I roccocò

 

roccocò

Un dolce campano del periodo natalizio è il roccocò, un biscotto duro a forma di ciambella, preparato anticamente dalle monache del convento napoletano della Maddalena. Come altri dolci della tradizione napoletana il roccocò non ha lievito, a differenza delle brioches e  dei babà importati, e si rifa ai biscotti speziati del Medioevo. La sua durezza fa pensare al termine francese Rocaille e potrebbe avere preso il nome all’inizio del Settecento quando si diffuse l’omonimo stile roccocò.

 

Ingredienti.

1 kg farina

700 g zucchero

500 g mandorle tostate

1 uovo

120g di cedro candito a pezzetti

40 g di pisto ( misto di spezie: chiodi di garofano, noce moscata e cannella)

Buccia grattugiata di un limone verde e di un’arancia  

1 cucchiaino da caffè di ammoniaca in polvere

1 bicchiere d’acqua

 

Disporre a fontana la farina con lo zucchero, le mandorle (metà tritate e metà intere), il cedro,  le spezie, le bucce di agrumi grattugiate e l’ammoniaca. Aggiungere al centro un po’ d’acqua, mescolare  e lavorare, aggiungere acqua  fino ad ottenere un impasto abbastanza duro. Lavorare una pallina di pasta fino ad ottenere una strisciolina lunga 10 cm e larga 2 cm., unire le estremità per formare una ciambella. Disporre carta da forno su una placca, adagiarvi i roccocò spennellati con l’uovo sbattuto. Riscaldare il forno e cuocere per circa 25 minuti a 180°C.

 

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In cammino…

 

Rosso. Un cerchio rosso mi fa frenare automaticamente al semaforo. Resto in attesa del verde mentre rincorro mentalmente orari e impegni che si sovrappongono nel fine settimana. Guardo quel rosso senza vederlo,  fa da sfondo alla mia corsa mentale. D’un tratto vedo un giovane che procede a passo svelto sul marciapiede di fronte, poco distante un altro che tira un trolley e porta a cavalcioni un bambino di circa due anni, che mi guarda senza sorridere, forse un po’ spaventato da quel passo accelerato che lo fa leggermente oscillare sulle spalle del ragazzo. Dietro una bimba con le treccine, di  circa sette anni, avvolta in un piumino lungo colore fucsia, affretta il passo per raggiungere i due che la precedono. Forse uno è il padre. Scatta il verde, resto ferma, tanto dietro di me non ci sono auto e sono in una stradina poco frequentata. Sono ipnotizzata da quella scena. La bimba ha uno zainetto e ora saltella mentre stringe qualcosa tra le braccia. Guardo dietro di lei e vedo avanzare una donna, alta, con lo scialle che le copre la testa e le spalle, un piumino beige, un jeans slancia le sua gambe affusolate. Il suo  portamento regala un’innata fierezza, un’atavica regalità. Il suo viso tradisce un po’ di stanchezza  ma quella marcia è una dichiarazione di inarrendevole forza per  proseguire. Dove state andando? Trascina un grande trolley con la mano sinistra mentre un altro bimbetto, di un paio d’anni più piccolo della bambina, si aggrappa al suo braccio e, trotterellando, cerca di stare al passo con lei che procede spedita. Sembrano avere tutti fretta, come se avessero un appuntamento. Dove andate? Sembrano una famiglia. Sono una famiglia, una giovane famiglia, bella come tutte le giovani famiglie. O più probabilmente quei giovani stanno aiutando la madre dei bambini, che cerca di raggiungere qualche familiare  oltralpe. Provengono dal campo Roja, sono a Roverino  e si dirigono a piedi verso Ventimiglia in una soleggiata e fredda mattina di dicembre.

 Scatta di nuovo il rosso. Resto ancora lì, inchiodata a quel fotogramma, mentre li vedo allontanarsi, non si voltano, corrono verso il loro appuntamento col futuro, avanzano nelle pagine della storia, seguono il filo della sorte  che li separa da nuove attese e da paesi sconosciuti. Hanno il coraggio di chi non può fermarsi di fronte a nulla, sospinti da una disperata speranza, di chi ha la tenacia delle proprie radici che non si spezzano mai, di chi sa che  bisogna solo guardare avanti  e che i giorni non sono tutti uguali, come i cieli che cambiano di continuo e parlano a tutti in sfumature diverse, anche se  solo alcuni sanno ascoltarli. Ogni loro passo batte con forza assordante nelle coscienze di tutti gli  uomini di buona volontà. La mia commozione lascia scivolare qualche lacrima impotente in questa frontiera sperduta, poi alla fine supero quel  dannato semaforo e incrocio lo sguardo della bambina che mi sorride. Rallento, la saluto, li saluto, mi salutano.

Buon Natale!

“Ciò che non hai mai visto lo trovi dove non sei mai stato” (proverbio africano).

Solo un pesce morto nuota seguendo la corrente. Sei andato controcorrente, rifiutandoti di iscriverti alle società segrete di uomini del tuo paese, che hanno in mano la politica, l’economia e l’applicazione della legge. Se  non vi appartieni, sei tagliato fuori da tutto, dagli studi e dal lavoro, decidono sulla tua vita, anche privata, se puoi lavorare, studiare, vivere o morire, usufruire dei social bonus. Sono effetti di tradizioni radicate per cui alcuni decidono la vita delle donne, quando devono sposarsi e con chi, quando procreare.  Se le ragazze  si rifiutano, sono costrette a lasciare i villaggi, vanno altrove, dove spesso non sopravvivono se non prostituendosi. Molte vengono in Europa per una vita diversa – si spera – molto diversa. Hanno spesso dai 15 ai 17 anni.  Le donne non possono decidere nulla in quanto ogni decisione è presa dal padre, soprattutto le musulmane. A circa 14 anni le ragazzine sono costrette a sposarsi, anche contro la loro volontà. Possono studiare se la famiglia è in grado di  sostenere le spese della scuola e degli studi, le musulmane possono frequentare le scuole solo da bambine, le cristiane sono più libere. Quelle che conseguono un titolo di studio lavorano negli uffici, nelle scuole e negli ospedali, le altre come baby sitter o nelle fattorie. I datori di lavoro le assumono se disponibili sessualmente. Le donne protestano  per i loro diritti ma non sono ascoltate, come non lo sono quelle impegnate politicamente, che  propongono una modifica della Costituzione che  di fatto avalla un diritto di famiglia arcaico, fatto valere da tribunali locali di uomini.

pick-up

Te ne sei andato dalla tua città, rifiutando “l’obbligo” di iscriverti alla società segreta e lasciando una moglie e due figlioletti bellissimi. “Voglio decidere io della mia vita”, quindi sei stato escluso da tutto. Sei più giovane di mio figlio. Hai detto che lo studio e l’occupazione risolverebbero in parte i problemi del tuo paese, perché l’ignoranza è la causa di tanti mali. Pensieri già sentiti, amico mio, e torniamo a un circolo vizioso comune a ogni latitudine. Scrivesti “le donne hanno bisogno di protezione” e disegnasti una  di quelle ragazze rapite da Boko Haram, almeno così pensai, e poi in un altro un pick up con una donna strattonata per i capelli. Mi spiegasti che durante il viaggio nel deserto quella  ragazza nigeriana fu violentata, prima dagli stessi compagni di viaggio, poi dai trafficanti, e che non riuscisti a difenderla. Tua madre  ce l’ha fatta, diventando una commerciante in un’altra città dell’Africa e ti ha consigliato di partire. Siete stati solo due ragazzi a elencare, tra le tante criticità del vostro paese, la questione  femminile, e nei vostri occhi ho captato una segreta sofferenza di fronte alla quale ho taciuto e fatto un passo indietro. Il pudore non è vergogna a svelare, ma  è anche una forma di rispetto dell’altrui sensibilità. L’ho imparato da voi.

Hai affrontato il viaggio nel deserto e poi per mare su un barcone, soccorso infine dalla guardia costiera italiana. Da Lampedusa sei arrivato qui, alla frontiera del Nord. Volevi restare e invece alcuni giorni fa  te ne sei andato via, come altri. Hai istruzione ed educazione non comuni, tali che per noi eri un piccolo Lord, avevi  carisma sui compagni,  riuscivi a placare gli animi inquieti aiutandoci a comunicare con i ragazzi quando ci sono state tensioni o incomprensioni. Con me hai parlato, avevi un mondo da raccontare, non è stato facile sbloccarvi ma l’arte terapia funziona, serve a voi ma è servita tanto anche a noi tutte. Ci avete cambiate, come cambia chi vede la lucentezza della luna dall’altra parte della Terra. Le vostre storie sono una risorsa di forza e umanità e lo sarebbero soprattutto per i nostri figli. Sono però  le lungaggini burocratiche che vi snervano, l’inerzia, l’attesa, l’impossibilità di fare qualcosa, la convivenza con altri accomunati da un passato, spesso da dimenticare, e da un futuro incerto. All’inizio sognavi come tutti, poi come  tanti, poi solo come quelli arrivati di recente. Hai portato la tua testimonianza in pubblico, eri molto emozionato ma condividevi che la gente deve sapere, la gente deve vedervi, deve parlare con voi per rendersi conto di quel che siete. “L’Africa non è solo leoni, elefanti e zebre, ma un popolo, gente  che pensa e prova sentimenti e scappa via dal suo paese perché vuole vivere” come ha spiegato uno di voi ai ragazzini delle scuole.

disegno-migranti  Di recente eri pensieroso, a volte nervoso. Un tuo  compagno mi ha consegnato due tuoi disegni, dicendomi che li avevi fatti per noi. Un ultimo messaggio maturato di notte per ringraziarci e salutarci , ma soprattutto un appello “Cambiate le vostre leggi  sui rifugiati.” Immagino mentre lo scrivevi, perché quel disegno lo avevi iniziato un sabato e non volesti spiegarmi nulla. La tua mente non ha confini, viaggiare è anche cambiare mente e pregiudizi, e tu ne sei consapevole. Dicono che chi viaggia ha più strade, chi stende le ali e molla tutto si lancia in un’ avventura per allontanarsi dalla propria vita, con un senso di libertà e un brivido di paura. Per allontanarsi sì, ma anche arrivare prima a se stesso, cimentandosi in prove che solo lo sradicamento rende possibili. Forse di fronte alla libertà del mare hai sognato un porto in cui arrivare che valesse tutta quell’acqua da attraversare. Il mare ridimensiona e  cambia prospettiva, separa e unisce popoli e terre. Quel viaggio vi ha dato nuovi occhi, per sperare. “Sembra esserci nell’uomo, come negli uccelli, un bisogno di migrazione, una vitale necessità di sentirsi altrove” (Marguerite Yourcenar) e c’è anche tanta bellezza in tutto questo.

Oggi è Natale, giorno della nascita di Cristo. Un altro profugo, un perseguitato, un diverso che ha attraversato la storia controcorrente e ha segnato il tempo.

Oggi ti auguro di cuore  buona fortuna, amico mio, ovunque tu sia. Segui sempre la luce che hai dentro di te.

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Dipende da come ci si pone.

Caro Babbo Natale…

I susamielli

 susamielli-napoletaniUn dolce natalizio della Campania è il susamiello, il cui nome probabilmente deriva dal sesamo, i cui semi  ricoprivano i globulos degli antichi romani, palline di formaggio fritte poi immerse nel miele. Cristoforo da Messimburgo, che lavorò prima alla corte degli Estensi e poi dei Gonzaga a Mantova,  nella metà del ‘500 parla dei Sosamielli Perfettissimi preparati con un impasto di farina, zucchero, cedro candito e uova, aromatizzato con  cannella, pepe, varie spezie tipiche della cucina dei nobili, acqua di rose e un’essenza estratta dalle ghiandole del cervo, detta muschio. Dopo un secolo si trovano gli stessi ingredienti nel ricettario di napoletano Antonio Latini e nel ‘700 – ‘ 800 nel Credenziere del Buon Gusto di Vincenzo Corrado che descrisse i Sosamielli delle monache, che forse erano quelle del convento della  Sapienza, cui si devono anche le sapienze , simili ai susamielli e anch’esse dolce tipico  nel periodo natalizio. Nella loro ricetta tra gli ingredienti ci sono anche le mandorle tostate e tritate e i sosamielli di forma ovale sono ricoperti da una glassa all’arancia. In seguito Salvatore Campisi Pistoja li definisce “susamielli “ fatti con farina, miele, spezie e giulebbe d’arancia, sia a forma circolare con buco centrale che a forma di otto. Nel 1830 il cuoco Angioletti della corte parmense parla di susamielli napoletani, senza mandorle e con glassa al cioccolato. La tipica forma di S probabilmente è più recente, risale ai tre diversi susamielli: quello dei nobili preparati con farina fine, quelli degli zampognari o dei poveri con farina più grossolana, e quelli del Buon cammino, ripieni di  marmellata, che venivano offerti ai preti che facevano la questua per le case a Natale. La forma di serpente ha un significato beneaugurale.

Questa è l’ antica  ricetta tratta da “Il credenziere del Buon Gusto” di Vincenzo Corrado, 1820

Ingredienti:

640 g di miele

320 g di giulebbe

1.280 kg di farina

640 g zucchero

110 g di mandorle tostate

160 g di scorzette di arance candite

26 g di cannella in polvere

13 g di chiodi di garofano in polvere

6 g di pepe

Buccia grattugiata di mezza arancia fresca

Per la ghiaccia:

320 g di zucchero

2 arance

 In un pentolino portare a ebollizione miele e giulebbe, schiumandoli fin quando non diventano limpidi. Disporre la farina a fontana, versarvi il miele caldo, lo zucchero, le mandorle tritate, le spezie, la buccia grattugiata di arancia e le scorzette candite. Impastare bene, servendosi di spatole perché l’impasto è caldo, avvolgere in un panno e lasciare fermentare la pasta per 24 ore. Poi tagliarla a pezzi, stenderla fino allo spessore di un dito, tagliare ovali ( oggi si dà la forma di S)  , disporli su una placca da forno e lasciare cuocere  a media temperatura (180° al massimo per 20 minuti). Grattugiare la buccia delle arance, bagnarla con un po’ di succo, filtrare il tutto, unirvi i 320 g di zucchero e mescolare fino a ottenere una crema filante da spennellare sui susamielli.

Oggi esistono ricette più semplici, inoltre  non si lascia fermentare l’impasto per 24 ore e spesso  ai vari  ingredienti  si aggiunge un pizzico ammoniaca.

 

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La coltura degli alberi di Natale – Thomas Stearns Eliot

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 Quest’anno voglio ricordare quei Natali vissuti con l’ entusiasmo tipico dei bambini, mentre con papà  allestivo il presepe e addobbavo l’albero, infine ammirati con la soddisfazione e la gioia di avere realizzato qualcosa che era bello per me, per noi, e ci apparteneva e ci appartiene ancora.

 Libera è l’ interpretazione di questi versi, con i quali auguro un Buon Natale a tutti gli amici e lettori di questo blog.

 

La coltura degli alberi di Natale – Thomas Stearns Eliot

 

Vi sono molti atteggiamenti riguardo al Natale,

e alcuni li possiamo trascurare:

il torpido, il sociale, quello sfacciatamente commerciale ,

il rumoroso (essendo i bar aperti fino a mezzanotte),

e l’infantile – che non è quello del bimbo

che crede ogni candela una stella, e l’angelo dorato

spiegante  l’ali alla cima dell’albero

non solo una decorazione, ma anche un angelo.

Il fanciullo di fronte all’albero di Natale:

lasciatelo dunque in spirito di meraviglia

di fronte alla Festa, a un evento accettato non come pretesto;

così che il rapimento splendido, e lo stupore

del primo albero di Natale ricordato, e le sorprese, l’incanto

dei primi doni ricevuti (ognuno

con un profumo inconfondibile e eccitante),

e l’attesa dell’oca o del tacchino, l’evento

atteso e che stupisce al suo apparire,

e reverenza e gioia non debbano

essere mai dimenticate nella più tarda esperienza,

nella stanca abitudine, nella fatica, nel tedio,

nella consapevolezza della morte, nella coscienza del fallimento.

Nella pietà del convertito

che si potrebbe tingere di vanagloria

spiacente a Dio e irrispettosa verso i fanciulli

(E qui ricordo con gratitudine anche

Santa Lucia, con la sua canzoncina e la sua corona di fuoco)

così che prima della fine, l’”ottantesimo” l’ultimo, qualunque esso sia

le accumulate memorie dell’emozione annuale

possano concentrarsi in una grande gioia

simile sempre a un grande timore, come nell’occasione

in cui il timore giunse ad ogni anima

perché l’inizio ci ricorderà la fine

e la prima venuta la seconda venuta

 

Thomas Stearns Eliot

(tratta da Il Natale. Antologia dei poeti del ‘900, traduzione di Giovanni Giudici)

 

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“Dipende da come ci si pone…”

piena del tevere 7

 

La città eterna degli angeli è lontana ma tanto presente nei miei occhi che continuano a vederne e a cercarne la bellezza. Una bellezza tanto vasta e invadente che  forse non basta una vita intera per viverla tutta, e centellino i ricordi di Roma  con parsimonia, come tutte le cose preziose che si custodiscono con cura in uno scrigno dentro di sé . A volte capitano cose che arricchiscono  tanto da rendere insignificante tutto ciò che prima ritenevi importante. 

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Un primo giorno di scuola come tanti altri, diverso solo perché a Roma e non più in Liguria. Una prima classe con bambini e genitori emozionati, come altri, come in passato noi con i nostri figli. Due fratellini, maschio e femmina  con un anno di differenza, sono accompagnati da un ragazzo e da un uomo in giacca e cravatta,che credevo il papà e invece , capisco, è un mediatore culturale. Saluta, mi dice chi verrà a prenderli, me li affida. Prendo per mano la piccola dai grandi occhi nocciola mentre il fratello, un po’ impettito, le sta vicino cercando di celare il senso di spaesamento nel nuovo contesto. Quando gli altri genitori vanno via, quel bambino mi porge un foglio. Sua mamma si presenta  a me e alle mie colleghe,  in una grafia curata comunica  che è molto contenta che i suoi figli inizino a frequentare la scuola, che spera di conoscerci presto e ci augura un buon inizio di anno scolastico. Un pensiero gentile sbocciato tra caratteri in stampato maiuscolo ed errori di ortografia, così insolitamente  gentile che mi commuovo.  Questi due bambini  sono di un’educazione, a dir poco, disarmante.

'a manoAbituate a bambini irrequieti ,  lamentosi che spesso si contendono i giochi e l’ attenzione degli adulti, non ci sembra vero che  loro stiano ben seduti, forse un po’ troppo timidi e disorientati. Lui dà sempre  la mano alla sorella, quasi per proteggerla, perché è minuta, un po’ più piccola delle bimbe della sua età  ma anche tanto bella. Anche l’ ometto, serio e  taciturno, è un bel bambino con gli stessi occhi color nocciola. Il loro silenzio tradisce un’attenzione ad ampio raggio verso tutte le persone e le cose che li circondano.  Dopo qualche giorno i bambini iniziano a familiarizzare con gli altri, con discrezione, senza insistere troppo, quasi con timore. 

prog muse“Qual è stato per te un momento in cui ti sei sentito felicissimo?” alle risposte un po’ scontate “Quando ho festeggiato il compleanno, quando ho ricevuto in regalo…, quando ho vinto giocando a calcio…” I.  ha risposto timidamente  :“Quando papà ha detto che potevo andare a scuola”, la bimba  invece: “ Quando mamma mi ha svegliato di notte e abbiamo mangiato insieme  pane e cioccolato”. L’anno dopo alla tradizionale domanda  “ Che cosa ti piacerebbe fare da grande?” oltre alle solite risposte “ il calciatore, la ballerina, la cantante, il veterinario, …” se  la bimba ha prontamente detto  “la ballerina” ( del resto ha una straordinaria abilità e armonia nei movimenti  nel seguire il ritmo) invece  l’ometto, che ben pondera le parole,  ha esordito  con “ lo studente modello” . Risposta  pertinente a quel suo desiderio e orgoglio di riuscire a imparare, che per lui  significa  riscattarsi dalla sensazione e dalla condizione di non essere mai ben accetti, di essere discriminati, additati perché rom.

In un campo di Roma quel bambino accudisce le sorelline, ma quella di sei anni  “  sa progetto Mus-e 1lavare i piatti (maestra) come una donna grande” e canta e gioca con la più piccola quando la mamma va a lavorare. Sono seguiti dai giovani dell’Arci che spesso fanno da tramite tra la scuola e la famiglia. Ho conosciuto i genitori  di quei bambini che sono venuti  a scuola indossando il loro vestito più bello. Io e le colleghe pensavamo che non si sarebbero presentati al colloquio, invece  in perfetto orario un ragazzo e una ragazza, di due anni più grandi di mia figlia, sono entrati  nell’ atrio  un po’ timorosi e impacciati. Lei, dai  lineamenti delicati, grandi occhi nocciola e lunghi capelli legati, era  gentile nei modi e nelle parole, aveva un che di regale nel portamento. Bella, davvero bella.  “Come vi trovate a Roma?” “Maestra , qui la gente non è cattiva, molto dipende da come uno si pone”. Lui più taciturno, forse diffidente o semplicemente imbarazzato. Quando è finito il colloquio ci hanno salutato abbracciandoci. Non siamo solite salutare i genitori in modo così espansivo, ma quel saluto spontaneo ci ha coinvolte. Quel congedo ha sciolto ogni perplessità e costruito un rapporto di fiducia.

Qualche settimana prima avevamo scritto a tutti i genitori un generico avviso di controllo dei bambini  per evitare casi di pediculosi e la giovane mamma  ci aveva scritto sul diario “Grazie, maestra.  Scrivi pure se vedi pitocchi,  scusa ma  non posso fare il bagno tutti i giorni ai miei figli. Grazie ,grazie”. Quella ragazza ha insegnato ai suoi figli a usare le posate e a stare composti a tavola, cosa rara al giorno d’oggi. Quei bambini arrivano puntualmente a scuola, tranne quando il campo si allaga con la pioggia e lo scuolabus non passa a prenderli . Non hanno sempre l’occorrente scolastico, come del resto anche altri bambini ai quali spesso provvediamo noi insegnanti,  ma sono sempre in ordine, pettinati e cambiati. Consegnano  i quaderni nuovi e si mostrano quasi con fierezza  con il grembiule nuovo  indosso, quando la mamma riesce  a comprarli .

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Quei bambini sono stati contenti di vedere il loro papà ben vestito e accolto tra gli invitati e le autorità all’ inaugurazione di un Progetto sui diritti dell’Infanzia  proprio in una  scuola d borgata, che qualche giornalista ha definito in una strada da piccolo Bronx, ma dove  ho trovato l’ennesima conferma  che la scuola e l’istruzione rendono possibile l’integrazione, un’integrazione che dipende da come ci si pone, reciprocamente.

Anni fa, quando il campo Candoni  fu al centro di un progetto interistituzionale all’avanguardia per l’integrazione,  in quella scuola prima dell’inizio  delle lezioni le assistenti comunali accoglievano tanti bimbi rom e provvedevano anche a lavare loro e i loro vestiti. Una scuola dove si lavora molto per contrastare ogni forma di disagio,dove ho insegnato volentieri  ma soprattutto  imparato tanto e lasciato un po’ di cuore.

20140309_105302Questa non è una fiaba, magari lo fosse e avesse un lieto fine, ma è una mia bella esperienza che ho voluto condividere per testimoniare che  non tutti i rom sono brutti, sporchi e cattivi come si è sentito tanto parlare di recente . A volte dipende da come ci si pone. Reciprocamente. A volte basterebbe ricordarsi  che tanti, troppi sono i bambini invisibili che vivono nei canneti o in  campi -discariche, come se fossero topi. Tanti dormono in furgoni freddi d’inverno e roventi d’estate  anche perché più sicuri dei campi sovraffollati dove la convivenza è difficile.  Mi hanno detto che quei miei alunni sono un’eccezione. Forse  lo è anche un’altra mamma rom che, dopo lo sgombero di un campo, ogni giorno percorreva  circa  tre chilometri  per accompagnare  due suoi figli a scuola e una mattina stava accovacciata in terra con un bimbo al collo perché, incinta e a digiuno, si era sentita male. Probabilmente due eccezioni non bastano a far saltare ogni pregiudizio ma sono state e sono per me e per altri  un prezioso e  tanto, tanto caro esempio.  

Buon Natale, amici miei ! SAM_2790

I mostaccioli

mostaccioliA Napoli e in Campania i dolci tipici delle  feste natalizie sono tanti: le paste reali di San Gregorio Armeno, i Divino Amore, le sapienze, gli struffoli, le zeppole, i  roccocò, i mostaccioli ,i susamielli, i raffioli. Solo a leggere questa varietà si ingrassa, ma ne vale davvero la pena . I miei preferiti sono i mostaccioli che hanno forma di rombo e sono ricoperti di cioccolato, mentre la pasta interna è a base di miele e frutta candita.

I mostaccioli hanno una lunga origine. Catone ha lasciato la ricetta dei mostacea , un impasto di mosto e farina, grasso e formaggio, speziato da anice, cumino e alloro che veniva cotto su una piastra . Un piatto dei matrimoni romani che sembra molto lontano dai nostri squisiti mostaccioli. In verità dal 200 a. C. di Catone e i primi ricettari del tardo Medioevo si sa poco grazie a notizie frammentarie e a testi arabi. Per i Romani il mosto di Catone era, insieme al miele, un dolcificante, mentre lo zucchero fu portato poi dagli arabi. Nei ricettari del Rinascimento compaiono  farina, zucchero e spezie come  ingredienti degli antenati dei  mostaccioli napoletani  che forse derivano dai pani speziati del Medioevo e dai dolci romboidali di marzapane della  Provenza. Nel 1557 Cristoforo di Messimburgo parla di biscotti preparati con  miele, farina, zafferano, cedro candito, noce moscata e cinnamono. Questi servivano come addensante di sapori per una famosa torta al gusto di cantalupo di Bartolomeo Scappi, cuoco del papa Pio V. Nella sua variante di mostaccioli venivano utilizzate le uova, mentre nel ‘600 si aggiungono mandorle tostate e tritate e proprio alla fine del secolo Antonio Latini  descrive mostaccioli con cedri canditi, mandorle, spezie e una glassa di zucchero alla cannella. Alla fine del ‘700 arriva il cioccolato e nel 1778 Vincenzo Corrado parla di una glassa di cioccolato, quindi si pensa che i mostaccioli napoletani  nascano alla fine del ‘700. Esistevano anche una variante con cannella, chiodi di garofano e noce moscata, un’ altra con cedro e mandorle. Nel 1810 Michele Somma di Nola descrive un mostacciolo fatto con farina, zucchero, mandorle e coperto di cioccolato. Nel 1977 Jeanne Carola ha variato la ricetta  riducendo le spezie e introducendo buccia d’arancia e uno strato di marmellata di albicocche creando  mostaccioli un po’ più morbidi e …squisitissimi.

Come per la maggior parte dei dolci campani esistono tante ricette e varianti, vi propongo quella di Jeanne Carola Francesconi tratta da la Cucina Napoletana.

 

Ingredienti:mostaccioli 1

per la pasta:

500g farina

400g zucchero

100 g acqua

5g spezie in polvere

un pizzico di vaniglia

raschiatura di mezza arancia

0,5 g di carbonato di ammoniaca

 Per la ghiaccia:

300 g zucchero

140g cacao

una punta di cucchiaino di bicarbonato di sodio

50g marmellata di albicocche

2 cucchiai di zucchero

½ bicchiere di acqua

Mescolare farina e zucchero, gli aromi indicati, la raschiatura di buccia di arancia e aggiungere  l’acqua e il carbonato di ammoniaca amalgamando gli ingredienti in una pasta dura. Lasciare riposare per 15 minuti. Stendere la pasta (4 mm di altezza), dividerla in strisce larghe 10 cm da ritagliare in rombi. Riutilizzare i ritagli , impastando di nuovo e formando altri rombi. Spennellare con acqua fredda, metterli su una placca oleata e lasciare cuocere a media temperatura per 7-8 minuti circa rivoltandoli. Estrarre dal forno e lasciare raffreddare. Preparare la ghiaccia al cioccolato con 50 g di cacao, velare una faccia dei mostaccioli e lasciare asciugare. Sull’altra faccia spennellare un sottile strato di marmellata di albicocche, cotta con due cucchiai di zucchero e mezzo bicchiere d’acqua  per 4-5 minuti. Aggiungere alla ghiaccia altri 40g di cacao e stenderla sullo strato di marmellata. Lasciare asciugare i mostaccioli in forno aperto riscaldato per dieci minuti. 

 

È tempo di…

Il freddo ha rischiarato i  monti spargendo neve e gelo. La gente passeggia sotto le luminarie e si sofferma dinanzi a vetrine abbaglianti, chiacchiera tra saluti e convenevoli di incontri occasionali sbirciando nella vite proprie e altrui, nelle auto che si snodano sull’asfalto umido .Il cielo di dicembre preannuncia passi più lunghi di luce.

 È tempo di ricollocare la Madre, il Padre e il Figlio. I Magi predicono e traggono presagi da una mappa stellata e seguono la scia luminescente di ghiaccio, che li guida e li orienta. Da sempre provengono da tre diverse parti del mondo per rendere omaggio a un bambino appena nato che porta luce e amore, per alcuni nella storia dei popoli, per altri  nel  ricordo dell’infanzia, punto di partenza del cammino di tutti. La loro saggezza ed esperienza è racchiusa nelle tre stagioni della vita umana ( la giovinezza, la maturità e la vecchiaia) e paiono concretizzarsi nei simbolici doni dell’oro (regalità), dell’incenso ( divinità), della mirra (umanità), quasi a ricordare che quella vita appena sbocciata è sacra e preziosa, seppur destinata ad una ciclicità.  

natività -Pietro Molli e Teresa Arpaia

 

La famiglia si ricompone  con valigie cariche di nuovi progetti, da svuotare in trasferimenti a breve e medio termine in attesa di vivere altrove e percorrere nuove strade che si aprono sul futuro. La famiglia ritrova la madre e il padre riscoprendosi nel ruolo di figlio, con il semplice dono di una quotidianità che trasforma pian piano. Ci ritroveremo nuovamente tutti insieme riappropriandoci di ogni angolo vissuto della nostra casa, per raccontarci nella quiete degli affetti. Una pausa per abbracciarci, gustare i piaceri della tavola e degli aneddoti, condividere i cambiamenti avvenuti e quelli annunciati. Poi ripartiremo per altre case e città. La stella di ghiaccio ci seguirà dall’alto.

 Auguri di un sereno Natale a voi tutti! :)

 

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Caro Babbo Natale…

Caro Babbo Natale…

 era il tradizionale incipit della letterina che sin dagli inizi di dicembre  scrivevo con fiducia ad un papà invisibilmente presente, che rassicurava nel  profondo dell’immaginazione e dei sogni dell’infanzia. A un amico fantastico  indirizzavo desideri che si concretizzavano in un ambito  giocattolo, anche se il tanto desiderato “Dolce Forno” non è mai arrivato.  Ogni anno la curiosità e l’attesa facevano un po’ trepidare per ottenere un qualcosa di concreto , perché comunque avevo la certezza di affetti e serenità familiare, poco ostentati  da smancerie, ma consolidati nella fattiva presenza  e operosità di una madre e di un padre, forti nella loro univoca capacità di  orientare.

 In seguito ho trovato altre madri e padri,  in grado di rispondere alle mie perplessità, timori e sogni,  in persone  per me speciali, in pensieri già pensati da altri, in esperienze di vita personale ed altrui. Adesso, a distanza di qualche decennio, a volte ho l’impressione che quei riferimenti di serietà e buoni principi siano un po’ volutamente rimossi in un contesto capace di  accorciare tempi e distanze ma incapace di soffermarsi per trarne respiro, per riconoscerli, affermarli e garantirli senza screditarli come eccezionali o desueti.

 Oggi sento il bisogno di scrivere a te , Babbo immaginario, alter ego che induce a  bilanci periodici, per rinnovare le risorse interiori.  Ti chiedo una sola cosa. Instilla ancora quella fiducia negli altri, in un domani possibile e raggiungibile attraverso un presente conquistato sì , ma non invano, e in quei padri, spesso latitanti, di cui c’è tanto bisogno per i ragazzi di oggi e anche per noi, ragazzi di ieri, che abbiamo avuto la fortuna di averli e di esserne sostenuti.

 La rabbia dei figli rimasti senza padri  di Alessandro  D’Avenia  è una  riflessione che ben interpreta un Natale , che anch’io quest’anno percepisco come rallentato.

“Il padre è il mediatore del futuro, colui che è capace di provocare la nostalgia di futuro di cui ogni giovane ha bisogno per affrontare il presente. Padri sono i padri di famiglia, spesso assenti; padri sono i maestri a scuola e all’università, spesso padrini; padri sono i politici, spesso padroni; padri sono gli uomini delle agenzie educative (dalla chiesa alla tv), spesso patrigni. Padri sono tutti coloro a cui sono affidate le vite di altri, che padri diventano se si pongono al servizio di quella vita che non è loro, ma è loro affidata e di cui dovranno rendere conto alla storia.

Se i padri non servono le vite dei figli, ma le divorano come Cronos, cioè le controllano o ignorano, i figli diventano burattini o orfani. Che futuro ha un burattino? I fili. Un orfano? La fuga. Quando mio padre mi lanciava in aria da bambino, mia madre, impaurita, gli chiedeva di mettermi giù. Lui la rassicurava e continuava. La madre ha il compito di tenere ancorato il figlio alla terra, il padre invece lo lancia verso le stelle, verso l’ignoto, verso la paura di cadere, ma le sue braccia lo aspettano per ricordargli che il futuro è un’incognita, ma si cade tra braccia sicure, e la paura della vertigine si muta in risata. Ma se il padre sparisce, il duro suolo fermerà la caduta dei figli e non resterà che il pianto inconsolabile di un inizio fallito. I ragazzi manifestano perché i padri si manifestino e liberino il futuro e i sogni che contiene.

Ogni ragazzo può sognare perché è sognato. Ogni uomo può sperare perché è atteso. Ho la fortuna di avere un padre: mio padre. Ho avuto la fortuna di avere grandi padri: Mario Franchina, professore di lettere, Padre Pino Puglisi, professore di religione del mio liceo, Paolo Borsellino, vicino di quartiere. Da loro ho ricevuto il futuro e quindi il presente. Abbiamo bisogno di padri che facciano più strada di quanta possiamo farne noi per raggiungerli. Padri tornate, noi non smetteremo di cercarvi e di darci da fare per essere un nuovo inizio.”

La storia infinita del presepe napoletano: i tetri personaggi del presepe, ormai scomparsi.

 Nel  Complesso Monumentale di San Lorenzo Maggiore in Piazza San Gaetano a Napoli ( nei pressi di San Gregorio Armeno, sede delle botteghe degli artigiani del presepe), nel dicembre del 2009 ebbi l’occasione di visitare l’interessantissima mostra “Tradizione in azione- un percorso d’arte tra tradizione e contemporaneità”,  realizzata dai fratelli Scuotto, dalla quale ho molto appreso sulla storia e sull’arte del presepe.

Da anni i fratelli Scuotto trasformano l’artigianato in arte pura.  Ideatori e creatori della bottega “La Scarabattola” e dell’Associazione culturale EsseArte, dal 1996 svolgono un lavoro curato, ironico, fedele alla tradizione ma altamente innovativo dell’arte presepiale che, sin dal ‘700, da semplice espressione folkloristica di successo del popolo si elevò a raffinata espressione culturale di Napoli. Documentandosi sui testi “Il Presepe popolare napoletano” e “Le storie e i racconti dei dodici giorni di Natale” del Maestro Roberto De Simone, hanno  scoperto che il presepe nasconde dei simboli straordinari, esoterici e interessanti. 

De Simone  ha recuperato e riproposto  il patrimonio culturale, teatrale e musicale della tradizione popolare campana, riscoprendo e diffondendo anche la tradizione napoletana del Natale. “…La tradizione come scrigno della memoria, ma anche specchio che riflette in modo oggettivo le mutevolezze della nostra identità nel sovrapporsi delle epoche…. il Natale ha  origini arcaiche risalente a  epoche antecedenti e pagane. Timorosi per il futuro, buio e spoglio paventato dall’inverno, i popoli primitivi esorcizzavano le loro paure con rituali propiziatori al ritorno della luce e del calore oppure, più tardi, alla rottura simbolica del tempo con la speranza di arrestare gli eventi nefasti e rigenerare un tempo nuovo, più equo e giusto. Di questo si può intravedere qualche traccia,ormai sbiadita, nell’usanza di tagliare a pezzi il capitone o l’anguilla e nel consumo dei tipici struffoli o del susamiello , dalla caratteristica forma serpentina. (Roberto De Simone:  da “Personaggi di terrore, demoniaci e magico religiosi della tradizione natalizia meridionale-2008)

 Il presepe è quindi la rappresentazione tangibile e visibile della tradizione, non solo come devozione per il Salvatore , ma anche come espressione di tutti i simboli del codice onirico della tradizione (quali il ponte, il pozzo, la fontana, il mulino, il fiume, l’osteria)  vissuti da personaggi tipici di leggende, credenze,superstizioni popolari in una commistione di sacro e profano, magia e religione.                                

Tra i personaggi del presepe napoletano c’erano figure un po’ tetre, alcune demoniache, ritenute depositarie di messaggi terrificanti e perciò, probabilmente, pian piano sono scomparse ma sopravvivono nella costante presenza del pozzo, del ponte e dell’acqua. 

Tra questi personaggi, grazie ai fratelli Scuotto, rivive la mostruosa Maria ‘a Manilonga: nell’Avellinese i bambini devono stare lontani dai pozzi nelle sere delle festività natalizie perchè Maria, essere demoniaco, li cattura (Roberto De Simone) trascinandoli nelle profondità delle acque sotterranee, negli Inferi. Il pozzo rappresenta gli abissi e quindi la comunicazione col mondo dei morti.

Forse non a caso, già nell’intuizione popolare, alla Madonna si contrapponeva  Maria ‘a Manilonga che potrebbero essere  aspetti dell’ambivalente  sentimento materno di madre-matrigna, amore e odio originato dalla doppia e conflittuale soggettività delle madri, il cui figlio vive e si nutre del loro sacrificio. Un sentimento naturale- come sostiene  Umberto Galimberti in “ I miti del nostro tempo” ed. Feltrinelli- sempre esistito, testimoniato dalla mitica Medea, e sempre ripudiato con terrore collettivo  perché intacca la sacralità della vita. L’abisso della solitudine può  trasformare la madre in matrigna con potere di vita ma anche di morte quando quel figlio è troppo distante dai suoi desideri e sogni.

 

 

Mamma Sirena: è il personaggio di una favola che narra di un giovane  pastore che,  lungo la riva del mare, intonava  un canto per favorire il ritorno della sorella dagli abissi marini in cui era tenuta prigioniera. Le pecorelle, mangiando le perle che cadevano dai capelli della fanciulla, acquistavano poteri vaticinanti, svelavano arcani misteri e davano infallibili oracoli.

 

 

Il ponte dei carmelitani: in riferimento al segno del  ponte a Grottaglie e a Napoli, nel giorno dell’Epifania il presepe si arricchiva di una scena singolare. Vale a dire che lì, dove è situato un ponte tra due dirupi, si collocavano dodici figurine di monaci scalzi ed incappucciati, che si rifanno alla Madonna del Carmelo, che è appunto la Madonna delle anime del Purgatorio. Mostravano il pollice della mano sinistra fiammeggiante: essi rappresentavano i mesi morti o i dodici giorni del periodo natalizio che, al seguito dei Magi, ritornavano nell’aldilà .

 

 Il ponte consente il  transito tra il mondo dei vivi e quello dei morti . È un  luogo di manifestazioni magico-fantastiche, rappresentate per esempio dal lupo Mannaro e da Mafalda.

A mezzanotte meno dieci Zi Michele procedeva col suo carretto  in direzione di un crocevia e , da lontano,scorse una strana figura. Giunto al crocevia non lo vide più. Esclamò “Mamma mia, l’ho visto un momento fa. Ma sto sognando, o che mi sta succedendo? ” Non appena attraversò il crocevia, gli si presentò il mostro, il famigerato lupo Mannaro.

Sotto il ponte invece compariva,  in veste di  monaca, il fantasma di Mafalda o, per alcuni  della Principessa Cicinelli, che appartiene alla tradizione campana e pugliese. Suo  padre le  aveva vietato di vedere il paggio di cui si era innamorata  e voleva che si ritirasse in convento. “Quando giunse la sventurata giovane, raccolse piangendo il capo mozzo del suo amato , lo depose nella bisaccia e si trafisse con lo stesso pugnale che il padre aveva lasciato per terra.” (Roberto De Simone).

 Ecco sul ponte il tempo che passa, sotto il mondo dei morti con Mafalda in basso a sinistra.

La tradizione riproposta  con un linguaggio artistico libero, come deve essere sempre l’arte, (Salvatore Scuotto) rivive nella passione artistica  e nella creatività dei fratelli Scuotto.

 

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