La sfogliatella è un tipico dolce napoletano, oserei dire il dolce più tipico, da secoli regina della pasticceria napoletana che, come spesso accadde nelle più antiche monarchie, ha vissuto l’alternanza di periodi di sommo splendore e di decadenza, cui il tempo ha poi riconosciuto il dovuto prestigio.
Remote sono le sue origini: in forma primordiale comparve nei riti orgiastici mediorientali, dai quali derivava il suo simbolismo erotico, per poi approdare nei monasteri napoletani diventando un dolce scrigno di castità. Infatti le iniziazioni misteriche e i baccanali per il culto della dea Cibele dalla Frigia si diffusero nelle colonie elleniche per giungere fino alla cripta di Piedigrotta a Napoli, creduta opera del famoso Virgilio Mago. Proprio lì dentro illibate vestali offrivano alla Grande Madre pani di forma triangolare per propiziarsi la fertilità, simboli di castità idolatrata che poi finiva col cedere agli sfrenati riti orgiastici. La crypta neapolitana diventò poi tempio di Priapo per cui il pane di forma triangolare assunse un significato ad alta valenza erotica durante i baccanali, perdendo quello casto e originario.Con l’avvento del cristianesimo sull’empia ara di Piedigrotta sorse la cappella della Vergine dell’Idra o del serpente, con la speranza che la Madonna allontanasse non solo le presenze maligne, forse le stesse che diedero origine alla crypta in una sola notte, ma soprattutto il ricordo delle indemoniate baccanti. Rimase però la tradizione della “sfogliatella”, che perse il richiamo erotico- pagano per recuperarne uno di purezza catartica nei monasteri napoletani, e continuò ad essere il simbolo della femminilità e della fertilità. Non a caso si hanno notizie che dalla metà del ‘300 fino all’800 al tempio di Piedigrotta giovani spose e donne senza figli “si recavano a pregare la Vergine perché le proteggesse nel nuovo stato e tal rito si compiva alla prima uscita dalla casa dei mariti e cioè non appena iniziate al mistero coniugale della procreazione”(da “Gazzetta Napolitana” del 1805)
Sintesi di sacro e profano, come per altre forme di culto e tradizioni napoletane, la sfogliatella sopravvisse nella storia come dolce al femminile che pian piano si è liberato di un millenario passato intrigante e misterioso conquistando il primato di indiscussa regina del buon gusto. Lungo e tortuoso è però il suo “processo di liberazione” perché dal Medioevo alla metà dell’800 il segreto della sfogliatella fu gelosamente custodito nel monastero Croce di Lucca finché trapelò all’esterno approdando poi nelle pasticcerie napoletane. Infatti nel 1624 un’ inaspettata lettera fu consegnata a Nicola Giudice, principe di Cellammare e duca di Giovinazzo, per informarlo che le giovani figlie Aurelia, Maria ed Eleonora, devote novizie da alcuni anni, avevano violato la regola del silenzio della vita claustrale dando adito a una grave e inopportuna fuga di notizie tale da meritare un richiamo scritto e ufficiale della madre superiora dell’ordine delle Carmelitane. Di cosa si erano macchiate le tre sorelline Giudice? Nientemeno della rivelazione della ricetta della sfogliatella, consentendo che gli ingredienti e le articolate fasi di preparazione del dolce varcassero le mura di altri monasteri, che si cimentarono in una sorta di concorrenza gastronomica per conquistare i palati più sopraffini dell’aristocrazia partenopea.
È interessante sapere che le carmelitane educavano le pulzelle non solo alla preghiera e alla vita monastica ma anche alla delizia delle “cose da zuccaro” che erano offerte a parenti, alti prelati e notabili in visita e quest’arte pasticcera dava prestigio e garantiva buone entrate ai monasteri. Se il monastero di Santa Chiara era famoso per le marasche sciroppate, lasagne e zeppole, quello della Maddalena per le paste reali, quello dell’Egiziaca per i biscotti dei carcerati, la Trinità per le bocca di dama, San Marcellino per i casatielli, Donnalbina per le cuccuzzate in barattolo e il monastero della Concezione della Spagnuola per i ruschigli di cioccolata, Donnaregina, Sapienza e Santa Maria di Costantinopoli per i susamielli, le torte di frutta e il pan di Spagna, invece il Croce di Lucca vantava la sua delicata sfogliatella. Questo fin quando le figlie di Cellammare, che avevano il privilegio di ricevere visite della madre e di tre amiche a piacere anche perché il loro padre aveva finanziato i lavori di ristrutturazione del monastero, non passarono alla storia delle sfogliatella come poco abili spie culinarie. Ricetta che circolò non solo a Napoli ma anche a Salerno, infatti proprio tra Furore e Conca dei Marini nel monastero di Santa Rosa fu inventata la variante ripiena di crema e guarnita con amarene, detta appunto sfogliatella “Santa Rosa”, che parve restituire al dolce una sensuale femminilità.
Ormai la strada dello spionaggio dolciario era segnata dall’illustre precedente del Croce di Lucca tant’è che un’altra, ma ignota, monachella, questa volta del monastero amalfitano, svelò la ricetta della sfogliatella che a metà ‘700 giunse alle orecchie di un pasticciere napoletano giungendo agevolmente sulle raffinate tavole dei nobili, ma in una veste più semplice, ridotta, casta.Solo nell’800 il famoso pasticciere Pasquale Pintauro, dopo l’apertura di una famosa trattoria e poi di un caffè, pensò di battere la concorrenza dello svizzero Caflish e dei caffè alla moda francese inaugurando una pasticceria in via Toledo che produceva non solo pastiere, susamielli, torroni, struffoli, raffioli e sanguinaccio ma soprattutto sfogliatelle che fino ad allora erano state il privato privilegio gastronomico dell’elite aristocratica. Così il cavalier Pintauro consentì il debutto mondano e commerciale della sfogliatella. Un successone che favorì poi, grazie alla sua inventiva, il lancio della cosiddetta “frolla”, variante morbida di quella riccia.
A metà ‘800 però la sfogliatella cadde in bassa fortuna: dopo anni e anni allietati da siffatta pasta, i nobili borbonici reclamarono nuovi dolci e Pintauro “inventò” la zeppola di san Giuseppe guarnita con crema pasticciera e amarene, variante della zeppola tradizionale. A quanto pare un’altra monachella, stavolta del monastero di santa Chiara, aveva svelato la segreta ricetta delle zeppole fritte, che così poterono uscire dalle cucine conventuali. Inoltre i sempre più emergenti pasticcieri stranieri snobbavano il dolce locale, come Caflish che proponeva torte di ogni tipo.A un tratto la svolta popolare della pasta, finalmente accessibile a un’ampia clientela grazie a Carraturo che a Porta Capuana e nei laboratori di piazza Garibaldi e dintorni produsse sfogliatelle che ben presto si diffusero nei vicoli, nella zona della stazione e nel popolare quartiere di Forcella. Agli inizi del ‘900 nel quartiere della Pignasecca del centro storico si aprì la pasticceria dei calabresi Scaturchio, rinomata e lunga dinastia di pasticcieri a Napoli, ancora operanti in piazza San Domenico Maggiore ove si fa tappa obbligata per un buon caffè e la loro sfogliatella. Per tutto il secolo e fino a oggi i più noti pasticcieri napoletani, Bellavia al Vomero, gli eredi di Pietro Carraturo, Attanasio al vico Ferrovia hanno gareggiato per produrre la migliore sfogliatella. Proprio Mario Scaturchio ha rivendicato e sostenuto l’arte manuale della preparazione di questa pasta che implica la capacità di realizzare una sfoglia molto sottile, piegata più volte, lavorata per ore con la sugna che regala una fragranza inconfondibile, sebbene alcune aziende abbiano meccanizzato la produzione del guscio croccante per garantirne la fornitura ai piccoli laboratori che non riescono ad assicurare una produzione giornaliera.
La sfogliatella si è anche rinnovata nel tempo: più recente è la cosiddetta coda di aragosta, dalla forma allungata che viene poi farcita con panna e amarene, o crema al cioccolato o al caffè. Da poco sono decollate la sfogliatella Vesuvio, avente un cuore di babà con dentro una crema di panna e cioccolato, e la sfogliatella cono farcita di gelato.
La sfogliatella rappresenta un po’ la complessa napoletanità, viene spesso citata ma di fatto è poco conosciuta la sua lunga e movimentata storia, un po’ come capita con la leggendaria bellezza di una nobildonna del passato, spesso ricordata da tanti ma che forse pochi hanno avuto occasione di vedere perché restia a mostrarsi. Forse non è un caso che questa pasta abbia attraversato indenne secoli e secoli di storia regalando sempre la stessa fragranza, simile a quella della ridarella di noi bambini che riecheggia nella memoria, regalandoci con il profumo di vaniglia l’atmosfera di altri tempi.
E chiudendo gli occhi, mi pare di sentire quel buon odore che inondava fin troppo casa mia di buon mattino, quando per un anno ho abitato su un laboratorio di pasticceria e le immagino allineate “Nella guantiera di candido cartone…dodici ricce ricce, dodici damine in fila per tre , con le loro gonne ondulate e gonfie, dodici bambine ordinate con le vestine che si aprivano tutte plissettate spruzzate di bianco bellelle bellelle!” (Maria Orsini Natale).
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