La città eterna degli angeli è lontana ma tanto presente nei miei occhi che continuano a vederne e a cercarne la bellezza. Una bellezza tanto vasta e invadente che forse non basta una vita intera per viverla tutta, e centellino i ricordi di Roma con parsimonia, come tutte le cose preziose che si custodiscono con cura in uno scrigno dentro di sé . A volte capitano cose che arricchiscono tanto da rendere insignificante tutto ciò che prima ritenevi importante.
Un primo giorno di scuola come tanti altri, diverso solo perché a Roma e non più in Liguria. Una prima classe con bambini e genitori emozionati, come altri, come in passato noi con i nostri figli. Due fratellini, maschio e femmina con un anno di differenza, sono accompagnati da un ragazzo e da un uomo in giacca e cravatta,che credevo il papà e invece , capisco, è un mediatore culturale. Saluta, mi dice chi verrà a prenderli, me li affida. Prendo per mano la piccola dai grandi occhi nocciola mentre il fratello, un po’ impettito, le sta vicino cercando di celare il senso di spaesamento nel nuovo contesto. Quando gli altri genitori vanno via, quel bambino mi porge un foglio. Sua mamma si presenta a me e alle mie colleghe, in una grafia curata comunica che è molto contenta che i suoi figli inizino a frequentare la scuola, che spera di conoscerci presto e ci augura un buon inizio di anno scolastico. Un pensiero gentile sbocciato tra caratteri in stampato maiuscolo ed errori di ortografia, così insolitamente gentile che mi commuovo. Questi due bambini sono di un’educazione, a dir poco, disarmante.
Abituate a bambini irrequieti , lamentosi che spesso si contendono i giochi e l’ attenzione degli adulti, non ci sembra vero che loro stiano ben seduti, forse un po’ troppo timidi e disorientati. Lui dà sempre la mano alla sorella, quasi per proteggerla, perché è minuta, un po’ più piccola delle bimbe della sua età ma anche tanto bella. Anche l’ ometto, serio e taciturno, è un bel bambino con gli stessi occhi color nocciola. Il loro silenzio tradisce un’attenzione ad ampio raggio verso tutte le persone e le cose che li circondano. Dopo qualche giorno i bambini iniziano a familiarizzare con gli altri, con discrezione, senza insistere troppo, quasi con timore.
“Qual è stato per te un momento in cui ti sei sentito felicissimo?” alle risposte un po’ scontate “Quando ho festeggiato il compleanno, quando ho ricevuto in regalo…, quando ho vinto giocando a calcio…” I. ha risposto timidamente :“Quando papà ha detto che potevo andare a scuola”, la bimba invece: “ Quando mamma mi ha svegliato di notte e abbiamo mangiato insieme pane e cioccolato”. L’anno dopo alla tradizionale domanda “ Che cosa ti piacerebbe fare da grande?” oltre alle solite risposte “ il calciatore, la ballerina, la cantante, il veterinario, …” se la bimba ha prontamente detto “la ballerina” ( del resto ha una straordinaria abilità e armonia nei movimenti nel seguire il ritmo) invece l’ometto, che ben pondera le parole, ha esordito con “ lo studente modello” . Risposta pertinente a quel suo desiderio e orgoglio di riuscire a imparare, che per lui significa riscattarsi dalla sensazione e dalla condizione di non essere mai ben accetti, di essere discriminati, additati perché rom.
In un campo di Roma quel bambino accudisce le sorelline, ma quella di sei anni “ sa lavare i piatti (maestra) come una donna grande” e canta e gioca con la più piccola quando la mamma va a lavorare. Sono seguiti dai giovani dell’Arci che spesso fanno da tramite tra la scuola e la famiglia. Ho conosciuto i genitori di quei bambini che sono venuti a scuola indossando il loro vestito più bello. Io e le colleghe pensavamo che non si sarebbero presentati al colloquio, invece in perfetto orario un ragazzo e una ragazza, di due anni più grandi di mia figlia, sono entrati nell’ atrio un po’ timorosi e impacciati. Lei, dai lineamenti delicati, grandi occhi nocciola e lunghi capelli legati, era gentile nei modi e nelle parole, aveva un che di regale nel portamento. Bella, davvero bella. “Come vi trovate a Roma?” “Maestra , qui la gente non è cattiva, molto dipende da come uno si pone”. Lui più taciturno, forse diffidente o semplicemente imbarazzato. Quando è finito il colloquio ci hanno salutato abbracciandoci. Non siamo solite salutare i genitori in modo così espansivo, ma quel saluto spontaneo ci ha coinvolte. Quel congedo ha sciolto ogni perplessità e costruito un rapporto di fiducia.
Qualche settimana prima avevamo scritto a tutti i genitori un generico avviso di controllo dei bambini per evitare casi di pediculosi e la giovane mamma ci aveva scritto sul diario “Grazie, maestra. Scrivi pure se vedi pitocchi, scusa ma non posso fare il bagno tutti i giorni ai miei figli. Grazie ,grazie”. Quella ragazza ha insegnato ai suoi figli a usare le posate e a stare composti a tavola, cosa rara al giorno d’oggi. Quei bambini arrivano puntualmente a scuola, tranne quando il campo si allaga con la pioggia e lo scuolabus non passa a prenderli . Non hanno sempre l’occorrente scolastico, come del resto anche altri bambini ai quali spesso provvediamo noi insegnanti, ma sono sempre in ordine, pettinati e cambiati. Consegnano i quaderni nuovi e si mostrano quasi con fierezza con il grembiule nuovo indosso, quando la mamma riesce a comprarli .
Quei bambini sono stati contenti di vedere il loro papà ben vestito e accolto tra gli invitati e le autorità all’ inaugurazione di un Progetto sui diritti dell’Infanzia proprio in una scuola d borgata, che qualche giornalista ha definito in una strada da piccolo Bronx, ma dove ho trovato l’ennesima conferma che la scuola e l’istruzione rendono possibile l’integrazione, un’integrazione che dipende da come ci si pone, reciprocamente.
Anni fa, quando il campo Candoni fu al centro di un progetto interistituzionale all’avanguardia per l’integrazione, in quella scuola prima dell’inizio delle lezioni le assistenti comunali accoglievano tanti bimbi rom e provvedevano anche a lavare loro e i loro vestiti. Una scuola dove si lavora molto per contrastare ogni forma di disagio,dove ho insegnato volentieri ma soprattutto imparato tanto e lasciato un po’ di cuore.
Questa non è una fiaba, magari lo fosse e avesse un lieto fine, ma è una mia bella esperienza che ho voluto condividere per testimoniare che non tutti i rom sono brutti, sporchi e cattivi come si è sentito tanto parlare di recente . A volte dipende da come ci si pone. Reciprocamente. A volte basterebbe ricordarsi che tanti, troppi sono i bambini invisibili che vivono nei canneti o in campi -discariche, come se fossero topi. Tanti dormono in furgoni freddi d’inverno e roventi d’estate anche perché più sicuri dei campi sovraffollati dove la convivenza è difficile. Mi hanno detto che quei miei alunni sono un’eccezione. Forse lo è anche un’altra mamma rom che, dopo lo sgombero di un campo, ogni giorno percorreva circa tre chilometri per accompagnare due suoi figli a scuola e una mattina stava accovacciata in terra con un bimbo al collo perché, incinta e a digiuno, si era sentita male. Probabilmente due eccezioni non bastano a far saltare ogni pregiudizio ma sono state e sono per me e per altri un prezioso e tanto, tanto caro esempio.