Il presepe napoletano come porta rituale tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti

Benevento Giacomo -maestri in mostra

 

Il presepe è la rappresentazione tangibile e visibile della tradizione, non solo come devozione per il Salvatore , ma anche come espressione di tutti i simboli del codice onirico della tradizione (quali il ponte, il pozzo, la fontana, il mulino, il fiume, l’osteria)  vissuti da personaggi tipici di leggende, credenze, superstizioni popolari in una commistione di sacro e profano, magia e religione.                              

 

Tra i personaggi del presepe napoletano c’erano figure un po’ tetre, alcune demoniache, ritenute depositarie di messaggi terrificanti e perciò, probabilmente, pian piano sono scomparse ma sopravvivono nella costante presenza del pozzo, del ponte e dell’acqua.” (da “La storia infinita del presepe napoletano: i tetri personaggi del presepe, ormai scomparsi” in skipblog.it)

Tant’è che il presepe non è mai collocato in camera da letto e viene pungitopo (1)circondato da erbe magiche, che allontanano esseri maligni, quali la mortella, il muschio, il pungitopo, il rosmarino e il vepere (arbusto spinoso detto “restina” utilizzato nelle composizioni floreali) e a fine allestimento è irrorato da  incenso. Gesti rituali che sospendono il tempo quotidiano e fanno coesistere passato e presente, demoni e santi quasi in una  funzione  che esorcizza il male e gli spiriti della morte, perciò si potrà trovare un presepe   anche nelle cripte cimiteriali.

  Napoli è simbiosi di vita e di morte, entrambe celebrate e consacrate attraverso funzioni, devozioni e rituali  che confluiscono nel radicato culto dei morti e il presepe napoletano  è una porta rituale tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti.

natività -ulderico pinfildi

  La morte è rappresentata dalla farina, dal mulino, dagli orientali e dall’uomo sulla scala che raccoglie fichi. Nel presepe però compaiono spesso i questuante-maestri-in-mostramendicanti, i poveri, gli storpi, i ciechi che patiscono stenti, fame e privazioni nei quali prendono forma le anime “pezzentelle” (dal latino petere  che significa chiedere), anime che chiedono  ai vivi una preghiera e i vivi, in cambio di un favore, pregano per queste anime abbandonate del purgatorio che fanno da tramite tra la vita terrena e quella ultraterrena. Il limite tra la fede – tradizioni popolari e la superstizione è sottile, ma i devoti sentono più vicini a loro le anime pezzentelle di umili origini nelle quali ritrovano comuni miserie, sofferenze e solitudini. 

Anche i bambini, che da poco hanno lasciato il limbo prenatale  e sono  più vicini degli adulti al mondo infero di provenienza, sono da considerarsi creature bisognose. Le offerte di dolci e di doni alimentari ai poveri e ai bambini durante le feste natalizie in fondo sono come offerte funerarie e non  a caso i mendicanti chiedendo l’elemosina spesso dicono “refrisc ‘e ll’anime d’o priatorio oppure  facite bene ‘e ll’anime d’o priatorio”(fate bene all’anime del Purgatorio) .

maestri in mostra 1- 3a edizioneI questuanti compaiono nel presepe perché , secondo un’antica credenza napoletana, i morti vagano sulla terra dal 2 novembre al 6 gennaio, per poi tornare nell’oltretomba. Per questa ragione tanto tempo fa  in alcuni presepi  il 17 gennaio si toglievano  dalla grotta  i personaggi della Natività e vi si mettevano le figurine delle anime purganti.

Anche la costante presenza delle pecore implica un collegamento con gli inferi. Nella favola di Mamma Sirena ( vedi qui) il protagonista canta presso il  mare per  fare tornare la sorella prigioniera negli abissi. Le pecore che mangiano le perle che cadono dai capelli della fanciulla, acquistano il potere  di vaticinio riuscendo a svelare misteri e fare oracoli.  Anche nel cunto di Aniello e Anella del Basile, per effetto di un’acqua sorgiva, il protagonista diviene agnello e può  entrare in contatto col mondo sotterraneo  e acquistare capacità divinatorie. In fondo spesso nelle antiche  ninne nanne meridionali si parla di pecorelle sbranate da lupi, e la loro melodia è come quella delle lamentazioni funerarie proprio perché il sonno  indotto dalla ninna nanna è associato al sonno eterno della morte. Le pecore sono quindi o le anime dei morti dotate di poteri oracolari, o rappresentano bambini o defunti che rischiano di smarrirsi nelle tenebre degli inferi e infatti   antiche divinità dei defunti appaiono con bastoni pastorali e con la testa di cane, come custodi e guida delle anime. Secondo l’antica tradizione presepiale i due carabinieri o le sentinelle  non sarebbero altro che gli angeli carcerieri  che vigilano sulle  anime purganti rappresentate dalle prigioni.

Pietas  e culto  dei morti  sono radicati nella devozione popolare per le anime pezzentelle, praticata nel cimitero delle Fontanelle  nell’antico  quartiere della Sanità (qui) e negli ipogei , di Santa Maria delle anime del Purgatorio ad Arco in via dei Tribunali, di sant’Agostino alla Zecca  e di san Pietro ad Aram. La  schiera delle più famose anime  purganti che per lungo tempo hanno vissuto e vivono nelle credenze popolari – come ricorda il più grande esperto delle tradizioni e della cultura napoletana, cioè  Roberto De Simone -annovera  Stefania, Lucia, monache e monaci, soldati , marinai e carabinieri,  coppie di  giovani  (Mario e Renato in sant’Agostino alla Zecca, Alfonsino e Ninuccio in Santa Maria delle Anime del Purgatorio), e ancora, nel cimitero delle Fontanelle, i due sposi  dipinti nelle catacombe di San Gaudioso, Concetta la lavandaia, Zi’ Pascale ‘o lucandiere, i  quattro bambini uccisi Peppeniello, Rituccia, Antonietta e Papiluccio, il dottor Giordano e D’Ambrosio, Pascale o’ marucchino, Luciella a’ zingara, mendicanti ciechi, la  monaca  uccisa, Zì Taniello ‘o farenaro, Zì Giustina ‘a pustiera, o’ Capitano e infine  nell’ipogeo di San Pietro ad Aram la lavandaia Candida, la monaca Lucrezia, la zingara Lucia, il pescatore dai capelli rossi, marinai e soldati, i due carabinieri i giovani Marettiello e Gennariniello, i due giudici sconosciuti e la famosa – aprite bene gli occhi- Maria ‘a purpettara (Maria che cucina le polpette), un’ostessa che puniva i mariti infedeli apparendo in  sogno con polpette avvelenate che causavano dolori simili alle doglie.

anima pezzentella presepeTante anime pezzentelle, a volte lambite da fiammelle,  che sembrano darsi appuntamento   nel presepe “In conclusione, dalla frequente ricorrenza di medesimi personaggi che compaiono sia come figurine presepiali sia come immagini di defunti ritualizzati, si può individuare la presenza di un unico tessuto religioso di tipo animistico, composto da elementi archetipali che sembrerebbero riferirsi ad antiche divinità infere” (da “ il Presepe popolare napoletano” di Roberto De Simone)

Nel presepe napoletano si riproduce  anche questo mondo sommerso con il quale,  tra storia e leggende, fede e superstizione, i napoletani  si conciliano sia  per esorcizzare la paura della morte, sia  per accogliere  le anime purganti che lasciano intravedere non solo il destino dell’umanità  di sempre, ma anche una speranza di redenzione dei vivi e dei morti per scattare in avanti nella vita terrena e ultraterrena.

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Le anime pezzentelle del Cimitero delle Fontanelle di Napoli

Rione Sanità- le catacombe di Napoli

 

Le stazioni dell’arte: Toledo

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Una delle strade più importanti di Napoli è via Toledo, cosiddetta a ricordo del viceré  spagnolo  don Pedro Alvarez de Toledo che in venti anni  di governo a Napoli (1532-1553) fu l’artefice di un piano di ristrutturazione e  di espansione della città verso la collina di San Martino, ove furono costruiti i popolosi quartieri spagnoli, e – potrei dire- di riqualificazione della vita cittadina. In pratica segnava il confine tra i vecchi e  i nuovi quartieri e ben presto divenne la  via più  lussuosa  e ben frequentata   della città grazie  agli  imponenti palazzi di banchieri e nobili d’Europa. Nel 1870 via Toledo fu chiamata  via Roma  in onore della  nuova capitale d’Italia per iniziativa del sindaco Paolo Emilio Imbriani ma il popolo napoletano, memore di un viceré che aveva fatto qualcosa di utile per la città, continuò a chiamarla via Toledo, così nel  1980 fu ripristinato l’antico nome.

 

cavaliere di Toledo

Toledo è una stazione dell’arte lungo la  linea 1 della metropolitana di Napoli,  che prende il nome appunto dalla centralissima  Via Toledo. La progettazione  di questa stazione, a cura dell’ architetto catalano Oscar Tusquets Blanca, è strettamente correlata alla riqualificazione degli spazi esterni  trasformati in zona pedonale. Qui  qualcosa di moderno e solenne è preannunciato dall’imponente  cavaliere di Toledo realizzato da William Kentridge, artista di fama internazionale molto affezionato a Napoli che  spesso ha  esposto le sue opere sia al Museo di  Capodimonte che al MADRE.  

 

mura aragonesi

 

Nell’atrio della stazione si trovano i resti delle mura aragonesi, mentre un calco di campo arato del Neolitico , trovato durante gli scavi, è esposto nel corridoio sotterraneo di Neapolis  nella stazione Museo.

 

mosaico kentridge- 3Lungo la parete d’entrata si snoda e spicca il bellissimo mosaico di tessere in pietra e pasta vitrea di William Kentridge con la processione di  tanti personaggi della storia di Napoli che  sfilano dietro  San Gennaro. 


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Camminano sul progetto della Ferrovia Centrale per la città di  Napoli, 1906 ( NaplesProcession) dal quale l’opera deriva il nome. A partire da sinistra compaiono l’ uomo megafono, l’ uomo con cimbali da Pompei, una figura da Mulino da Kinellis, un  musico con tammorra da Pompei, il mondo su zampe, l’artista e il suo doppio, l’uomo con volatile da Pompei, il venditore di tammorre, la  personificazione di strumento per rilevazioni geodetiche, una figura di donna da ceramiche di Capodimonte, l’ uomo compasso da carteggio, la donna sudafricana che trasporta la brace, la donna lampione dalla Coscienza di Zeno, la donna con la testa a croce suprematista, l’ uomo albero/atlante e  in testa al corteo  non poteva mancare san Gennaro,  protettore di Napoli.

Altro mosaico di Kentridge sovrasta le scale mobili,  s’intitola “ Bonifica dei quartieri bassi di Napoli in relazione alla ferrovia metropolitana, 1884” e spicca sul progetto iniziale della metropolitana di Lamont-Young.

SAM_3053mosaico kentridge 1kentridge- stazione toledoSAM_3034 - Copiacavaliere di Toledo- Kentridge

stazione toledo 2

Dalle figure bianche e nere dell’entrata si passa al giallo della terra e del tufo finchè non si arriva giù in fondo, a circa 40 m sottoterra , nelle profondità marine rese da mosaici azzurri che brillano sempre più   grazie  a giochi di luci LED e  alla luce solare che filtra da  lucernari e in particolare dall’ampio  Cratere della luce.cratere della luce- stazione toledo

 

robert wilson-stazione toledo

 

Le pareti sono ricoperte da onde in rilievo e , nella galleria di passaggio, dai pannelli del mare di Robert Wilson (By the sea… you and me).

 

 

men at work -stazione toledo

 

Salendo le scale si trova “Men at work” di Achille Cevoli, un riconoscimento del lavoro di  tutti gli operai che hanno  contribuito alla costruzione della metropolitana di Napoli.

 

 

The Daily Telegraph  ha definito la stazione  Toledo  come la  più imponente d’Europa,  sta di fatto che   nel 2013 ha vinto il premio Emirates Leaf  International Award come “Public  building of the year” . In effetti  i viaggiatori , ma anche i tanti turisti che la visitano,  sono catapultati  in un vortice di  luce e colore che trasmette  bellezza e serenità, astraendo dal reale

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Le stazioni dell’arte: Università

 

 

Le stazioni dell’arte: Università

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particolare stazione università

 

Come mi ero ripromessa in questo post, ho proseguito il mio viaggio  nella metropolitana di Napoli per visitare  un’altra stazione della linea 1, quella che per tanto tempo ha reclamizzato il Metro Art Tour.

 

stazione università napoli

È la stazione Università, che si affaccia in piazza Bovio di fronte al  palazzo della Borsa, sede della Camera di Commercio e poco distante dalle storiche sedi dell’Università Federico II e dell’Orientale nel frequentatissimo corso Umberto I, noto come il Rettifilo. È collegata alla meravigliosa stazione di via Toledo, cuore della città, e spero lo sarà presto  a quella di piazza Municipio e di Via Duomo, i cui lavori procedono lentamente anche a causa dei ritrovamenti archeologici.

 

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La stazione scende a circa 30 metri di profondità in un percorso che  è un’oasi coloratissima di geometrici effetti ottici, prevalentemente  rosa fucsia e verde acido ,  e di luminosi giochi di rispecchiamento  che distraggono  occhi e mente del viaggiatore dal caos cittadino. 

 

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Progettata dagli architetti Karim Rashid e Alessandro Mendini, stupisce non poco: qui “gli spazi incarnano i saperi e i linguaggi della nuova era digitale, trasmettono le idee di comunicazione simultanea, d’innovazione e di mobilità proprie dell’attuale Terza Rivoluzione Tecnologica, metafora del dialogo e della comunicazione tra gli esseri umani”. Vi si accede con un ascensore o con scale, fiancheggiate da un muro di piastrelle sulle quali compaiono le parole dell’era tecnologica. 

 

Sul piano delle obliteratrici spicca un’ enorme installazione di Rashid, intitolata Synapsi,SAM_0043 che rappresenta il reticolo neurale del cervello e due pilastri neri che riproducono profili umani, probabilmente  dell’architetto anglo-egiziano. Ai lati delle scale mobili pannelli di cristallo azzurro con decori serigrafati rivestono le pareti.

Sulle scalinate, che accompagnano all’uscita,  spiccano i profili di  Dante Alighieri e Beatrice: un omaggio di Rashid al Sommo Poeta per riconoscere l’importante e vitale legame tra la cultura umanistica e i  linguaggi contemporanei, particolarmente importante in una città dalla forte tradizione di studi universitari come Napoli.

Buon viaggio! La mia prossima tappa sarà alla stazione Toledo, inaugurata a giugno :)

 

L’arte contemporanea alla portata di tutti: le stazioni dell’arte di Napoli

L’arte pubblicamente esposta nelle stazioni  della metropolitana di Napoli (linea 1 e linea 6) è espressione  di una città culturalmente viva ed originalmente creativa. Ogni martedì è possibile effettuare una visita guidata gratuita, il Metro Art Tour, partendo  dalla stazione del Museo  alla scoperta delle  oltre 180 opere di 90 artisti contemporanei che, con il coordinamento artistico di Achille Bonito Oliva, hanno reso possibile la realizzazione di un museo decentrato . Quando sono stata a Napoli il tour era stato sospeso e allora  ho girovagato da sola,e mi riprometto di proseguire  perchè sono riuscita a visitare parzialmente solo alcune stazioni della linea 1 in una  sorta di caccia al tesoro che si snoda nelle viscere della terra, anche a 50 metri di profondità, e risale con decine di scale mobili e ascensori fino in superficie.

 

La linea 1 della metropolitana è stata progettata da famosi architetti,  quali Gae Aulenti, Alessandro Mendini, Domenico Orlacchio, con criteri di funzionalità e luminosità, resa stazione Salvator  Rosa 1soprattutto attraverso  strutture di vetro e di acciaio, ed è stata abbellita da  numerose opere d’arte  contemporanea  che si trovano all’esterno e all’interno delle stazioni, negli atri,  lungo i corridoi, le pareti e  le  banchine del metro. Queste stazioni hanno spesso valorizzato i rioni, armonizzandosi nel contesto  con nuovi giardini, fontane  e parchi gioco, innovativi  elementi di arredo urbano, trasparenti  ascensori e guglie di vetro, superfici maiolicate. I viaggiatori, spesso sconsolati nell’andirivieni quotidiano,  usufruiscono non solo di un mezzo di trasporto, ma  di un originale ed elegante   connubio di arte e urbanistica. L’arte è a portata di tutti, di chi passa e spassa, si collega e si scollega nei labirinti sotterranei di Napoli.

stazione dante -napoliStazione Dante è stata la prima che ho visitato. Sono ancora in corso i lavori in direzione  di Piazza Garibaldi, sede della stazione ferroviaria, che  si sono più volte fermati a causa di continui ritrovamenti  archeologici. A piazza Dante, detta il Mercatello, tra il ‘500 e il ‘600 si svolgevano i mercati, finchè il Vanvitelli la ricostruì a metà del ‘700 per volere di re Carlo III. In effetti  la statua del re finì in piazza Plebiscito, prima perchè non voluta dai  repubblicani napoletani, poi  perchè soppiantata  dalla statua di Napoleone durante la dominazione francese ed infine da quella di Dante dopo  l’unità d’Italia.

frase Convivio stazione dante- napoli

La piazza è stata  ridisegnata dall’architetto Gae Aulenti, ed è diventata area pedonale con pavimentazione di pietra lavica. La stazione del metro è strutturata su 4 livelli, scende fino a 30 metri di profondità ed è dotata di 13 scale mobili e 5 ascensori. È un’elegante  combinazione di cristallo e di acciaio.  Scendendo verso i binari l’ opera di Joseph Kosuth in  tubolare di neon immortala  una frase del Convivio di Dante : “Lo calore e la luce sono propriamente: perchè solo col viso comprendiamo ciò, e non con altro senso.Queste cose visibili, sì le proprie come le comuni in quanto visibili, vengono dentro a l’occhio- non dico le cose, ma le forme loro- per lo mezzo diafono, non realmente ma intenzionalmente , si quasi come in vetro trasparente.E ne l’acqua ch’e ne la pupilla de l’occhio, questo discorso, che  fa la forma visibile per lo mezzo, si si compiute, perchè quell’acqua è terminata. Quasi come specchio, che è vetro terminato con piombo-, si che passar più non può, ma quivi, a modo d’una palla, percossa si ferma; si che la forma, che nel mezzo trasparente non pare ( ne l’acqua pare) lucida e terminata”. 

Seguono opere di Nicola De Maria (un mosaico Universo senza bombe, regno dei fiori, 7 angeli rossi), Michelangelo Pistoletto (il bacino Mediterraneo) e olii di Carlo Alfano.

Jannis Kounellis 1

 

L’ installazione senza titolo  di  Jannis Kounellis con scarpe di donna e di uomo, cappelli, ecc.. tra  rotaie suscita una libera interpretazione della metafora.

 

 

stazione materdei 2

 

Materdei è un rione caratterizzato da edifici in stile liberty della prima metà  del ‘900 e dalla  chiesa rinascimentale di Santa Maria Mater Dei, da cui deriva il nome.

 

stazione materdei 1

 La stazione della metropolitana  l’ha riqualificato con un’area pedonale ricca di verde e di originali elementi di arredo urbano, mosaici, installazioni di ceramica e l’inconfondibile guglia  di acciaio e vetri colorati  dell’Atelier Mendini, che  spicca anche nella stazione di Salvator Rosa (zona Vomero) .

 

stazione Materdei È una delle stazioni  più colorate della linea 1, come si può vedere dalle serigrafiesulla banchina e dai mosaici che riprendono temi marini.

Qui si trovano le opere di Mathelda Balatresi,Anna Gili, Stefano Giovannoni, Robert Gligorov, Denis Santachiara, Innocente e George Sowden.

 

testa carafaStazione Museo, progettata d a Gae Aulenti, porta al Museo Archeologico Nazionale. È inconfondibile  per la riproduzione dell’ Ercole Farnese,che domina  la sala centrale, e l’originale della testa Carafa. Da questa stazione della Linea 1 si può raggiungere la stazione Cavour della Linea 2 della metropolitana attraverso  tapis roulant che si snodano nei lunghi corridoi sotterranei abbelliti dalle foto artistiche di fotografi napoletani.

stazione Museo- napoli

Nel corridoio che porta al Museo Archeologico si trova l’esposizione permanente  Neapolis, che raccoglie i  reperti archeologici  scoperti durante i lavori di scavo della metropolitana, in particolare nelle stazioni Municipio,Toledo,Università e Duomo. Essi risalgono all’insediamento di Partenope, fondata dai cumani verso la metà del VII secolo a. C., e di Neapolis tra la fine del VI e gli inizi del V secolo a. C. (tra questi vasi  in vetro e terracotta,anfore funerarie e per alimenti, i modellini di  tre galere rinvenute in piazza Municipio, resti di abbigliamento di marinai e calzari,epigrafi). Una mostra che tempo fa  non ho potuto visitare perchè il corridoio era chiuso, ma che di sicuro non mi lascerò sfuggire.

  

Stazione Quattro Giornate prende il nome dalle quattro giornate d’insurrezione popolare, stazione 4 giornate- napoliche si svolse dal 27 al 30 settembre 1943 ed è nota  come la rivolta degli scugnizzi in quanto  i bambini di strada contribuirono alla vittoria. L’uccisione di un ragazzino di tredici anni, Filippo Illuminato, mentre lanciava una bomba contro un blindato tedesco, accese  molto gli animi e indusse tanti a reagire contro gli  occupanti  nazisti e a liberare la città, colpita da pesanti bombardamenti e rastrellamenti,  tant’è che le truppe alleate entrarono in una Napoli già liberata.

Quest’insurrezione del 1943  conferì alla città di Napoli la  Medaglia d’oro al Valor Militare ed è  ricordata  nel  Monumento allo Scugnizzo in piazza della Repubblica.

Sin dall’ingresso la stazione sembra  un museo d’arte moderna, ricco di pannelli di materiali diversi che ricordano le Quattro Giornate di Napoli. Le opere sono di Umberto Manzo, Anna Sargenti, Baldo Diodato, Maurizio Cannavacciuolo, Betty Bee e si trovano sia nel percorso di discesa che di salita.

 stazione 4  giornate 2stazione 4 giornate 3

 La stazione di Salvator Rosa , nella zona del Vomero, è  stata disegnata dall’Atelier Mendini che ha realizzato  uno splendido abbinamento di arte,  urbanistica e storia .

stazione Salvator RosaArtisti  napoletani contemporanei della transavanguardia , quali Ernesto Tatafiore e  Mimmo Paladino, hanno  decorato anche gli alti palazzi adiacenti la stazione , valorizzando tutta l’area. La stazione  sembra una chiesa con colorate vetrate ad arco e marmi policromi, circondata da giardini ove spiccano  giochi per bambini, installazioni artistiche, aiuole maiolicate, i   resti romani della via Antiniana che collegava Neapolis e Miseno e di una chiesetta. Molto suggestiva l’opera d’arte moderna delle  Fiat Cinquecento nei pressi dell’ascensore. 

 salvator rosa metro artstazione salvator rosa 2salvator rosa

 

La Stazione Vanvitelli è una delle più frequentate in quanto conduce al popoloso quartiere del Vomero e a  mete turistiche obbligate quali la Certosa di San Martino e Villa Floridiana, ed inoltre vi confluiscono le tre  funicolari che collegano il Vomero  con la parte bassa della città.

stazione Vanvitelli- napoli

Scendendo verso i binari  si può vedere la spirale con la sequenza numerica  di Fibonacci, realizzata da Merz. Poi  una carovana di animali preistorici , realizzati da Vettor Pisani, i grandi mosaici di Isabelle Ducroite, il masso che rompe il vetro di Giulio Paolini. Nei corridoi di uscita le foto di Gabriele Basilico e di Olivio Barbieri che riprendono particolari architetture  della città .

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Questo è stato uno degli itinerari turistici più sorprendenti  che ho fatto.

Alla prossima stazione :)

 

“I bambini del limbo diventeranno farfalle”: Giornata mondiale per i diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza

La sua famiglia era numerosa e G. era il quinto di otto figli.  A stento imparava a leggere e scrivere ma maneggiava molto bene il denaro, grazie a un intelligenza pratica. “A che mi serve studiare e prendere un diploma? Io imparo a rubbà: gli altri faticano, e poi  io me lo rubo.”  Il lavoro era inteso come fatica, soggezione, subordinazione, dipendenza e lui  non capiva l’altra forma di schiavitù che lo legava a una mentalità basata sulla sopraffazione, sulla legge del più forte e del taglione, sull’illecito. Abiezione, miseria, degrado e ignoranza erano principi fondanti in contesti dove aveva già imparato a sopravvivere ispirandosi, come altri,  alle regole dell’ “Osserva, taci, squaglia, schierati per avere lavoro e protezione. Impara a usare presto le armi per una guerra che prima o poi ti coinvolgerà”

 A sette anni fumava le sigarette di contrabbando, che  si vendevano sfuse per iniziare precocemente  i piccoli al vizio del fumo e qualche anno dopo all’eroina in un percorso di distruzione.Alle 8.00  di mattina, sulla banchina della stazione, i ragazzini arrivavano in piccoli gruppi, solidali nelle risa scherzose da cui trapelava l’ entusiasmo e la baldanza dell’ adolescenza, e indossavano i costumi di scena,  si truccavano  per andare a vendere un po’ di piacere. Altri tornavano dopo una nottata di lavoro, in silenzio e sfatti. A volte in coppia si trascinavano lungo i binari per raccattare quel che rimaneva nelle siringhe vuote e racimolare così una dose, annaspando come farfalle che hanno perso la polverina dalle ali.

Di pomeriggio doveva badare ad un fratellino di due anni insieme ai suoi compagni di strada. Aveva un forte senso di protezione per i più piccoli, affetto per i genitori e i fratelli , generosità e solidarietà tra simili. Talvolta  andava con gli amici a raccogliere cani randagi per ottenere in cambio qualche spicciolo. Lo pagavano per quella carne da macello che, molti anni più tardi, si scoprì che serviva all’addestramento dei cani da combattimento. Il sangue è sangue, umano o animale che sia…il cuore non esisteva, il ribrezzo e la paura erano sintomi di fragilità. La sua era stata violata da tempo. Tutto apparteneva al corso naturale delle cose in un contesto infernale. Chi non c’è mai stato, non può capire, non può sopportare la vista di case fatiscenti dove si convive con i ratti e  dove la speranza vive in  una fede popolare e superstiziosa che conforta, rassicura e dà la forza di andare avanti e sopravvivere.

 Spesso G. non andava a scuola. Un giorno, a lezioni iniziate,  vi  entrò di nascosto da una finestrella del bagno per prendere il biglietto che aveva  colorato  per la Festa della Mamma. Un regalo che poteva fare anche lui, che non ne riceveva mai, a una donna di 36 anni che ne dimostrava il doppio  negli occhi spenti, nel  fisico  fiacco e trascurato,  proprio di chi è provato da stenti e dalla fatica di barcamenarsi  per crescere tanti figli.

 

 

 “Qui per cambiare le cose i bambini andrebbero tolti alle famiglie appena nati o soffocati nella culla in tenera età.”: parole sferzanti  e ciniche di chi s’adoprava ogni giorno in un contesto ingestibile con l’amara consapevolezza che il  terzo e quarto mondo non era fuori dall’Europa, ma anche in Italia. Per lungo tempo si è finto di non vedere, di non sapere finchè la devianza giovanile non è scoppiata come emergenza sociale. “Si ammazzino tra loro, è una selezione naturale,  “civilmente” conveniente , per noi e non per loro.  Arginiamoli  e chiudiamoli nei loro ghetti sempre più deprivati dove sono radicati e che dà loro un senso di appartenenza.” Come le tradizioni popolari, le processioni e i gran pavesi  variopinti  di panni stesi tra i balconi.

In quei rioni riecheggiano canti e grida,  sfrecciano motorini , passeggiano ragazzine con occhi di donna e i bambini giocano con ciò che trovano. Lì però i sogni e la fantasia emergono ancora ascoltando fiabe narrate dalla maestra , il canto serve ad esprimere il proprio talento e libera dal male, la scuola aiuta a recuperare e a riconoscere l’identità di bambino.

 In quel contesto e  in poco tempo, con un impatto traumatico in una realtà che si pensa lontana, si impara più che in  tanti anni di formazione ed esperienza professionale pur bestemmiando contro Dio, la latitanza  e l’ indifferenza delle istituzioni, la mala sorte, e si apprezzano quei privilegi  a noi concessi da una sorte benevola. La vita porta altrove e a distanza di tanti anni resta forte il ricordo di G. , diventato adulto troppo presto. Di un bambino come lui  aveva scritto anni prima Giancarlo Siani, che non dimentico, come non dimentico certe esperienze che hanno lasciato  una sorta di imprinting dentro.

 Oggi le cose stanno cambiando e c’è molta più consapevolezza ed attenzione a riguardo delle violazioni dell’infanzia. Per altri bambini e ragazzi si può fare qualcosa nel  proprio piccolo raggio d’azione, prevenire il disagio per evitare la dispersione scolastica, far sentire una voce diversa, trasmettere  non solo conoscenze ma anche affetto, valori e modelli positivi, incanalare l’intelligenza dei ragazzi a rischio di devianza creando e sostenendo alternative di vita, e soprattutto impedire e reprimere ogni forma di sfruttamento.  È un obbligo morale  rivendicare e garantire l’infanzia che non deve essere negata  sia perché è riconosciuto  il diritto di non perderla mai, sia perché non potrà più essere recuperata.

 javier perez 1

Questo post è  per la Giornata Mondiale dei diritti dell’Infanzia e per ricordare Marcello D’Orta, maestro di scuola e di vita , autore di tanti libri  tra i quali l’indimenticabile e famoso  “Speriamo che me la cavo” che ha narrato con  intelligente ironia e affettuosa malinconia la contraddittoria napoletanità, l’emarginazione e la miseria  ma soprattutto i sogni, le speranze e l’arte di arrangiarsi i dei più piccoli in una quotidianità difficile, se non impossibile da capire e tanto più da vivere, esorcizzata dalla vitalità dei bambini. Nell’umanità degli scugnizzi e dei bambini di Arzano ho rivisto i miei primi alunni, bambini  di quartieri difficili della provincia di Napoli dove ho iniziato a lavorare e ho capito che la mia strada sarebbe stata l’insegnamento.

 graffito napoli

La mia casa è tutta sgarrupata, i soffitti sono sgarrupati, i mobili sono sgarrupati, le sedie sgarrupate, il pavimento sgarrupato, i muri sgarrupati, il bagnio sgarrupato. Però ci viviamo lo stesso, perché è casa mia, e soldi non cene stanno. Mia madre dice che il Terzo Mondo non tiene neanche  la casa sgarrupata, e perciò non ci dobbiamo lagniare: il Terzo Mondo è molto più terzo di noi!

(Da “Speriamo che me la cavo. Sessanta temi di bambini napoletani” di Marcello D’Orta)

 Quale parabola preferisci?” Svolgimento. Io, la parabola che preferisco è la fine del mondo, perché non ho paura, in quanto che sarò già morto da un secolo. Dio separerà le capre dai pastori, una a destra e una a sinistra. Al centro quelli che andranno in purgatorio, saranno più di mille migliardi!  Più dei cinesi! E Dio avrà tre porte: una grandissima, che è l’inferno; una media, che è il purgatorio; e una strettissima, che è il paradiso. Poi Dio dirà: “Fate silenzio tutti quanti!”. E poi li dividerà. A uno qua e a un altro là. Qualcuno che vuole fare il furbo vuole mettersi di qua, ma Dio lo vede e gli dice: “Uè, addò vai!”. Il mondo scoppierà, le stelle scoppieranno, il cielo scoppierà, Corzano si farà in mille pezzi, i buoni rideranno e i cattivi piangeranno. Quelli del purgatorio un po’ ridono e un po’ piangono, i bambini del limbo diventeranno farfalle. Io, speriamo che me la cavo. »

(Dal film “Speriamo che me la cavo” –regia Lina Wertmüller)

 

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“Ciò che facciamo in vita riecheggia per l’Eternità”: la Street Art di Banksy

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Il misterioso Banksy continua a stupire e a suscitare commenti, ora di encomio, ora di condanna. Che dire, se non che è il più famoso e  quotato street artist del mondo, che ha lasciato traccia del suo passaggio a partire da Bristol e Londra per sconfinare in altre città d’Europa, della Palestina, dell’America. Alcuni stencil  sono ormai rappresentativi dell’arte contemporanea: originali, a volte sarcasticamente provocatori, trasmettono un messaggio mai banale per un mondo più vivibile, equo, pacifico e pulito.

 rat I tanti ratti che anni or sono comparvero sui muri di Londra, Parigi e New York  rappresentavano una nuova forma d’arte (rat è l’anagramma di art) che spesso viene fuori di notte e nei posti più impensati, a volte squallidi e anonimi delle città. Odiati, cacciati e perseguitati, eppure capaci di mettere in ginocchio intere civiltà , infestano e contagiano. Un po’ come l’arte di Banksy.

 Alcune sue opere, che rivisitano quadri famosi,  sono misteriosamente apparse anche  nei grandi musei del mondo, come questo ritratto di una donna dell’Ottocento riconoscibile per una maschera antigas.

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maidinlondon3---banskyco_427080Chi non ricorda invece Leita? È la domestica a grandezza naturale che cerca di nascondere la spazzatura sotto il tappeto su un muro di Chalk Farm, nella periferia nord di Londra, alludendo a coloro  che  ignorano  i grandi problemi del mondo. Se si pensa che i graffiti sporcano i muri, questo ha abbellito il muro di  uno sporco quartiere londinese, forse con la speranza di ripulire  qualche coscienza.  

 

banksy_santa_teresa_primaA mio avviso, non è un caso che le opere di Banksy siano comparse anche a Napoli. In via Benedetto Croce  una  Santa Teresa del Bernini, in estasi forse per panino e patatine, rappresentava  il consumismo fino a quando non è stata poi cancellata da un anonimo writer nel maggio 2010.

 

 

Invece in via dei Tribunali, esattamente nella piazza della basilica dei  Gerolomini presso una bottega di roba vecchia, si può ammirare una  Madonna con la pistola: allusione alla violenza malavitosa che ammazza tanti figli dei quali non resta che il dolore e la pietà di tante Madri? Oppure invocazione a  una grande  fede (nella giustizia)  che può sconfiggere la camorra?

graffito napoliHo scoperto questo stencil  per caso quando riuscii a visitare la splendida chiesa dei Gerolamini in occasione di una sua rara apertura al pubblico. Ignoravo chi fosse l’artista  ma ho captato la bellezza di questa Madonna immortalandola  prontamente con una foto.

art-balloon-banksy-girl-no-future-paint-Favim.com-74013Banksy narra di un mondo di pace, giustizia e delle tante forme di libertà attraverso scimmie, ratti, anziani, soldati, poliziotti e soprattutto bambini e ragazzi.

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I suoi bambini con il palloncino volano via in cerca di luce  e sogni  oppure,  imbronciati, sono accovacciati in terra in attesa del futuro.

Sul lato palestinese del muro che divide Israele e la Cisgiordania i  bambini perquisiscono i poliziotti,  volano via,  aprono squarci in trompe l’oeil su un mondo sereno dove finalmente possono giocare , non più alla guerra, e i ragazzi lanciano fiori anziché pietre.Un palestinese apprezzò questi  stencil , ma poi disse all’artista britannico  di tornarsene a casa , perché il suo popolo  non voleva  un muro così bello, in quanto lo odiava e sperava che fosse abbattuto.

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SIZED.Mon-21-WIDE-privateDa ottobre Banksy è a New York e sui muri della città sta lasciando  tracce artistiche del suo silenzioso,  inconfondibile passaggio  insieme a un numero telefonico  per ricevere ulteriori informazioni sull’ opera. Inoltre egli aggiorna  il suo sito con le foto delle sue più recenti realizzazioni accompagnate da un video.

flower throwerGiorni fa Banksy ha dato alcuni suoi disegni ad un anziano venditore ambulante in Central Park che li ha venduti per 60 dollari l’uno, mentre valgono almeno cento volte di più.  Tra questi c’era  una versione del famoso  “Flower Thrower”, l’uomo che lancia i fiori, che compare  sulla copertina del catalogo di Wall and Piece, la sua retrospettiva del 2005, e “Laugh Now”.

La bancarella era la tredicesima  installazione di “Better Out Than In”, il progetto che ha portato l’artista a New York per un mese provocando una vera e propria caccia  al tesoro. Sì le opere dell’artista di Bristol  sono un tesoro, valgono centinaia di migliaia di euro e, in questo caso,  hanno fatto la fortuna di chi le ha acquistate per pochi dollari. A volte sono asportate dai muri , ma perdono un po’ del loro valore in quanto ciascuna opera è ispirata da un determinato contesto socio culturale e urbano, lo interpreta, lo commenta, lo irride, lo valorizza e gli appartiene.

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Nel quartiere Queens di New York Bansky scrive:” Ciò che facciamo in vita riecheggia per l’Eternità”. Un uomo cancella la frase con una spugna, come forse i graffiti dell’artista sono cancellati da altri writers o dalle autorità, oppure si fa riferimento ai colpi di spugna del tempo sulla memoria.

meat_truck04_1224517Curiosa questa installazione mobile- scusate il gioco di parole-  “Le sirene degli agnelli”: un camion per il trasporto del bestiame gira per Meatpacking District, il quartiere dei macelli convertiti in ristoranti,  facendo riecheggiare  i versi degli animali condannati al macello. Qui gli animali sono simpaticissimi peluche, che  rievocano ricordi infantili e suscitano un sorriso poi  trattenuto dai contrastanti lamenti.

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Altra installazione vagante è un vecchio camion splendidamente affrescato con un mondo paradisiaco ove lo spettatore, comune passante di città , può  smarrire lo sguardo e la fantasia e ritrovare un po’ di serenità.

 

upper-west-sidesized_1230229Opere che fanno discutere: questa si trova nell’ Upper West Side e il  proprietario del muro l’ha protetta con una lastra di plexiglass , mentre il sindaco di New York Bloomberg sostiene che Banksy rovina la proprietà privata  per cui gli ha dichiarato guerra.

 

 

Questo bellissimo stencil   invece si trova a Brooklyn. Mentre alcune case d’asta pensavano a come rimuoverlo per venderlo, è stato sfregiato da altri writers. Purtroppo questo è  il rischio che corrono le opere d’arte di strada.

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Un  piccolo omaggio alle vittime dell’11 settembre è apparso su un muro di Tribeca.

 

 

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Un palloncino incerottato rappresenta gli sforzi che un cuore spezzato fa per sopravvivere .

 

 

day3E infine non poteva mancare il riferimento ai più comuni graffitari, quelli che comunicano come sanno fare, lasciando semplici tracce del loro passaggio, a volte ritenute inopportune, offensive, sporche. Metafora del cane graffitaro, a me tanto cara.

Grazie, Banksy!

 

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Immagini dal web 

In Artsy.net  altre opere di Banksy.

 

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Vincenzo Gemito- Villa Pignatelli


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Villa Pignatelli a Napoli ,splendida dimora inglese che mescola lo stile neoclassico  e neo palladiano, fu progettata nel 1826 da Pietro Valente per Sir Acton, passò poi ai Rothschild e infine ai Pignatelli Cortes d’Aragona che nel 1952 la donarono allo Stato Italiano. La villa, immersa in un parco, merita di esser visitata  per gli  arredi,statue, dipinti, decorazioni in stucco, collezioni di porcellane, argenti e  cristalli che la rendono simile a un raffinato gioiello d’epoca.

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È sede del   Museo Pignatelli dove a distanza di cinquant’anni dalla mostra monografica tenutasi al Palazzo Reale di Napoli nel 1953, nel 2009 sono  state esposte  più di centocinquanta opere – tra disegni, terrecotte, bronzi, gessi, cere e argenti- che documentano  l’attività creativa di Vincenzo Gemito, geniale protagonista del panorama artistico europeo tra l’Ottocento e il Novecento. Una mostra di foto d’epoca, autoritratti, ritratti di parenti, meduse e sibille,  grandi personaggi artistici e storici- come Verdi,Alessandro Magno e Carlo V-  e soprattutto popolani e scugnizzi (bambini di strada) ripresi dal vero nelle vesti di acquaioli e pescatori, rappresentanti di un’umanità atemporale che vive nelle opere scultoree e grafiche di Gemito.

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 Gemito  visse la sua esperienza umana e artistica come una continua prova da superare, pagando con la follia la sua tensione espressiva. Tutta la sua produzione ( sculture e  disegni, in parte inediti, realizzati a penna,a matita, a carboncino, a seppia e ad acquerello) riflette una personale ricerca sia sull’ uomo, sia sull’ essenza della forma fissata nel gesto e nell’ attimo.

 È interessante la vita di quest’artista che fece dell’arte la sua ragione di vita fino a divenirne quasi una mitica vittima.

“Egli aveva nome Vincenzo Gemito. Era povero, nato dal popolo; e all’ implacabile fame dei suoi occhi veggenti, aperti sulle forme, si aggiungono talora la fame bruta che torce le viscere. Ma egli, come un Elleno, poteva nutrirsi con tre olive e con un sorso d’acqua (G.D’Annunzio, In morte di  Giuseppe Verdi).”

Il 18 luglio 1852 Suor Maria Egiziaca Esposito si presentò all’orfanatrofio dell’Annunziata con un bambino che di notte era stato deposto nella ruota (i bambini indesiderati venivano in tal modo affidati alle suore).Il bimbo aveva solo un pezzo di tela e l’ orecchio destro bucato. Gli fu dato il nome Vincenzo Gemito. Adottato da un’umile famiglia, che da poco aveva perso un figlio,  sin da piccolo fu avviato all’ arte della scultura e si dedicò a ritrarre giovinetti di strada. Fu subito notato nell’ ambiente artistico napoletano. Si classificò tra i primi nelle prove di ammissione al Real Istituto d’Arte e nel 1868 lo stesso re Vittorio Emanuele I acquistò il suo Giocatore in terracotta per la reggia napoletana di Capodimonte.

pescatore di gemito

Gemito si formò studiando i bronzi di Ercolano e dall’ arte antica ricavava la solennità che nobilita ogni soggetto“…Se a l’artista manca la cognizione del passato non potrà mai fare un capolavoro. Le mie opere sono prese dal vivo così come sono esistite…”. Prima lavorò materiali duttili, plasmabili con le mani, come cera e terracotta, poi utilizzò anche il bronzo e l’argento che gli consentivano di controllare la forma in modo quasi ossessivo. Tra il 1877 e il 1880 visse a Parigi ove divenne amico di Meissonier, famoso pittore, che acquistò il suo innovativo Pescatore di bronzo e, pur mantenendo un’autonomia artistica, ebbe relazioni coi grandi artisti dell’epoca, da Boldini a Rodin.

Nel 1880 tornò a Napoli e realizzò la statua di Carlo V. L’insoddisfazione peracquaiolo - gemito la resa in marmo della sua opera scatenò un esaurimento psichico che lo portò quasi alla follia “io non ho più la genialità di prima e non mi sento più lo stesso uomo…”.Per poco tempo soggiornò in una casa di cura, poi dal 1887 al 1909 si isolò volontariamente nella sua casa, ove  fu assistito dal padre “mastro Ciccio”, dalla moglie Anna e dalla figlia Giuseppina , che ispirarono molte sue opere. Nel 1909 riprese a viaggiare e a lavorare tra Roma a Parigi finché, ormai famoso,  tornò alla natia Napoli dove morì il 1° marzo del 1929 . Anche la sua scomparsa diventò mitica., come la sua fama.  Si narra che, quando il corteo funebre giunse davanti alla marina, i becchini sentirono d’un tratto la bara più leggera sulle spalle. Ci fu un po’ di scompiglio tra i personaggi ufficiali finchè un signore in tuba levò la mano a indicare il golfo di Napoli: scortato da due delfini, Gemito navigava verso i mari della Grecia.

 

Villa Floridiana e il Museo Nazionale della Ceramica Duca di Martina

villa floridiana 1Nel quartiere del Vomero a Napoli s’erge Villa Floridiana,  un’oasi  di bellezza  naturale ed artistica, che  re Ferdinando I di Borbone   volle come residenza  estiva per la moglie morganatica Lucia Migliaccio di Partanna, duchessa di Floridia. La duchessa , nata a Siracusa nel 1770, era molto bella  oltre che molto ricca. A soli sei anni ereditò titolo nobiliare e feudo  e ad undici sposò il ventiseienne  principe Benedetto Grifeo di Partanna dal quale prima ebbe  nove figli, poi  una prematura vedovanza. Nel novembre del  1814 tre mesi  dopo la morte della regina Maria Carolina convolò  a nuove nozze col re di Borbone, esule in Sicilia, pertanto  fu invisa ai sudditi e, rientrata col consorte  a Napoli dopo la Restaurazione , visse nelle residenze a lei destinate dal re ( palazzo Reale, palazzo Partanna in Piazza dei Martiri  e Villa Floridiana). 

villa floridiana

Tra il 1817 e il 1819  l’architetto Antonio Niccolini ristrutturò in stile neoclassico la palazzina ed ideò un parco all’inglese, un teatrino all’aperto, un tempietto ionico, serre e grotte per animali esotici. Villa Floridiana divenne quindi   una suggestiva  scenografia per i ricevimenti estivi della duchessa. Quando nel gennaio del 1825 re Ferdinando morì in seguito a una breve malattia , Lucia lasciò il palazzo Reale e si ritirò nel palazzo Partanna. Circa un anno più tardi, nell’aprile del 1826, morì anch’ella e le sue spoglie furono custodite nella chiesa di San Ferdinando.

oggetti museo duca di martina Nel  1919 Villa Floridiana fu acquistata dallo Stato italiano. Dal 1931 divenne  sede del  Museo della Ceramica Duca di Martina che ospita la collezione di oggetti d’arte di Placido di Sangro, appunto duca di Martina, donata dai suoi eredi  alla città di Napoli  nel 1911. Il duca, nato a Napoli nel 1829 da Riccardo e Maria Argentina Caracciolo, apparteneva ad un  illustre casato strettamente legato alla corte borbonica. Dopo l’unità d’ Italia si trasferì a Parigi e lì entrò in contatto con famosi  collezionisti, come i Rothschild, ed  iniziò ad acquistare oggetti d’arte applicata che in parte venivano inviati nella sua residenza napoletana.  

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Il Museo Duca di Martina nella Villa Floridiana si articola in più sale, dislocate su tre piani, ove si possono ammirare circa seimila opere di manifattura occidentale ed orientale, databili dal XII al XIX secolo.  Avori, smalti, tartarughe, coralli, bronzi di epoca medievale e rinascimentale, maioliche, vetri e cristalli dal XV al XVIII secolo, porcellane europee, cinesi di epoca Ming ,Qing e giapponesi Kakiemon ed Imari.

 

parco villa floridiana

 

È piacevole passeggiare nel parco della Villa Floridiana, all’ombra della folta e rigogliosa vegetazione, lontano  dai rumori della città. Una pausa rigenerante prima di  ricominciare a girovagare per Napoli.

 

 

 

 

Museo Nazionale della Ceramica Duca di Martina

Villa Floridiana
via Cimarosa 77
via Aniello Falcone 171, 80127 – Napoli

 

 

La signorina Rosa

Con questo post partecipo alla quarta edizione del  Carnevale della Letteratura avente come tema il tempo e  curato da Leonardo Petrillo  su Scienza e Musica.  Propongo una passeggiata nel tempo che fu per raccontare la vita di una donna con lo sguardo su altri tempi.

  Quando penso alla signorina Rosa, concludo che riuscì sempre ad essere protagonista della sua vita, senza finzioni, né guida, né protezione. Penso a quei semi che volano via per germogliare altrove. Lei aveva in sé i semi del secolo successivo.

 Rosa nacque nel 1899. Ancora adolescente, perse entrambi i genitori a poca distanza l’uno dall’ altra. Suo fratello, di due anni più grande,  prese quindi  la via del mare per provvedere alle due sorelle minori e fu esonerato dal primo conflitto mondiale, proprio perché sostegno di famiglia. Finite le scuole tecniche, Rosa aspettò di compiere diciotto anni per lasciare  il paese e andare a vivere in città con la sorella, di un anno più giovane, alla quale era molto legata. Pare che all’inizio entrambe lavorassero in un laboratorio di cucito. Nel 1919 la sorella Lucia morì di febbre spagnola, che all’epoca fece molte vittime.

 Rosa decise di proseguire gli studi , diventò ostetrica e lavorò sempre all’ospedale Ascalesi nel cuore caldo  di Napoli. A lei si deve la nascita, in casa, di tutti i nipoti, pronipoti e figli di conoscenti finché fu costruita la prima clinica ostetrica in penisola sorrentina alla fine degli anni ‘50. Rosa era minuta e di statura piccola, ma aveva un passo sicuro e deciso. Arrivava nella casa della partoriente e istruiva sul da farsi le donne presenti, zittendole con fermezza per mantenere la calma e concentrarsi sull’evento. Non si può dire fosse una bellezza.  Aveva però un paio di occhi  vispi da furetto, di colore castano verde, eredità trasmessa alle nipoti e pronipoti.

  Nel ’43 aiutò la nipote maggiore a trasferirsi in città per lavorare e contribuire al mantenimento agli studi dei tre fratelli minori. Questo perché suo padre ( il fratello di Rosa) era disperso. In verità proprio durante l’ultimo viaggio, che prevedeva il suo sbarco a Genova, arrivò un contrordine. La sua motonave fu dirottata  ad Alessandria d’Egitto e l’equipaggio sbarcò  in un campo di prigionia inglese. Lì suo fratello vi rimase per otto anni e ne svelò il segreto  parlando in arabo contro fantasmi immaginari, quando in tarda età la sua mente vacillava tra sprazzi di memoria del passato e vuoti del presente.  Durante la sua assenza Rosa seguì i  cinque nipoti conciliando, come poteva,  gli impegni di lavoro col tempo libero. La seconda guerra si fece sentire, in tutti i sensi: nelle separazioni forzate, nei bombardamenti, negli stenti, nella trepida attesa di notizie. Ogni tanto tornava al paese e  rimproverava la cognata perché i ragazzini parlavano il dialetto. Rosa ci teneva all’Italiano. Ormai aveva assunto l’aria della città e credeva che un diploma e la  padronanza della lingua italiana potevano essere un buon biglietto di presentazione per un’occupazione futura. Nel dopoguerra incoraggiò i tre nipoti ad intraprendere la carriera del mare. Rosa invece iniziò a viaggiare, prima da sola poi, in età avanzata, coinvolse nelle sue peregrinazioni anche alcune amiche. Non c’erano confini di spazio e tempo alla sua voglia di scoprire l’Italia , l’Europa e poi oltre. Investiva così i suoi risparmi, allontanandosi sempre più,  come i cerchi concentrici si allargano nell’acqua. La sua meta preferita fu Parigi ma è rimasta memorabile nella storia della famiglia la sua partenza per la Terra Santa in un itinerario “fai da te” negli anni ’50.

 La ricordo anziana quando per un giorno si fermava a casa nostra e l’indomani ripartiva per proseguire uno dei tanti viaggi. Quando arrivava era una festa. I miei genitori la aspettavano e si premuravano di accoglierla secondo il rituale riservato agli ospiti di riguardo. A tavola parlava ininterrottamente, descriveva e raccontava le sue peripezie, e sorrideva. Mio padre la ossequiava dandole del Voi, nutriva per lei un’ammirazione, che ho capito in seguito, e una tacita gratitudine per avere assistito mia madre nel lungo parto di mio fratello che fece tribolare per due giorni non solo lei, ma anche  tutto il parentado.  Tra Rosa e mamma c’era una solidarietà femminile, riguardosa da ambo le parti, forse  perché la vita le aveva portate lontano a condividere la tradizione del mare in  una fatale ciclicità. Alla fine degli anni ‘60 Rosa venne a farci visita  per congratularsi con papà, fugando  ogni perplessità dei miei a trasferirsi altrove. Era sempre più piccola, con tante rughe ricamate dal tempo e dalla vita sul viso e sulle mani. Il passo era incerto, ma costante. Mi pareva una testuggine, con gli occhi di sempre, cangianti a seconda della luce, curiosi, attenti, precocemente spalancati sulla libertà, forza  e determinazione di essere. Quando la ricordiamo, tutti pensiamo a una donna intraprendente ed indipendente, discreta e tenace che vedeva altri tempi . Poco formale nei festeggiamenti, mai invadente, lontana eppure presente nei momenti critici.

 Certe vite  sono opere, rese grandiose da una quotidianità percorsa a piccoli passi per gestire difficoltà  e costruire pian piano, credendo in qualcosa. Qualcosa di silenziosamente autentico che va al di là di se stessi, degli affetti, delle coordinate di spazio e tempo, della contingenza del reale. A distanza di tanti anni Zia Rosa riesce ancora a trasmettermi un esempio che orienta. Una riservata, piccola- grande donna che, inizialmente per necessità e poi per scelta, interpretò la vita senza il bisogno di ricevere conferme affettive o consensi, seguendo priorità che aveva selezionato con intelligente perspicacia. Precorse i tempi con la curiosità di aprirsi al mondo, riuscendo a superare ogni distacco e a colmare ogni lontananza. Quando penso a Zia Rosa vedo una moderna  ragazza del 1899.

Dedicato a Zia Rosa

 

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  Don Liunàrd

 

Lo struscio : quando la gente elegante correva ai miserere per fare sfoggio di vestimenta.

Il rituale del giovedì  santo prevede la visita dei  sepolcri, cioè di un numero dispari di chiese, non inferiore a tre.  A  Napoli il giro dei  sepolcri si chiama “struscio”; letteralmente strusciare significa strofinare o trascinare qualcosa per terra, ma può anche significare lisciare, adulare. Di qui si pensa che struscio possa significare adulare i santi, in riferimento alle  adorazioni, oppure assumere un altro e più condiviso significato risalente  ai tempi di Fernández Pacheco de Acun͂a, viceré spagnolo nella Napoli del Settecento. Questi  emanò un bando nel 1704 per vietare  la circolazione di carrozze dal mezzogiorno del giovedì  fino al tempo della messa solenne del sabato santo inizialmente per le vie centrali della città, poi solo per via Toledo, la strada principale di Napoli. Qui  la famiglia reale in pompa magna,  con l’intera compagnia delle Real Guardie del Corpo e un corteo di cortigiani al seguito, dopo il vespro del giovedì santo si recava a piedi nelle vicine chiese per visitare i sepolcri. Ben presto i napoletani  considerarono lo struscio  come la festa della primavera  durante la quale non solo i nobili, ma anche i borghesi si esibivano in uno struscio di piedi per terra e di abiti nuovi, eleganti e fruscianti. Lo struscio divenne una sorta di gara di sfarzo tanto che nel 1781 il re Ferdinando IV intervenne per frenarla, come racconta Florio in   “Memorie storiche”.  Infatti in occasione della visita dei sepolcri durante la Settimana Santa  sia “nobili che  moltissimi del ceto civile, erano soliti vestirsi pomposamente  di velluto nero col soprabito ricco di bottoni d’oro e d’argento. Le Dame poi adornate con somma gala, portate dentro ricche sedie indorate a mano (essendo vietate le carrozze) giravano quasi tutte le chiese della città con volanti, servi, paggi, e tutta la loro corte, vestiti con le più  ricche livree, con estremo lusso, e con le teste artificiosamente accomodate. Ed in tal maniera camminavano la città e visitavano i sepolcri in giorni cotanto sacrosanti, dando qualche scandalo piuttosto che edificazione. Fu dunque sovranamente ordinato che andassero semplicemente ornate di veli, e senza scandalo e fu così eseguito.”

Il rito dello struscio sopravvisse durante la Repubblica Napoletana del 1799 e  il regno di Ferdinando II (1830-1859), divenendo sempre meno sfarzoso , seppure solenne.  Dopo i Borbone si distinse tra lo struscio del giovedì santo,  aperto al gaudente popolo che si riversava in via Toledo, e quello del venerdì  riservato ai nobili e  ai notabili della città.  Aitanti ed impettiti gentiluomini  indossavano la paglietta, cappello estivo, prontamente  tolta per ossequiare una bella dama che avanzava strusciando le vesti e i piedi . Le instancabili e “nferrùte” (tremende) mammà partenopee, di ogni estrazione sociale, agghindavano le figliole in età da marito e le accompagnavano in un interminabile struscio nella speranza di accasarle.

 Oggi per struscio s’intende il  prolungato passeggio, soprattutto serale,  per la via principale di un paese o di una  città, non solo  in occasione di feste. Spesso  i ragazzi passano e spassano per fare bella mostra di sé o conquiste  e non  necessitano più né di onnipresenti mammà , né dei miserere della Settimana Santa.