Con questo post partecipo alla prima edizione del Carnevale della Letteratura, ospitato da il Gloglottatore .
La sera,velata da nubi di zucchero filato, cala lentamente con sfumature violacee. Una a una si accendono le luci nei profili sempre più scuri rivelando l’intimità inviolata di case e cuori. Il silenzio induce al riposo in un ritaglio finale di tempo che ammortizza gli affanni della giornata. Un cane si accuccia vicino al padrone, un gatto si raggomitola sul cuscino della sedia, un bambino si copre il viso con il lenzuolo e aspetta che qualcuno rimbocchi le coperte.
Io sono qui, custode di anime e testimone di eterna bellezza, appollaiato nelle preghiere ricorrenti, chiamato a vegliare sogni, silenzi, a volte lacrime in quei momenti in cui si smarrisce ogni ruolo, ogni difensiva, ogni riflesso specchiato del sè per cogliersi in un attimo di spudorata autenticità.
“Amore mio , dormi, chiudi gli occhi e dormi.”
“Ho paura, resta qui. “
“Non sei solo, io sono vicina a te e , se non ci sono, c’è sempre un angelo custode vicino a ogni bambino, anche vicino a te.”
La luce degli occhi di mia madre e la dolcezza del suo sorriso sono sempre stati con me, mi hanno dato la certezza di un amore viscerale, senza riserve e aspettative. Oggi il suo viso mi appare ricamato dai segni della stanchezza e negli occhi vedo diluite le indelebili orme della solitudine. La vita a volte è ingiusta. In me ha trovato più di una ragione per guardare avanti e investire ogni risorsa interiore con tutto l’amore possibile. Mamma, sarò sempre con te.
Queste luci mi danno fastidio. Che casino ho combinato, non dovevo, non dovevo per lei. Un altro dolore insopportabile, un’altra preoccupazione, come se non bastassero le altre. Mamma, perdonami…
Quegli schiaffi mi bruciano ancora. Li hai presi per colpa mia. Lo ammazzo. A volte mi chiedo se troverò mai pace dentro. Potessi cancellarlo da ogni poro della mia pelle, da ogni mio gene. Maledetto, grande uomo! Ha avuto l’abilità di rovinare la tua e la mia vita. Dove attecchiscono la sua arroganza e la sua invadenza non esiste null’altro se non il suo sé possessivo e straripante . Mi brucia ancora quel sarcasmo sferzante, inopportuno, offensivo. Non mi ha mai voluto. Non mi ha mai accettato. Non è colpa tua, mamma, ma mia. Non ce la faccio più.
Un brusio continuo, a stento represso, anima la sala d’attesa. Ragazzi e ragazze si stringono tra loro intorno agli insegnanti preoccupati . La professoressa è ancora scossa, a stento trattiene le lacrime, in tanti anni non le è mai successo un fatto così grave. Parla animatamente con alcuni colleghi dall’aria preoccupata e accondiscendente “Ma come abbiamo fatto a non intuire nulla?” Domande, che non troveranno mai risposta, rimbalzano di bocca in bocca per esorcizzare la paura del peggio e lenire un po’ il senso di colpa e di impotenza degli adulti che si trovano di fronte a realtà imprevedibili, inimmaginabili, a voragini ben nascoste dalla presunta e scontata normalità quotidiana.
Una voce, attutita come il rumore di un sasso che cade sul fondale del mare, atterra pian piano nel flusso disordinato dei miei pensieri e di quei flash che abbagliano la memoria , “Ciao, come ti senti?”
Sento le sue lacrime sulla mia pelle, cadono con un ritmo sempre più veloce. Posso solo immaginarla. Non si vergogna di piangere, di incazzarsi.
“Non lo fare mai più. Passerà , passerà tutto… A scuola tanti, anche di altre classi, mi hanno chiesto di te …” Le sue parole inciampano in singhiozzi spontanei che rivelano preoccupazione mista a sincera solidarietà.
Una cascata di riccioli. Ecco, riesco a mettere a fuoco il contorno del viso, gli occhi. Quanto sono grandi e lucidi! Le labbra, le osservo per comprendere meglio le sue parole, si ripiegano in una smorfia imbronciata che pian piano si scioglie in un affettuoso sorriso.
Flavia, ha il sorriso di ogni donna. C’è una tacita complicità tra me e lei, mi ha sempre ascoltato , c’è sempre stata. Se penso all’amicizia, penso a lei.
“ Sto bene, sono solo stordito.” Non le confesso che mi sento anche imbarazzato, a disagio…
“ Ci hai fatto prendere un bello spavento.” Sento la sua mano calda sulle mie dita. Solo ora mi accorgo di avere le flebo e …non riesco a muovermi, un torpore, ecco sì i piedi non mi sento i piedi, a stento le gambe.
Cosa ho fatto!
Quando ero alle scuole elementari aspettavo la ricreazione per vederla. Sì, ero incuriosito da una bambola e aspettavo quella che Lucia portava sempre per giocare con le sue compagne. Mi piaceva giocare con le bambine che, dopo un’iniziale diffidenza, mi accolsero eleggendomi al ruolo di papà quando giocavamo alla famiglia. Non mi piaceva fare il papà, ma era l’occasione per potere tenere in braccio quella bambola, così tenera, con le guance rosate, le labbra carnose, gli occhi spalancati su chissà quali sogni.
Il padre di famiglia. Il mio era di poche parole. Le mani nodose squarciavano il pane, con forza, quasi con brutalità. Con gesto irruente si versava il vino nel bicchiere e non mangiava ma divorava. Era sempre arrabbiato. Non osavo guardarlo in faccia e aspettavo il solito, il solito stizzito “mangia se vuoi diventare un uomo”. Unico latrato che interrompeva quel silenzio asfissiante. Mamma sempre zitta, disapprovava quei modi bruschi e si alzava di continuo per servire o portare qualcosa in cucina. Aveva un’aria diversa dinanzi a lui, tra la soggezione e la rabbia. Sì, forse rabbia repressa o insofferenza. Capivo che non lo sopportava e che nascondeva la sua vitalità a quell’uomo capace solo di trasmettere comandi e dominanza.
Mamma, quel tuo sorriso dolce era solo per me, me lo regalavi di sera quando mi mettevi a dormire. A volte crollavi in un sonno profondo , mi accoglievi nell’incavo caldo del tuo corpo e il tuo respiro, calmo e regolare, mi cullava. Quella sensazione di naturale intimità è per me il rifugio più rassicurante della mia vita.
Come è diversa la mia famiglia da quella della mia amica Flavia. Mi è bastato andare solo qualche volta a casa sua per avere l’ennesima conferma di come sia la mia. Sarei andato volentieri e più spesso a casa sua, mamma però non poteva sempre accompagnarmi, perché da quando ci siamo trasferiti in città lei svolge due lavori per riuscire a provvedere a tutto. Qui non c’è nessuno che possa aiutarla, non ci sono i nonni e le sue amiche, e non ha nemmeno tempo per farsene di nuove. Siamo andati via dalla nostra terra, dalle nostre radici quando ha deciso di lasciarlo. Come se bastasse allontanarsi per riuscire a cancellare il passato e un uomo sbagliato. Mio padre. Non sarò mai, mai come lui. Ancora sento la puzza dell’alcool nel suo alito, quando mi toccava sotto perché si vergognava di me. Mamma si è frapposta e le ha prese. Quegli schiaffi mi hanno marchiato a fuoco. Lei però non ha pianto, la pelle del viso era livida e tesa come quella di un tamburo, e si è riscattata in uno sguardo che non avevo mai visto prima: gli occhi, stretti e taglienti, ostentavano un’ aria di sfida, una resistenza a oltranza, una fermezza che non avrei mai immaginato.
Non puoi saperlo, ma in quell’attimo ho svincolato la forza d’animo di tua madre, soffiando sul suo orgoglio ferito. Le donne hanno un’energia nascosta che può scatenarsi come una piena incontenibile d’acqua nel momento del bisogno, soprattutto in difesa dei figli, la loro seconda pelle.
“Dormi , dormi, vedrai che un giorno andremo via, lontano. Sei il bambino più bello, angelo mio. Sei il mio angioletto biondo.”
Come il mio angelo immaginario, quello custode appollaiato sulla spalla, col quale parlavo da piccolo , mentre ora parlo tra me e me. Dove sei, angelo maledetto, quando ho bisogno di urlare. Che devo fare? Tutti dicono che sono di poche parole. Sapessero quanto parlo e straparlo dentro di me. A volte ho mal di testa, mi stancano questi ragionamenti, mi opprimono questi pensieri. Troppe domande alle quali non so dare risposte, sentimenti che mi logorano. Ho provato a non deludere nessuno, a passare inosservato, a essere invisibile. Solo lui ho deluso. Non gli bastava che andassi bene a scuola, che fossi educato, discreto. No. Non ero abbastanza robusto, gagliardo e forte . Come lui.
Colpevole, sì sono colpevole da anni, da sempre , da quando giocavo con le bambole e non ne ho mai potuto averne una , mia, solo mia. Non mi ha mai concesso il tempo di stringerla, mi ha deriso, lei era un ostaggio virtuale nelle sue mani. Dopo poco io sono diventato l’ ostaggio di una sua rabbia incontenibile. L’altra era la sua bambola in carne ed ossa.
Quella ragazza ha cercato di dissuaderlo, ma era un pazzo furioso. L’ha scaraventata per terra, lui mi trascinava mentre scalciavo, lei a un certo punto l’ha seguito remissiva. L’ha posseduta davanti a me, con pochi gesti violenti e meccanici. Ecco cosa fa un vero uomo. E io lì che non sapevo più dove guardare, mentre lei mi sbirciava quasi vergognandosi, finchè ha chiuso gli occhi quasi per sottrarsi alla mia vista. Mi sono voltato verso la finestra. Ero terrorizzato, mi girava la testa, volevo vomitare . Ho sentito dei rumori provenire dal letto, non ho osato voltarmi, una mano mi ha tirato a sé e mi ha obbligato a girarmi. Mi spingeva verso il letto. Mi ha urlato di darmi da fare , le ha urlato di darsi da fare, di farmi diventare un uomo. E lei ha provato ad avvicinarsi. Io? Proprio io? Sono indietreggiato fino a raggiungere nuovamente la finestra. Angelo, ANGELO dove sei? Vorrei volare via come te…nei vetri a stento ho riconosciuto la mia immagine riflessa. Strano come la paura possa trasformare una persona.
No, era il male che ti ha invecchiato di colpo, ha spento la tua innocenza.
Mi ha chiamato per nome, mi sono voltato. Avrà una decina di anni più di me, è bella. Ma che vuoi? La guardo sospettoso tra la paura e l’insofferenza. “Non toccarmi.” sibilo. Il suo corpo mi pare una striscia di fuoco, pericolosa, rovente, invadente.
“Fai finta , se no torna dentro.” “Ma come puoi , cioè come riesci a sopportare tutto questo?” “ Ci si abitua a tutto, alla fine non ci fai più caso, è come se indossassi una corazza” .E sottovoce mi ha detto cosa dovevo fare, mi ha spogliato e fatto distendere vicino a lei. Mi ha accarezzato il profilo del viso, seguendo con le dita il naso, il contorno delle labbra e il mento, ha scostato con delicatezza i capelli dalla mia fronte sudata.
Mi pulsano le tempie. Mi ricorda qualcosa o qualcuno. Sì le labbra, rosse, della bambola. Il mio gioco proibito, il tabù indigesto per mio padre. Il grande uomo. Dobbiamo essere tutti come vuole lui, a suo ordine e piacimento. A volte mi sembra febbricitante e più lo è , più mia madre sbianca e diventa piccola e, se potesse, sparirebbe , si lascerebbe assorbire dalle pareti di casa. Come me. Mamma voliamo via insieme.
Siamo volati via, in una grande città dove è più facile smarrirsi e distrarsi. Qui puoi mimetizzarti in una folla anonima e annullarti nell’ affascinante bellezza dei tramonti tra le cupole che neutralizzano ogni pensiero. I riflessi di luce nel fiume vibrano lentamente , segnano un pacato cammino ondeggiante che infonde una calma quiete. La stessa che mi trasmette Flavia.
Questa è la città degli angeli, quasi mortali uccelli dell’anima, solenni emblemi della purezza del dolore e del riscatto dalla vita terrena. Non è un caso che tu sia qui.
I ragazzi però sono irruenti, caciaroni, rasati e con occhiali troppo grandi, sembrano cicale che friniscono al sole. Gridano, schiamazzano per mettersi in mostra, per attirare l’attenzione delle ragazzette. So’ sgallettati, sì sgallettati. Fingo sempre di non vederli, speriamo non mi fermino. A volte, quando ne vedo un gruppetto a metà corridoio durante la ricreazione, torno indietro, vado di nuovo al bagno e poi aspetto il suono della campanella che segna la fine dell’intervallo per precipitarmi in classe. Durante le lezioni mi sento al sicuro e poi davanti a me c’è Flavia e dietro di me il muro. Me lo sono scelto proprio bene il posto quest’anno.
Da questa postazione strategica posso guardare fuori la finestra. Arriva la primavera. Gli alberi intorno stanno fiorendo, i fiocchi dei pioppi volteggiano leggeri, impalpabili. La cornacchia è sempre sul ramo, mi guarda, ruota la testa. Che vuoi? Quant’è curiosa, però mi è simpatica. “Ehi sognatore” . Mi connetto “ Di cosa stavamo parlando? Stai attento!”
Abbozzo un sorriso . Stare attenti a scuola è quasi un piacere, in fondo. Se sapesse prof.! Sto sempre attento a dove vado, a vestirmi per non dare nell’occhio, a quel che dico. Meglio stare zitti, meglio non dire. Parlo solo con Flavia, di lei mi fido. Credono che abbia una cotta per lei.
Poi un giorno un cretino ha esordito davanti a lei, per fare colpo “ ma che ce stai a fa’ con ‘sta checca?” e sono arrossito, mi bruciava tutta la faccia, mi veniva quasi da piangere. Mi sono sentito nudo, nudo davanti a tutti, e gli altri a poco a poco si sono voltati in un silenzio irreale mentre Flavia cercava di difendermi da quelle derisioni e gli gridava contro. Gli altri si sono avvicinati – ero lo sfigato di turno- come se fiutassero la preda di un gioco troppo, troppo pericoloso e insopportabile per me. Dio mio fa’ che non mi leggano dentro. Lei non mi ha mai chiesto nulla e per questo l’ho sempre apprezzata. Cosa ho di diverso dagli altri, se non più sfiga, paure e incertezze.
“Non lo fare più …” un silenzio, uno dei tanti, ma non c’è solitudine in questo. “ Ti voglio bene”.
Le sorrido. Vorrei risponderle ma ho un nodo in gola e non riesco ad aprire la bocca impastata . “ Scusa mamma, non ce la faccio più. Ti prego perdonami” Solo questo sono riuscito a scrivere. Sono stanco, chiudo gli occhi. Vorrei tanto dormire, davvero .
Mi ossessiona l’idea di doverlo rivedere. “La stima del padre si conquista gradualmente.” L’ho letto da qualche parte.” Il padre ti lancia in alto per farti sentire l’entusiasmo della vita, e ti riprende con braccia forti e sicure per darti slancio verso il futuro .” Forse quello di Flavia. Il mio, possa crepare. Bestia! È una bestia anche se le bestie non vanno contro natura. Solo l’uomo è capace di tanto. Oggi gli spetta vedermi, io non voglio, mamma non sa nulla , ma l’ultima volta che sono scappato sono stati guai con l’avvocato. Ma perché devo vedere ‘sto stronzo? Non ho nulla da dirgli, ho paura di stare con lui.
La campanella. È ricreazione. Mi sento un peso dentro, non ce la faccio più, mi trascina giù. Le ali sono rattrappite sotto le ascelle, voglio volare, via via via senza affanni, senza più ansie. La luce, ho bisogno di aria, di luce, libero, libero, finalmente libero.
Forza, chiudi gli occhi, chiudo gli occhi, un bel respiro. Apri la finestra, apro la finestra, fiuta l’aria. L’aria di primavera mi smuove un po’ i capelli, la sento sulla pelle. La mia primavera. Mi pulsano le tempie, sento il battito, i battiti, i battiti, il cuore accelera, i battiti si rincorrono, li sento, sento il mio respiro sempre più veloce, respira forte, respiro, respiro, mi pulsano le tempie… Via, via da un posto sbagliato, da una famiglia sbagliata, da un corpo sbagliato.
A volte la realtà supera ogni immaginazione, nulla è purtroppo più scandaloso della realtà. Figlio di un padre, figlio di tutti forse non eri nel posto sbagliato. Ho cercato di attutire la tua caduta, affinchè tu possa presto spiccare il volo verso un futuro sereno, il più in alto e lontano possibile da infondati sensi di colpa, e riconciliarti con te stesso e con la vita. C’è tempo per volare via con me.