Le bellezze nascoste di Napoli: la chiesa di sant’Anna dei Lombardi a Monteoliveto e la sagrestia del Vasari

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Nella piazza Monteoliveto  di  Napoli si trova la chiesa di sant’ Anna dei Lombardi, interessante per la sua storia ma soprattutto perché  custodisce all’ interno un gioiello architettonico e artistico, a mio parere poco noto,  che è la sagrestia del Vasari .

In origine nel 1400 in quel sito esisteva  la  chiesetta  di santa Maria de Scutellis, confinante con i giardini “Carogioiello” o “Biancomangiare” e l’ “Ampuro” che si estendevano fin sulla collina di Sant’Elmo. Nel 1411 il nobile Gurrello Orilia al posto ella chiesetta  ne fece costruire  una più grande per la Purificazione di Maria affidandola poi  ai padri olivetani  di  Firenze.  I d’ Avalos , i Piccolomini, il re Alfonso Alcune e altre nobili famiglie  napoletane contribuirono alle spese  e fecero donazioni per la costruzione di un monastero che aveva quattro chiostri, giardini con fontane, una biblioteca  e una dependance , divenuta famosa non solo per gli affreschi  del  Vasari , ma anche per il soggiorno di  Torquato Tasso durante la stesura  del suo poema.

Verso la metà del ‘700 parte del monastero  fu destinato  prima al tribunale  misto che, in base a un trattato tra il papa e il re,  consentiva ai religiosi e ai laici di essere giudici e presidenti, poi  nel 1848 divenne sede del parlamento napoletano. Alla fine  del ‘500 i lombardi presenti a  Napoli si costruirono un’altra chiesa, crollata col terremoto del 1805 che provocò anche la distruzione di tre opere del Caravaggio, per cui ne  vendettero il suolo. Quando gli Olivetani furono allontanati, la chiesa di Monteoliveto fu data ai lombardi, perciò  prese il nome di sant’Anna dei Lombardi,  e vi nacque un’ arciconfraternita  che esiste ancor oggi ma  appartiene ai napoletani. Questa chiesa  è una testimonianza del rinascimento toscano, soprattutto dal punto di vista architettonico  per le grandi cappelle a pianta centrale che ricordano quelle fiorentine. Nel  XVII l’originario stile gotico venne meno e lo si nota soprattutto in quella che sarà la sagrestia del Vasari. La chiesa chiusa per tanti anni, poi è stata  riaperta in seguito a graduali   lavori di ristrutturazione dal 1976 al 1990, in particolare dopo i danni del terremoto del 1980 : per esempio  sono stati ristrutturati  il soffitto a cassettoni, distrutto durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale,  la splendida cappella del Vasari (lavori dal 1983 al 1985) e le  opere pittoriche  e marmoree delle cappelle rinascimentali Piccolomini, Mastrogiudice e Tolosa che ben rappresentano l’influenza  toscana nell’architettura del ‘500 a Napoli.

monumento funebre Domenico Fontana

organo

Alla chiesa si accede da piazza  Monteoliveto, ubicata nel centro storico tra la piazza  del Gesù nuovo e piazza Carità presso via Toledo.  Nell’atrio  spicca il monumento funebre dell’architetto Domenico Fontana del 1627, proveniente  dalla distrutta Sant’Anna dei Lombardi e pertanto ricomposto nel secondo dopoguerra.

Imponente è l’organo quattrocentesco che subì modifiche e fu decorato nel ‘700 dal napoletano Alessandro Fabbro. santa-anna-lombardi

Tra le dieci cappelle che perlopiù fiancheggiano la navata principale della chiesa  merita quella del “Compianto sul Cristo morto”  che prende il nome  da un gruppo  di sette figure di terracotta policroma  a grandezza naturale in una Deposizione del 1492, realizzata da Guido  Mazzoni, restaurate nel 1882 e di recente da Salvator Gatto.  È un gruppo di pregiata fattura  per  le espressioni realistiche dei personaggi , tra i  quali  sono ritratti Ferdinando I e  del figlio Alfonso d’Aragona  committenti dell’opera, oltre che il Sannazzaro e il Pontano.

cappella Piccolomini

 

Bella anche la cappella Piccolomini con il pavimento a mosaico e l’altare con  la Natività, due profeti e i santi Giacomo e Giovanni Evangelista (1475 circa) di Antonio Rossellino.

 

Dalla cappella del Compianto si procede per un corridoio e si giunge all’Oratorio o sagrestia,  che in origine era un refettorio degli Olivetani, affrescato poi dal Vasari nel 1545 con l’assistenza del toscano Raffaellino del Colle. Le originarie volte ogivali  gotiche furono adattate dal  Vasari, che le abbassò e ne smussò gli spigoli creando con gli affreschi effetti ottici molto particolari oltre a coprire  di stucco le volte per renderle  più luminose. Essi consistono perlopiù in iconografie allegoriche delle  Virtù.

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Nella  parete   di fondo c’è  un altare  dietro il quale  al centro  spicca un affresco di S. Carlo Borromeo di un ignoto pittore napoletano ,portato qui  dopo la soppressione dei monasteri  e fiancheggiato  da due dipinti ritraenti  l’Annunciazione, di autori ignoti anch’essi .

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Agli inizi del  ‘400 i numerosi pannelli lignei, intarsiati dall’olivetano fra Giovanni  da Verona (1506), dalle cappelle della chiesa furono poi spostate  nel refettorio che  nel 1688 l’abate Chiocca  trasformò in una sagrestia , facendo  realizzare anche statuette lignee intervallate  alle tarsie e raffiguranti i santi dell’ordine. Le tarsie lignee del frate  Giovanni da Verona ritraggono vedute di paesaggi, strumenti musicali, libri, monumenti rinascimentali di Napoli  e rendono quest’ambiente uno scrigno di raffinata e insolita  bellezza.

 

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Il limone tra storia, leggenda e limoncello .

Frederic_Leighton_-_The_Garden_of_the_HesperidesAi limoni, raggi di luce divenuti  frutti, fa capo una delle dodici fatiche di  Ercole  che uccise il drago Ladone incaricato  con  le Esperidi  di vigilare su un giardino, per custodire i pomi d’oro che Gea aveva donato a Era in occasione delle sue  nozze con Zeus. Con l’aiuto delle ninfe,  Ercole si procurò i frutti e li portò ad Euristeo. Nella cultura medio orientale, soprattutto ebraica, si  parlava perlopiù dei cedri che  crescevano in Israele quando gli  ebrei rientrarono da Babilonia nel VI sec. a. C. ;  cedri denominati meli di Persia da Teofrasto di Ereso, filosofo greco ed esperto id botanica,  nel 300 a. C .

La presenza dei limoni nel mondo romano fu confermata non solo  da Plinio il Vecchio  che lasciò notizie  sul trasporto del cedro in tante regioni ma anche  dalle piante da frutto, tra cui due limoni,  particolare albero da fruttodipinte sulle pareti della casa del frutteto di Pompei  e dalle trentotto piante di limone in vaso, trovate nella villa Oplonti di Torre Annunziata .Nel 1952 l’archeologo Maiuri concluse che il limone citrino ovale si era già acclimatato in Italia sin dal I  sec. d. C. In epoca romana  però non si distinse ancora  la differenza tra limone e cedro, cui si giunse verso il X secolo. Sicuramente gli arabi portarono i limoni durante le invasioni della Spagna e dell’Italia meridionale  tra il X e il XII secolo ma anche  i crociati, di ritorno dalle guerre sante,  importarono   le piante di limoni, ben presto coltivate nelle zone a clima caldo-temperato. In verità nella costiera sorrentina –amalfitana il limone era già presente nell’Alto  Medio Evo (V I sec. d. C.), come documentano le testimonianze dei medici salernitani che lo usavano a scopo terapeutico. Certamente  il “citrus limon massese” o “ femminiello massese” di Massa Lubrense, nota per i suoi limoni,  fu importato dall’oriente dai monaci gesuiti nel lontano XVII secolo e proprio il gesuita massese padre Vincenzo Maggio promosse la coltivazione dei limoni. A fine ‘500 Napoli e dintorni  erano ormai  “un gioioso loco” ricco di aranci, limoni  e cedri, tanto da fare esclamare più tardi a Goethe  “Conosci tu il paese dove fioriscono i limoni? Nel verde fogliame splendono arance d’oro. Un vento lieve spira dal cielo azzurro, tranquillo è il mirto, sereno è l’alloro. Lo conosci tu bene? …”

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Gran parte dell’economia sorrentina ruotò intorno all’agrumicoltura, che dall’ 800 sostituì colture non più redditizie come quella dei gelsi , anche per la sempre più massiccia importazione dall’oriente dei bozzoli destinati all’industria serica. Proprio per l’esportazione pagliarelledi arance e limoni verso il nord Europa e l’America agli inizi dell’800  si sviluppò la  cantieristica navale  e  di conseguenza  sempre più la tradizione marinara della penisola sorrentina, ancor oggi radicata.  Nel 1917 in penisola circolavano circa ottocento tra cavali, asini e muli per il trasporto di agrumi e  la commercializzazione dei limoni all’ estero  fu garantita tutto l’anno perché d’inverno erano conservati nelle grotte e le  piante venivano  protette  con le “pagliarelle”. Queste, ancora in uso,  sono stuoie di paglia appoggiate su pergolati   per formare una sorta di tetto sul limoneto ed  evitare che i limoni siano danneggiati dalle gelate.

Solo con il limone della costiera amalfitana e sorrentina aventi il marchio IGP, cioè lo sfusato di Amalfi e l’ovale di Sorrento, si produce il limoncello, liquore digestivo di fama internazionale.

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L’origine del limoncello è piuttosto controversa e contesa tra Capri, Sorrento e Amalfi.  Se per i capresi l’imprenditore  Massimo Canale fu il primo a registrare il marchio “Limoncello” negli anni ’80, per   gli amalfitani  le origini del limoncello si fanno risalire a epoche remote,  addirittura  al tempo delle invasioni saracene quando i pescatori lo bevevano per combattere il freddo. Probabilmente invece fu  prodotto in un monastero, come tanti dolci e prelibatezza campane, anche se i sorrentini sostengono  che sin dall’inizio del ‘900 le nobili famiglie del luogo lo offrivano agli ospiti illustri, secondo una ricetta tradizionale.

Per Achille Bonito Oliva  il limoncello è il liquore bambino.

“Liquore di antica famiglia, il limoncino, casa e chiesa, silenzioso e senza malizia di sapore, è per gli adulti senza essere vietato ai bambini. Ha il colore paziente del convitto, senza oggetto o decisione di fondo, ma con sapore continuo alla gola. Fatto per lo sguardo e malinconica distrazione, non permette e non trattiene ricordi. Liquore di passaggio, il limoncino. Un giallo che rimanda all’azzurro. Non ama essere versato ma preservato in ampolle sicure e personali. Il diminutivo limoncino dichiara un liquore infantile anzi bambino, che nasce limone e desidera diventare limoncino, sicuramente in vitro, così trasparente e guarda dalla bottiglia in girotondo…”

 

Esistono molte varianti della ricetta sia per le diverse percentuali di zucchero e alcool, sia  per il procedimento.

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Ricetta del limoncello

Ingredienti:

10 limoni non verdi

1 lt di alcool per liquori

750g di zucchero

 

Procedimento:

Sbucciare i limoni senza intaccare il mesocarpo o albèdo (la parte interna  bianca del limone), mettere le bucce in infusione nell’ alcool in un recipiente di vetro chiuso e  in un luogo fresco e buio per 9 giorni. Quando è concluso il periodo di macerazione, preparare il giulebbe versando  750 g di zucchero in un litro d’acqua, mescolando e lasciando bollire per 5 minuti circa finché lo zucchero non si sia sciolto. Quando lo sciroppo si è raffreddato, aggiungervi l’alcool con le bucce, girare e infine  filtrare con una garza e imbottigliare. Il limoncello è un ottimo digestivo da servire preferibilmente in bicchierini gelati, oppure lo si può conservare  nel congelatore  in quanto zucchero e alcool gli impediscono di congelare.

 

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Il museo civico Gaetano Filangieri

Napoli non smette mai di stupire: in luoghi nascosti e poco attraenti  custodisce angoli di rara bellezza artistica, come il Museo civico Gaetano Filangieri che si trova nella centrale e trafficata via Duomo ed è stato riaperto nel 2012.

gaetano filangieri seniorIl Principe Gaetano Filangieri, nipote di Gaetano Filangieri senior, l’eminente illuminista napoletano autore della Scienza della Legislazione,  fu  luogotenente in Sicilia e Presidente del Consiglio dei Ministri. Come suo padre e suo nonno fu un mecenate, oltre che cultore del bello, ma soprattutto si interessò dell’educazione  e della formazione delle masse popolari curando  luoghi atti a conservare  un patrimonio destinato all’educazione stessa. In particolare Gaetano Filangieri senior ebbe a cuore il miglioramento delle organizzazioni scolastiche, da lui considerate necessarie per il rinnovamento della società. Già allora intuì il legame che può esserci  tra museo e  scuola. Egli concorse  all’ istruzione  di artisti e artigiani, promosse l’operosità delle arti e delle industrie  cercando di rendere migliore, più raffinata e preziosa la produzione industriale artistica, sviluppando tradizioni di lavoro e l’educazione al bello.20151206_124142

Non avendo eredi maschi decise di donare alla Città di Napoli, non allo Stato, le sue collezioni di armi, ceramiche, porcellane, maioliche, quadri, libri e documenti storici, creando una fondazione autonoma e privata. Il Museo fu fondato nel 1882  da Gaetano Filangieri Principe di Satriano e fu aperto nel 1888.  Il principe si occupò della costruzione del museo  rispettando le facciate quattrocentesche del palazzo  Como, espressione dell’architettura rinascimentale a Napoli, inconfondibile  per il bugnato esterno e il bel portale  ad arco a tutto sesto e per l’ aspetto austero che ricorda il palazzo Strozzi e Medici. Fu ristrutturato a spese del Principe che volle farne omaggio alla città natale.  Alla fine del ‘500 passò ai padri predicatori della congregazione di santa Caterina da Siena fino al 1806 quando fu abolito il convento e diventò alloggio per le vedove di militari. Diventò nuovamente  monastero, seppure  in pessime condizioni, finché nel 1866 con la soppressione degli ordini religiosi  fu  occupato dal  Municipio. Prese il nome  di “ palazzo che cammina” perché  la facciata fu spostata di circa venti metri per la realizzazione di via Duomo. Il Museo Civico fu diretto prima dallo stesso principe, poi dal Principe Don Giuseppe Giudice Caracciolo, dal principe Don Stefano Colonna, dal conte Riccardo Filangieri de Candida Gonzaga, dal Barone Don Francesco Acton di Leporano, mentre oggi il suo consiglio direttivo è presieduto dal sindaco di Napoli, dal sovrintendente alle Gallerie di Napoli e da un discendente del fondatore.

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Durante un incendio appiccato dai tedeschi in ritirata parte delle collezioni fu distrutta  in san Paolo Besito, dove furono  portate al riparo delle incursioni aeree che distrussero buona parte del centro storico di Napoli. Nonostante le perdite subite, il museo fu riaperto grazie alla tenacia del sovrintendente Bruno Molajoli e via via si arricchì grazie a donatori  di opere pregiate   che ci tenevano a contribuire al patrimonio artistico di Napoli. Nel 1960 il Museo civico G. Filangieri è stato classificato come uno dei grandi musei italiani rinomato anche per una preziosa collezione numismatica . Qui sono esposte tremila opere tra dipinti, porcellane, maioliche, mobili.sala agataDalla sala Carlo Filangieri, con volte a mosaico dorato sulle quali tra volute floreali spiccano gli stemmi e i nomi degli esponenti della famiglia, procedendo verso la scalinata si può ammirare la collezione di armi cinesi, armature giapponesi, elmi e balestre. La scala ecoidale porta a una sala ricca  di oggetti raffinati e dedicata ad  Agata Moncada di Paternò, madre del fondatore. Si apre su un meraviglioso pavimento maiolicato, realizzato su disegno di Filippo Palizzi dagli allievi dell’Officina ceramica del Museo Artistico- Industriale.

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La sala Agata ospita opere  databili dal XVI al XIX secolo collezionate dal Principe e da altri donatori, quadri di Jusepe de Ribera, Luca Giordano, Battistello Caracciolo, Mattia Preti e Andrea Vaccaro. È completamente rivestita di legno, anche le colonne e il passaggio pensile sono lignei. La parte superiore è impreziosita da ventiquattro vetrine che raccolgono collezioni di maioliche, ceramiche, porcellane di Capodimonte  e le  statuine di bisquit della Real fabbrica ferdinandea, modellate  da Tagliolini.  

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 In fondo alla sala spiccano le spade disposte  a raggiera e convergenti verso lo scudo centrale, in acciaio dorato, decorato con una testa di Medusa. Tra le spade di manifattura spagnola e di varie epoche, si segnalano la spada d’acciaio di casa Filangieri, del XVII secolo, con lo stemma crociato retto da delfini e lo spadino ottocentesco di impiegato civile del tempo di Ferdinando I, in acciaio e osso.

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Particolarmente bella è la biblioteca , rivestita di legno, arricchita da busti marmorei, argenti e  più di 8000 volumi  di varie tematiche tra i quali quelli sulla storia  dell’arte napoletana, raccolti  dal principe Filangieri, ma anche libretti teatrali che documentano la storia culturale, musicale e teatrale dal XVII al XIX secolo.

Museo Civico Gaetano Filangieri

Via Duomo 288 – Napoli

Aperto da martedì a sabato 10/16, domenica 10/14.

Mirabilia coralii

05Qualche anno fa vidi una mostra  particolarmente raffinata di cose incredibilmente belle che i cesellatori del corallo sono riusciti a creare.

Dalle relazioni commerciali tra Genova, Livorno e Napoli dalla fine dell’epoca barocca all’inizio del ‘900 si sviluppò la  diffusione, l’evoluzione artistica  e il declino  della lavorazione del corallo, che non si ridusse a mera produzione artigianale ma fu espressione di una civiltà artistica e mercantile in cui si identifica ancora oggi Torre del Greco. Interessante è  la storia della lavorazione del corallo. In seguito al bando degli ebrei del 1492, alcune comunità ebraiche migrarono dalla Sicilia verso Genova, che era in concorrenza con Trapani e le  città catalane nell’egemonia sui traffici del corallo verso l’Oriente. Altre comunità, espulse  dalla Spagna, furono accolte a Livorno dalla fine del 1500 con le Leggi Livornine con le quali i Granduchi di Toscana garantivano libertà di commercio. Con l’editto del 1740 anche re Carlo di Borbone  richiamò gli ebrei nel Regno delle due Sicilie, sperando di potenziare i traffici marittimi come Livorno. Questi regnanti innovarono e diedero impulso all’artigianato locale della lavorazione del corallo che assunse sempre più  carattere industriale.

mirabilia-coralii-2Dopo la  gloriosa stagione barocca, le opere di incisione e scultura di grande valenza artistica vennero meno, salvo rare eccezioni, e si diffuse la produzione di sfere, grani, bottoni per rosari o per piccoli e semplici ornamenti, finché all’ inizio del XIX secolo si riaffermò una lavorazione del corallo estremamente originale, raffinata e ricca con l’assoluto primato di Torre del Greco. Ciò fu possibile in quanto cambiò la considerazione del corallo e pure il gusto estetico. Se in passato fu utilizzato per creazioni di alta oreficeria barocca, anche perché,  secondo il pensiero cattolico della Controriforma, era il simbolo sacro dell’ altissimo sacrificio, nell’ 800 la nascente borghesia lo apprezzò come elemento decorativo di  oggetti personali e  di uso comune, come pettini, fermagli, tagliacarte, specchi, manici di ombrellini, pomi di bastoni da passeggio. Si diffuse quindi una nuova tipologia di  produzione, non più di opere uniche per principi o oggetti sacri, ma  di opere  realizzate in più esemplari da distribuire in un mercato più ampio che ne faceva sempre più richiesta.

 Il materiale corallino veniva pescato nel mare antistante Livorno, nei mari di Sardegna e di Africa e nel ‘600  era  lavorato a Genova, Pisa e Livorno, soprattutto come tondi, olivette e botticelle per paternostri  e collane da esportare in India, Asia minore, paesi europei, Africa occidentale. Agli inizi del 1800 Livorno divenne la piazza più importante per il commercio del corallo grezzo ( circa 40 tonnellate annue e nel 1810 da 500 si passò a circa 1000 lavoranti nell’industria corallina), ma alla fine del secolo si verificò una parziale recessione delle ditte livornesi in quanto un’enorme quantità di corallo rosa arancio, scoperto a Sciacca, invase il mercato. In seguito molte fabbriche e laboratori artigianali livornesi  chiusero a causa dell’emergenza dei due conflitti mondiali e delle  crisi dei dopoguerra .

La lavorazione del corallo si diffuse nel napoletano soltanto nel 1800. In effetti sin dalla metà del  XV secolo si praticava la pesca corallina lungo le coste della penisola sorrentina, di Capri, oltre che della Corsica, Sardegna e Africa  settentrionale e molto probabilmente  i manufatti artistici, apprezzati dai nobili napoletani sin dal 1600,  venivano prodotti in opifici trapanesi. Con l’editto cattolico della fine del ‘400 prima, e poi con la seconda diaspora dei corallari siciliani nella seconda metà del ‘600, maestri trapanesi  giunsero a Napoli portando la loro “arte”. Fino alla fine del ‘700  però gli artigiani erano dediti alla lavorazione del liscio, mentre gran parte del corallo grezzo, pescato dai torresi, confluiva a Livorno. Nella seconda metà del ‘700  Ferdinando IV di Borbone pensò di fare lavorare il grezzo a Torre del Greco per promuovere lo sviluppo dell’artigianato locale, ridusse quindi l’imposta sul grezzo importato, favorì la vendita del corallo a Napoli e nel 1790  emanò il Codice Corallino e lo Statuto della Compagnia per disciplinare l’attività di pesca, la custodia e la vendita  del corallo. Il re però non riuscì ad avviare una fabbrica a Torre del Greco  sia per la situazione internazionale (rivoluzione francese), sia per l’antagonismo tra francesi ed inglesi nel controllo dei traffici marittimi e l’eruzione del Vesuvio del 1794.

09Subentrò però un intraprendente francese, Paul Barthèlemy Martin che,  sulla scia  della moda del corallo molto apprezzato da Carolina Bonaparte, agli inizi dell’800 col consenso di Ferdinando IV aprì la prima fabbrica di lavorazione del corallo a Torre del Greco, esente da dazi per l’esportazione di quello lavorato e per il commercio interno al Regno, a condizione che formasse giovani apprendisti in quest’arte.  Il successo fu immediato: nel primo anno la fabbrica del Martin, che impiegava un centinaio di lavoranti, ottenne da Napoleone I il diritto di produrre e vendere in tutto il regno e il divieto per chiunque di contraffarne la produzione. La produzione  di sculturine e cammei di gusto neoclassico era molto apprezzata da  Carolina Bonaparte che al fratello Napoleone regalò una spada di gala, dalla splendida elsa con cammei in corallo, esposta per la prima volta in Italia nella mostra “Mirabilia coralii”, in cui qualche anno fa furono esposti 150 preziosi manufatti di  corallo provenienti da  musei  e da collezioni private.  

 I Bonaparte e la  nascente borghesia  fecero la fortuna del corallo, lavorato in oggetti di uso personale secondo la  moda in stile impero che si ispirava alla classicità romana. Nella prima metà dell’800 a Torre del Greco operavano otto fabbriche e a Napoli  una cinquantina di botteghe di corallari.  Dalla metà dell’800 si realizzarono  creazioni ispirate a modelli rinascimentali e naturalistici ( bouquets di fiori, foglie,  frutti) e lavorazioni scolpite a tutto tondo realizzabili, giocando sulle irregolarità del corallo, con  tutto il materiale corallino, compreso  quello di scarto non adatto per pallini. L’arte del corallo fu reclamizzata in esposizioni nazionali ed estere ( Londra, Parigi, Vienna), conquistando il riconoscimento di attività tipica di Torre del Greco.

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La scoperta di enormi banchi di corallo a Sciacca provocò un collasso del mercato. Le ottanta fabbriche che  nel 1880 impiegavano 4000 lavoranti si ridussero a circa sei, di grandi dimensioni, solo dieci anni più tardi,  e il prezzo del grezzo scese dell’80 %. A Torre del Greco continuò la lavorazione del tondo soprattutto a domicilio e ad opera di donne. Alla fine dell’800 si diffuse la lavorazione di cammei su modelli classici, la produzione di oggetti che si rifacevano all’arte pompeiana e altri ancora  in stile liberty  che ricercavano ed utilizzavano materiali diversi, quali conchiglie e madreperla. Le opere più pregiate  furono realizzate col corallo giapponese, sempre più importato, e perlopiù destinate a un mercato straniero. Una parte della produzione fu realizzata su richiesta dei mercati orientali e africani, mentre in Italia furono largamente richiesti il gioiello popolare di corallo e l’amuleto porta fortuna.

Bianca

bianca di ceriolo annamaria“Bianca – donna  e monaca tra cinque e seicento” è il libro di Anna Maria Ceriolo Verrando che documenta  e racconta con garbo la storia  vera  di una probabile monacazione subita  e risalente all’Italia del ‘600. Una microstoria dell’estremo Ponente ligure che è una finestra su un mondo scomparso  e poco conosciuto, ma soprattutto  è una vicenda della condizione femminile e di un’epoca di fermento, quella della Controriforma, attraverso eventi che incisero nella storia. Non poteva passare inosservata la dedica del libro  “Alle donne che ancora aspettano di poter realizzare la loro personale scelta di vita e il loro diritto all’ istruzione” perché Bianca è innanzitutto una donna, forse una delle tante bambine costrette o persuase dalle famiglie a entrare in educandato, finendo poi per  restarvi come novizie e infine monache, subendo un destino simile a quello di molte altre, in quanto la loro dote corrispondeva da un terzo a un ottavo circa di quella riservata alle fanciulle destinate al matrimonio. In quei conventi  spesso le bambine rimanevano perché  incoraggiate dalla presenza di zie o cugine che prima di loro erano state indotte a  intraprendere la stessa vita. Non c’era in effetti  alcuna libertà di scelta per le donne dell’epoca. Bianca però a modo suo si rivela audace e coraggiosa e ci parla della sua storia attraverso una lettera che Anna Maria Ceriolo trova  per caso  nella sezione di Ventimiglia dell’Archivio di Stato mentre esamina una filza del notaio Simone Lamberti senior, capofila di una schiatta di notai di Vallecrosia, e rintraccia una serie di dati ricavabili da compravendite di immobili e terreni, da locazioni, transazioni commerciali, quietanze varie, liti e testimonianze, ingaggi commerciali, testamenti, strumenti dotali e corredi di spose. Nota infatti che tra i fogli di filza, generalmente piegati a metà  e in verticale come un foglio protocollo, ce n’era uno più piccolo degli altri e piegato in tre parti. Da una parte il notaio aveva vergato regolari quietanze e pagamenti mentre dall’altra, sia l’intestazione che la parte finale rivelano una lettera privata. Anna Maria scopre così una segreta  lettera d’amore, proveniente da un convento, arrivata allo studio notarile e lì nascosta, scritta in risposta ad una precedente lettera del notaio Simone Lamberti senior. La voce di questa donna, discretamente colta, trapela dalla scrittura curata e  con  una determinazione  audace e insolita per quei tempi dichiara i suoi sentimenti . “Io facio come fa li arberi che alla primavera fioriscono, così mè intrevenuto adeso a me… Io vi amava come senper ò fatto”. La storica, incuriosita ed emozionata, trova anche la bozza di una risposta del notaio, risale al casato di Bianca, ricostruisce  una storia amorosa, tormentata  da lunghe e logoranti attese, l’ insofferenza per  una condizione di vita non voluta che spesso induceva le giovani monache a lasciarsi morire, la volontà di vivere i propri sentimenti.  Mi fermo per lasciare un po’ nel mistero la vicenda di Bianca, prima donna e poi monaca.

Presento la mia amica Anna Maria Ceriolo Verrando, insegnante di lettere e autrice della  tesi “Bordighera nella storia”  che fu pubblicata e inserita dal prof. Nino Lamboglia nella Collana Storico –archeologica della Liguria Occidentale. L’incontro con il Lamboglia fu per Anna Maria determinante  per rafforzare l’amore per la storia e le sue metodiche al punto tale da farla divenire un’appassionata ricercatrice d’archivio, che ha sempre diviso il suo tempo tra la famiglia, il lavoro, la ricerca delle fonti e la poesia. Affermata storica loco-regionale, ha ricevuto a Bordighera nel 2011 il prestigioso Parmurelu d’oro, premio annuale assegnato per meriti storico-letterari-artistici- scientifici  o impegno civile a chi ha reso lustro alla città di Bordighera.

I susamielli

 susamielli-napoletaniUn dolce natalizio della Campania è il susamiello, il cui nome probabilmente deriva dal sesamo, i cui semi  ricoprivano i globulos degli antichi romani, palline di formaggio fritte poi immerse nel miele. Cristoforo da Messimburgo, che lavorò prima alla corte degli Estensi e poi dei Gonzaga a Mantova,  nella metà del ‘500 parla dei Sosamielli Perfettissimi preparati con un impasto di farina, zucchero, cedro candito e uova, aromatizzato con  cannella, pepe, varie spezie tipiche della cucina dei nobili, acqua di rose e un’essenza estratta dalle ghiandole del cervo, detta muschio. Dopo un secolo si trovano gli stessi ingredienti nel ricettario di napoletano Antonio Latini e nel ‘700 – ‘ 800 nel Credenziere del Buon Gusto di Vincenzo Corrado che descrisse i Sosamielli delle monache, che forse erano quelle del convento della  Sapienza, cui si devono anche le sapienze , simili ai susamielli e anch’esse dolce tipico  nel periodo natalizio. Nella loro ricetta tra gli ingredienti ci sono anche le mandorle tostate e tritate e i sosamielli di forma ovale sono ricoperti da una glassa all’arancia. In seguito Salvatore Campisi Pistoja li definisce “susamielli “ fatti con farina, miele, spezie e giulebbe d’arancia, sia a forma circolare con buco centrale che a forma di otto. Nel 1830 il cuoco Angioletti della corte parmense parla di susamielli napoletani, senza mandorle e con glassa al cioccolato. La tipica forma di S probabilmente è più recente, risale ai tre diversi susamielli: quello dei nobili preparati con farina fine, quelli degli zampognari o dei poveri con farina più grossolana, e quelli del Buon cammino, ripieni di  marmellata, che venivano offerti ai preti che facevano la questua per le case a Natale. La forma di serpente ha un significato beneaugurale.

Questa è l’ antica  ricetta tratta da “Il credenziere del Buon Gusto” di Vincenzo Corrado, 1820

Ingredienti:

640 g di miele

320 g di giulebbe

1.280 kg di farina

640 g zucchero

110 g di mandorle tostate

160 g di scorzette di arance candite

26 g di cannella in polvere

13 g di chiodi di garofano in polvere

6 g di pepe

Buccia grattugiata di mezza arancia fresca

Per la ghiaccia:

320 g di zucchero

2 arance

 In un pentolino portare a ebollizione miele e giulebbe, schiumandoli fin quando non diventano limpidi. Disporre la farina a fontana, versarvi il miele caldo, lo zucchero, le mandorle tritate, le spezie, la buccia grattugiata di arancia e le scorzette candite. Impastare bene, servendosi di spatole perché l’impasto è caldo, avvolgere in un panno e lasciare fermentare la pasta per 24 ore. Poi tagliarla a pezzi, stenderla fino allo spessore di un dito, tagliare ovali ( oggi si dà la forma di S)  , disporli su una placca da forno e lasciare cuocere  a media temperatura (180° al massimo per 20 minuti). Grattugiare la buccia delle arance, bagnarla con un po’ di succo, filtrare il tutto, unirvi i 320 g di zucchero e mescolare fino a ottenere una crema filante da spennellare sui susamielli.

Oggi esistono ricette più semplici, inoltre  non si lascia fermentare l’impasto per 24 ore e spesso  ai vari  ingredienti  si aggiunge un pizzico ammoniaca.

 

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“La casa de li spasse, lo puorto de li guste” nel presepe napoletano

 La taverna è uno dei tre quadri fondamentali del presepe napoletano, insieme  alla Nascita e all’Annuncio ai pastori, che per la prima volta  nel 1507 fu  introdotta dal bergamasco Pietro Belverte in un presepe per i frati di San Domenico Maggiore. Dal 1600 in poi la taverna divenne uno spazio caratterizzante il presepe, un angolo di vita quotidiana che in primo piano capta l’attenzione di chi osserva. In effetti il presepe napoletano ha riprodotto e riproduce in sé personaggi, eventi, mode contemporanee e la stessa arte gastronomica vi confluì, considerando che raggiunse l’apice nel 1700.

Già verso la metà del ‘600 il marchese di Crispano censì a Napoli circa 210 taverne dove la tradizione culinaria era ben radicata. Pare che l’ambientazione della taverna sia da ricondurre  all’Osteria del Cerriglio, di fama europea, sorta nel ‘500 e ubicata tra i banchi Nuovi e Sedile del Porto, dietro Piazza Bovio e Corso Umberto. Era  ancora molto  rinomata nel ‘700 sia per la qualità delle pietanze  e del vino, sia perché frequentata da artisti e letterati, nobili e stranieri, amanti della buona tavola che lì venivano a contatto con il popolo e le prostitute.

 

 

Giambattista  Basile scrisse che era

”La casa de li spasse

lo puorto de li guste

dove trionfa Bacco

dove se scarfa  Venere e l’allegria

dove nasce lo riso

cresce l’abballo e  bernolea lo canto

s’ammansona la pace

pampanea la quiete

dove gaude lo core

se conforta la mente

se dà sfratto a l’affanno

e s’allonga la vita pe cient’anne”

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Nella locanda del Cerriglio  il  Caravaggio fu sfregiato al viso nel 1609 durante un soggiorno a Napoli. Qui si esponevano in bella vista una gran varietà di  prodotti alimentari e ortofrutticoli, che potevano  appagare l’atavica fame e la miseria del popolo, più di recente  rappresentate da Pulcinella o dal mangiatore di maccaroni :  salsicce, uova, polli, pesci e frutti di mare, ortaggi, frutta, formaggi, ricotte.

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Oltre ad essere il regno dell’abbondanza, lo era anche della convivialità partenopea e del  divertimento perché musicanti e donne allietavano gli avventori in cerca del piacere o delle chiacchiere sui fatti della città.

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Nella taverna primeggiavano  le colorate maioliche: piatti, zuppiere, lucerne, pavimenti, piastrelle, ampia testimonianza dell’artigianato locale.

taverna con monacoIn seguito, dalla fine del XIX secolo, gli studiosi di storia, di tradizioni e di antropologia rividero la simbologia del presepe e la taverna fu quindi considerata luogo di perdizione ove regnano i vizi di gola, lussuria, gioco ed ubriachezza;  a volte vi compaiono anche un monaco ubriaco, che rappresenta la corruzione temporale della chiesa, i giocatori di carte, detti Zì Vicienzo e Zì Pascale che  hanno poteri divinatori e l’oste che diviene un personaggio demoniaco.

 

Quest’anno vi  segnalo due mostre sull’arte presepiale:

“Maestri in Mostra” presso Villa Fiorentino, Corso Italia 53 –Sorrento (Na) fino al 10 gennaio (ore 10-13 e 16-21) 

“Trentesima Mostra di Arte Presepiale”  nel Complesso Monumentale San Severo al Pendino, Via Duomo 286- Napoli fino all’8 gennaio 2016 (ore 9.00-19.00)

 

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La libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare. (Piero Calamandrei)

Artist Chris Buzelli“Quando io considero questo misterioso e miracoloso moto di popolo, questo volontario accorrere di gente umile, fino a quel giorno inerme e pacifica, che in una improvvisa illuminazione sentì che era giunto il momento di darsi alla macchia, di prendere il fucile, di ritrovarsi in montagna per combattere contro il terrore, mi vien fatto di pensare a certi inesplicabili ritmi della vita cosmica, ai segreti comandi celesti che regolano i fenomeni collettivi, come le gemme degli alberi che spuntano lo stesso giorno, come certe piante subacquee che in tutti i laghi di una regione alpina affiorano nello stesso giorno alla superficie per guardare il cielo primaverile, come le rondini di un continente che lo stesso giorno s’accorgono che è giunta l’ora di mettersi in viaggio. Era giunta l’ora di resistere; era giunta l’ora di essere uomini: di morire da uomini per vivere da uomini.”

 (dal discorso tenuto al Teatro Lirico di Milano, 28 febbraio 1954, in Uomini e città della Resistenza: discorsi scritti ed epigrafi, Laterza) 

 

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“Ho semplicemente lottato per una causa che ho ritenuta santa: quelli che rimarranno si ricordino di me che ho combattuto per preparare la via ad una Italia libera e nuova.” (Lorenzo Viale, anni 27)

Villa Torlonia e la Casina delle Civette

Casino Nobile

Il noto quartiere Nomentano a Roma custodisce Villa Torlonia, che ha un fascino particolare sia per il giardino all’inglese che per i numerosi e splendidi edifici disseminati nel parco.

 parco villa torloniaLe prime notizie di Villa Torlonia risalgono al 1600 quando, come ampia  tenuta agricola abbellita da statue, fu venduta da Giuseppe Maturo all’abate Giovanni Bovier. Acquistata nel 1673 da Benedetto Pamphilj che ben presto diventò cardinale, il vigneto lasciò il posto ad un elegante palazzo grazie agli interventi degli architetti Giacomo Moraldo, Mattia de’ Rossi e infine di Carlo Fontana. Nel 1762 passò ai Colonna e più tardi nel 1797 a Giovanni Torlonia che, incrementando i beni di famiglia con prestiti di capitali  alle famiglie romane durante l’occupazione francese, ambì a un titolo nobiliare ed ottenne nel 1797 il titolo di marchese. Giovanni perciò acquistò la villa ed incaricò l’architetto Giuseppe Valadier di sistemare la tenuta perché fosse all’altezza del suo nuovo rango. Villa Colonna diventò quindi un elegante palazzo, furono costruite le Scuderie ma soprattutto si diede un nuovo assetto al parco con viali alberati e fontane.

 Alessandro Torlonia, figlio di Giovanni, volendo emergere  nell’aristocratica società romana, valorizzò  la villa che divenne famosa per feste e cerimonie. Si avvalse di Giovan Battista Caretti che ampliò il palazzo ed aggiunse il pronao alla facciata ,edificò nel parco le finte rovine, l’Anfiteatro, il Tempio di Saturno e la Tribuna con fontana. Più tardi Quintiliano Raimondi costruì il Teatro, oggi in fase di restauro, e la Limonaia. L’architetto Giuseppe Jappelli, noto per i giardini all’inglese, fu l’artefice di  innovativi interventi . Nella tenuta infatti furono realizzati il Campo dei  Tornei, la Capanna Svizzera, la Serra e la Torre moresca e il parco fu abbellito di piante  esotiche e laghetti.

 casina delle civette-villa torlonia roma

Nel 1842 Alessandro Torlonia fece erigere anche due obelischi, dedicati ai genitori, e in tale occasione organizzò una grandiosa festa cui parteciparono pure il papa Gregorio XVI e Ludwig di Baviera.. In seguito all’infermità della moglie Teresa Colonna , alla morte di casina delle civette1una delle due figlie e del fratello Carlo, Alessandro si ritirò dalla vita mondana ed interruppe i lavori nella villa.L’altra sua figlia , Anna Maria, sposò Giulio Borghese ed ereditò la villa ma, di carattere riservato, non amò i fasti e le ambizioni del padre. Solo con Giovanni, figlio di Anna Maria, si ebbero nuovi interventi nella proprietà e in particolar modo fu proprio lui a trasformare la Capanna svizzera in Casina delle Civette, dove si ritirò. Dal 1925 al 1943 la villa fu residenza stabile di Mussolini tant’è che nel piano interrato si realizzò un rifugio antigas ed un bunker antiaereo, e dal 1944 al 1947 fu occupata dal comando anglo-americano. La proprietà subì gravi danni e per molti anni versò in uno stato di trascuratezza, fino a quando nel 1977 il Comune di Roma l’acquistò e venti anni più tardi l’aprì al pubblico come spazio museale .

 

Villa Torlonia è infatti sede di due musei: il Casino Nobile e la Casina delle Civette, che mi Casino dei Principiha incuriosito non poco per il nome e ancor di più per l’aspetto. Casino Nobile è il palazzo principale, riccamente decorato da rinomati pittori, quali Podesti e Coghetti, e da scultori e stuccatori della scuola di Thorvaldsen e Canova, ed è anche  sede del  Museo della Villa e delle opere della scuola Romana. Il neocinquecentesco Casino dei Principi ospita l’Achivio della scuola Romana e mostre temporanee. A Villa Torlonia  si trovano anche le Catacombe ebraiche (III- IV secolo) della comunità giudaica romana.

Molto particolare ed originale è la Casina delle Civette, ideata nel 1839 da Giuseppe Jappelli come capanna svizzera, poi trasformata nei primi anni del Novecento in un bizzarro ed originalissimo villino, residenza del principe di Torlonia. Si chiama Casina delle Civette per decorazioni  su vetro che richiamano la civetta.

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Peculiarità di questa casina sono le vetrate policrome, realizzate in gran parte da Cesare Picchiarini tra il 1910 e il 1925, su disegni di Duilio Ciambellotti ,Umberto Bottazzi, Vittorio Grassi e Paolo Paschetto.

vetrata villa torloniaOggi la casina ospita il Museo delle vetrate artistiche in stile liberty , arricchita da opere degli stessi autori e da disegni, bozzetti e cartoni preparatori. Trasparenze, colori brillanti, pavimenti maiolicati o decorati con motivi floreali ( stanza del trifoglio, dei ciclamini) arredano le stanze con gusto squisito. Qui si respira un’atmosfera quasi fiabesca, come si può intuire dalle foto.

vetrata 2vetrata 3vetratavetrata1rose,farfalle e nastri di Paolo Paschettocasina delle civette -villa torlonia

“Le donne che hanno fatto l’Italia” dal Risorgimento in poi.

 

locandina donne che hanno fatto l'Italia

“Le donne che hanno fatto l’Italia” è stata una delle  varie iniziative del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, una bella retrospettiva su figure femminili più o meno conosciute, che direttamente ed indirettamente hanno influito sull’evoluzione culturale, sociale, economica e politica dell’Italia.

 

 

cucitrici di camicie rosse- BorraniSi parte  dalle donne del Risorgimento, dalle più famose protagoniste dei salotti intellettuali e dell’alta società , come  Cristina Trivulzio di Belgiojoso, Adelaide Bono Cairoli e Sara Nathan, alle più sconosciute donne del popolo che disinnescavano bombe inesplose, consegnavano carte segrete, depistavano la polizia, combattevano con i garibaldini e soccorrevano i feriti . Donne di un’Italia ancora da fondare, accomunate dalla stessa passione e dalla voglia di partecipare al cambiamento .

La panoramica sull’universo femminile è molto ampia e non ignora donne schierate su altri fronti ma altrettanto determinate, come le regine che diedero un diverso apporto alla storia e alla cultura del paese, e le brigantesse che per miseria, paura, convinzione o ignoranza combatterono strenuamente esponendosi alle persecuzioni del loro tempo e ad un’ impietosa storiografia.

 

Il Risorgimento segnò più ufficialmente un Risorgimento  delle donne, in seguito all’ istruzione di un’elite femminile e alla diffusione dei grandi ideali rivoluzionari di libertà, fraternità ed uguaglianza del ‘700. Le donne vennero allo scoperto sulle barricate, nelle piazze, nei salotti , nei campi. Nell’800  manifestarono pubblicamente il loro pensiero ,soprattutto per iscritto, con epistolari, memorie, diari, romanzi, poesie esprimendo coscienza di sé, capacità critica ed autonomia di giudizio sul loro tempo e sulle vicende personali, emergendo sempre più come presenze attive nella vita comunitaria.

Con l’Unità d’Italia le donne continuarono nel loro cammino per lo sviluppo culturale, 111345294-4de98e00-781b-4338-90cb-ae06acb688c7sociale ed economico del paese, seppure ignorate dalla storia. Si pensi alle maestre che in paesi sperduti promossero la prima alfabetizzazione, rinunciando spesso ad una propria vita affettiva, alle operaie che sostituirono gli uomini nelle fabbriche, alle infermiere volontarie impegnate al fronte durante le guerre mondiali, alle mondine e alle tabacchine che sollevarono questioni sociali di disagio e di sfruttamento lavorativo, alle balie che, forse inconsapevolmente, collegarono l’isolato mondo rurale con  quello cittadino più aperto al nuovo.

 

le-donne-che-hanno-fatto-italia-dal-in-poi-1Pian piano le donne conquistarono titoli di studio, un posto di lavoro, un nuovo ruolo nella società che si consolidò con le adesioni ad associazioni, ai partiti, ai sindacati, alla Resistenza. Lottarono non poco e a lungo per ottenere il diritto di voto che in Italia si esercitò per la prima volta  soltanto nel 1946, circa quarant’anni dopo la  Finlandia. Ai seggi affluirono circa 14.600.000 donne contro i 13.350.000 uomini , che elessero nell’Assemblea Costituente 21 donne su 556 membri. Erano perlopiù giovani e laureate: tra  insegnanti e  giornaliste vi erano anche una sindacalista e una casalinga. Cinque di loro fecero parte della Commissione dei 75 per elaborare la Costituzione. Lotte, sacrifici e sconfitte nella storia dell’emancipazione femminile furono in un certo modo riscattate dalla possibilità di accedere alle più alte cariche istituzionali.

 

Tra le tantissime donne nella mostra del Complesso del Vittoriano, alcune sono evidenziate come protagoniste della storia d’Italia perché con intelligenza e passione, capacità e determinazione seppero vedere oltre e contribuire  al progresso e all’affermazione dell’Italia a livello internazionale.

Figure femminili unicamente grandi, per meriti diversi, alcuni dei quali- confesso- non conoscevo.

Anna Kulishoff, l’ esule russa che come medico operò nei quartieri più poveri di Milano, condusse battaglie per l’ indipendenza economica delle donne, necessaria per il conseguimento di  libertà, diritti e parità, per .il diritto al voto e per la difesa delle lavoratrici operaie e contadine.

Matilde Serao, l’attenta lettrice del pentagramma dell’anima, ha lasciato tanti scritti introspettivi e descrittivi che ben rendono il quadro socio, economico e culturale del suo tempo. Riscattò l’intelligenza delle donne in un ruolo anticonformista sia nella vita privata che in quella pubblica, in quanto fu la prima donna a fondare e a dirigere un quotidiano ( il Mattino).

 

Madre Francesca  Saverio Cabrini, una religiosa che fondò la Compagnia delle Missionarie del Sacro Cuore di Gesù e circa ottanta case missionarie in sette paesi del mondo. Nel 1889  partì per gli  Stati Uniti e s’adoprò negli slums, affinchè gli emigranti imparassero la lingua e le usanze del luogo e si integrassero nel nuovo contesto. Valicò le Ande a dorso di un asino e raggiunse luoghi impervi in Sud America dove diffuse la sua missione. Ovunque costruì asili, scuole, convitti per studentesse, orfanotrofi, case di riposo, ospedali che seppe bene amministrare. Beatificata nel 1938 , fu riconosciuta patrona di tutti gli emigranti nel 1950.

 

bn7Maria Montessori, pedagogista, filosofa, scienziata, educatrice di grande cultura, col suo trattato sul metodo della pedagogia scientifica ha rivoluzionato il mondo dell’educazione e della didattica. Nel corso della sua vita s’adoprò molto per la liberazione, la difesa e il riconoscimento  della dignità del bambino.

 

Luisa Spagnoli, una semplice casalinga che diventò l’’abile imprenditrice  di  una delle più antiche aziende italiane, cioè la Perugina. Entrata nel consiglio d’amministrazione dell’azienda nel 1923, promosse strutture sociali per migliorare le condizioni di vita e di lavoro delle dipendenti( ad esempio un  asilo nido nello stabilimento di Fontivegge  per i figli delle operaie).Negli anni ’30 si dedicò con le lavoranti ad una nuova attività, cioè all’allevamento di conigli d’angora per ricavarne pregiati filati di lana, ma non vide i risultati di questa felice intuizione a causa di una morte prematura.

 

Oriana Fallaci, la giornalista che seguì in prima persona e in tutto il mondo  i grandi fermenti sociali e politici: le insurrezioni dell’America latina, la dittatura in Grecia , le contestazioni giovanili, i conflitti indo pakistani e mediorientali . Coraggiosa corrispondente di guerra in un’epoca in cui non esistevano le tecnologie e gli attuali mezzi di comunicazione, per dodici volte in sette anni tornò in Vietnam per documentare la verità e le menzogne, l’eroismo e la dannazione di un conflitto che ha segnato un’intera generazione. Intervistò i grandi della storia degli anni ’70  come Kissinger, Golda Meir, Khomeini, Gheddafi; suscitò grandi dibattiti su questioni di coscienza e di politica internazionale.

Marisa Bellisario, una pioniera del nascente settore elettronico dei computer e della programmazione, si distinse per capacità professionali e manageriali. Nel 1965 si trasferì in America ove fece carriera, nel 1979 divenne presidente dell’Olivetti Corporation e nel 1981 diresse l’Italtel. Nel 1984 fece parte della Commissione nazionale per la realizzazione della parità tra uomo e donna. Ottenne il premio di manager dell’anno nel 1986, due anni prima della sua prematura morte. Una top manager a livello mondiale in un mondo ove- come asserì- “una dirigente deve nascondere il più possibile il suo essere donna”.

 

Anna Magnani: l’energica e fragile Nannarella, straordinaria  interprete del cinema neorealista del dopoguerra che ci ha mostrato la vita reale attraverso la dimensione umana di personaggi comuni . Una donna che, pur riscuotendo fama mondiale, in varie stagioni della vita fronteggiò grandi solitudini che ci fanno ricordare con affetto i suoi profondi e  indimenticabili sguardi, la spontanea  ironia, la dolce e sofferta malinconia.

 

Rita Levi Montalcini , la scienziata che nel ’36 si rifugiò in Belgio ma anni dopo rientrò a Torino per proseguire la ricerca sulle cellule nervose, allestendo un laboratorio in camera da letto, finchè nel 1947 raggiunse gli Stati Uniti ove lavorò per venti anni. Animata da un continuo  bisogno di conoscenza, anche nei periodi più cruciali della sua vita si dedicò alla ricerca scientifica . Conseguì il premio Nobel per la medicina nel 1986 ed è stata senatrice a vita dal 2001.

 

Palma Bucarelli, esperta di storia e di critica dell’arte anche molto bella ed anticonformista, all’età di trent’anni fu la prima donna a dirigere un museo pubblico. Dagli  anni ’40 a metà degli anni ’70 si occupò della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma: salvò opere in tempo di guerra, promosse l’astrattismo, rese accessibile al grande pubblico l’arte moderna.

 

Una lunga  galleria fotografica svela in ordine cronologico i volti di  donne che dall’ 800 in poi hanno contribuito alla storia d’Italia . Sono tantissime ad avere conseguito i primi traguardi nella cultura, nell’arte, nella politica, nella società e nello sport. Ne  voglio elencare alcune.

1872 Caterina Scarpelli, medaglia d’oro per il valore scientifico delle sue ricerche.

1875 Enrichetta Girardi, prima donna che conseguì la laurea in lettere a Napoli .

1879 Ersilia Caetani Lovatelli, prima donna ammessa all’accademia dei Lincei, per conoscenze di archeologia , di lingue classiche e del sanscrito.

1887 Iginia Massarini, prima donna a conseguire la laurea in matematica.

1898 Aurelia Pincherle  Rosselli, prima donna che scrisse per il teatro.

1906 Elvira Coda Notari, prima donna regista.

1908 Emma Strada, prima donna ingegnere e Rina Monti che a 37 anni fu la prima donna ad ottenere la cattedra universitaria di zoologia a Sassari.

1913 Adelaide Cocco, prima donna medico a Sassari.

1913 Rosina Ferraro ,ottava donna al mondo a conseguire il brevetto di pilota degli aerei numero 203.

1915-1918  Ester Danesi Traversari, prima giornalista italiana corrispondente di guerra per il Messaggero.

1926 Grazia Deledda , premio Nobel per la letteratura.

1940  La poetessa Ada Negri  fu ammessa tra gli Accademici d’Italia.

1943 Ondina Peteani partigiana, a 18 anni entrò nel Movimento di Liberazione operaia dei cantieri di Monfalcone.

1947 Franca Viola, prima donna che denunciò e fece condannare il suo stupratore, rifiutando un matrimonio riparatore.

1948 Angela Merlin, prima senatrice.

1953-1956  le suore Maria Cleofe e suor Maria Innocenza furono le prime religiose a prendere la licenza di volo per recarsi, rispettivamente  in Pakistan e in India, a servizio dei bisognosi.

Seguono tante , tante altre. La prima donna magistrato, prefetto, vigile e via via così….

 La  storia dell’emancipazione femminile in Italia può vantare donne intraprendenti di diversa estrazione socio-culturale che con lungimiranza hanno messo a frutto le proprie inclinazioni e capacità in scelte di vita,  a volte inconsuete, apprezzate tardivamente perché spesso hanno precorso i tempi.

 Mi sono resa conto di appartenere  ormai ad un’altra generazione, quando  ho notato due ragazze ventenni che osservavano l’Olivetti con cui Oriana Fallaci scriveva i suoi articoli. Non avevano mai visto, tanto meno usato, una macchina da scrivere. “Le donne che hanno fatto l’Italia” riassume aspetti della storia italiana che si dovrebbero divulgare nelle scuole , soprattutto tra le nuove generazioni troppo distanti da quella vite vissute alla luce di speranze, attese e conquiste durate per secoli. Non a caso ancor oggi nel 2014, sicuramente più di ieri,  bisogna promuovere la cultura di genere e delle pari opportunità  in un contesto sociale  e politico che sdogana con tanta sfacciataggine e superficialità  offese gratuite e sessiste perché, a mio parere, non si conosce  e di conseguenza non si apprezza quel percorso di crescita, progresso e civiltà delle tante donne che hanno fatto e possono continuare a fare l’Italia.

  

Immagini tratte dal web

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