“I napoletani non comprano più pasta napoletana. La ignorano. Non credono più al suo mito. Si vantano di mangiare maccheroni provenienti da remoti paesi appenninici e alpini, da pianure sconosciute dove, per tempo, furono chiamati mugnai e pastai di Torre Annunziata, Gragnano, Nocera, Pagani, San Severino, Cava dei Tirreni, Pontecagnano, Eboli e Battipaglia, le patrie della “vera Napoli”, fabbricata con grano duro proveniente dalla Crimea e in ogni caso dalle Russie e messa e tesa ad asciugare come panni lini in grotte piene di ombra e frescura con venti continui della mitezza di zeffiri. Paste e farine se ne fabbricano ancora in questa zona, che sembrava ne serbasse il destino e il segreto, e di buone e solide, ma hanno uno spazio indigeno, smerciate da pochi negozi come rarità; come cibi caduti in disuso e richiesti solo da clienti stravaganti. Qualche lustro fa, tra Pucciano e Pareti di Nocera, sopravviveva una fabbrichetta tenuta da due vecchi coniugi che producevano due- tre quintali di pasta la settimana, senza coloranti e però tutta punteggiata come il costume di Arlecchino. Prima a comparire e ultima a scomparire insieme con altri sei stabilimenti di cui due giganteschi. Trent’anni fa Nocera, come Gragnano, Torre, Pagani odoravano di pasta cruda. Le strade di basoli, battute da carriaggi carichi di sacchi o di casse di maccheroni, a destra e a sinistra avevano due profondi solchi scavati dalle ruote, come le strade di Pompei.
Bei tempi! Dal sud partivano migliaia di carri merci pieni di spaghetti, spaghettini, vermicelli, vermicelloni, bucatini, linguine, mafaldine, tripolini, candele, ziti, zitoni, mezzani, mezzanelli, perciatelli, rigatoni, fasce, occhi di lupo, cannolicchi, ditali e ditalini, crestine, gemelli e tortiglioni, diretti in tutti i villaggi, i paesi e le città d’Italia e d’Europa, divorati dall’Esercito, dalla Marina e dall’Aviazione, dalle Provvide e dalle prime mense aziendali. Se non era vera Napoli, la schifavano. Le paste di altra origine muffivano nei palchi dei pizzicagnoli. Forse erano altrettanto buone e persino migliori, ma per i mangiatori di pasta o si trattava di vera Napoli o meglio buttarsi nel ruminamento di qualsiasi altra poltiglia. Secondo scienza e storia la fabbricazione della pasta è antichissima. Etruschi, greci e romani magnarono pasta autentica, sia pure sotto forma di stiacciate cotte sulla pietra infocata. A sentire alcuni astrologhi, i cinesi addirittura sarebbero stati i padri e gli inventori della pasta. I padri sì, gli inventori no perché, ove mai si andasse per il sottile, con metodo e scrupolo, e coscienza, la pasta, vale a dire i “maccaruni” sono e non possono essere altro che una scoperta napolitana alla stessa stregua e col medesimo diritto e legge della pizza.
Esaminate la pizza, gente al di là del Garigliano, sia pure una volta, come coscritti, per avventura o errore, da soli o in leggiadra compagnia siete stati a Napoli. Essa, la pizza, con tecnica surrealistica, è la riproduzione del Golfo con la Riviera e il Panorama. Le bucce di pomodoro rosso sono le barche, gli schizzi di mozzarella, le vele, il verde del basilico e dell’origano, il Vesuvio, le bruciacchiature della pasta, gli scogli e il leggendario cornicione- delizia dei buongustai – la linea magica dei panorami alti un centimetro di Ercolano, Torre del Greco e Annunziata, Castellammare, Vico, Seiano e della stessa Napoli, dal Capo di Sorrento a San Giovanni e girovagabondando, fino a Capri, Ischia e Procida. Ridanciane, ilari, palpitanti come polle emergenti di solfatare (quella di Pozzuoli, d’Agnano o san Montano), le bolle enfiate dai fiati del forno.
La pizza è una riproduzione mimetica dell’habitat in cui esplose.
Morti di fame per generazioni a spirali i napoletani, non potendo fondere oro e argento, né cibarsi di carne o coprirsi di buone lane, ma amanti di un universo sfavillante, da ciò sollecitati ed eccitati, inventarono la pizza, servendosi dei materiali poveri a disposizione: acqua, farina, sale, pomodoro colombiano e basilico greco, il tutto condito con un filo d’olio e una corolla di estro. Per via di questo estro-capriccio-umore, avversa o buona disposizione nell’attimo fuggente, la pizza può riuscire buona o cattiva, gustosa o pessima, ricca o meschina, gonfia o mencia, nel segno di un trionfante barocco o di una lisca rosicchiata.
Lo stesso vale per gli spaghetti. Si buttano nella pentola, che sembrano atleti, si possono tirare o duttili e frenetici come anguille o debosciati e sfiancati come braccianti che riedono al povero ostello. Dietro la pizza e gli spaghetti c’è insomma l’uomo napoletano, variabilissimo, incertissimo, di poca fede e interminate speranze.
Comunque sia, i maccaruni nati in Troade o in Etruria o nel Cipango, come inoltre si è sostenuto, in Galizia- truce terra pastorale e , quindi, farinacea- il copyright se l’è aggiudicato Napoli. I Napoletani ereditarono una greve massa di pasta, una pallottola di farina bigio-giallognola. I furbastri s’istudiarono immantinente come metterla incinta e la riposero negli oscuri fondi di una delle numerosissime grotte urbane e, indi, strofinandosi le mani per estro e isteria, andarono a vedere, come facevano gli orchi, che ponevano i ragazzini rapiti nelle botti all’ingrasso, se l’impasto fosse diventato formoso, roseo, simpatico, amabile, malleabile, appetibile, estraendone con un pizzicotto una mollichella e cominciando a lavorarla tra pollice e indice.
Con questo giuoco di dita e carezze, pensando certamente a tutt’altre cose, ai sempiterni guaj del malgoverno, si trovarono in fine di fronte a forme, gentili, aeree, serpentelli, anguille, ciocche, nastri, farfalle, matasse, millepiedi, lettere misteriose, fusilli lunghi, primiera francese, anelloni d’Affrica, nocchette, semi di mellone, anelli e danellini- il bazar d’Istabul e della Vuccirìa al completo- stelle, occhi di pernice, pepe bucato- l’antico porto di mare capitale di sbarco delle spezie- tofe, scorze, parigine e margherite rigate, quanti sono all’infinito i vari tipi di pasta di qualsiasi fabbrica e fabbrichetta del napoletano e del salernitano i cui mugnai e pastai di una volta, fabbricando pasta, favorivano l’immaginazione e il sogno. Solo un popolo speciale come il nostro, che aggiunge o toglie sempre qualcosa alla realtà, poteva ricavare da una palla di farina monotona, gommosa, grigia, atona, azzeccosa, appiccicaticcia e sudaticcia, una interminabile sfilza di forme e parole: cardellini, lingue di passero, gramigna, stivalettini e giù per il dirupo senza fondo, intorto e cupo di un’arte sfuggente, costretta a rendere multipla un cibo che, dai, dai, era sempre lo stesso.
Sazi alla fine ( per non dire altro; per non smarrirsi nei disastri del Mezzogiorno) i maccheroni a Napoli sono diventati anonimi come in qualsiasi altro luogo.Generazioni magre,dai ventri snelli, ignorano che i loro progenitori, infischiandosi di averci pance complete di grancasse, il giorno e la notte insieme con Pulcinella sognavano, come alternativa alla fame, di farsi una bella mangiata di maccaroni in piena strada, senza pomodoro e un pizzico di formaggio. Dopo, poteva accadere il finimondo: si poteva restare comodi a digerire o prendere parte all’eventuale pugna, in ogni caso la terra, sbilanciata, ritornava in orbita.” (Domenico Rea)
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