In cammino…

 

Rosso. Un cerchio rosso mi fa frenare automaticamente al semaforo. Resto in attesa del verde mentre rincorro mentalmente orari e impegni che si sovrappongono nel fine settimana. Guardo quel rosso senza vederlo,  fa da sfondo alla mia corsa mentale. D’un tratto vedo un giovane che procede a passo svelto sul marciapiede di fronte, poco distante un altro che tira un trolley e porta a cavalcioni un bambino di circa due anni, che mi guarda senza sorridere, forse un po’ spaventato da quel passo accelerato che lo fa leggermente oscillare sulle spalle del ragazzo. Dietro una bimba con le treccine, di  circa sette anni, avvolta in un piumino lungo colore fucsia, affretta il passo per raggiungere i due che la precedono. Forse uno è il padre. Scatta il verde, resto ferma, tanto dietro di me non ci sono auto e sono in una stradina poco frequentata. Sono ipnotizzata da quella scena. La bimba ha uno zainetto e ora saltella mentre stringe qualcosa tra le braccia. Guardo dietro di lei e vedo avanzare una donna, alta, con lo scialle che le copre la testa e le spalle, un piumino beige, un jeans slancia le sua gambe affusolate. Il suo  portamento regala un’innata fierezza, un’atavica regalità. Il suo viso tradisce un po’ di stanchezza  ma quella marcia è una dichiarazione di inarrendevole forza per  proseguire. Dove state andando? Trascina un grande trolley con la mano sinistra mentre un altro bimbetto, di un paio d’anni più piccolo della bambina, si aggrappa al suo braccio e, trotterellando, cerca di stare al passo con lei che procede spedita. Sembrano avere tutti fretta, come se avessero un appuntamento. Dove andate? Sembrano una famiglia. Sono una famiglia, una giovane famiglia, bella come tutte le giovani famiglie. O più probabilmente quei giovani stanno aiutando la madre dei bambini, che cerca di raggiungere qualche familiare  oltralpe. Provengono dal campo Roja, sono a Roverino  e si dirigono a piedi verso Ventimiglia in una soleggiata e fredda mattina di dicembre.

 Scatta di nuovo il rosso. Resto ancora lì, inchiodata a quel fotogramma, mentre li vedo allontanarsi, non si voltano, corrono verso il loro appuntamento col futuro, avanzano nelle pagine della storia, seguono il filo della sorte  che li separa da nuove attese e da paesi sconosciuti. Hanno il coraggio di chi non può fermarsi di fronte a nulla, sospinti da una disperata speranza, di chi ha la tenacia delle proprie radici che non si spezzano mai, di chi sa che  bisogna solo guardare avanti  e che i giorni non sono tutti uguali, come i cieli che cambiano di continuo e parlano a tutti in sfumature diverse, anche se  solo alcuni sanno ascoltarli. Ogni loro passo batte con forza assordante nelle coscienze di tutti gli  uomini di buona volontà. La mia commozione lascia scivolare qualche lacrima impotente in questa frontiera sperduta, poi alla fine supero quel  dannato semaforo e incrocio lo sguardo della bambina che mi sorride. Rallento, la saluto, li saluto, mi salutano.

Buon Natale!

“Ma dimmi tu questi negri”- Andrea Ivaz Melis

 

 

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Ma dimmi tu questi negri 
che vengono a prendersi per disperazione 
ciò che noi ci prendemmo con la violenza, 
la spada e la croce santa, 
lasciandoci dietro solo disperazione.
Ma dimmi tu questi negri
che hanno cellulari e guardano le nostre donne, 
mentre noi da sempre
ci fottiamo le loro 
un tanto a botta nelle strade nere delle periferie, 
e prendiamo il silicio dalle cave delle loro terre, 
e come osano poi questi negri 
avere desideri proprio uguali ai nostri 
manco fossero umani.
Ma dimmi tu questi negri che attraversano il mare 
come se fosse messo lì per viaggiare 
e non per tenerli lontani, 
per galleggiare e non per affondare, 
per andare e non per tornare.
Ma dimmi tu questi negri 
ex schiavi dei bianchi 
che vengono qui a rubarci il pane 
proprio ora che gli schiavi siamo noi 
messi in ginocchio e catene 
da politici e finanzieri bianchi 
con colletti bianchi 
e canini e incisivi sorridenti 
e perfettamente bianchi, 
che in meno di trent’anni 
ci hanno fatto schiavi.
Ma dimmi tu questi negri 
che hanno scoperto ora che la terra è una, 
è rotonda, 
e che a seguire la rotta della loro fame
si arriva dritti dritti alla nostra opulenza.
Ma dimmi tu questi negri 
che facessero come i nostri nonni:
cioè tornare nella giungla e sui rami alti 
visto che sono loro i nostri progenitori
e che l’umanità è tutta africana.

Ma dimmi tu questi negri che non rispettano i confini della nostra ignoranza e i muri della nostra paura.
Ma dimmi tu questi negri che persino si comprano le sigarette 
dopo che noi ci siamo fumati le loro foreste, 
le loro miniere, 
il loro passato,
il loro presente 
ma abbiamo commesso l’imperdonabile errore di lasciargli una vita 
e un futuro 
a cui dimmi tu, questi negri, 
non rinunciano mica.
Ma dimmi tu questi negri 
che si portano il loro Dio da casa 
anziché temere il nostro, 
e sanno ninna nanne e leggende e favole più antiche delle nostre e parlano male la nostra lingua
ma benissimo le loro che però noi non capiamo.
Ma dimmi tu questi negri a cui non vogliamo stringere la mano 
né far mettere piede in casa, 
sebbene a ben guardare 
abbiano i palmi delle mani e dei piedi perfettamente bianchi. 
Proprio come i nostri.

Andrea Ivaz Melis

Giornata Mondiale del Rifugiato

 

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Oggi ho partecipato a una pacifica manifestazione al confine italo francese, organizzata da Amnesty International, proprio presso “Il Terzo Paradiso” di Michelangelo Pistoletto. In nome dei diritti internazionali dei Rifugiati e Migranti si sono ricordati  quanti hanno perso la vita lungo il confine nel tentativo di raggiungere destinazioni che garantissero loro una vita al riparo da guerre, persecuzioni e povertà. A Ventimiglia da anni c’è un costante flusso di migranti che cercano di andare in  Francia  e proseguire il viaggio verso i paesi scandinavi, la Germania, l’Inghilterra, spesso  per raggiungere parenti o amici.

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Solo nel mese di maggio  sono passate per Ventimiglia 2500 persone diverse, provenienti in gran parte dalla Siria, Costa d’Avorio, Eritrea, Etiopia, Guinea, Nigeria, Sudan, Ciad , Mali  di cui 711 ragazzi dagli 11 ai 18 anni e 1054 dai 19 ai 25 anni.

Sempre a maggio 502 persone sono stati registrate  presso la chiesa di sant’Antonio alle Gianchette, di cui 155 femmine, 347 maschi. Tra questi 30 bambini da 0 a 4 anni, 21 bambini  da 5 a 9 anni, 18 da 10 a 14, 271 dai 15 ai 18 anni, 55 dai 19 ai 24 anni,73 dai 25 ai 34 anni, 22 dai 35 ai 44 anni, 7 dai 45 ai 54 anni, 4 dai 55 ai 64 anni, 1 dai 65 ai 74 anni.

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Da oltre un anno dedico parte del mio tempo a  loro, ai giovani che sperano gli venga riconosciuto lo  status di rifugiato. Tanti se ne sono andati, altri sono rimasti. Svolgono attività di volontariato civile, stanno seguendo sperimentazioni botaniche e laboratori didattici, alcuni lavoricchiano nei  bar e  ristoranti, suonano, cantano, hanno recitato in circa venti scuole  della zona dove siamo riusciti a portare una fiaba africana, inventata da uno dei più giovani e creativi del gruppo, per fare conoscere usi e costumi africani misti agli elementi caratteristici della fiaba,  compreso il finale “e vissero tutti felici e contenti”.  

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L’integrazione non è facile, ma possibile, lavorando  soprattutto con le giovani generazioni; qui un esempio di quanto svolto nella scuola di Dolceacqua. https://www.youtube.com/watch?v=BRapnZ1reN4

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È possibile vivere insieme, confrontarsi, maturare e imparare dalla diversità. La maggior parte dei ragazzi che arrivano sperano che un giorno possano tornare a vivere liberi e in pace nella loro terra, come noi.

 

 

 

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“Ciò che non hai mai visto lo trovi dove non sei mai stato” (proverbio africano).

Solo un pesce morto nuota seguendo la corrente. Sei andato controcorrente, rifiutandoti di iscriverti alle società segrete di uomini del tuo paese, che hanno in mano la politica, l’economia e l’applicazione della legge. Se  non vi appartieni, sei tagliato fuori da tutto, dagli studi e dal lavoro, decidono sulla tua vita, anche privata, se puoi lavorare, studiare, vivere o morire, usufruire dei social bonus. Sono effetti di tradizioni radicate per cui alcuni decidono la vita delle donne, quando devono sposarsi e con chi, quando procreare.  Se le ragazze  si rifiutano, sono costrette a lasciare i villaggi, vanno altrove, dove spesso non sopravvivono se non prostituendosi. Molte vengono in Europa per una vita diversa – si spera – molto diversa. Hanno spesso dai 15 ai 17 anni.  Le donne non possono decidere nulla in quanto ogni decisione è presa dal padre, soprattutto le musulmane. A circa 14 anni le ragazzine sono costrette a sposarsi, anche contro la loro volontà. Possono studiare se la famiglia è in grado di  sostenere le spese della scuola e degli studi, le musulmane possono frequentare le scuole solo da bambine, le cristiane sono più libere. Quelle che conseguono un titolo di studio lavorano negli uffici, nelle scuole e negli ospedali, le altre come baby sitter o nelle fattorie. I datori di lavoro le assumono se disponibili sessualmente. Le donne protestano  per i loro diritti ma non sono ascoltate, come non lo sono quelle impegnate politicamente, che  propongono una modifica della Costituzione che  di fatto avalla un diritto di famiglia arcaico, fatto valere da tribunali locali di uomini.

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Te ne sei andato dalla tua città, rifiutando “l’obbligo” di iscriverti alla società segreta e lasciando una moglie e due figlioletti bellissimi. “Voglio decidere io della mia vita”, quindi sei stato escluso da tutto. Sei più giovane di mio figlio. Hai detto che lo studio e l’occupazione risolverebbero in parte i problemi del tuo paese, perché l’ignoranza è la causa di tanti mali. Pensieri già sentiti, amico mio, e torniamo a un circolo vizioso comune a ogni latitudine. Scrivesti “le donne hanno bisogno di protezione” e disegnasti una  di quelle ragazze rapite da Boko Haram, almeno così pensai, e poi in un altro un pick up con una donna strattonata per i capelli. Mi spiegasti che durante il viaggio nel deserto quella  ragazza nigeriana fu violentata, prima dagli stessi compagni di viaggio, poi dai trafficanti, e che non riuscisti a difenderla. Tua madre  ce l’ha fatta, diventando una commerciante in un’altra città dell’Africa e ti ha consigliato di partire. Siete stati solo due ragazzi a elencare, tra le tante criticità del vostro paese, la questione  femminile, e nei vostri occhi ho captato una segreta sofferenza di fronte alla quale ho taciuto e fatto un passo indietro. Il pudore non è vergogna a svelare, ma  è anche una forma di rispetto dell’altrui sensibilità. L’ho imparato da voi.

Hai affrontato il viaggio nel deserto e poi per mare su un barcone, soccorso infine dalla guardia costiera italiana. Da Lampedusa sei arrivato qui, alla frontiera del Nord. Volevi restare e invece alcuni giorni fa  te ne sei andato via, come altri. Hai istruzione ed educazione non comuni, tali che per noi eri un piccolo Lord, avevi  carisma sui compagni,  riuscivi a placare gli animi inquieti aiutandoci a comunicare con i ragazzi quando ci sono state tensioni o incomprensioni. Con me hai parlato, avevi un mondo da raccontare, non è stato facile sbloccarvi ma l’arte terapia funziona, serve a voi ma è servita tanto anche a noi tutte. Ci avete cambiate, come cambia chi vede la lucentezza della luna dall’altra parte della Terra. Le vostre storie sono una risorsa di forza e umanità e lo sarebbero soprattutto per i nostri figli. Sono però  le lungaggini burocratiche che vi snervano, l’inerzia, l’attesa, l’impossibilità di fare qualcosa, la convivenza con altri accomunati da un passato, spesso da dimenticare, e da un futuro incerto. All’inizio sognavi come tutti, poi come  tanti, poi solo come quelli arrivati di recente. Hai portato la tua testimonianza in pubblico, eri molto emozionato ma condividevi che la gente deve sapere, la gente deve vedervi, deve parlare con voi per rendersi conto di quel che siete. “L’Africa non è solo leoni, elefanti e zebre, ma un popolo, gente  che pensa e prova sentimenti e scappa via dal suo paese perché vuole vivere” come ha spiegato uno di voi ai ragazzini delle scuole.

disegno-migranti  Di recente eri pensieroso, a volte nervoso. Un tuo  compagno mi ha consegnato due tuoi disegni, dicendomi che li avevi fatti per noi. Un ultimo messaggio maturato di notte per ringraziarci e salutarci , ma soprattutto un appello “Cambiate le vostre leggi  sui rifugiati.” Immagino mentre lo scrivevi, perché quel disegno lo avevi iniziato un sabato e non volesti spiegarmi nulla. La tua mente non ha confini, viaggiare è anche cambiare mente e pregiudizi, e tu ne sei consapevole. Dicono che chi viaggia ha più strade, chi stende le ali e molla tutto si lancia in un’ avventura per allontanarsi dalla propria vita, con un senso di libertà e un brivido di paura. Per allontanarsi sì, ma anche arrivare prima a se stesso, cimentandosi in prove che solo lo sradicamento rende possibili. Forse di fronte alla libertà del mare hai sognato un porto in cui arrivare che valesse tutta quell’acqua da attraversare. Il mare ridimensiona e  cambia prospettiva, separa e unisce popoli e terre. Quel viaggio vi ha dato nuovi occhi, per sperare. “Sembra esserci nell’uomo, come negli uccelli, un bisogno di migrazione, una vitale necessità di sentirsi altrove” (Marguerite Yourcenar) e c’è anche tanta bellezza in tutto questo.

Oggi è Natale, giorno della nascita di Cristo. Un altro profugo, un perseguitato, un diverso che ha attraversato la storia controcorrente e ha segnato il tempo.

Oggi ti auguro di cuore  buona fortuna, amico mio, ovunque tu sia. Segui sempre la luce che hai dentro di te.

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Buona fortuna, ragazzi!

Dipende da come ci si pone.

Caro Babbo Natale…

Buona fortuna, ragazzi!

In uno zaino immaginario tra le cose che avreste voluto portare con voi avete disegnato magliette, pantaloni, scarpe, cellulari,  palloni da calcio, computer, libri, raramente villaggi, costantemente scritte sulla pace, a volte una preghiera. Tutti avete scritto il vostro nome, cognome e provenienza a grandi lettere o con una bandiera. Un’identità che sentite con fierezza e nostalgia di affetti lontani. Ricordate i nomi dei genitori, di padri scomparsi, dei fratelli più piccoli rimasti là e che sperate di potere aiutare da qui, dei  nonni e anche dei bisnonni di entrambi i rami della famiglia. Avete radici giovani, ma forti e profonde.

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Siete proiettati in avanti, ambìte, avete spiccato il salto per osare e conquistare il domani. “Voglio riprendere gli studi”. Hai lasciato la Nigeria e l’università al secondo anno di economia, in quegli occhi così neri c’è una vivacità incredibile, sei  brillante, hai talento per la recitazione. Ricordo quando arrivasti imbronciato e mi dicesti “I’m not happy, I’m sad, I’m angry”.20160910_113503

” Parliamone”. Ne abbiamo parlato, prima con esitazione poi con sicurezza hai raccontato l’immobilità del presente e un più soddisfacente futuro immaginato che non so se mai qualcuno riuscirà a garantirti, eppure i tuoi 19 anni ne avrebbero diritto in qualsiasi parte del mondo. Oggi non eri a lezione. Mi hanno detto che sei andato via, con la noia che ti  rodeva dentro perché, presumo,  la tua intelligenza e giovinezza scalpitano. “Perché sei andato via dal tuo paese?” “Perché la mia famiglia ha avuto problemi, tanti problemi” e lo sguardo si è rattristato come quando pronunciasti il nome di tua madre: Peace. Ti auguro di realizzare quel sogno americano che hai negli occhi, non sta a me giudicarlo, riprenditi un po’ di benessere con ciò che le tante multinazionali hanno tolto alla tua terra, questo sì. Di te resta il tuo bel ritratto con la maglietta  verde e bianca come la bandiera del tuo paese, che ha i colori delle foreste, dell’agricoltura e della pace. Restano le frasi di un romanzo e un’invocazione a Dio con  i nomi delle tante squadre italiane di calcio,  il fumetto in cui pensi di diventare un footballer, ma in realtà ti saresti accontentato di un lavoro qualsiasi.

 Tu invece sei più semplice e scanzonato, simile a un rapper americano nei modi ma sogni di diventare un  musicista, e ti piace ridere e  ballare come nel giorno del tuo compleanno che per te è stato il giorno più bello della tua vita di cui hai subito parlato ai tuoi per telefono.  Invece tu ti  dichiari nigeriano ma hai il Biafra nel cuore, un’appartenenza che rivendichi con fierezza. Il tuo nome è “giorno del Sole”, quando parli del tuo paese sembri un  guerriero che con gli occhi stretti  fissa l’orizzonte  accompagnando il sole nel  tramonto con la  consapevolezza che domani riapparirà.Ben concentrato con le cuffie nelle orecchie, come me quando scrivo, hai disegnato  il simbolo  della pace e scritto in inglese “C’è bisogno di orgoglio e di un po’ di rabbia per la libertà del mio paese”. Sei arrivato in Italia  perché là non c’è futuro, vuoi che gli occidentali capiscano che l’Africa sta morendo nell’ indifferenza del mondo intero.

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Oggi non eravate a lezione. Mi hanno detto che ve ne siete andati, forse in Germania. Buona fortuna, ragazzi! Forse oggi avrei saputo di più della vostra vita, ma la rivedo in quella dei vostri amici e di quelli che sono arrivati e hanno disegnato imbarcazioni piene d’acqua, navi della guardia costiera che soccorrono naufraghi, campi lager libici, gestiti dai trafficanti, dove mangia e beve solo chi può pagare pane e acqua e non si fanno sconti nemmeno a donne e bambini, e si sopravvive senza servizi igienici e docce e chi muore viene abbracciato dal mare. Vi immagino sui pick up Toyota, anche voi ammassati con una ventina, più spesso trentina di altre persone, in viaggio da una o due settimane nel deserto, con fermate solo  notturne per dormire al freddo, senza cibo, i più fortunati mangiano  qualche biscotto quattro – cinque volte durante tutto il viaggio e bevono da taniche, da sacche appese ai bordi del veicolo, da una bottiglietta, Destiny non ha avuto nemmeno quella, e   i più deboli sono gettati nella sabbia del deserto, unica destinataria delle loro speranze.

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In quei furgoni ci sono anche donne e bambini, si consumano violenze a discapito delle ragazze costrette a pagare con ulteriore sofferenza il diritto a vivere.

Buona fortuna, ragazzo ! Avrei voluto salutarti e lo faccio adesso. Non avere paura di non essere “adeguato”, non importa la mala sorte passata “ perché comandano i desideri, perché non siamo (solo) nel mondo materiale dove le cause sono tutto, qui nel mondo umano le finalità decidono i comportamenti, cioè è quello che vedi davanti che spiega i tuoi movimenti e allora buttati nel vuoto, guarda che nessuno ha imparato a volare prima di buttarsi. Allora confonditi, commuoviti un po’, prendi tutte le tue energie e vai, è proprio nel momento che ti sei lanciato che sperimenti la comprensione, proprio quando ti dimentichi di te stesso, incredibile ! “ (cit. prof. Camillo Bortolato). In fondo la vita è come l’apprendimento, è essa stessa continuo apprendimento che richiede capacità di mettersi in gioco, è  un’ opportunità da cogliere al volo,da tenere stretta e difendere, da conquistare a volte con gradualità, a volte con lo slancio di una sfida . È naturale per i bambini di 12 – 14  anni, in viaggio da soli, i  più abili nella fuga  grazie all’ esaltante incoscienza e irrequietezza di chi è ancora libero dai condizionamenti e, nonostante tutto, riesce a ridere.  Afferrate la vostra vita con quel sorriso contagioso, che nasconde con pudore ciò che vi ha reso uomini troppo presto, stringetela forte con quel coraggio e voglia di guardare  avanti e farcela che in fondo in fondo vi invidiamo e spaventa tanto chi non sa più sognare come voi.

Libertà di emigrare e diritto a non emigrare

Alcuni giorni fa  ho partecipato all’evento “Libertà di migrare” che prevedeva la mostra di semplici disegni fatti dai migranti alla frontiera di Ventimiglia, la lettura di alcune testimonianze raccolte da Monica e un’amica, che li hanno seguiti durante le attività, e un dibattito finale.

20151014_170140A Ventimiglia ci sono state centinaia e centinaia  di migranti in attesa di varcare i confini francesi, ma sempre respinti, infatti molti si sono poi diretti verso il Brennero sperando di riuscire a raggiungere  l’Inghilterra, la Norvegia, la Germania. Sono stati aiutati da enti, da associazioni, da volontari e dai ragazzi No Borders, che sono stati presenti al confine fino allo smantellamento del presidio, e hanno anche partecipato all’evento in un confronto – spero- chiarificatore e costruttivo.  

Il progetto di arte terapia,  curato da Monica Di Rocco, ha coinvolto volontariamente tanti giovani  africani, e prevedeva la rappresentazione grafico-pittorica di tre temi: 1.la libertà- 2. l’isola (tante isole vicine per formare un unico continente ove sia possibile convivere)  3.sogni, desideri, speranze. Il disegno più emblematico, realizzato da un giovane laureato del Sudan, è stato scelto come locandina dell’evento.

Negli altri emergono capanne colorate, ricordate o sognate con gli occhi dell’affetto, oppure violate e distrutte. Affiorano spesso barconi dove i migranti si intravedono a stento, mentre domina la scritta “Non si fa nulla per prevenire le migrazioni”. Tra capanne, cuori e ponti spicca “Vogliamo essere liberi in Sudan, vogliamo un nuovo Sudan!” Emergono catene spezzate, mappe e  mete ambìte: Parigi o Londra? Il mito dell’Europa dà speranza a chi ormai può solo guardare avanti per sopravvivere.

Ci sono state e ci sono polemiche a riguardo dei migranti. Resta il fatto che i conflitti, le persecuzioni, la fame e di conseguenza il fenomeno delle migrazioni,  sono stati a lungo ignorati dalla Comunità Internazionale. L’Unione Europea si è mossa solo quando ormai sulle spiagge del Mediterraneo sono sempre più approdati cadaveri e forse le manifestazioni spontanee della gente nelle piazze alla vista di tante immagini drammaticamente vere, compresa  quella del  piccolo Aylan, sono servite. Si è dovuto arrivare a questo per sensibilizzare i Governi europei ? Alcuni Stati sono ancora restii all’accoglienza, forse hanno già dimenticato i loro profughi, polacchi e ungheresi, che appena arrivati in Italia chiedevano asilo politico.

Per troppo tempo abbiamo  sentito slogan populistici, vorrei quindi condividere con voi alcune delle testimonianze che abbiamo letto al pubblico presente perché è  doveroso riportare altre voci, comprendere che le aspirazioni di questi giovani sono le stesse dei nostri figli, ricordare che l’istinto alla sopravvivenza è il motore della vita. Gli occhi spaesati dei tanti ragazzi nei pressi della stazione di Ventimiglia, mi hanno ricordato mio padre che nel dopoguerra, a 21 anni, partì per Genova in cerca di lavoro col fratello di qualche anno più grande, portando con sé una valigia di cartone  semivuota, ma piena di solitudine, affetti lontani e bisogno di trovare una strada, un qualsiasi lavoro. Alla fine della lettura, l’amica Monica  ci ha invitati a disegnare o scrivere qualcosa su un grande foglio di carta. Sono riuscita a scrivere soltanto  “ RESTIAMO UMANI !”

“Vengo dalla città. Ero un giornalista. Ho 40 anni. È dal  ‘94 che le cose sono peggiorate in Sudan, se sei nero. Gli arabi sono al potere. Gli arabi islamici sono al potere. Se scrivi una cosa che non gli piace, sei finito. Sono stato in carcere oltre cento volte. Sono stato aiutato più volte da Amnesty International: sono stato rifugiato in Kenia e in Ghana. Ma perché ritornavi a casa? Perché c’è la mia famiglia. Ecco la foto della mia terza figlia, ha 6 anni. Sono stato aiutato a scappare varie volte, ma non potevo rimanere troppo lontano da mia moglie e dai miei figli. Ho anche lavorato per un campo dell’UNHCUR nel Darfour. Quando sono stato via per più tempo, è stato in Ghana per otto mesi, ma mi è piaciuto molto più stare in Kenya. Quanto tempo sei stato in carcere nel tuo paese? Dipende, da dieci giorni ad alcuni mesi. Ti faccio vedere” (l’uomo si alza la maglietta e mostra una pancia che converge verso l’ombelico come se avesse subito un’operazione che ha lasciato un buco).

 

“Il mio viaggio fin qui è durato sei mesi. Sono partito dal Darfour nel marzo 2015. Ho preso una Toyota e ho viaggiato per tre giorni fino in Ciad Eravamo in 25. Si è sempre tra le 20 e le 27 persone su una Toyota. Quanto hai speso? 700 dollari. Poi mi sono fermato in un campo profughi e ho fatto dei lavoretti in giro. Anche lì la situazione è molto difficile. Dopo due mesi me ne sono andato. Con un’altra Toyota, di nuovo affollata, per attraversare il deserto. Cinque giorni molto difficili . Non vi siete fermati mai? Praticamente mai. La vedi questa bottiglia? Ecco questa serviva per tre giorni. La sete è dura. E poi l’autista, ma non solo quello che ho trovato io, era sempre ubriaco. Molto pericoloso. Ma sono arrivato in Libia. Qui ho lavorato per quattro mesi in un bar. Dieci  giorni fa sono partito con una barca. Ho speso 2000 dollari per la traversata del Mediterraneo, sono arrivato in Sicilia una settimana fa . Qual è stata per te l’esperienza più dura? I morti a casa, i morti nel deserto. Alla fine hai speso molto di più per arrivare in Europa in questo modo che se avessi preso un aereo? (risata contenuta) Dal Sudan partono in aereo solo il Presidente e la sua famiglia. Solo loro possono andare dove vogliono.”

“Io ci ho messo 13 giorni per attraversare il deserto di cui tre a piedi senza bere. Ci hanno lasciati in mezzo al nulla dopo 10 giorni…con chi è arrivato, non so come abbiamo fatto.  È stata molto dura, molto più dura del mare”.

“Per me il mare è stato molto più duro, non si respirava, ci si vomitava addosso l’un con l’altro, non ho visto la luce per una settimana. Quanto hai speso? 1800 dollari.”

“Ho 25 anni, vengo dal Sudan, dal Darfour. Sono della tribù degli Zakhoy, molti qui al campo sono Zakhoy. Non siamo partiti insieme, ma ci siamo incontrati qui in Italia, ci siamo riconosciuti perché parliamo la stessa lingua. Sono scappato dal Darfour perché là la situazione è molto difficile. Cosa intendi per difficile? Difficile. Ero arrivato al quarto anno di ingegneria, ma ho dovuto lasciarla. Il governo Al-Bashir arma la gente contro i cristiani e contro i Neri. Ci sono molte armi in giro ,anche i bambini possono essere armati. Così chi non è islamico…Ma tu lo sei? Sono musulmano, non islamico; se sei musulmano e non islamico, se sei nero e non arabo, sei sempre a rischio. Sei a rischio della vita, ma anche a rischio in ogni aspetto della tua vita. Io ero al pensionato universitario a Khartoun e perché non ero dei loro, venivo taglieggiato di continuo: “Vuoi  sempre la stanza? Devi pagare tot.” Magari dopo un po’ ti chiedono altri soldi. Non ero mai tranquillo.

Anch’io vengo dal Darfour. Ti faccio vedere questa foto. Lo vedi? Tutte le case sono state bombardate, anche sui raccolti cadevano le bombe. C’è una bellissima donna anziana qui!  Sì, solo donne anziane e bambini. Vedi queste cicatrici?  Sono state fatte da forbicine…fanno così su tutto il corpo. Chi? Gli Islamici.

“Veniamo dall’Etiopia. Abbiamo 20 e 22 anni. Abbiamo studiato ad Addis Abeba. Nostro papà è un politico ed è dovuto scappare alcuni anni fa . Si trova in Norvegia e dobbiamo raggiungerlo. Mio fratello è partito due anni fa, poi è finito in un carcere libico, nel caos che c’è là in Libia. Come famiglia non riuscivamo ad aiutarlo a distanza, così sono partito io e con l’aiuto di tutta la famiglia l’abbiamo tirato fuori. Quanto hai pagato? 1000 dollari. Che farete? Io e mio fratello vogliamo arrivare in Norvegia .Dobbiamo trovare nostro padre. Da quanto non avete sue notizie? Da tempo, ma lo vogliamo cercare.

Quali sentimenti provi adesso che dopo tutte queste fatiche, dopo questo sforzo trovi ancora le porte chiuse? È un sentimento contraddittorio. È un sentimento contenuto. Non so spiegarlo bene. Sono ancora in viaggio. Qui a Ventimiglia ci starò il tempo sufficiente per ripartire, non so, magari ancora una settimana.

 

Come hai saputo del presidio No Borders? Me lo hanno detto altri alla stazione di Ventimiglia. Perché non sei rimasto in stazione? Va bene qui. Il tempo per riprendersi e ripartire.

Il mio obiettivo è arrivare in Inghilterra. Voglio continuare i miei studi. Sono uno studente. Anche se l’Inghilterra è lo stato con le porte più chiuse? Proverò a passare. Non hai parenti in Europa? No, non ho nessuno, sono solo.

Io voglio arrivare tra la Germania e il Belgio. Ho parenti là.

Io voglio andare a Newcastle. In Darfour ho conosciuto una ONG di Newcastle, devo raggiungere quella città, ci sono amici là.

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