Con questo post partecipo alla seconda edizione del Carnevale della Letteratura ospitato da “Il Coniglio mannaro” di Spartaco Mencaroni che ha proposto il tema
“ i luoghi di confine”.
Buona lettura!
Le prime ore di luce l’hanno sempre attirata, e lei le ha sempre rincorse. A quindici anni aspettava l’alba e alle cinque usciva di casa di nascosto per raggiungere il lungomare e osservare il mare piatto che iniziava a svegliarsi sulla riva. Le piaceva scoprire a grandi passi il cammino retto, dritto, vuoto e nudo del litorale che scorreva a est verso l’infinito nelle sfumature del giorno.
Bottiglie vuote e carte, rigurgiti serali dei vacanzieri, stavano rannicchiate sul muretto o nei pressi di cestini e la distraevano da quella devozione per il giorno.
Zampanò scendeva dalla panchina e le andava incontro fuseggiando . Era un vecchio gatto, forse uno spiritello incarnatosi in un felino dalla zampa tesa, calcificatasi male, che gli dava un’ andatura inconfondibile anche da lontano . Un soprannome ben calibrato per un gatto dalla spiccata personalità, resistente e sornione nella sua placida esistenza, circoscritta ai pitosfori del sottopasso, e garbatamente ruffiano di fronte a prodighe offerte di pappatoria. Dopo il quotidiano rituale di coccole e saluti, attraversava il lungomare e scendeva nello stabilimento sottostante, forse con la speranza di trovare una colazione degna del suo felino appetito.
Qualche raro pescatore era già sulla scogliera con la lenza tesa in mare e il cappello ben calato sulla testa, immobile, chissà se in meditazione o dormiveglia. Lei procedeva a passo svelto, ripercorreva il lungomare e rientrava a casa prima che i suoi si alzassero, finché un giorno il padre le chiese , dissimulando male l’innata preoccupazione per le misteriose uscite mattutine. “È troppo presto uscire alle cinque del mattino.” Con quali parole poteva spiegargli che il mare la chiamava, che quella luce rosata l’attendeva e non si accontentava di scorgerla dalla terrazza di casa ma aveva bisogno di ritrovarsi e dirsi buongiorno nel silenzio rasserenante del mattino.
A quindici anni la vita inizia a pulsare forte con tante, contrastanti emozioni che morsicano il cuore, con un carico di energia che ha bisogno di venire fuori per non implodere dentro. A quell’età l’intuizione prevale ancora sulla logica, che sgomitola fili ingarbugliati, e non riesce a trovare risposte opportune ai quesiti sempre più incalzanti, alle perplessità e ai timori del domani. Al cambiamento apparente del corpo e della voce si sovrappongono l’inquietudine, il dubbio, un senso di inadeguatezza e una latente insicurezza di fronte a un presente in cui bisogna ripensarsi per ripensare nuove e più confortanti certezze. Troppa confusione e nostalgia di àncore e del futuro, mai messe a fuoco in maniera nitida, chissà come riescono a rendere possibile il miracolo della crescita perché la miopia dell’adolescenza in fondo è il motore della vita, la spinta alla ricerca, alla scoperta di sé e del mondo.
Forse per questa primordiale e naturale danza emotiva iniziò a riprendere il nuoto, prima su brevi distanze, che via via divennero sempre più lunghe. Iniziò ad allenarsi sistematicamente da sola e d’estate, per scaricare e incanalare energie perché sentiva che era necessario per sentirsi meglio, ignorando che avrebbe gradualmente conquistato il coraggio di vivere.
Aveva imparato a galleggiare da sola a tre anni, stando prona laddove si infrange l’onda , battendo i piedi come facevano i grandi, bevendo e sputando quando metteva la testa sott’acqua e, incoraggiata dalle risa di mamma e zia, si destreggiava in quel gioco. Un giorno un’onda più lunga la risucchiò verso il mare e allora batté i piedi più forte che poteva e per istinto mosse le mani a cagnolino nel tentativo di non affondare e si trovò un po’ distante dalla riva. Nel mare. D’un tratto si accorse che sotto i piedini non c’era più il fondale di pietre e sabbia e allo stesso tempo vide arrivare a grandi falcate la madre che prima, con ansia, le disse che era tremenda, poi divertita la lodò per la sua bravura mentre la sorreggeva sotto con mano ferma quando la stanchezza la lasciava lentamente decantare tra le braccia vellutate delle alghe.
Da allora imparò ben presto a sguazzare e ad allontanarsi dalla spiaggia in un periodo divertentissimo per lei, ma molto movimentato per i suoi genitori che non riuscivano a godersi un po’ di sole in santa pace . Stavano in piedi sulla battigia cercando di non perderla di vista e si tranquillizzavano solo quando era in un gruppo di bambini più grandi e più consapevoli dei pericoli del mare. Aveva acquisito una buona acquaticità, nuotava con estrema facilità sia in superficie che sott’acqua dove con naturalità tratteneva il fiato per rilasciarlo un po’ alla volta e allargava quanto più poteva le braccia per avanzare tra gli scogli , mentre le gambe scalciavano in fretta dando direzione e velocità. A cinque anni il senso dello stupore fa scoprire il mondo e di sicuro quello nascosto del mare era una tentazione troppo forte per la sua innata curiosità, finché non subentrarono le paure, come la paura di una mostruosa murena che poteva sbucare all’improvviso tra gli scogli, del pescecane che sfrecciava in superficie e che invece risultò essere un motoscafo e causa di incubi ricorrenti, del dolore all’orecchio dovuto ad una lesione del timpano che si era provocata grazie alla sua incoscienza. Cominciò allora a solcare in superficie il mondo visibile ed esperibile delle onde.
“Facciamo a chi arriva prima all’orizzonte” disse un giorno il cugino più grande a una schiera di bambini. Tutti corsero in acqua e iniziarono a nuotare in avanti, sbattendo a caso mani e piedi sull’acqua in uno slancio di grida e di schizzi. Lei era tra i più piccoli e non riusciva a farsi largo in quel caos di spruzzi e di gambe scalcianti, ma non desistette. Man mano che gli altri si allontanarono sollevando acqua e risa, smise di avanzare come un cane e iniziò a nuotare sul serio, a stile libero con la testa ben dritta in avanti, come le aveva insegnato il papà. Dopo un’iniziale resistenza e fatica, imparò a sentire il respiro, a coordinarlo con il movimento degli arti, questi ultimi veloci, sempre più veloci, le davano slancio, le bracciate divennero più regolari e così procedeva, avanzava senza rendersi conto di allontanarsi sempre più dalla riva . Non poteva fermarsi , né voleva fermarsi per non darla vinta ai grandi e guardava davanti a sé l’orizzonte, quel traguardo sottile dove sprofondava il sole. Poteva farcela. Ogni tanto trovava qualcuno fermo che aveva desistito dalla gara, che a volte la incitava, a volte l’esortava a fermarsi.
L’orizzonte però si spostava sempre più, era irraggiungibile per quanti sforzi potesse fare. Stanca si fermò, ritrovandosi al largo; sentì il cugino che a metà percorso la chiamava dicendole di tornare indietro. Aveva il fiatone e si mise a “fare il morto” a pancia in su per riposarsi e con le braccia ben aperte e appoggiate sul mare scrutò quel cielo che le parve più azzurro, luminoso e vicino del solito. Sentiva l’affanno del respiro che pian piano scemava, le onde che la cullavano dolcemente in una ripresa di forze e di respiri più calmi. Provava anche una grande soddisfazione perché era arrivata più vicina all’orizzonte, a quel confine tra mare e cielo, e per un po’ le sembrò che il proprio corpo fosse una linea di demarcazione tra gli abissi del mare e l’infinito del cielo.
Quel suo piccolo sogno di gloria si infranse ben presto quando riconobbe la voce del cugino che la indicava a don Peppe che avanzava con remate energiche e veloci. Dove andrà così di corsa? Iniziò a pensare al famigerato pescecane che popolava le sue paure infantili grazie ai racconti degli adulti che in tal modo pensavano di frenare la sua vivacità. Poi si accorse che don Peppe si dirigeva verso di lei, seguito a nuoto dal cugino, e capì che erano lì per lei. Non sapeva se avere paura o andargli incontro. Cominciò a pensare di avere sbagliato in qualcosa, ma in che? Aveva partecipato ad una gara e l’aveva vinta. Don Peppe si accostò con cautela, le porse una mano nodosa e forte alla quale si aggrappò e che la issò sulla barca “ Si’ proprio ‘nu pesciolino. Ma nun t’allontanà chiù ch’’a passano e’ motoscaf” … “e anche i pescecani” , aggiunse lei , memore delle raccomandazioni dei suoi. A riva trovò sua zia preoccupata e sua madre sul piede di guerra. Le bastò guardare i loro occhi per capire che l’aveva combinata grossa, e che questa sua bravata non sarebbe passata impunita. A sette anni però che si può capire dei pericoli del mare, se non che è popolato da murene dai denti avvelenati e da famelici squali? In compenso anche gli altri cugini ebbero una bella ramanzina perché l’avevano istigata a sfidare chissà quali nefandezze nel regno di Nettuno, invece di proteggerla.
Insomma da quel dì le fu consentito di fare bagni al mare, ma solo a tempo. Sì a tempo, non più un solo interminabile bagno che durava quanto tutta la permanenza in spiaggia. Il tempo era scandito dalla comparsa di rughe che arricciavano i polpastrelli e dal colore viola delle labbra , segnali di immediata e improcrastinabile risalita a riva, altrimenti doveva subire la mortificazione di essere prelevata a forza dalla madre, affronto insopportabile per uno spiritello libero. Sulla spiaggia aveva comunque sempre qualcosa da fare, soprattutto cercare legnetti e pietrine colorate sotto i piloni dello stabilimento, provocando strenue contrattazioni, ora persuasive, ora minacciose, di mamma e zia perché ricomparisse tra i più comuni mortali e smettesse di giocare al minatore. Decorava con pietre e sabbia sgocciolata a mo’ di glassa immaginarie e appetitose torte, con sassolini, pietre pomice e legnetti i torrioni di un castello di sabbia circondato da un profondo fossato, nel quale si calava fino a mezzo busto attirando l’attenzione di molti bambini della spiaggia e il disappunto del bagnino perché quella voragine poteva fare inciampare qualche distratto vacanziero del week end. Ma prova a “di’ a ‘o mar e sta’ quiet” ( prova a dire al mare di stare quieto). Era un’ondina selvatica. Era tutt’ uno col mare e viveva con estrema naturalezza il ritorno al liquido amniotico di sua madre e lo slancio verso l’ignoto con l’intraprendenza di suo padre.
A quindici anni però il mondo si capovolge. Il mare la iniziò a chiamare con una voce lusinghiera ma indecifrabile. Quell’orizzonte evocava il mistero della conoscenza e un timore reverenziale, seduceva la sua fantasia verso mondi lontani e civiltà remote, divenne la metafora della vita e dell’umana gente. Suscitava in lei la malía dell’ignoto, il forte richiamo dei popoli sconosciuti di ogni tempo e luogo, il sudore e la nostalgia di generazioni di naviganti e di emigranti.
La paura dei mutamenti della crescita, che trasformava il suo corpo e le rubava la spensieratezza, non ostacolò la sopita passione infantile.
Al mattino abbracciava il mare, madre e padre insieme, e con lunghe nuotate lo domava, esiliava ogni dubbio e inquietudine, reclamando la dose quotidiana di vitalità e di adrenalina per sedurre la speranza e il futuro. Quasi per gioco iniziò ad allenarsi per sfidare il mare, ma in realtà sfidava se stessa in una gara di resistenza, per caricarsi di volontà di potenza e sentirsi viva. Un allenamento gratificante, un modo inconsapevole per temprare anima e corpo con la forza concentrata nella bracciata cadenzata e coordinata al respiro e alla battuta dei piedi, capace di accelerare in sforzi graduali e a decelerare con rinunce e battute d’arresto altrettanto graduali. Solcava il mare come una freccia scagliata prima in lontananza e poi in parallelo alla riva. Guardava i fondali e la costa, senza mai perdere di vista le boe che le davano il riferimento della distanza ma, soprattutto quando nuotava verso est, volgeva il viso verso l’orizzonte, muta presenza in quel rituale di iniziazione.
Nuotare su lunghe distanze era per lei conoscenza dei propri limiti e potenzialità, valutazione dei rischi e regolazione delle forze, estenuante modellamento del corpo e della tenacia ,capacità di orientarsi con il sole e con la mente, di tagliare l’onda controcorrente, di esplorare silenzi, di ascoltare e di ascoltarsi, di fantasticare. Quando iniziò la moda dei windsurf si tenne più vicina alla costa. Nuotare in stato di allerta era ancora più faticoso, rischiava di compromettere il piacere del nuoto e di cedere all’insicurezza del pericolo che in ogni contesto frena entusiasmi e crea attriti.
A venti anni si accorse che il mondo aspettava un suo qualsiasi contributo ma l’umanità non era come credeva, e ne era diffidente, se non ostile, era troppo impegnata a respirare rabbia e desiderio, a condannarsi e ad assolversi, a ricreare un nuovo ordine ed equilibrio, a cercare armonia, bellezza e conferme da un dio qualunque e dalla sorte, a inseguire orizzonti, speranze e sogni, a oltrepassare confini per definirne altri, a scoprire quella semplice legge che “niente si distrugge, ma tutto si trasforma” nel mare di dentro.
“Quando crederai in te stessa, non ti fermerà più nessuno”. Era l’indelebile e indigesta sentenza di un maestro di vita, uno di quelli che compare quando meno te l’aspetti e poi ti tradisce scomparendo troppo presto nell’ aldilà.
“Andiamo, te la senti?” disse una mattina suo padre. “Tu vai fin dove vuoi, io ti seguo camminando sulla spiaggia e sul lungomare. Fermati quando sei stanca”. Sua madre stava per intervenire con la solita ansia protettiva , ma poi guardò il marito e tacque.
Lei non capiva dove volesse andare a parare suo padre, come in fondo lei stessa.
Alle sette di mattina il mare palpitava ancora con il calmo respiro della notte e a stento le onde brucavano la riva. Si avvicinò pian piano a quel dio imprevedibile, si bagnò lentamente per ambientarsi nelle fresche lenzuola marine, scrutò a est l’aureola del giorno, sciolse un po’ i polsi e le caviglie mentre valutava la traiettoria da seguire, e partì. Prima lentamente, poi con il proprio ritmo, abbracciò ininterrottamente per circa tre chilometri quel suo mare con una padronanza, una libertà e un’euforia mai provate.
Circa trent’anni dopo qualcuno ha detto che “Il nuoto è come la musica, non si vede ma si sente.”
Ed è vero.
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