiato anche i nostri figli che ora per motivi di studio e vacanza, domani per seguire orme ataviche, impazienti di partire preannunciano futuri viaggi.
Memore ancora del mio girovagare per stazioni e aeroporti a mo’ di peripatetica profuga, trascinando su un carrello i bagagli sui quali stavano ben appollaiati i miei figli irrequieti con tutto l’occorrente necessario per accudirli nei periodi di ricongiungimento familiare, ora mi accontento di un semplice trolley per pause periodiche, brevi e di assoluto riposo a casa mia nel Nord. Sì perché i cambiamenti fanno parte della vita, c’è chi li sopporta e chi li cerca, e due anni fa non ho perso l’occasione di vivere nella bellissima Roma.
Viaggiare non è solo interruzione, distacco o lontananza da ciò che dà calore e certezza perché conosciuto, ma è scoperta del nuovo grazie a un’ottica diversa, senso di avventura e curiosità, “abbandono di un programma ordinario a favore del caso, rinuncia del quotidiano per lo straordinario” (Herman Hesse).
È l’inizio di una parentesi per costruire una vita interessante, dinamica e mai monotona, per sentire l’alternanza della dolce melodia, che ancora al passato, e di ritmiche originalmente diverse, briose e allegre che fanno danzare verso inesplorati orizzonti .
“Viaggiare è come sognare: la differenza è che non tutti, al risveglio, ricordano qualcosa, mentre ognuno conserva calda la memoria della meta da cui è tornato.” ( Edgar Allan Poe) ma “ non smetteremo di esplorare. E alla fine di tutto il nostro andare ritorneremo al punto di partenza per conoscerlo per la prima volta.” (Thomas Stearns Eliot), perché “il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi” (Voltaire).
Dedicato a mio padre.