Sorprese di melanzane al cioccolato

Ho deciso di  mettere in pratica le nuove ricette di piatti e dolci scambiate con amiche di spiaggia. Infatti uno degli argomenti tipici delle conversazioni delle donne sono le curiosità e i gemellaggi gastronomici regionali, i cosiddetti cavalli di battaglia dell’arte culinaria  cui difficilmente le donne rinunciano. Se si è un po’ persa la tradizione del corredo di lenzuola e asciugamani ricamati a mano, ingombranti e costosissimi, sopravvivono ancora le tradizioni gastronomiche familiari, tramandate di madre in  figlia, arricchite di varianti originalmente innovative, di sperimentazioni interculturali e contaminazioni di cotture accelerate con il microonde e la pentola a pressione.

 Saper cucinare è una passione, un’arte che soddisfa chi vi si dedica e chi assapora. È espressione di creatività e di gusto nel miscelare odori e sapori in connubi seducenti la vista e il palato.

Mia suocera ha ereditato da sua madre questa ricetta e me l’ha regalata. I suoi dolci di melanzane al cioccolato sono rinomati in famiglia e nel vicinato.

Lei amava cucinare ed era un’ottima cuoca, sperimentava piatti nuovi ritagliando ricette dai giornali o trascrivendole quando le trasmettevano in tv. Selezionava gli ortaggi, le verdure fresche e la frutta più bella che acquistava direttamente dai contadini, coltivava piante aromatiche e usava un po’ tutte le spezie. Essiccava l’origano e i pomodori, si procurava le ‘nserte di pomodorini del Vesuvio per poterli utilizzare poi anche fuori stagione, preparava sottaceti e sottoli, marmellate, conserve di pomodoro, acciughe sotto sale e olive in salamoia. D’inverno non faceva  mai mancare in tavola dissetanti spremute d’arance, colte nel giardino di casa, perché contengono tanta vitamina C che fa bene ai ragazzi. Usava i limoni per il limoncello e per condire le insalate ed era magistralmente esperta nel riconoscere e cucinare i vari pezzi di carne e il pesce fresco.

Aveva  quello che io definisco un magico dono cioè il  sapere dosare gli ingredienti “a occhio”, perciò per  riuscire a risalire alla dose e alla proporzione degli ingredienti, qualche estate fa  mi sono cimentata con lei nella preparazione di questi dolci. Eravamo un po’ accomunate dallo stesso interesse per la cucina e dalla “golosa felicità” dello stesso uomo: suo figlio, che è il mio consorte.

 Ingredienti:

 8 melanzane (lunghe)

300g di cioccolato fondente

300g di biscotti novellini

200 g di zucchero

100-150g di cedro o arancia candita a pezzetti

40g di cacao amaro

1 cucchiaino di cannella in polvere

1 bustina di vanillina

2 uova

 Esecuzione: 

  1. Tritare finemente i biscotti.
  2. Sbattere le uova intere.
  3. Lavare, tagliare le melanzane a pezzi, lessarle in  poca acqua a fuoco lento per un’ora circa.   Mescolarle e schiacciarle  con un cucchiaio di legno fino a quando non saranno completamente scotte.
  4. Passarle nel passaverdura per ottenere una crema di melanzane senza semi.
  5. Aggiungere 200g di  cioccolato fondente spezzettato e scioglierlo nella crema di melanzane.
  6. Versare nella crema così ottenuta  i canditi, il cacao in polvere, lo zucchero, i biscotti sbriciolati, la cannella, la vanillina e infine le uova sbattute.
  7. Mescolare con delicatezza amalgamando tutti gli ingredienti.
  8. Se il composto risulta troppo liquido, aggiungere altri biscotti tritati
  9. Sciogliere i restanti 100 g di cioccolato fondente: una  parte serve a foderare la teglia, la rimanente a ricoprire i dolci.
  10. Versare parte del cioccolato sciolto nella teglia.
  11. Adagiarvi a cucchiaiate il composto dandogli la forma di medaglioni un po’ schiacciati  e coprirli con il rimanente cioccolato .
  12. Infornare a180°.
  13. Controllare la cottura: le sorprese sono pronte quando inizia ad asciugarsi il cioccolato nella teglia.
  14. Lasciare raffreddare prima a temperatura ambiente e poi in frigo.

 

Ah dimenticavo! Questo dolce non aveva un nome preciso. Mia figlia ha suggerito sorprese di melanzane al cioccolato

 

Tutti al mare (seconda parte)

Forse questo articolo aiuta a capire la mia insofferenza per l’affollamento estivo , comunque bisogna pur guadagnarsi le indulgenze e imparare a sopportare e inoltre anch’io sono stata una madre costretta a rincorrere il proprio figlio pestifero sulla spiaggia visto che si buttava in acqua pur non sapendo nuotare. Degno figlio di sua madre!

Premetto inoltre  che io e i miei cugini eravamo ben felici di sottoporci all’estivo addestramento spartano…quasi para militare.

puolo

 

Ogni anno torno alla “mia” spiaggia,a quel che resta di quella spiaggia perché lì è sorto un elitario stabilimento balneare con un comodo solarium frequentato da opulenti clienti ipergriffati, quelli che ostentano status symbol, strilli e un presunto esprìt de finesse . Ormai non è più prudente nuotare da una baia all’altra a causa dei motoscafi che sfrecciano di continuo lasciando puzzolenti scie di nafta. Non  ci sono più i vecchi pescatori, non ci sono tante stelle marine ma solo conchiglie e qualche granchietto , non ho più il coraggio di addentrarmi nelle grotte marine e di mangiare frutti di mare crudi appena pescati, ma  ogni volta che torno lì , penso a quanto sono stata fortunata .
Quando trascorrevo le vacanze estive a casa di mia nonna a Sorrento, desiderate per tutto l’anno perché ritornavo alle mie radici e ai miei affetti, andavo al mare con zii, zie e cugini. Arrivati a piedi ad un paese di pescatori che sorgeva sul mare, gli adulti prendevano una barca a remi sulla quale caricavano borse e bottiglie di acqua e noi bambini, sei cuginetti molto affiatati , dai 6 agli 8 anni, seguivamo la barca a nuoto per arrivare a una splendida baia, conosciuta da pochi. Lì c’era un mare caraibico con acque cristalline solcate soltanto da barche a remi di pescatori. Questi ci conoscevano, ci soccorrevano quando ci facevamo male, ci riportavano a riva se eravamo stanchi o in difficoltà . Era la “nostra” spiaggia fatta di sabbia e scogli dove  ci raggiungevano a nuoto o in barca gli amici e dove siamo cresciuti insieme per molte estati.

dal web

dal web

Da bambini, ci divertivamo a esplorare grotte e a giocare nelle sorgenti di acqua sulfurea ( insomma facevamo una sorta di idromassaggio naturale!), a raccogliere stelle marine, conchiglie, a mangiare ricci di mare e patelle, senza timore di prendere l’epatite, a correre sugli scogli, a fare torte e castelli con la sabbia nera decorandoli con le pietrine colorate. Più tardi imparammo a costruire il vulcano cimentandoci per ore nello scavare pian piano il camino , facendo attenzione a non fare franare le pendici …e ci sentivamo soddisfatti quando alla fine di lunghe discussioni raramente pacifiche, per portare a termine il nostro Vesuvio in miniatura, riuscivamo ad accendere la carta sotto e a farlo fumare.
I nostri tatuaggi permanenti erano graffi e tagli sui piedi e sulle gambe, talvolta spine di ricci,  ma non piangevamo mai troppo perché sapevamo che se ci fossimo lamentati, saremmo tornati prima a casa . In compenso però, tornati a casa, la sola vista dell’ago bruciato, che serviva ad estrarre le spine dei ricci, bastava a farci improvvisare sceneggiate esagerate, per avere anche due coccole in più, e a turno ci confortavamo dicendoci che non era nulla , ben sapendo che prima o poi sarebbe toccato ad ognuno di noi perché tanto avremmo continuato a disubbidire ai grandi pur di scappare a giocare tra gli scogli.
Stavamo al mare per 5- 6 ore, anche perché andavamo in una spiaggia isolata e lontana dal paese e facevamo un solo bagno cha durava quanto la permanenza in spiaggia! Non avevamo mai fame perchè eravamo troppo indaffarati a scorrazzare liberi, per cui pranzavamo a casa al ritorno. Per tornare a casa dovevamo nuotare di nuovo fino al paese dei pescatori e poi fare circa un chilometro in salita sotto il sole del primo pomeriggio per raggiungere le auto parcheggiate all’ombra degli ulivi. Due miei cugini ambivano ad arrivare per primi e correvano avanti prendendo in giro me e le mie cugine che, preferivamo non replicare e camminare in silenzio ascoltando il frinire delle cicale. Un contadino ci aspettava in cima alla salita per offrirci un po’ di granita al limone.

 capo di sorrento

In quella spiaggia abbiamo trascorso anche le estati della nostra adolescenza: eravamo sempre più numerosi,a volte una quarantina tra ragazzi e ragazze .Ci conoscevamo tutti e giocavamo a pallanuoto e a pallavolo, facevamo gare di tuffi e di nuoto, senza distinzione tra maschi e femmine. Tutto  però diviene e muta, così finì la pace quando la spiaggia fu scoperta anche dai vacanzieri domenicali, amanti degli strilli e delle radio, quelli che sbarcavano dagli yacht con gli ombrelloni con la tenda intorno , simile a quelle dei beduini del deserto.Sorsero ben presto problemi di convivenza dal giorno in cui accidentalmente un pallone finì in un piatto di pasta e lenticchie che una mater matronissima reggeva inseguendo per tutta la spiaggia il piccolo destinatario che, ignudo, scappava di qua e di là per sottrarsi all’imboccamento forzato.

 Intanto la cava di pietra dietro la spiaggia fu venduta e quando iniziarono i lavori per lo sfruttamento turistico di quella zona, noi iniziammo ad emigrare. Io lo ero già da molti anni. Lo studio e il lavoro ci divisero: ognuno di noi ha poi preso la sua strada, ma d’estate ritorniamo alle nostre radici ed è sempre bello ritrovarsi lì coi propri figli, coniugi o compagni e continuare a ridere e a divertirci. Anche se la vita ci ha cambiati, i ricordi di quelle estati spensierate ci uniscono ancora e ci fanno recuperare con un po’ di nostalgia un senso di appartenenza.

In fondo i gatti non differiscono troppo dagli umani

Tigro e Gri Gri fanno parte della mia tribù da oltre dieci anni e sono inseparabili compagni di Skip vero. Ogni tanto capita di ricordare quando ci recammo al canile e scoprimmo che c’era un reparto detto “gattile”, termine mai sentito, che ospitava mici abbandonati.

In una gabbia divisa in tre piani, una mamma gatta allattava due gattini, mentre altri tre a stento trotterellavano con la codina alzata. Ero andata lì coi miei figli con l’intenzione di sceglierne uno, ma ne portai a casa soltanto due 😉 , svezzati da poco. Tigro e Gri Gri appartenevano a due cucciolate diverse: la prima era stata affidata al gattile da una signora che non era riuscita a sistemarla diversamente; stessa sorte per Tigro e un suo fratello quasi gemello. La responsabile mi convinse a prendere due micetti perché, soprattutto da piccoli, non avrebbero sofferto la solitudine. Col senno del poi condivido che due gatti non solo si fanno compagnia ma sono uno spasso di scorribande, rincorse, nascondini, salti, fughe e capriole. Un’allegra associazione a delinquere 😀 . Erano talmente piccoli da stare nel palmo della mano e perdersi nel trasportino, enorme per loro. Pensare che adesso c’entrano a stento.

Impararono presto a esplorare la grande terrazza, a sconfinare sul tetto della casa a fianco, curiosando nelle abitazioni altrui, fino a raggiungere, con un’impervia arrampicata sui condizionatori d’aria, un’ anziana signora che li chiamava dal quarto piano offrendo loro croccantini. Conquistarono la stima dei vicini perché divennero presto il terrore dei piccioni che nidificavano sotto le tegole. Ogni tanto li scoprivo acquattati che puntavano possibili prede pennute, ma alla fine orgogliosamente impettiti si accontentavano di portare gusci di uova e qualche sparuta piumetta. Solo una volta dovetti intervenire tempestivamente, brandendo la scopa, per scacciare dall’antenna parabolica un gabbiano reale, con le ali spiegate, pronto  ad avventarsi su una temeraria ed incosciente Gri Gri che da dieci minuti si stava esibendo in miagolii e scodinzolamenti tipici del  rituale di caccia.

 Con il tempo sono cambiati anche i gattoni; hanno qualche chilo in più e sembrano gradire di più le coccole. In fondo non differiscono troppo dagli umani.

Tigro è diventato un placido gattone, elegante nel regale portamento di tigre in miniatura, impreziosito dalla pettorina e dai guanti bianchi. È il tipico gatto sornione che dorme o finge di dormire, sempre pronto a scattare non appena sente invitanti effluvi di pappatoria. Se non dorme, mangia. Cosa strana, si avvicina fuseggiando e fa gli onori di casa quando arrivano ospiti o persone a lui sconosciute.

Gri Gri invece è molto più vivace, ma timorosa e diffidente al punto tale che le basta sentire voci insolite per volatilizzarsi. È talmente furba che scova nascondigli sempre nuovi, anche perché sa aprire gli armadi con le ante scorrevoli. Cerca la nostra compagnia e si accoccola vicino a noi sul divano mentre guardiamo la tv o leggiamo. È tenera, ma diventa una furiosa  tigre in fuga non appena apro la fialetta antipulci: terrorizzata schizza in alto su un mobile non appena, credo, ne sente l’odore. Mi sono sempre chiesta cosa ci sia in quell’intruglio. Gri Gri è il peluche preferito di mio figlio, ormai “ piccolo” solo perché l’ultimo nato in famiglia, che mi sorprende non poco quando le parla dolcemente e la prende in braccio con delicatezza. Sono lontani i tempi in cui tagliò le vibrisse a Tigro che, saltando, perse l’equilibrio e volò dal terrazzo al piano di sotto miaolando così forte da fare affacciare diverse persone dei palazzi intorno. Un’avventura memorabile le operazioni di recupero del gatto spaventato e quelle di persuasione educativa per un figlio pestiferissimo.

 L’anno dopo adottammo Skip vero e all’inizio la convivenza con i gatti non fu facile.

Ancora ricordo lo storico incontro con le due tigri che con Skip avevano in comune solo la provenienza. Dal canile lui e dal gattile loro. I miei gatti non avevano mai visto un cane. Il cane non conosceva i gatti e fiducioso zompettò verso le belve spodestate. La loro immediata reazione fu una solenne soffiata, inarcata di coda e un repentino balzo su un mobile sul quale rimasero appollaiati per circa una settimana, scendendo solo di notte o quando la cosa rossa movente non era nei paraggi. Skip era più piccolo dei gatti, ma più robusto di corporatura e baldanzoso nei movimenti.

 Il famelico Tigro, pur di non rinunciare alla pappa, imparò presto a mantenerlo a distanza, soffiando e artigliando. Gri Gri invece ne era incuriosita, l’ osservava dall’alto e da lontano, finchè un giorno inavvertitamente si scontrò con il nuovo arrivato, che usciva trotterellando dalla cucina. Il cane, sorpreso, si fermò intimorito e si accucciò, come aveva ben presto imparato quando incrociava il signor Gatto. Gri Gri invece, con mia sommo stupore, non scappò via. Si sedette guardinga di fronte a lui. Stettero fermi a guardarsi per qualche minuto: lui con le orecchie basse e lei con le orecchie ben alzate, finchè  la guappa gatta  con nonchalance se ne andò. Quella notte Gri Gri annusò Skip che dormiva in una cesta ai piedi del letto, salì sulla vicina cassapanca e lì si addormentò. Da quel dì iniziò a vegliarlo, forse aveva capito che era piccolo e innocuo e il suo istinto materno vinse la diffidenza .

  In poco tempo sono diventati compagni di gioco e di malefatte. Ancor oggi lei si acquatta sulla sedia per allungare una  zampa sull’ ignaro amico che passa e si guarda intorno senza capire. C’è stato un periodo in cui i miei figli hanno subito ingiuste sgridate per le carte di caramelle o cioccolatini che trovavo sotto il tappeto o i cuscini del divano. Un pomeriggio, mentre guardavo la tv, sentii un rumore sulla credenza : Gri Gri spingeva una caramella con la zampa, giù verso il cane che, scodinzolando, stava in trepida attesa. Skip prontamente la ingoiò. La gatta continuò. Questa volta lui riuscì a scartarla e lei, come un pattinatore di hockey su ghiaccio, con l’involucro improvvisò uno slalom sul pavimento del salotto, finchè portò il suo trofeo sul divano. Quando osò tornare alla carica del porta bon bon fu paralizzata dal mio inatteso, urlato e  solenne “scendi giù” e si defilò di corsa. Occhio che non vede, cuore che non desidera: da quel giorno chiusi a chiave i dolci. 

Sono trascorsi circa quattordici anni, e i miei figli a 4 zampe ci hanno seguito nella nuova casa in città. Si sono adattati al nuovo ambiente anche se a volte scopro Gri Gri che, assorta, sbircia dietro la finestra. Forse rimpiange un po’ la terrazza dove amava sdraiarsi al sole.

Sì, in fondo i gatti non differiscono troppo dagli umani.

 

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Quando si gioca a tombola

 Un detto raccomanda “Natale con i tuoi, Pasqua con chi vuoi” perciò da sempre trascorro in famiglia la sera della  Vigilia e il Natale, tranne due volte che raggiunsi il consorte con prole e bagagli  al seguito. Non importa con quale ramo della famiglia si stia , anche se la tradizione vorrebbe con quello affettuosamente infestante dei parenti più prossimi. Sì perché le cose si complicano quando subentra la famiglia del/della  coniuge per cui spesso si adotta la soluzione dell’ half and half trascorrendo a turno la sera della  Vigilia e il Natale a casa dai tuoi genitori e poi dai suoi ( suoceri),  a meno che non si ricorra alla clonazione o si preferisca riunirsi tutti insieme appassionatamente.  Posso solo immaginare le diplomatiche acrobazie in cui si cimentano coloro che hanno più famiglie.

 Quando ero bambina trascorrevo la vigilia a casa delle sorelle di papà e il Natale in quella  dei nonni materni. Dopo gli esibiti e largamente apprezzati  virtuosismi gastronomici che folleggiavano in un turbinio di portate , noi bambini, più veloci della luce, aiutavamo a sparecchiare perché aspettavamo la pausa del dopo cena o pranzo per giocare a tombola. Ci mobilitavamo per svuotare la tavola e invaderla di più serie di cartelle della tombola , mentre mamma e zie già lavavano le stoviglie e preparavano il caffè da servire con struffoli e zeppole. I cugini più grandi verificavano che tutti i numeri fossero nel  panariello, per evitare un contenzioso  senza fine qualora a termine della giocata si fosse scoperto che mancava il fatidico numero che avrebbe annullato le sofferte vincite.  Io e gli altri cugini  iniziavamo a esaminare  le cartelle. Sì perché è un rituale  giocare a tombola. Ognuno ha un criterio personale di scelta di cartelle. Alcuni preferiscono pagare un’intera serie, così almeno trovano  sempre il numero estratto, altri cercano cartelle contenenti uno o più numeri porta fortuna, i più devoti  giocano solo con cartelle  marchiate dal loro  inconfondibile segno di riconoscimento. Mio fratello ne aveva una colorata di nero, che noi consideravamo nefasta perché portava fortuna solo a lui. Poi ci procuravamo i tapparielli, fagioli, monetine, pezzetti di carta per coprire i numeri, finchè non furono brevettate le cartelle con le finestrelle di plastica incorporate. Mentre gli uomini continuavano ad aiutare o a chiacchierare , noi già eravamo in fibrillazione a contare gli spiccioli, racimolati durante l’anno per le giocate di Natale. Iniziava allora la parata dei borsellini delle amministratrici delegate di famiglia, cioè delle mamme, che finanziavano i consorti. I grandi ci chiedevano di cambiare le banconote di 500 e 1000 lire e noi non aspettavamo altro per farci un po’ di cresta, giustificata dal servigio reso. Poi si concordava il costo di una cartella che solitamente era di 10 o 20 lire, che con l’inflazione aumentò a 50 , 100  e 200 lire e con l’euro a 20-30 centesimi (in tal caso melius deficere quam abundare e  non cadere nella tentazione del gioco d’azzardo). Allora le monetine fluttuavano su e giù per il tavolo, distribuite nei premi, restituite come resto o allineate in buon ordine, davanti alle cartelle, come buon auspicio di vincita. Quando finalmente la zia, padrona di casa, usciva trionfalmente dalla cucina levandosi il grembiule, eravamo tutti pronti in assetto di partenza, ben seduti e concentrati. Dopo un’animata contesa su chi doveva avere il cartellone e quindi governare il gioco, iniziava l’estrazione di numeri. Chi estrae i numeri deve essere rapido e veloce e sapere tenere banco, creare suspense  e animare la serata. Sì perché ogni numero della tombola napoletana ha un significato, a volte scurrile o allusivo, ma può divertire la combinazione che se ne fa. Per le anime innocenti presenti i numeri “sporchi” venivano taciuti , finchè furono messe in commercio le  cartelle della tombola napoletana e quindi ci istruimmo più o meno anche in questo. Bè ammetto che  ci ho impiegato circa  20 anni, facendo una memorabile gaffe pubblica, per capire che  “quella che guarda in terra” del numero 6  non era una timida pulzella, e nemmeno una che cercava quadrifogli o lenti a contatto smarrite, ma niente meno quella cosa che nel connubio col padre delle creature  contribuisce alla riproduzione dell’umana specie ( qui la spiegazione dell’arcano) .

All’estrazione del primo numero, un immancabile  spiritoso smorzava la quiete dell’attesa gridando AMBO…e solitamente la zia un po’ dura d’orecchi replicava:

“Cosa è uscito… il canto?”

“ No, no niente!”

“ Allora che ha detto?”

“Ha detto ambo, ma non è possibile farlo con un solo numero. Sta’pazziando (scherzando)”

 E via si procedeva guardando fissamente il numero che si desiderava fosse chiamato per fare ambo, poi terno, quaterna, cinquina sforzandosi di  comunicare telepaticamene con lui, che capitombolava nel panariello, affinchè si facesse catturare  e si decidesse ad uscire. Spesso capitava che due o più giocatori vincessero lo stesso premio, che veniva ripartito in ugual misura. Se ciò non era possibile, qualche spicciolo andava a rimpinguare il tombolino, democraticamente deliberato per offrire  la chance della seconda tombola. A volte si prevedeva anche una terza tombola, premiata  col tombolicchio, per  consentire quindi a più persone di vincere qualcosa.

 La tombola napoletana diverte se ad ogni numero viene associato il significato  attribuitogli dalla smorfia napoletana. I napoletani sono soliti dare i numeri, nel senso che matematizzano molto la realtà, e pure i sogni, e talvolta si accaniscono a rincorrere i numeri al lotto chiedendo devotamente aiuto a qualche santo protettore con la speranza che interceda presso la Fortuna. Ahimè non hanno ancora capito che la dea non ci vede e non ci sente.

  Intanto il numero 1 è l’Italia, forse a ricordo dell’art 1 della Costituzione che la riconosce una ed indivisibile. Olè! 2 è a’ figliola e, per prassi consolidata di casa mia, con la discrezione del mangia polpette, si chiede “ Quanti anni ha?”  Può essere che sia giovincella e ne abbia solo  23…”ma allora è pure scema” oppure 22 “ma è pazza” . Se per caso ne ha  33 , “ha  l’età di Cristo”, se supera la quarantina nasce una diatriba sul considerarla giovane o matura, se ne ha 77 è  sicuramente ‘na nennella della terza età , però dalle gambe scattanti di pin-up.  Una reazione a catena. Altro numero atteso dai bambini è il 4 ( il maiale) e il numero successivo ne conferma il peso. Il 31  prevede l’altisonante Pillicciò, che segnava la fine della conta prima di giocare a nascondino. All’11 dei suricilli ( topolini) segue la domanda “ Quanti sono?”

 

“ 65”

 “Maronna!”

 “ Sempre sia lodata”.  E mi rivedo mentre seguivo gli occhi della zia, rivolti in alto,  credendo di vedere un raggio celeste farsi strada nel soffitto.

“Che ha detto? E’ uscita A’ Maronna?”  

“No mammà. Era un’esclamazione.”

“ Ahhhhhh. E allora che è uscito?”

“65 ( il pianto)” 

“E ci credo che  tutti ‘sti surici  fanno piangere”

“ Mo’ ci vò ‘na jatta ( una gatta) .”

“ E’ uscita la gatta?…”

“No, no, sarebbe ora che uscisse  il cane ( quello vero per fare la pipì).”

“Ma o’ cane che numero è?”

 

Ad un certo punto la tiritera veniva interrotta da una telefonata. C’era sempre qualcuno lontano o in mezzo al mare che, a conoscenza della riunione di famiglia, telefonava per fare gli auguri a tutto il parentado. Seguiva un andirivieni dal tavolo al telefono, tra lacrime di commozione e abbracci a distanza che veniva poi addolcito da un giro di mustaccioli, roccocò e susamielli (dolci di Natale).

 

  Chi s’assumeva l’incombenza di estrarre i numeri scuoteva a lungo il panariello per fare crescere la suspense della tombola, il cui premio  poteva ammortizzare la spesa sostenuta dall’intera famiglia per l’acquisto delle cartelle. E allora per essere sicuri di non averne dimenticato qualcuno, a turno tutti davano i numeri chiedendo:  

“È uscito 54?” “ No”

“E 63?” “Neppure”

“ 7 ?” “Neanche.”

“E 89?” “Nemmeno.”

“Ma’ ( mamma),  dilli tutti  così ci leviamo il pensiero.”

 Nel frattempo, a mo’ di scimpanzé, sgranocchiavo noci, nocciole ed arachidi  infornate, fichi mandorlati o al cioccolato, follarielli ( involtini di uva sultanina infornata e avvolta in foglie di agrumi) mentre bicchierini di limoncello e nocino per i grandi, acqua e bibite per i piccoli, volteggiavano sulla tavola.

  Quanti ricordi, risate e voci legati alle tombolate. Di zii che abbiamo rimpiazzato agli occhi dei nostri figli e nipoti. Noi siamo il presente per le nuove generazioni , come loro lo sono stati a lungo per noi. Ogni anno rivive un po’ l’atmosfera di quella “casa senza orologi dove il  tempo era  scandito dai fiori di stagione e tralci d’edera raccolti in giardino, dai racconti, dai quadri, dai mobili, dagli affetti.

Un mondo di radici mai strappate, che mi appartiene, ancor più nei profumi, nei sapori e nelle luci che ridanno colore a scene un po’ sbiadite dal tempo e rendono  nostalgicamente caldo ogni  Natale.

 

La tombola napoletana

 

Le feste natalizie sono per tante famiglie un’occasione per ricomporsi, rivedersi, riunirsi e trascorrere insieme la Vigilia e il  Natale. Dopo baci e abbracci, conversazioni che  aggiornano sui cambiamenti avvenuti nella cerchia di parenti e conoscenti , preparativi e rituali della cena della Vigilia e del pranzo di Natale, tanti si rilassano- si spera- giocando a tombola o a carte.

La tombola è un gioco da tavolo. Il suo nome può derivare da tombolo per  l’originaria forma del panariello (bussolotto), da tumulo per quella attuale, che è piramidale , oppure dal verbo tombolare (fare roteare o capitombolare i numeri).

 

Un giocatore dispone di un tabellone sul quale colloca 90 numeri estratti uno alla volta dal panariello. Annuncia il numero uscito agli altri giocatori che su una o più cartelle (schede), precedentemente acquistate, coprono la casella corrispondente con finestrelle di plastica o fagioli, pasta, pezzi di carta. Le cartelle sono raggruppate in quattro serie di sei cartelle, diverse una dall’altra, e in ogni serie i numeri da 1 a 90 capitano una sola volta. Tutti, compreso colui che estrae i numeri, pagano ogni cartella in base ad un costo concordato e la somma accumulata viene distribuita in vari premi di importo crescente. Lo scopo del gioco consiste nel fare tombola cioè coprire tutti i 15 numeri presenti su una cartella ( tutti i cinque numeri delle tre righe). Prima però si premiano l’ambo, il terno,la quaterna e la cinquina  ( copertura di due, tre, quattro, cinque numeri sulla stessa riga). A volte si definisce un premio di consolazione, detto tombolino, per chi riesce a fare una seconda tombola.

 

Esiste una tombola napoletana dove ogni numero viene associato a un’immagine, tratta dalla smorfia napoletana, e quindi l’annuncio del numero si accompagna alla citazione del significato intrinseco, talvolta allusivo o scurrile.

La tombola napoletana nacque nel 1734 per una controversia sorta tra re Carlo III di Borbone, che voleva ufficializzare il gioco del lotto nel Regno per rimpinguare le casse dello Stato, e il frate domenicano Gregorio Maria Rocco, che lo riteneva un amorale ed ingannevole divertimento per i suoi fedeli. Il re l’ ebbe vinta ma a condizione che nella settimana di Natale il gioco fosse sospeso perché il popolo non fosse distratto dalle preghiere. Allora il gaudente popolo partenopeo escogitò il gioco della tombola che da pubblico assunse carattere familiare. I numeri furono racchiusi in un panariello di vimini e disegnati su cartelle .

Ecco di seguito i novanta numeri della tombola napoletana e il loro significato:

1 L’Italia
2 ‘ A  piccerella (la bambina)
3 ‘A jatta (il gatto)
4 ‘O puorco (il maiale)
5 ‘A mano (la mano)
6 Chella che guarda ‘nterra (letteralmente “ quella che guarda per terra”, cioè l’organo sessuale femminile.)
7 ‘O vase (il vaso)
8 ‘A Maronna (la Madonna)
9 ‘A figliata (la prole)
10 ‘E fasule (i fagioli)
11 ‘E suricille ( i topi)
12 ‘E surdate ( i soldati)
13 Sant’ Antonio
14 ‘O mbriaco (l’ubriaco)
15‘O guaglione (il ragazzo)
16 ‘O **** (il deretano)
17 ‘A disgrazia (la disgrazia)
18 ‘O sanghe ( il sangue)
19 ‘ A resata (la risata)
20 ‘A festa (la festa)
21 ‘A femmena annura (la donna nuda)
22 ‘O pazzo (il pazzo)
23 ‘O scemo (lo scemo)
24 ‘E gguardie (le guardie)
25 Natale
26 Nanninella (diminuitivo del nome Anna)
27 ‘ O cantero (il vaso da notte)
28 ‘E zzizze (air bag femminile)
29 ‘O pate d‘‘e criature (letteralmente significa il padre delle creature cioè l’organo sessuale maschile)
30 ‘E palle d‘‘o tenente ( le palle del tenente- a completamento del 29)
31 ‘O padrone ‘ e casa (il proprietario di casa)
32 ‘O capitone (il capitone)
33 Ll‘anne ‘ e Cristo (gli anni di Cristo)
34 ‘A capa (la testa)
35 L‘aucelluzz (l’uccellino)
36 ‘ E ccastagnelle ( le nacchere )
37 ‘O monaco (il frate)
38 ‘E mmazzate (le botte)
39 ‘A funa ‘nganna (la corda la collo)
40 ‘A paposcia (l’ernia)
41 ‘O curtiello (il coltello)
42 ‘O ccafè (il caffè)
43 ‘Onna pereta ‘ncopp‘‘ o balcone (la donna al balcone)
44 ‘E ccancelle (il carcere)
45 ‘O vino bbuono (il vino)
46 ‘E denare (i denari)
47 ‘O muorto (il morto)
48 ‘O muorto che parla (il morto che parla)
49 ‘O piezzo ‘ e carne (la  carne)
50 ‘O ppane (il pane)
51 ‘O ciardino (il giardino)
52 ‘A mamma (la mamma)
53 ‘O viecchio (il vecchio)
54 ‘O cappiello (il cappello)
55 ‘A museca (la musica)
56 ‘A caruta (la caduta)
57 ‘O scartellato (il gobbo)
58 ‘O paccotto (il cartoccio)
59 ‘E pile (i peli)
60 Se lamenta (si lamenta)
61 ‘O cacciatore (il cacciatore)
62 ‘O muorto acciso (il morto ammazzato)
63 ‘A sposa (la sposa)
64 ‘A sciammeria (la marsina)
65 ‘O chianto (il pianto)
66 ‘E ddoie zetelle (le due zitelle)
67 ‘O totano int‘‘a chitarra (il totano nella chitarra)
68 ‘A zuppa cotta (la zuppa cotta)
69 Sott‘e‘ncoppa (sottosopra)
70 ‘O palazzo (il palazzo)
71 L‘ommo ‘e m**** (l’ uomo senza princìpi)
72 ‘A maraviglia (la meraviglia)
73 ‘O spitale (l’ospedale)
74 ‘A rotta (la grotta)
75 Pullecenella (Pulcinella)
76 ‘A funtana (la fontana)
77 ‘E riavulille  (i diavoletti)
78 ‘A bella femmena (la prostituta)
79 ‘O mariuolo (il ladro)
80 ‘A vocca (la bocca)
81 ‘E sciure (i fiori)
82 ‘A tavula ‘mbandita (la tavola imbandita)
83 ‘O maletiempo (il maltempo)
84 ‘A cchiesa ( la chiesa)
85 Ll’aneme ‘o priatorio (le anime del purgatorio)
86 ‘A puteca (il negozio)
87 ‘E perucchie (i pidocchi)
88 ‘E casecavalle (i caciocavalli)
89 ‘A vecchia (la vecchia)
90 ‘A paura (la paura…fa novanta)

 Mi vengono in mente animate giocate a tombola , che meritano un post a parte.

E voi giocate a tombola?

Arriva Natale…

Nonostante le buone intenzioni dei primi giorni di dicembre, finalmente ieri ho finito di preparare presepe ed alberello creando un po’ di atmosfera natalizia senza ridurmi alla vigilia di Natale. Effetto di un ultimatum che mi sono imposta perché da anni, pur riproponendomi sin dall’ Immacolata di adempiere ai rituali natalizi, spesso e volentieri per intere settimane gli addobbi giacevano inerti sul pavimento del salotto in attesa di essere disimballati. Addirittura un anno, poiché partivamo a Santo Stefano prevedendo di rientrare il giorno precedente l’Epifania, ho bypassato l’allestimento natalizio comandato, con un po’ di senso di colpa per la cronica indolenza prefestiva.

 Quest’anno  ho rinnovato il presepe. O meglio, l’ho ridotto ai minimi termini con statuine giganti, che richiamano un po’ quelle antiche, acquistate dal consorte. Una bella Sacra Famiglia che troneggia su un tavolino, circondata  da una stella di Natale e da qualche ramo di abete e di agrifoglio. Mi spiace non poterlo fare come sempre, utilizzando la base napoletana doc di San Gregorio Armeno e  tutto l’occorrente.

 

 Colpa anche della gatta se da qualche anno rinvio i preparativi.

I gatti sono animali imprevedibili.  Apparentemente non ci sono mai mentre prepari l’albero e collochi le statuine cercando di creare un’equilibrata armonia di colori e di forme. Ma dopo l’impegno serale dell’intera tribù, adunatasi al completo per  discutere di logistica delle palle e delle luci, immancabilmente trovavo i rami bassi dell’alberello completamente spogli. Gli addobbi giacevano  sotto il tappeto o in angoli del salotto, probabilmente dopo avere rotolato a lungo. Qualche anno fa ci fu una strage di decori di paglia e un’ecatombe  di pastori. Tutti – dico tutti – comprese le pecore, rigorosamente coricati, abbattuti. Opera della gatta.

 Il gatto Tigro è troppo pigro per queste imprese. Gri Gri invece è intraprendente e molto furba. Non so se capisca o, semplicemente dal tono di voce, intuisca che è il momento di filare via. Quando trovai il muschio sparso sul pavimento, alzando lo sguardo la colsi in flagrante con un alberello del  presepe in bocca e, al mio perentorio invito di mollare la preda, pensò bene di rispondere non con una veloce fuga, ma con un salto sulla credenza, portando in salvo il suo trofeo. Da lì  continuava a puntare il presepe con occhi sempre più gialli e grandi, pronta a deltaplanarci su.

In casa non combina molti disastri. Li concentra tutti nel periodo di Natale, anche se in questa foto ha un’aria felinamente angelica.

 

Le ho parlato telepaticamente con uno sguardo inequivocabile di sfida, dicendole che se quest’anno assalta le statuine giganti, la ridurrò a manicotto dei re Magi. Mi sorprende la sua capacità di prendermi alla lettera. Stamattina il presepe era intatto. In compenso lo spiritello felino  ha sparpagliato qualche pallina dell’albero per le stanze di casa e, pur di portare a buon fine le sue scorribande notturne, ha imparato ad aprire la porta del salotto :)