Mi piace esplorare con lo sguardo le grandi città che si raccontano nella solenne vastità delle piazze, nei monumenti solitari, sui portali di antiche chiese, tra gli sconfinati viali alberati e gli zampilli iridati delle fontane, e scrutare con il naso all’insù le finestre, i balconi, i tetti di imponenti palazzi, muti testimoni di storia vissuta. In città mi sento anonimamente libera di osservare con discrezione le tante persone che incrocio per strada, sui mezzi pubblici o nelle stazioni affollate. Genova è una città particolarmente austera e poco caotica, a differenza di altre che stordiscono, e qualche tempo fa ho avuto l’occasione di riscoprirla a tratti, tra una corsa e l’altra.
Unico imprevisto dell’afosa giornata è stata la coda alla biglietteria della stazione ferroviaria per cui ho dovuto rinunciare all’ Intercity del ritorno. Il successivo era previsto dopo circa quattro ore, quindi non mi restava altro da fare che prendere un treno regionale. Rassegnata al supplizio che mi attendeva, mi sono seduta nella sala d’aspetto per riposare le zampe e finire di leggere il quotidiano, ingannando così l’attesa.
Ad un tratto ho intravisto una sagoma bianca e ho alzato gli occhi.
Fiera, ostentava un abitino bianco, che scopriva il ginocchio. Le bretelle erano fermate ai lati da due passanti dorati e sandali pitonati, con tacchi troppo alti e a spillo, slanciavano polpacci nervosi. Ha sfilato per un paio di volte avanti e indietro, come in passerella, conscia di non passare inosservata a causa del vestito aderente e trasparente. Dava l’impressione di aspettare un qualcuno che non c’era. Si è seduta ad un tavolino del bar, ha accavallato le gambe con spudorata disinvoltura mentre fumava una sigaretta. Il rossetto acceso contrastava coi lunghi capelli rossi e grandi occhiali neri a maschera coprivano il volto, senza riuscire a celare i segni dell’età nelle pieghe laterali della bocca. Poi si è alzata. Indomita e inarrendevole ha aspettato a lungo, guardandosi intorno e continuando a volteggiare nei pressi del tabellone degli orari, tra comitive di ragazzi con gli zaini in spalla e famiglie in partenza per le vacanze. Infine è andata via.
Dopo poco ho raggiunto con mia figlia il binario sotterraneo per prendere il treno che ci avrebbe riportate a casa. Lì sotto si incanalava una corrente d’aria fresca che faceva quasi rabbrividire. Un continuo via vai di turisti con trolley voluminosi, stanchi pendolari, donne accaldate con bambini irrequieti al seguito mi hanno distratta.
Per terra spiccava la macchia bianca. Era di nuovo lei. Stava rannicchiata, in modo composto, sulla borsa. L’appariscente e provocante dama ultrasessantenne non aveva più l’aria spavalda di prima. Sembrava delusa, quasi restia a mostrarsi. D’un tratto mi appariva fragile nella sua sfida contro quel tempo in cui la natura reclama il suo dazio e cessa la stagione del bell’ apparire a ogni costo. In quell’angolo c’era una donna ridimensionata dalla sua solitudine, immobile nella sua inutile attesa, muta nel rumore circostante. Non dominava più un immaginario palcoscenico ma, assorta nei suoi pensieri, delusa pareva che lo stesse osservando da lontano.
La malinconia, confermata da movenze più naturali e discrete, le restituiva la bellezza dei suoi anni.