1
Non finirò di scrivere sul mare.
Non finirò di cantare
quello che c’è in lui di estatico
quello che c’è in lui di abissale
la sua vastità disumana
senza pesantezza, senza un vero confine
la sua aridità senza sete, senza spine
le sue forme in perenne mutamento
sottomesse alle nuvole, al vento
e al cammino in cielo della luna.
Non ne conosco, non c’è nessuna
cosa più docile e più feroce
più silenziosa e più roca
più malleabile e turbolenta
di te, mare.
Ti piace contraddirti perché sei libero
e per i liberi. Ti piace ridere
sotto il bianco tiepido soffio del levante
ti piace saccheggiare con le libecciate
e piangere con nere palpebre tagliate.
Hai visto civiltà passare, quante?
Molto prima degli uomini e degli imperi
molto prima delle montagne e delle foreste
tu eri là.
Celebravi le tue solitarie feste.
Hai visto le triremi dei cartaginesi
le galee armate dai genovesi
numerose come stelle, alte come torri
le navi che portarono in Islanda
i vichinghi fuggiaschi che raccontò Snorri
Sturluson con le sue fisse metafore.
Hai visto come si nasce e come si muore,
hai visto i polipi scindersi e gemmare
meduse su meduse nei fondali,
i naufraghi invano cercare
tra ghiacci e gorghi la salvezza
e non hai mai mosso un dito per loro,
hai accolto nel tuo silenzio buio i relitti,
li hai incrostati, protetti,
sei un vecchio padrone cinico
una madre troppo carezzevole
sei un amante incestuoso
sei un onanista, un asceta.
E se ti contraddici, è perché sei libero
e per i liberi, non hai dato all’uomo
la possibilità di recintarti, di venderti
di fare di te lotti, proprietà
hai dato fiori di luce senza frutti
hai dato ricchezze, hai dato lutti
ma mai tutto te stesso.
Di te nessuno può dire: sei mio.
Sei di tutti e di un esiliato dio.
Non servi, non ti inchini
se non alla legge delle maree
che un metronomo cosmico ha definito.
Ti amano i solitari, i lussuriosi
che trovano in te tutte le sinuosità
tutte le vischiosità del piacere
ti amano gli increduli, i cercatori
d’oro e di niente,
gli esseri tenuti in scacco da un insano
desiderio di conoscere l’eterno grazie al presente
ti amano i visionari, gli avventurieri,
tu non sei per chi è statico e appagato
ti amano i disperati, prigionieri
di un sogno che non si è mai avverato.
2
Non finirò di scrivere sul mare.
Perché il mare è le Sirene la cui voce
calamitante d’amore oscura
voglio ascoltare senza paura
io che non ho dove tornare, non ho un’Itaca
né Penelope né Telemaco che valgano
più del canto e delle traversate.
Perché il mare è le balene, i cui corpi
vasti e grondanti, innocenti,
scaldano i desideri più smisurati
e danzano nel più lento
arduo accoppiamento
che si conosca sul pianeta.
Perché il mare è le onde, istantanee e frananti
che scalpitano e scavano dall’orizzonte
sino alla riva, è la spuma che riga
l’aria di salino
è sentirsi vicino
all’inizio di ogni lacerazione
al primo scoccare del tempo
alla prima decisione di una cellula
– o sogno che sia stato, dirompente e fatale –
di diventare mortale.
3
Sono esausto, sono ferito, ma
neppure così sarà finita, mare,
te lo assicuro, per quanto potrò
scriverò ancora su di una mattina
come quella che sul parabrezza
della mia auto, fuori da un parcheggio
dell’aeroporto di Nizza,
mi sei venuto immenso in corsa incontro
solcato da soffi di vento
simile a un mantello della Vergine
dipinto da Beato Angelico e gettato
su rami di meli e ciliegi fioriti.
E scriverò di quella notte
quando tu oleoso e nero, traccheggiante
tra gru e silos, pontoni e rimorchiatori
tu mare del porto, dei lavoratori
chiuso tra muraglie di container
sezionato dai moli
hai intonato da non so che punto
di te
una musica del tutto inattesa
che evoca rovine, ranuncoli e voli
crolli immani e sciami di api
rugiada ritrovata in fondo al baratro
del nulla
quella notte sul Golfo della Spezia.
E io ti dico grazie, grazie, grazie
vita, desiderio di vita,
redenzione d’amore
che dopo la distruzione
dell’universo attraverso il fuoco
fai rinascere una primula, un croco,
bisogno irrefrenabile di sempre
nuova resurrezione,
ancora vita.
Tu mare lo sai che è così.
Che non sarà finita.
4
Scriverò, mare, sulla tua anima
a pezzi nei sacchi di plastica
di chi ti avvelena e ti spopola
di chi ti snatura
e ti riscalda fuori misura
in modo che tu sciogli
monti di ghiaccio e sperdi
fuori dei confini a cui sono usi
pesci di tante famiglie
e fai proliferare le meduse.
Ci sono uomini schiavi che vorrebbero
ridurti a schiavo, profanarti
occuparti, violarti, dare un prezzo
anche a te, farti cimitero
di uccelli, delfini e migranti.
Ma non potranno. Per quanti
siano basta una tua onda a respingerli.
Non saranno mai chiuse
le porte del tuo tempio, mare,
così sante per chi ancora le sa vedere,
tu azzurro come le moschee di Isfahan,
tu dorato come la cattedrale di Santiago de Compostela
tu orizzontale come quella di Palma
de Maiorca, estesa, calma,
quasi fosse un tuo riemerso altare.
Non finirò di scrivere sul mare.
Da ragazzo volevo imparare a camminare
su di te, leggero come un ramo,
rispondendo a non so quale richiamo
di profezia, di eresia.
Lo voglio ancora, ne voglio ancora,
di mare, di poesia.
Per tutte le infelicità, le umiliazioni
per tutto quello che di male
mi fa la terraferma, tu sei medicina,
mare, spettacolo che appare
sempre crudo e dolcissimo ai miei occhi
come questo della tortora maschio
che sulla riva con assurdi tocchi
d’ala, planate, rincorse, svoli
insegue senza mai riuscire a prenderla
la tortora femmina.
Un coito impossibile, come il tuo
con la terra, come il mio con la vita.
Eppure sono qui, non è finita
ancora. E scriverò di te,
sempre di te, delle tue amare
verità di sale
della gioia che dai alle vele,
di te che sei ciurma e solitudine
di te che sei infinito e finitudine
padre o madre o fratello primogenito
spalancato come un abisso,
segreto come una conchiglia
sempre al di là di quello che possiamo conoscere –
e se ti contraddici è perché sei libero
e per i liberi – non finirò di scrivere
su di te mare, il sempre mare,
non finirò di cantare
di te.
Giuseppe Conte
da “Inediti”, in “Giuseppe Conte, Poesie”