“Il resto è silenzio” (William Shakespeare)

Mina Saqr

Un paio di scarpe slacciate. Non per percorrere ma per fermarsi e lasciare l’indizio di un salto dannato e liberatorio nello sfavillio di stelle sulla superficie notturna del mare. Nessuna ricerca ha fatto riemergere nuove tracce, parole dette, scritte, sguardi con domande e risposte, dubbi e certezze. Il silenzio  è la quiete prima  e dopo la tempesta , la calma del mare che  bruca  la riva senza forza, l’immobilità di luci che si spengono all’ improvviso . Un tempo senza durata, una stasi che scardina ogni dinamica, un’ambiguità  che respinge, un’attrazione che avvita nel profondo. Il silenzio ascolta nascosto nel pudore, insegna senza parlare, libera  e doma l’odio e l’amore, causa  persecuzione e salvezza,  irradia il  coraggio mascherato da fragilità e l’ignavia da omertà, segna l’Inizio e la fine di una storia qualsiasi.

“ Chi muore in silenzio si vendica della curiosità altrui.”(Alda Merini). Non è necessario né è dato sapere,  si può solo  soppesare quel  vuoto che invade, quella  lontananza che marchia, quella compagnia che avvicina alla solitudine  e all’ indefinito . “Se per dirlo bastano tre righe, bisogna limitarsi a quelle tre righe. Se per dirlo bastano tre parole, bisogna limitarsi a quelle tre parole. Se per dirlo basta una strizzata d’occhio, bisogna limitarsi a quella strizzata d’occhio. Se per dirlo basta una ruga, bisogna limitarsi a quella ruga. Se per dirlo basta il silenzio bisogna limitarsi a quel silenzio. Non aggiungere. Togli” (David Thomas). Togli per continuare ad osservare il mondo.

Per Genova – 7 maggio 2013

Vasto, dentro un odor tenue vanito

Di catrame, vegliato da le lune

Elettriche, sul mare appena vivo

Il vasto porto si addorme;

S’alza la nube delle ciminiere

Mentre il porto in un dolce scricchiolìo

Dei cordami s’addorme: e che la forza

Dorme, dorme che culla la tristezza

Inconscia de le cose che saranno

E il vasto porto oscilla dentro un ritmo

Affaticato e si sente

la nube che si forma dal vomito silente.

 (da “Genova” – Dino Campana)

 

Cimitero Acattolico di Roma: quando la bellezza nobilita la morte

Il Testaccio è un colle che probabilmente deriva il suo nome dal latino “testa”, cioè anfora, perché si formò con l’accumulo dei cocci di anfore contenenti vino e olio e provenienti dal porto di Roma. Nel quartiere del Testaccio, vicino a Porta San Paolo, si trova un’oasi di pace eterna e serenità, cioè  il Cimitero acattolico ove riposano inglesi, tedeschi, americani, scandinavi, russi, greci, orientali, africani  ma anche italiani.  

Tanti sono i nomi che lo designarono: cimitero inglese, protestante, poi  dal 1921 in senso lato degli acattolici, ma anche degli artisti e dei poeti.
È “una mescolanza di lacrime e sorrisi, di pietre e di fiori, di cipressi in lutto e di cielo luminoso, che ci dà l’impressione di volgere uno sguardo alla morte dal lato più felice della tomba…”

(Henry James,1873)

 

Lunga è la storia di questo cimitero. Secondo le leggi ecclesiastiche  dello Stato pontificio nessun acattolico poteva essere sepolto in una chiesa cattolica  o in terra benedetta; inoltre le inumazioni erano consentite solo di notte per garantire l’incolumità dei partecipanti al rito funebre  ed evitare  il furore dell’ intollerante e fanatico popolino.

L’area dell’odierno cimitero faceva parte dell’Agro romano ed era detta “ i Prati del popolo romano” che  era una zona di bagordi da osterie e di feste campestri.

 Si sa con certezza che nel 1738 vi fu sepolto uno studente venticinquenne di Oxford, di nome Langton, la cui tomba fu scoperta nei pressi della Piramide Cestia.  Circa trent’anni più tardi  anche uno studente di Hannover vi trovò sepoltura perché, come riferito al papa, amava Roma e aveva espresso il desiderio di riposare presso la suggestiva Piramide di Caio Cestio. Così il papa fondò il cimitero.

Agli inizi dell’800 il ministro di Prussia presso la Santa Sede, Guglielmo Von Humboldt, ottenne la proprietà di un pezzo di terra ove seppellire due figli morti prematuramente. A inizio ‘800 però le tombe sorgevano in piena campagna tra greggi, agrifogli, fiori di campo, ed erano esposte al rischio di profanazione da parte di ubriachi e fanatici che così vendicavano l’espropriazione dei Prati romani. Ciò indusse  nel 1817 i diplomatici della Prussia, dell’Hannover e della Russia  a rivolgersi al cardinale Consalvi, segretario dello Stato pontificio, per poter recingere a proprie spese il cimitero. Soltanto quattro anni più tardi, dopo ulteriori sollecitazioni anche da parte di un principe danese e del Parlamento inglese, il cardinale provvide e concesse quella parte, detta zona antica, vicina alla piramide Cestia, ma vietò di piantare nuovi alberi. 

Nel 1894 l’Ambasciata di Germania acquistò 4300 mq in aggiunta all’area cimiteriale esistente, e la suddivise  in tre zone che si snodano in salita fino alle mura Aureliane tra cespugli, cipressi e tanti ciuffi di violette bianche e lilla che crescono spontaneamente. In  alto, lungo le mura, si scorgono iscrizioni di marmo con i nomi dei defunti perché fino al 1870 furono vietate epigrafi e croci con riferimenti alla beatitudine eterna in quanto per le autorità ecclesiastiche non poteva esserci salvezza per i non cattolici.

Dal 1822 il cimitero fu curato dal guardiano della Piramide, più tardi dai suoi discendenti e si iniziò ad inumare i defunti nella zona nuova. Il cimitero resistette ai combattimenti del 1849, alle cannonate del 1857 e ai bombardamenti della II Guerra Mondiale. 

Circa quattromila persone di tutte il mondo riposano in questo giardino; di alcuni non si conosce l’identità in quanto è andato perso l’Archivio in tempo di guerra. Vi sono  intellettuali, artisti, letterati, diplomatici, principi e nobili di varia provenienza e di fede diversa dalla cattolica o atei. Basti ricordare Keats e Shilley  le cui tombe sono meta di tantissimi turisti inglesi. 

Keats morì a Roma all’età di 26 anni e riposa accanto all’amico pittore Joseph Severn. Sulla lapide si legge:

“ Questa tomba contiene i resti mortali di un GIOVANE POETA INGLESE che, sul letto di morte, nell’amarezza del suo cuore, di fronte al potere maligno dei suoi nemici, volle che fossero incise queste parole sulla sua lapide: “Qui giace uno il cui nome fu scritto sull’acqua” Poco distante, una lastra marmorea, in risposta a questa frase mostra l’acronimo: Keats! Se il tuo caro nome fu scritto sull’acqua, ogni goccia è caduta dal volto di chi ti piange.”

 

 Shelley, morto a 29 anni  in un naufragio al largo della costa toscana, è in alto, sotto un torrione delle mura Aureliane. Una lastra custodisce le ceneri con la scritta “Cor cordium”(cuore di tutti i cuori”) e i versi della Tempesta di Shakespeare. 

Un angelo accoglie  dalle acque del Tevere Rosa Bathurst, una ragazza di sedici anni, ammirata per la sua bellezza, intelligenza e fascino. Nel 1824 il fiume la trascinò via mentre cavalcava con amici. La sua tragica fine scioccò Roma, anche perché  suo padre, giovane diplomatico inglese, era già scomparso durante una missione a Vienna.

 

Tra i tanti , quali il figlio di Goethe, il poeta della Beat generation Gregory Corso, la stilista Irene Galitzine, l’attrice Belinda Lee, il commodoro ed esploratore americano Thomas Jefferson Page la cui tomba è opera di Ximenes,ecc… si ricordi anche Naghdi Mohammed Hossein diplomatico iraniano e leader della Resistenza, ucciso a Roma nel 1993.

 

Nel cimitero acattolico ci sono anche italiani: Antonio Labriola, Carlo Emilio Gadda, Dario Bellezza, Luce Eramo, Bruno Pontecorvo,  Amelia Rosselli, i figli di Marconi, l’eroe risorgimentale Gavazzi e Antonio Gramsci.

 

Di Gramsci, esiliato in vita e  in morte, Pasolini scrisse :

“Uno straccetto rosso, come quello

arrotolato al collo ai partigiani

e, presso l’urna, sul terreno cereo,

diversamente rossi, due gerani.

Lì tu stai, bandito e con dura eleganza

non cattolica, elencato tra estranei

morti: le ceneri di Gramsci…”

Qui la morte non opprime né spaventa, semmai  induce a riflettere  serenamente  mentre si passeggia tra cipressi, pini e mirti  con lo sfondo di una svettante, suggestiva e bianca Piramide. Tra ciuffi di violette bianche e lilla, che spontaneamente crescono per terra, capita di scorgere uno dei tanti gatti della Piramide che dorme sornione o che si stiracchia godendosi il sole primaverile. 

 

Quanti  sono cullati dalla Città eterna, per caso o per scelta, a volte troppo presto! Tanti sono vegliati da mute presenze che  custodiscono destini ineluttabili, segreti indicibili, innocenze cristallizzate e restano lì ad espiare il dolore o in attesa.

Uomini, donne, ragazzi e bambini di paesi e lingue diverse sono accomunati dallo stesso silenzio, lontani da ogni affanno, da ogni fama, da ogni strada. Tra gli illustri c’è anche l’ossario per i Romeni Ortodossi Apolidi e tombe comuni della chiesa Ortodossa russa destinate ai non abbienti o a coloro che ebbero una sepoltura provvisoria. Qui scompaiono i confini di età, di cultura e di origine ma si coglie una  sola, pietosa accoglienza per una comune cittadinanza .

Qui si può piangere di commozione dinanzi all’ armoniosa e struggente bellezza dell’Angelo del Dolore, scolpito dallo scultore statunitense William Wetmore Story che ha ispirato decine di copie nel mondo. Qui si può respirare un po’ di eternità alzando gli occhi verso l’Angelo  della Resurrezione che s’erge tra i cipressi  nella sua elegante solennità. Immortali emblemi della purezza del dolore  e del riscatto dalla vita terrena. 

 

 

Rione Sanità- le catacombe di Napoli

 

Ai piedi della collina di Capodimonte si  estende il rione Sanità, un noto quartiere popolare di Napoli che nel 1898 diede i natali a  Totò in Via Santa Maria  Antesaecula e in seguito ha ispirato trame e personaggi di  numerosi film e opere teatrali. Qui hanno abitato popoli provenienti dal Sud e dall’Est del mondo, africani e cinesi, e sono passati  nobili, papi, re e cardinali. Qui è molto forte il senso di appartenenza ai vicoli, ai palazzi, agli usi e costumi, ai riti sacri e profani dettati dalla religione e dalla magia.

Napoli ha un cuore e un ventre, in cui è  dislocato un patrimonio nascosto, archeologico e artistico, da scoprire attraverso una stratigrafia che s’addentra  nelle viscere della terra.

L’invisibile Napoli sotterranea si articola  in un labirinto di cunicoli, pozzi e cisterne, ipogei e cave greche, catacombe,  gallerie di epoca romana, ossari e tombe scavati nel tufo. È una città oscura, luogo di passaggio e tramite tra il mondo conosciuto e quello sconosciuto e silenzioso  dell’Oltretomba,  dove si confondono storia e leggende, fede e superstizione. Un  mondo sommerso col quale i napoletani  si conciliano per esorcizzare la paura della morte e, seppur limitatamente ancor oggi, si alleano offrendo preghiere e cure ad ignoti defunti, anime pezzentelle del Purgatorio, in cambio di grazie e favori,  quali una guarigione, un matrimonio o numeri vincenti al lotto nella speranza di ingraziarsi la buona sorte per sopravvivere ad un’esistenza complicata, ad un atavico  destino reso avverso dalle epidemie di peste e colera, dalle alluvioni e terremoti, dalle dominazioni del dio o del potente di turno accettati con fatalistica rassegnazione.

Un universo buio, lugubre, sospeso in un sonno eterno, che porta al nulla o a qualcosa, ove si smarriscono le coordinate di spazio e tempo.

 Napoli è simbiosi di vita e di morte, entrambe celebrate e consacrate attraverso funzioni, devozioni e rituali  che confluiscono nel radicato culto dei morti.

I sepolcri più antichi sono gli ipogei greci della Sanità e dei Vergini, situati a  10-11 metri di profondità dal livello della strada.  Le necropoli risalgono al IV e II secolo a. C. e sono ricche di sarcofagi dipinti e scolpiti che ricordano le tombe anatoliche, macedoni ed alessandrine. Per lungo tempo rimasero sepolte  dalla “lava”, cioè dal fiume alluvionale di detriti e fango che fino agli anni ’60 ha  afflitto questa zona.  In effetti sin dal tempo dei greci si estraeva il tufo , impiegato per le costruzioni,  dando così  luogo a  immense grotte e cavità. Prima ancora che le cave di tufo fossero adibite ad ossari , le famiglie dell’aristocrazia greco-napoletana, che fuse elementi greci e sanniti, vi costruirono  eleganti sepolcri. Da qui il nome di “Valle delle tombe”. Nelle stesse aree sotterranee  dagli ipogei si è poi passati nel II secolo alle catacombe paleocristiane di San Gennaro, San Gaudioso e San Severo, che prendono nome dalle spoglie dei martiri.

Nelle vicinanze del santuario della Madonna del Buon Consiglio (zona di Capodimonte) si estende il vasto complesso cimiteriale delle catacombe di San Gennaro, nate tra il II e IV secolo  e articolate  su due piani e in più corridoi, a differenza di quelle romane. Divennero luogo religioso e di sepoltura quando accolsero i resti del vescovo Agrippino e nel V secolo furono dedicate a San Gennaro , il cui corpo pare sia stato collocato qui per lunghissimo tempo. Oltre a reperti e affreschi di interesse artistico sono un luogo suggestivo, cosparso di nicchie e loculi, grandi e piccoli. Pare che vicino al santo potessero riposare solo i puri di cuore, quali i bambini, e questo spiega la presenza di piccoli loculi sulle pareti. 

Fino all’XI secolo vi furono sepolti i vescovi napoletani, subirono saccheggi tra il XIII e XVIII secolo e infine furono  restaurate dopo il trasferimento dell’ossario nel Cimitero delle Fontanelle.

Dopo circa 40 anni di chiusura ora sono state riaperte al pubblico e vi si accede o dalla collina di Capodimonte, a fianco della  chiesa della Madre del Buon Consiglio, o  dalla Basilica di San Gennaro fuori le mura, situata all’interno dall’ospedale di San Gennaro dei Poveri nel rione Sanità.

 

L’intero quartiere Sanità è dominato dalla cupola della Basilica di Santa Maria della Sanità, rivestita di  maioliche smaltate gialle e verdi . Fu costruita dai  Domenicani  tra il 1602 e il 1613 , su progetto di Giuseppe Donzelli detto Fra Nuvolo. E’ nota come la chiesa di San Vincenzo,detto o’ Munacone in onore del domenicano Vincenzo Ferreri,  uno dei tanti santi protettori della città. Una sontuosa scala a tenaglia, che porta all’altare maggiore, incornicia la cripta dalla quale  si accede alle nascoste catacombe paleocristiane di San Gaudioso, risalenti al V sec. d. C. dove fu sepolto Settimio Celio Gaudioso, vescovo di Abitine, una località non identificata dell’Africa proconsolare.

 La catacomba di San Gaudioso è il secondo cimitero paleocristiano di Napoli per ampiezza e importanza, dopo quello di San Gennaro. Ha subito trasformazioni, per cui è difficile definirne l’estensione o  l’esistenza di locali più antichi di quelli attuali. Fu abbandonato  all’ incirca nell’anno mille e in seguito le “ lave” lo invasero nascondendone l’ingresso.

 

In un’edicola nell’angolo nord della cripta, nel 1579 si scoprì un’immagine della Madonna alla quale iniziarono ben  presto a rivolgersi  alcuni devoti. È la più antica raffigurazione mariana dell’arte paleocristiana di Napoli, forse del V o VI secolo. La pittura è quasi svanita e la si nota osservandola da lontano: la Madonna, seduta e velata,  ha in braccio il Bambino che stende il braccio destro spiegando le prime tre dita della mano quasi per benedire o indicarela Trinità, mentre la mano sinistra è sul globo sormontato dalla croce e appoggiato sul ginocchio della madre. A questa Madonna si attribuirono una serie di miracoli e divenne oggetto di culto popolare e meta di pellegrinaggi. Un frate domenicano, Antonino da Camerota, in poco tempo raccolse elemosine per  costruire una chiesa in onore della Vergine. Fu accusato di superstizione, idolatria, raggiro ed estorsione di denaro  ma il processo fu insabbiato e nel 1581 il frate fu scarcerato e riabilitato. Ripresero i lavori di costruzione della chiesa che fu ultimata in pochi anni.

Caratteristica  delle catacombe di San Gaudioso sono le nicchie a forma di sedile, dette “cantarelle” che  servivano per una particolare tecnica di inumazione : il morto veniva sistemato nella nicchia dotata di  un vaso a due manici sottoposto e ricavato nel tufo ( da kantharos , coppa greca a calice con due anse,  da cui cantaro che nelle basiliche cristiane era la vasca per le abluzioni e da cui è derivato più prosaicamente il vocabolo napoletano o’ cantaro, cioè il vaso da notte). Il defunto veniva messo a “scolare”  fino alla decomposizione, così poi i suoi resti venivano deposti in un ossario comune o in una tomba privata .Si pensa che gli “schiatta muort”  in origine fossero coloro incaricati di incastrare i defunti in questi sedili  e dalle cantarelle sia derivato l’imprecazione napoletana “Puozze sculà!”,  che di fatto è un pessimo augurio. 

Sulle pareti dei cunicoli ci sono dipinti del VI secolo  e particolari effigi funerarie  del XVII  secolo: sotto i teschi veri, incorporati nel muro nel Seicento, i corpi venivano dipinti  con le vesti e i simboli del rango del defunto. Ai lati del cranio si segnavano le iniziali del nome e cognome del defunto, accompagnati da una citazione biblica. Qui trovarono sepoltura frati domenicani e aristocratici come il magistrato Diego Longobardo, morto nel 1632, le nobildonne Maria De Ponte e la principessa di Montesarchio Sveva Gesualda. Uomini e donne erano separati anche nella sepoltura eccetto due personaggi  le cui mani si intrecciano sui rispettivi cuori. Una credenza popolare vuole siano gli sposi  che morirono di crepacuore alla vista del fantasma del Capitano spagnolo, ossequiato da lei e offeso da lui nel Cimitero delle Fontanelle, che si presentò alle nozze.

Unico “ borghese” dipinto  è il pittore Giovanni Balducci, al quale si attribuiscono gli affreschi delle catacombe, il cui nome compare per esteso e viene raffigurato con una riga nella mano destra e una tavolozza nella sinistra. 

La morte domina sul tempo, che scorre inesorabile come la sabbia nella clessidra, e sull’ effimero potere dei mortali rappresentato dalla corona e dallo scettro. 

A Napoli si dice “ Basta a’ salute, tira a’ campà” perché  in fondo “a tutto c’è rimedio, tranne alla morte”. Saggezza popolare che spiega l’inconfondibile  vitalità e ilarità partenopea maturata  tenendo gli occhi aperti anche nelle tenebre, dove lo sguardo guarisce dagli affanni del mondo.

 

“Sono nato in Rione Sanità, il più famoso di Napoli.

La domenica pomeriggio le famiglie napoletane usavano riunirsi nelle case dell’una o dell’altra, e là chi suonava la chitarra, chi diceva la poesia, e chi cantava. I giovanotti guardavano le ragazze, gli tenevano la mano, si innamoravano”

 

 Il Principe Antonio De Curtis, in arte Totò