Strega

Alla fine eravamo arrivati in cima, anche se Triora era in realtà il punto di avvio per salire ancora più in alto,verso la tesa della Nava e il Collardente, verso il passo del Pellegrino, il Carmo del Corvo e la Croce dei Campi,che si alzavano come muraglie azzurre alle spalle dell’abitato. Come descriverla? 

Da lontano sembrava solo una cresta dentata,un grumo di pietra e d’ardesia che faceva da cappello ad un picco. Da vicino era piuttosto un merletto grigio: le mura della cinta si alzavano e si abbassavano seguendo il contorno del terreno,in cima a una gradinata di terrazze e di fasce che salivano dalla valle come lo scalone di un gigante.

All’interno poi le case si accatastavano e s’incastravano una dentro l’altra,e quando un viottolo le separava in basso allora si univano fra loro più in alto,con arcate di mattoni e di sassi. Il paese aveva un aspetto solido,compatto, sembrava girare le spalle al mondo, dal quale venivano soltanto rogne, guai e vento gelido,e si avvolgeva intorno ai vicoli che gli si infilavano dentro,entravano nelle case, sfondavano gli atri, si aprivano all’improvviso in loggiati e piazzette, e tornavano a immergersi nel buio dei sottopassi,in un continuo su e giù che il sole riusciva a illuminare soltanto quando era a picco, sul mezzogiorno.” (da Strega di Remo Guerrini)

La storia di Battistina, una ragazza ritenuta diversa, è ambientata nella città di Triora al tempo dell’ Inquisizione. Nel 1588 nell’ antica rocca della città arriva una spedizione organizzata dalla Repubblica di Genova, composta dall’arguto e spietato Giulio Scribani, Commissario straordinario deciso a debellare le streghe, dall’esperto Juan Ferdinando Centurione, che con la sua logica preveggente intuisce le cause della stregoneria contro l’ottusità dei vicari dell’Inquisizione, e da Niccolò, giovane scrivano che scoprirà nella piccola strega dodicenne un’attrazione per la vita . La caccia alla “setta abominevole di donne” descritta , di fatto è avvenuta. I personaggi sono realmente esistiti e furono condannati a supplizi dei quali restano traccia nel Museo delle streghe di Triora .La vicenda è documentata storicamente dall’autore, Remo Guerrini, che ha ricreato un’atmosfera calata nella civiltà contadina tra superstizioni e credenze popolari, riti e cerimonie infernali, condanne e torture dell’epoca. Un libro di alta poesia sia nelle descrizioni paesaggistiche che in quelle caratteriali dei protagonisti. Una storia particolare e avvincente, a volte amara, a volte delicata dove la piccola Battistina si muove in una natura alla quale scopre di appartenere più di quanto immagini, mossa dalla curiosità e dalla saggezza pratica di chi impara presto a sopravvivere tra gli stenti che incattiviscono gli uomini. Inizialmente afferma la sua innocente e spontanea vitalità , libera da ogni schema, poi, braccata dal pregiudizio, fa della sua diversità una prerogativa individuale da difendere con precoce determinazione femminile contro le ottuse, brutali e dogmatiche certezze di quel tempo. La piccola strega colpevole , come tante altre sorelle, di comprendere i misteri e parlare il linguaggio della natura, rivendica la libertà di essere ciò che è . Nell’orgoglio trova la forza di non cedere al supplizio e con orgoglio si ricongiunge alla madre Terra, che con le sue erbe, acque,vite,venti, rocce ha sempre dolcemente cullato i sensi e il cuore di una bambina straordinaria.

“Fu anche un inverno strano (a cavallo tra il 1587 e 1588), soprattutto perché Battistina completò la sua istruzione in modo che mai si sarebbe aspettata ,visto che i suoi maestri furono un vecchio gipeto, una giovane lontra e una volpe distratta.

Il gipeto fu il primo. Era grande quasi quanto lei, aveva una barbetta lunga e nera sotto il becco, gli occhi gialli e un bel paio di calzoni di piume candide. Da lui Battistina imparò a sbattere contro una pietra le ossa dei cervi e delle capre morti da poco, proprio come contro un’incudine, e a nutrirsi con il midollo che c’era dentro. La prima volta le fece un po’ schifo, poi si accorse che, dopo aver succhiato, le veniva un gran caldo nello stomaco e una gran forza nelle gambe.

Decise così che da quell’uccello saggio e silenzioso c’era molto da imparare. Il gipeto, ora che era avanti negli anni e d’inverno gli era venuta meno la voglia di accoppiarsi, se ne stava su uno spuntone del bricco di Borniga, appeso sul precipizio, e passava il tempo con lo sguardo perso nel cielo grigio. Ma quando in quella sterminata lavagna compariva un minuscolo punto nero allora arruffava le piume, allargava le ali grandi come lenzuola e si lasciava cadere nell’abisso. Solo dopo un po’ Battistina si accorgeva che quel punto nero era in realtà un altro rapace, magari un’aquila che ritornava al nido con una preda fa gli artigli. Allora il gipeto si avvicinava all’aquila con la sua ombra immensa, e le andava addosso finchè l’altra non mollava il coniglio o l’agnello, che però precipitavano solo per poco, visto che il gipeto li riprendeva al volo e se li portava sul suo bricco. Dal gipeto Battistina imparò l’arte di starsene seduta a guardare il mondo dall’alto, e la facilità con la quale si ruba ai ladri, che mise in pratica più volte facendo sparire una pagnotta a un contadino che ne aveva portate via due al fornaio di Verdeggia, e prendendosi il mantello d’orbace di un giovanotto che se l’era tolto per infilarsi in un pollaio d’altri, appena fuori Realdo.

La giovane lontra l’incontrò invece più in basso,dove il torrente che scende da Verdeggia s’incrocia con il rio Infernetto, e insieme formano un torrente un po’ più grande che, più a valle ancora, va a immettersi nel Capriolo. L’acqua era gelida, ma la lontra non se ne curava. Giocava da sola:si tuffava, raccattava un sasso dal fondo, lo portava a galla tenendolo sulla pancia, poi se lo metteva sul muso e con un colpo secco dal collo lo scaraventava in aria. Se la pietra, invece che finire sulla riva, ricadeva in acqua la lontra si lanciava rapidissima, per recuperarla prima che toccasse il fondo. Battistina restò accucciata su uno scoglio per un’intera mattinata, e per un’intera mattinata la lontra giocò davanti a lei. Battistina imparò che la solitudine non è nemica del divertimento, e imparò anche altre cose: che per entrare nell’acqua è meglio adoperare uno scivolo d’erba piuttosto che rovinasi i piedi sulle rocce, che se si vuol catturare un pesce con le mani bisogna aver pazienza e avvicinarsi da sotto e da dietro, e perfino che si può scoprire il rango di un animale o di una persona dai suoi escrementi. Quelli della lontra, per esempio, puzzavano di pesce e contenevano le squame di quello che aveva mangiato.

Che la volpe fosse distratta Battistina lo stabilì, invece, quando l’inverno prese ad addolcirsi: mentre a dicembre e a gennaio era infatti impossibile trovar tracce del suo passaggio, a febbraio la volpe cominciò a lasciare in giro il suo pelo, a ciuffi e batuffoli dorati, appesi ai rami più bassi delle piante, impigliati agli arbusti e ai rovi, perfino dentro ai cespugli. Come se l’approssimarsi della primavera le avesse fatto perdere la testa.

Dalla volpe imparò a non perdersi nei boschi. E come la volpe segnava le piante che voleva riconoscere strofinandogli contro il culo e lasciandoci sopra odore di mandorle ( il che era segno di grandissima stregoneria), così Battistina iniziò a segnare tronchi e sentieri togliendo le foglie a un ramo basso sempre nello stesso modo, tre da una parte e tre dall’altra. E imparò pure che spesso è meglio fingersi morti e seppellirsi nell’erba piuttosto che scappare ( e così sfuggì a un gruppo di gendarmi che andava dietro a un contrabbandiere verso il passo di Collardente), che quando una preda è troppo difficile da maneggiare è meglio lasciarla perdere ( a dire il vero la volpe faceva di peggio ai ricci e ai rospi velenosi che non riusciva ad azzannare:gli pisciava addosso), e che nella stagione dell’amore c’è una cosa che fa diventare matto il maschio, leccargli il muso (ma questo si promise di verificarlo più avanti).

In realtà, perché gipeto, lontra e volpe distratta le consentissero di gironzolare intorno e la considerassero come una specie di parente tonta da sopportare con benevolenza, non se lo chiese mai. Pensò che per una strega come lei , fosse naturale vivere da bestia fra le bestie. Mangiò ghiande e castagne raccolte fra le radici degli alberi prima che arrivassero i legittimi proprietari, sfilò le uova di sotto alle chiocce e le bevve ancora tiepide, arrostì di nascosto nei seccatoi ormai freddi i pesci avanzati dalla lontra e andò di notte a mungere le vacche di Greppo e Bregalla, tanto che i contadini continuarono per settimane a immaginarsi, per via di quelle mammelle improduttive,nuove maledizioni scagliate contro le loro stalle.”

 

Da “Strega” di Remo Guerrini. Ed.Interno Giallo .

Vi informo che di recente il libro è stato ristampato nella collana Time Crime e si può trovare anche on line

 

La Resistenza a Roma e l’eccidio del Ponte dell’Industria

Un memorabile 25 aprile a Roma. Un grande corteo è poi partito dall’ Arco di Costantino  per confluire a Porta San Paolo. Tanti giovani e meno giovani  per festeggiare  e ricordare la Resistenza italiana che esordì proprio  a Roma, quando il 10 settembre 1943 militari e civili italiani si opposero all’ occupazione tedesca della capitale, iniziata dopo l’annuncio dell’armistizio dell’8 settembre e della ritirata del re Vittorio Emanuele III e di Badoglio che il 9 settembre avevano abbandonato gli italiani e lasciato l’esercito  allo sbando.

Sin dalla notte dell’8 settembre avvennero combattimenti alla periferia della città ma  i militari italiani furono costretti a ritirarsi. La mattina del 10 una parte di questi confluì a Porta San Paolo dove si erano radunati  i civili giunti spontaneamente od organizzati dai partiti antifascisti. Qui iniziò la battaglia contro le truppe tedesche, numericamente molto più forti, e s’innalzarono barricate rovesciando le vetture dei tram. 

Qui morirono circa 400 civili, tra cui 43 donne, e anche carabinieri e militari italiani. Tra questi l’operaio diciottenne Maurizio Cecati ,colpito a morte mentre incitava i suoi compagni alla lotta; il fruttivendolo Ricciotti, accorso dai mercati generali; il professore di  storia dell’arte del liceo classico “Visconti”, Raffaele Persichetti,  prima medaglia d’oro della Resistenza. Uomini, donne e ragazzi  combatterono  con i superstiti dei “Granatieri di Sardegna”, i Lancieri del battaglione “Genova Cavalleria” e alcuni reparti della divisione “Sassari”. Il generale Giacomo Carboni, comandante del Corpo d’armata motocorazzato, mandò i carabinieri a staccare i manifesti disfattisti, che annunciavano trattative con i tedeschi, e diffuse  la notizia dello sbarco degli alleati ad Ostia e dell’arrivo delle divisioni “Ariete “ e “Piave” a Roma. La gente accorse e seguì i rappresentanti dei partiti antifascisti, tra i quali combatterono Luigi Longo, Ugo La Malfa, Sandro Pertini e Bruno Buozzi. I mezzi corazzati tedeschi  segnarono poi la fine della drammatica ed eroica battaglia della Porta San Paolo. A Porta San Paolo, presso la piramide Cestia, nel  quartiere Ostiense è nata la Resistenza italiana.

Tornando a casa a piedi ho attraversato  il Ponte dell’Industria che ricorda altre tristi vicende della nostra storia.

Il 26 marzo 1944 il generale Kurt Maeltzer, comandante  della città di Roma , emise  un’ordinanza con la quale si riduceva da 150 a soli 100 grammi la razione quotidiana di pane per i civili. Così in alcuni quartieri, quali Ostiense, Portuense e Garbatella,  le donne protestarono davanti ai forni, soprattutto quelli che si credeva producessero pane bianco per le truppe di occupazione.

La gente affamata iniziò a ribellarsi: il 1° aprile fu assalito il forno Tosti, nel quartiere Appio, il 6 aprile invece fu bloccato e depredato a Borgo Pio un camion che doveva consegnare il pane alla caserma della Guardia Nazionale Repubblicana.  Il 7 aprile 1944, un venerdì di Pasqua,  sul Ponte  dell’Industria, detto anche “Ponte di ferro” nel quartiere Ostiense, truppe nazifasciste bloccarono dieci donne ,sorprese con pane e farina, e per rappresaglia contro gli assalti ai forni le fucilarono. Le vittime erano Clorinda Falsetti, Italia Ferracci, Esperia Pellegrini, Elvira Ferrante, Eulalia Fiorentino, Elettra Maria Giardini, Concetta Piazza, Assunta Maria Izzi, Arialda Pistolesi, Silvia Loggreolo.  Secondo alcune testimonianze, una delle dieci donne sarebbe stata condotta sotto il ponte e stuprata dai soldati tedeschi e da repubblichini fascisti, prima di essere assassinata con un colpo di pistola alla testa. Oggi una lapide, all’estremità del ponte, ricorda  il triste eccidio del Ponte dell’Industria .

Il 3 maggio 1944 Caterina Martinelli ,come altre donne esasperate dalla fame dopo un inverno di stenti, partecipò all’assalto di un forno nella borgata Tiburtino III. Mentre tornava a casa dai suoi sei figli, con una neonata in braccio e una pagnotta stretta al petto, fu assassinata in strada dai militari della PAI (Polizia Africa Italiana)con una raffica di mitra. La donna cadde sulla figlia, che si salvò ma ebbe la spina dorsale lesionata. Per attenuare il furor di popolo contro i restrittivi provvedimenti e le repressioni, le autorità nazifasciste decisero quindi alcune distribuzioni straordinarie di generi alimentari di prima necessità. Anche Radio Londra elogiò l’operato delle donne romane.

 È doveroso ricordare coloro che hanno reso possibile la liberazione dell’Italia e la nascita della Repubblica democratica.
W il 25 aprile!

“Ho semplicemente lottato per una causa che ho ritenuta santa: quelli che rimarranno si ricordino di me che ho combattuto per preparare la via ad una Italia libera e nuova.” (Lorenzo Viale, anni 27)

 

Da lettere di condannati a morte della Resistenza italiana – 8 settembre 1943-25 aprile 1945 Edizioni Einaudi.

 

Carissima Mamma adorata, e carissimi Fede, papà, Alberto, Stefano, zia e zio, Maria e tutti i miei cari, fra un’ora non sarò più in questo mondo. Mamma mia sii forte come lo sono io. Pensa mamma che tutta la forza viene da te che sei una “Santa”, tutta la tua  vita di dolore e di abnegazione ne è la testimonianza, mamma è il tuo bambino che ti supplica ma che ti dà un comando di moribondo, devi avere tanta, tanta forza, perdi il tuo bambino ma fra non molto te ne verrà restituito un altro, il mio caro fratello Stefano per lui devi vivere, a lui devi dare tutte le premure e le attenzioni che avresti date a me- è dunque un dovere quello che ti chiede il tuo Domenico nella certezza di questa missione che ti resta da compiere che io mi sento forte. È da mezzanotte che io prevengo la mia fine, ora sono le quattro e mezza e me ne viene data notizia, mamma affidati a Fede essa saprà come darti tanta forza. Fede cara ti chiedo perdono fa di esaudire tutti i miei desideri affido a te la mamma.

Da quattro ore, cara mamma non ho fatto che rievocare tutta la mia vita da quando ero bambino ed ora recrimino una cosa sola, tutto il tempo che non ti sono stato vicino, perdonami mamma: dì a papà che non beva più e ti stia più vicino, chiedo perdono anche a lui- mamma non ho una tua fotografia ma la tua visione non mi abbandona un attimo- l’ultimo mio anelito sarà per te, nel tuo nome di mamma vi è tutta la mia vita- se non ho saputo vivere, mamma, so morire, sono sereno perché innocente del motivo che muoio, vai a testa alta e dì pure che il tuo bambino non ha tremato. È quasi ora, perdono a tutti anche agli zii che ti assistano. Ciao mamma, Ciao Fede, papà, Stefano, Alberto, ciao a tutti.

Addio mamma tutto il mio bene a te e a tutti cari baci.

TUTTO È PRONTO. Mamma, mamma.

 

Domenico

 (Domenico  Cane- anni 30, artigiano decoratore. Fucilato il 2 aprile 1944 a Torino per rappresaglia)

  

Mimma cara,

la tua mamma se ne va pensandoti e amandoti, mia creatura adorata, sii buona, studia ed ubbidisci sempre agli zii che t’allevano, amali come fossi io.

Io sono tranquilla. Tu devi dire a tutti i nostri cari parenti, nonna e gli altri, che mi perdonino il dolore che do loro. Non devi piangere né vergognarti per me. Quando sarai grande capirai meglio. Ti chiedo una cosa sola: studia, io ti proteggerò dal cielo.

Abbraccio con il pensiero te e tutti, ricordandovi

la tua infelice mamma

 

(Paola Garelli (Mirka)-  anni 28, pettinatrice. Fucilata il 1°novembre 1944, senza processo, nel fossato della fortezza ex Priamar di Savona)

 

 Costa Volpino, 21 novembre 1944

Caro padre, sorella e cognato,

questo è il mio ultimo saluto e scritto che vi giunge, poiché fra minuti la mia vita sarà spenta, dovrete promettermi di non piangermi perché vano.

Sono contento che tra poco rivedrò la nostra cara mamma, e sarei contento di rimanervi sempre con lei.

Un saluto ancora e che questo vi giunga in segno di vittoria e di libertà per tutti gli italiani. Muoio per l’Italia!

Una stretta di mano e un bacio a te babbo, a te sorella e a te cognato e baci ai tuoi bambini. Tanti saluti a chi domanderanno di me. Arrivederci in cielo.

W l’Italia martoriata che presto rifiorirà libera e indipendente.

Andrea

 (Andrea Caslini -Rocco- anni 23, falegname. Fucilato il 21 novembre 1944 al cimitero di Costa Volpino (Bergamo)

 Carissima mamma. Ti scrivo queste mie ultime prole dalla mia cella dove ho trascorso le mie ultime ore contento e rassegnandomi di morire pensando sempre a te ed al mio piccolo nipotino e la mia sorellina, quando tornerai alla nostra bella  Napoli mi bacerai tanto papà e gli dirai che sono morto per l’Italia.

Cara mamma mi perdonerai per i dispiaceri che ti ho dato perché se ascoltavo le tue parole restavo vicino a te: ma Gesù ha voluto così, forse chi sa se il mio fratellino vuole che lo raggiunga lassù. Come tu pregavi per Lui così pregherai per me.

Finisco di scriverti pensando sempre a te fino alla fine, ed al mio nipotino ed alla mia sorella. Mi bacerai de Michele e gli dirai di fare le mie veci (quelle che non ho potuto fare io).

Ti bacio per sempre tuo figlio.

Salutami tutti.

 

Paolo Lomasto

 

(Paolo Lomasto-17anni, nato a Napoli. Non si conoscono le circostanze per le quali si trovò ad unirsi alle formazioni partigiane operanti nella zona di Pinerolo (Torino)

 

 12 luglio 1944

Mammina e Anne care,

è l’ultima lettera che vi scrivo. Tra poco non sarò più.Non nego che ci soffro, è umano.

Ma ho la precisa coscienza di essermi sempre comportato da buon italiano e buon figlio.mammina e te Anna eravate  e siete le persone che ho amato di più.

Vi sono vicino tanto tanto tanto.

Anna cara, sta vicino alla Mamma che avrà solo più te.

Era destino.

Ma di fronte ad esso bisogna che voi viviate.

Ho vissuto pure io per voi, per un ideale di libertà e di giustizia.

Non ho mai fatto male ad alcuno.

Sento ora come mai che vi voglio bene, tanto bene e sono in piedi.

Vostro per sempre.

 

Paolo

 

(Paolo Vasario-Diano- 33anni, tenente medico dell’esercito diventa poi medico partigiano nella 105a Brigata Garibaldi “C. Pisacane”. Fucilato  il 12 luglio 1944 da soldati tedeschi nel campo di aviazione di Airasca)

Sono Portentosi Questi Romani (2766 ° Natale di Roma)

Oggi Roma ha festeggiato il suo 2766° anno dalla fondazione che si fa risalire al 21 aprile del 753 a. C , quando  Romolo tracciò il solco del perimetro della città sulle pendici del Palatino. Lo storico Marco Terenzio  Varrone e l’astrologo Lucio Taruzio furono i primi a definire approssimativamente  le origini della città, che però in seguito si fecero coincidere con i festeggiamenti dei Palilia del 21 aprile. Tra storia e leggenda per secoli si è festeggiato il Natale di Roma, caduto in disuso dopo il crollo dell’Impero , recuperato poi dalla breve  Repubblica Romana del Risorgimento e dal fascismo. 

Anche quest’anno  una serie di mostre, visite guidate, manifestazioni e spettacoli serali  sul Natale di Roma  hanno voluto rendere omaggio alla Città eterna. Non potevo perdermi il corteo di ben 2000 figuranti di oltre sessanta  associazioni,  provenienti da 12 paesi europei, che  hanno rievocato e fatto rivivere i fasti della Roma imperiale.  Centurioni  e soldati di ogni parte del vasto Impero Romano, matrone, cortigiane, danzatrici, vestali, la dea Roma, sacerdoti, senatori, pretoriani, gladiatori si sono riuniti nel Circo Massimo per attraversare la città passando davanti   al Colosseo. 

 

L’anno scorso è stato interessante , a mio parere, lo scambio di doni tra  il Gruppo storico romano e  il sindaco Alemanno: il gruppo ricevette  una medaglia del Natale di Roma, dedicata  alla battaglia di Ponte Milvio di circa 1700 anni fa, e offrì al  sindaco ampolle piene d’acqua dei fiumi e dei mari d’ Italia e di  terra dei luoghi più significativi della penisola.  Quest’anno ha ricevuto una medaglia dal Presidente della Repubblica per la meritevole rievocazione storica  che, attraverso una fedele riproduzione  di  usi e costumi,   coinvolge gente di varia età e provenienza per  celebrare  Roma , caput mundi.  Oggi ci basta riconoscerla capitale d’Italia e centro delle istituzioni repubblicane . 😉

 

Il significato e la tradizione delle uova di Pasqua

In tutto il mondo, ormai, l’uovo è il simbolo della Pasqua. Da sempre le uova sono il simbolo della vita che nasce, ma anche del mistero, quasi della sacralità.

In alcune credenze pagane il Cielo e la Terra venivano concepiti come due metà dello stesso uovo. Greci, Cinesi e Persiani usavano scambiarsi uova di gallina come doni per le feste primaverili, così come nell’antico Egitto le uova decorate erano regalate all’equinozio di primavera.

Con l’avvento del Cristianesimo, l’uovo si legò all’immagine della rinascita non solo della natura ma dell’uomo stesso, e di Cristo. Nel Medioevo le uova venivano regalate ai bambini e alla servitù per festeggiare la Resurrezione. Ancora oggi, in Germania e in Francia, vengono nascoste le uova nei giardini per poi invitare i bambini a trovarle. Nei Paesi Scandinavi le uova sono oggetto di giochi di abilità e assumono valenze particolari come, per esempio, andare in chiesa con in tasca un uovo nato il Giovedì Santo aiuterebbe addirittura  a smascherare le streghe.

 In occasione della ricorrenza dei morti, celebrata il venerdì successivo al giorno di Pasqua, gli ortodossi usano ancora colorare le uova di rosso e metterle sopra le tombe, quale augurio per la vita ultraterrena. Pare che questa tradizione sia legata a una leggenda su Maria. Si narra che la Madonna facesse giocare Gesù Bambino con delle uova colorate e che il giorno di Pasqua, tornata sul sepolcro del Figlio, vi trovasse alcune uova rosse sul ciglio. Si racconta, anche, che Maria Maddalena si presentasse all’imperatore Tiberio per regalargli un uovo dal guscio rosso, testimonianza della Resurrezione di Gesù e che Maria, Madre del Cristo, portasse in omaggio a Ponzio Pilato un cesto dorato pieno di uova per implorare la liberazione del Figlio.

 Già nei libri contabili di Edoardo I di Inghilterra si fa menzione di una spesa di 18 p. per 450 uova rivestite d’oro e decorate, da donare come regalo di Pasqua. Tra le più celebri uova sono sicuramente quelle realizzate da Peter Carl Fabergé.

Nel 1885 il   maestro orafo  russo, su commissione dello zar Alessandro III di Russia , realizzò un uovo di platino contenente preziosissime sorprese per la zarina Maria Fyodorovna. Nominato gioielliere di corte,  Fabergé divenne  famoso per la sfarzosa e originale  produzione di uova pasquali ma anche per l’idea della sorpresa interna all’uovo. 

Oggi permane la tradizione pasquale  di donare uova: vere ,come gallina le ha fatte J , oppure sode , dipinte o di cioccolata. Sono l’augurio di vita rinnovata, un dolce auspicio con  piacevoli sorprese, ma soprattutto un segno di amicizia e amore.

Auguri di  Buona Pasqua !  :)

 

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Donne del Risorgimento: Anita Garibaldi

Il Gianicolo è un parco pubblico molto suggestivo sia  perché offre dall’alto una splendida veduta di Roma, sia perché è un  luogo della memoria, che nei grandi monumenti equestri di  Giuseppe e di Anita Garibaldi, negli 84  busti e nelle quattro  stele dedicati ai combattenti garibaldini, provenienti da ogni parte d’Italia , ricorda la strenua difesa della breve Repubblica Romana tra l’ aprile e il luglio del 1849.

Il monumento celebrativo di Anita Garibaldi , realizzato da Mario Rutelli ed inaugurato nel 1932, custodisce le ceneri di Ana Maria de Jesus Ribeiro da Silva, universalmente  nota come Anita Garibaldi (Morrinhos, 30 agosto 1821- Mandriole di Ravenna 4 agosto 1849).

 Anita stringe tra le braccia un bambino, molto probabilmente Menotti, il figlio appena nato, portato in salvo dalla madre che di notte scappò a cavallo per sottrarsi alle violente  truppe imperiali giunte a  San Simon nel 1840 .Garibaldi, che l’aveva lasciata a casa di amici per cercare vesti per lei e il piccolo, la ritrovò nella foresta mentre allattava il primogenito.  

Anita, l’unica donna veramente amata da Garibaldi, a diciotto  anni divenne la sua inseparabile compagna , condividendo fino alla fine una vita avventurosa e difficile tra stenti, rinunce e sacrifici, ideali e battaglie per terra e per mare, sia in Sud America che in Italia. È passata  meritoriamente alla storia come l’Eroina dei due mondi, emblema della donna combattente e leggenda vivente del Risorgimento Italiano.   

Da Garibaldi ebbe quattro figli:  Menotti (1840), Rosita (1843) morta all’età di due anni, Teresita (1845) e Ricciotti (1847) . Di umili origini, sin da ragazzina mostrò un carattere indomito, forte e determinato. Alta, fiera, dai grandi occhi scuri conobbe e  conquistò il cuore di Garibaldi nel1839 a Laguna, piccola città a sud del Brasile durante le lotte sudamericane per l’indipendenza repubblicana. Una giovane donna  “ il cui coraggio io mi sarei desiderato tante volte”- come scrisse di lei il marito  nelle Memorie autobiografiche- e che Anita mostrò   nella strenua difesa della breve Repubblica Romana. 

Dopo la resa di Roma  Garibaldi , con l’inseparabile Anita  e i suoi compagni, compì un disperato viaggio verso Venezia che ancora resisteva agli Austriaci. Sperava di  accendere l’insurrezione nell’Italia centrale ma, inseguito da truppe francesi, pontificie e poi austriache, nel luglio del 1849  si diresse verso la repubblica di San Marino.

 

Nelle sue “ Memorie” descrisse con   un’analisi umanamente schietta la criticità  del momento, le condizioni disperate di Anita, incinta di sei mesi,  e  la viltà dei  disertori “ codardi nell’ abbandonare vilmente la causa santa del loro paese, essi naturalmente scendevano ad atti osceni e crudeli cogli abitanti. Ciò sommamente mi straziava, peggiorava ed umiliava non poco la già sventurata posizione nostra! Come potevo io mandare dietro a quelle scellerate masnade, attorniato come mi trovavo dai nemici! Alcuni colti in flagrante erano fucilati;ma ciò poco rimediava,andando la maggior parte impuniti. La situazione divenuta disperata, io cercai d’arrivare a S. Marino.Avvicinatomi alla sede di quelli eccellenti Repubblicani, giunsemi una loro deputazione, ed avvendone avuto notizie, mi avvicinai per conferire con essa. E mentre io mi trovavo conferendo colla deputazione di S. Marino, un corpo di Austriaci comparì alla nostra retroguardia e vi cagionò confusione tale, che tutti presero a fuggire quasi senza veder nemici, almeno la maggior parte.Avvertito di tal contrattempo, retrocessi, trovai la gente fuggendo, e la mia valorosa Anita, che col colonnello Forbes facevano ogni sforzo per trattenere i fuggenti. Quella incomparabile donna incapace di qualunque timore aveva lo sdegno dipinto sul volto e non poteva darsi pace di tanto spavento in uomini che poco prima s’eran battuti valorosamente….”Giunti a S. Marino Garibaldi  scrisse su un gradino d’una chiesa al di fuori della città l’ordine del giorno:“ Militi, io vi sciolgo dall’ impegno d’accompagnarmi. Tornate alle vostre case;ma ricordatevi che l’Italia non deve rimanere nel servaggio, e nella vergogna!”  Dei circa 4000 uomini, partiti da Roma, rimasero solo 200 seguaci  coi quali  giunse a Cesenatico per poi imbarcarsi  su barche da pesca ( bragozzi)  alla volta di  Venezia. “Per parte mia, però, non avendo idea di depor le armi, con un pugno di compagni, io sapevo non impossibile aprirsi strada e guadagnar Venezia. E così s’era deciso. Un carissimo e ben doloroso impiccio era la mia Anita, avanzata in gravidanza, ed inferma. Io la supplicavo di rimanere in quella terra di rifugio( San Marino) , ove un asil almeno per lei poteva credersi assicurato, ed ove gli abitanti ci avevan mostrato molta amorevolezza. Invano! Quel cuore virile e generoso si sdegnava a qualunque delle mie ammonizioni su tale assunto, e m’imponeva silenzio, colle parole: “ tu vuoi lasciarmi”.   Gli Austriaci scorsero i  garibaldini e iniziarono a sparare da lontano cannonate e razzi.

“Io lascio pensare qual era la mia posizione in quei sciagurati momenti. La donna mia infelice, moribonda! Il nemico perseguendo dal mare, con quella alacrità che dà una vittoria facile. Aprodando ad una costa, ove tutte le probabilità di trovarvi altri, e numerosi nemici, non solamente Austriaci, ma papalini, allora in fiera reazione. Comunque fosse, noi aprodammo. Io presi la mia preziosa compagna nelle braccia, sbarcai e la deposi  sulla sponda. Dissi ai miei compagni, che collo sguardo mi chiedevano ciocchè dovevano fare:d’incamminarsi alla spicciolata, e di cercar rifugio, ove potrebbero trovarlo. In ogni modo d’allontanarsi dal punto ove ci trovavamo, essendo imminente l’arrivo dei palischermi nemici. Per [me] esser impossibile seguitar oltre, non potendo abbandonare mia moglie moribonda… 

Io rimasi nella vicinanza del mare in un campo di melica, colla mia Anita, e col tenente Leggiero, indivisibile mio compagno….Le ultime parole della donna del mio cuore erano state per i suoi figli! Ch’essa presentì di non poter più rivedere!” 

 Il tenente Leggero  andò in cerca di aiuto e tornò col colonnello Nino Bonnet, uno degli ufficiali più valorosi che, ferito a Roma nell’assedio, si era ritirato a casa, in quel di Comacchio, per curarsi. Egli propose di avvicinarsi ad una casupola  nelle vicinanze .Qui povera gente offrì acqua e primo soccorso ad Anita. Poi Garibaldi e i compagni trasportarono la donna in casa della sorella di Bonnet ed infine alla Mandriola per trovare un medico. “Guardate di salvare questa donna”!-  raccomandò al dottore ma “Nel posare la mia donna in letto, mi sembrò di scoprire sul suo volto, la fisionomia della morte. Le presi il polzo…più non batteva! Avevo davanti a me la madre de’ miei figli, ch’io tanto amava! Cadavere!…Io piansi amaramente la perdita  della mia Anita! Di colei che mi fu compagna inseparabile nelle più avventurose circostanze della mia vita!”

 A fatica il fedelissimo Leggero convinse il generale a riprendere la fuga per salvarsi  dalle truppe pontificie e dai soldati austriaci. “Generale, dovete farlo. Per i vostri figli, per l’Italia…”. Garibaldi raccomandò alla buona gente che lo circondava di seppellire Anita  e s’allontanò.

“Io, conobbi il gran male che feci, il dì, in cui sperando ancora di rivederla in vita io, stringeva il polso d’un cadavere: e piangevo il pianto della disperazione! Io, errai grandemente ed errai solo!”. 

Queste parole  sigillano un profondo rimorso, non spiegato, forse per avere cambiato la vita di quell’intrepida ragazza dai grandi occhi scuri, che a 28 anni è entrata a fare parte della storia come figura esemplare dell’amore romantico e del nostro Risorgimento.

 

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Le donne del Risorgimento

Donne del Risorgimento: Rose Montmasson e Giuditta Tavani Arquati

Donne del Risorgimento: Rose Montmasson e Giuditta Tavani Arquati

Il Risorgimento è stato un processo storico  complesso, un  intrigo di diplomazia  e  di alleanze, un’illuminazione  di ideali liberali che contagiò gli intellettuali, una partecipazione di  masse conquistate  dalla speranza di cambiamento e poi in parte disilluse. Tante sono le interpretazioni del Risorgimento, ma  certamente  ci fu una generale intraprendenza di tanti giovani che osarono combattere per ció in cui credevano. 

L’ideale di un’unica Italia, libera dagli stranieri, mosse i cuori e armò  le braccia, infervorò gli animi come la bella Gigogin quello del giovane  Mameli.

In occasione delle celebrazioni ufficiali per i 150 anni dell’unitá d’Italia sul  monumento commemorativo di Mameli, reso immortale dai versi del nostro inno nazionale,  c’erano fiori e corone, ma il cimitero monumentale del Verano  a Roma  custodisce le spoglie di altri patrioti e patriote, tra i quali non posso tralasciare  Rose Montmasson, piú nota come Rosalia Montmasson Crispi, l’unica donna che partecipò alla spedizione dei Mille.

 Rose Montmasson (1823-1904) , originaria della Savoia, giunse a Torino nel 1849 dove inizió a lavorare come lavandaia e stiratrice. Qui conobbe Francesco Crispi, un giovane rivoluzionario, esule in Piemonte dopo il fallimento dei moti rivoluzionari siciliani del 1848. Rose condivise col suo uomo una vita avventurosa. Prima lo seguì in esilio in Piemonte e a Malta, dove si sposarono, poi a Parigi ove rimasero finché non furono accusati di complotto con Felice Orsini, ed infine a Londra ove, nuovamente in fuga, raggiunsero Mazzini. Rientrati in Italia nel 1859, collaborarono per la realizzazione dello sbarco in Sicilia. Rose si recó con un vapore postale in Sicilia e a Malta per avvisare della spedizione dei Mille i patrioti siciliani e i rifugiati. Fece in tempo a rientrare a Genova e, contro la volontá  del marito, travestita da uomo s’imbarcó con le camicie rosse a Quarto.

Durante la battaglia di Calatafimi s’adopró per portare in salvo e curare i feriti, imbracciando il fucile se necessario. I siciliani la ribattezzarono Rosalia, nome che compare sulla sua lapide. 

Dopo l’unitá d’Italia cambiarono molte cose, anche i sogni. Crispi divenne parlamentare e abbandonó i repubblicani per schierarsi con i monarchici. Ben presto ripudió Rosalia, denunciando   l’irregolaritá del matrimonio, celebrato a Malta  da un prete sospeso a divinis per le sue simpatie patriottiche, e nel 1878 convoló a nuove nozze con Lina Barbagallo, un’aristocratica di Lecce dalla quale, cinque anni prima, aveva avuto una figlia. In effetti  Rosalia  consideró  la scelta politica del consorte un vero e proprio tradimento di quegli ideali che li avevano uniti e per i quali avevano combattuto insieme. Scoppió uno scandalo e  Crispi fu accusato di bigamia. In veritá fu poi assolto, ma non dalla regina Margherita di Savoia  che si rifiutó  di stringergli la mano e gli tolse il saluto.

 Rosalia rimase a Roma dove morí in povertá. La sua salma é in un loculo concesso gratuitamente dal Comune di Roma.

 

Un’altra patriota sepolta al Verano é Giuditta Tavani Arquati (1832-1867) che, incinta del quarto figlio, morí col marito , con il figlio dodicenne Antonio e altri cospiratori durante il massacro nel lanificio Ajani a Trastevere. La tentata insurrezione contro il governo di  Pio IX e  la mancata rivolta del popolo romano contro il Papa Re  anticiparono la disfatta garibaldina di Mentana del 1867. In effetti la vera unitá d’Italia si ebbe nel 1870 quando la breccia di porta Pia segnó la fine dello Stato pontificio.

Due anni fa ho celebrato e festeggiato il 150 ˚ dell’Unitá d’Italia  non solo con un tricolore esposto sul balcone, ma ho voluto ringraziare idealmente nel cimitero del Verano tutti coloro, e sono davvero tanti, che hanno contribuito alla storia e alla cultura dell’Italia. Dopo avere girovagato a lungo e letto  centinaia di lapidi (ahimé non basta la mappa), mi sono emozionata dinanzi al piccolo ritratto di Rosalia, l’ umile lavandaia che divenne un’intrepida patriota. In Via della Lungaretta 97 a Trastevere ho invece  scovato una targa e un busto che  ricordano  Giuditta Tavani Arquati, divenuta  il simbolo della lotta per la liberazione di Roma.

 

 

 Rosalia Montmasson e Giuditta Tavani Arquati sono due protagoniste del Risorgimento italiano, che sfidarono i tempi e i costumi con scelte di vita che  all’epoca dovevavo apparire- a dir poco-  inusuali. Entrambe tradite, piú che dalle dinamiche del cuore e del potere, soprattutto dalla storia… una storia che ancora oggi, a mio parere, risulta scritta e interpretata  dagli  uomini.

 

Le donne del Risorgimento

In occasione del 152° anniversario dell’Unità d’Italia riprendo post a me cari , scritti in occasione del 150°,  per ricordare  personaggi, a volte poco noti, del nostro Risorgimento.

 “Il Risorgimento delle donne. Da icona del patriottismo a patriota” è  un bellissimo  filmato  didattico realizzato da  Annalisa Costagli e Giacomo Verde che attraverso la pittura, scritti e foto hanno documentato la presenza attiva e  il contributo delle donne, di diversa estrazione socio-culturale, all’unità e all’indipendenza dell’Italia, alle prime forme di democrazia e alle pari dignità dei sessi.

 Protagoniste poco conosciute del Risorgimento, le donne operarono senza visibilità né  riconoscimento di ruoli politici, promuovendo nei salotti il  fermento intellettuale dell’epoca , partecipando alla lotta risorgimentale come combattenti e assistenti dei feriti, continuando a lavorare nei campi o in casa, in attesa di lettere o notizie dei familiari lontani.

In occasione della celebrazione dell’Unità d’Italia  è doveroso ricordare anche questo aspetto della storia italiana   perché come scrisse  Cristina Trivulzio di Belgiojoso nel 1866

 

“Vogliano le donne felici ed onorate dei tempi avvenire rivolgere tratto tratto il pensiero ai dolori ed alle umiliazioni delle donne che le precedettero nella vita, e ricordare con qualche gratitudine i nomi di quelle che loro apersero e prepararono la via alla non mai prima goduta, forse appena sognata, felicità!”

 Qui il link per “Il Risorgimento delle donne. Da icona del patriottismo a patriota”

 Buona visione!

Rione Sanità- le catacombe di Napoli

 

Ai piedi della collina di Capodimonte si  estende il rione Sanità, un noto quartiere popolare di Napoli che nel 1898 diede i natali a  Totò in Via Santa Maria  Antesaecula e in seguito ha ispirato trame e personaggi di  numerosi film e opere teatrali. Qui hanno abitato popoli provenienti dal Sud e dall’Est del mondo, africani e cinesi, e sono passati  nobili, papi, re e cardinali. Qui è molto forte il senso di appartenenza ai vicoli, ai palazzi, agli usi e costumi, ai riti sacri e profani dettati dalla religione e dalla magia.

Napoli ha un cuore e un ventre, in cui è  dislocato un patrimonio nascosto, archeologico e artistico, da scoprire attraverso una stratigrafia che s’addentra  nelle viscere della terra.

L’invisibile Napoli sotterranea si articola  in un labirinto di cunicoli, pozzi e cisterne, ipogei e cave greche, catacombe,  gallerie di epoca romana, ossari e tombe scavati nel tufo. È una città oscura, luogo di passaggio e tramite tra il mondo conosciuto e quello sconosciuto e silenzioso  dell’Oltretomba,  dove si confondono storia e leggende, fede e superstizione. Un  mondo sommerso col quale i napoletani  si conciliano per esorcizzare la paura della morte e, seppur limitatamente ancor oggi, si alleano offrendo preghiere e cure ad ignoti defunti, anime pezzentelle del Purgatorio, in cambio di grazie e favori,  quali una guarigione, un matrimonio o numeri vincenti al lotto nella speranza di ingraziarsi la buona sorte per sopravvivere ad un’esistenza complicata, ad un atavico  destino reso avverso dalle epidemie di peste e colera, dalle alluvioni e terremoti, dalle dominazioni del dio o del potente di turno accettati con fatalistica rassegnazione.

Un universo buio, lugubre, sospeso in un sonno eterno, che porta al nulla o a qualcosa, ove si smarriscono le coordinate di spazio e tempo.

 Napoli è simbiosi di vita e di morte, entrambe celebrate e consacrate attraverso funzioni, devozioni e rituali  che confluiscono nel radicato culto dei morti.

I sepolcri più antichi sono gli ipogei greci della Sanità e dei Vergini, situati a  10-11 metri di profondità dal livello della strada.  Le necropoli risalgono al IV e II secolo a. C. e sono ricche di sarcofagi dipinti e scolpiti che ricordano le tombe anatoliche, macedoni ed alessandrine. Per lungo tempo rimasero sepolte  dalla “lava”, cioè dal fiume alluvionale di detriti e fango che fino agli anni ’60 ha  afflitto questa zona.  In effetti sin dal tempo dei greci si estraeva il tufo , impiegato per le costruzioni,  dando così  luogo a  immense grotte e cavità. Prima ancora che le cave di tufo fossero adibite ad ossari , le famiglie dell’aristocrazia greco-napoletana, che fuse elementi greci e sanniti, vi costruirono  eleganti sepolcri. Da qui il nome di “Valle delle tombe”. Nelle stesse aree sotterranee  dagli ipogei si è poi passati nel II secolo alle catacombe paleocristiane di San Gennaro, San Gaudioso e San Severo, che prendono nome dalle spoglie dei martiri.

Nelle vicinanze del santuario della Madonna del Buon Consiglio (zona di Capodimonte) si estende il vasto complesso cimiteriale delle catacombe di San Gennaro, nate tra il II e IV secolo  e articolate  su due piani e in più corridoi, a differenza di quelle romane. Divennero luogo religioso e di sepoltura quando accolsero i resti del vescovo Agrippino e nel V secolo furono dedicate a San Gennaro , il cui corpo pare sia stato collocato qui per lunghissimo tempo. Oltre a reperti e affreschi di interesse artistico sono un luogo suggestivo, cosparso di nicchie e loculi, grandi e piccoli. Pare che vicino al santo potessero riposare solo i puri di cuore, quali i bambini, e questo spiega la presenza di piccoli loculi sulle pareti. 

Fino all’XI secolo vi furono sepolti i vescovi napoletani, subirono saccheggi tra il XIII e XVIII secolo e infine furono  restaurate dopo il trasferimento dell’ossario nel Cimitero delle Fontanelle.

Dopo circa 40 anni di chiusura ora sono state riaperte al pubblico e vi si accede o dalla collina di Capodimonte, a fianco della  chiesa della Madre del Buon Consiglio, o  dalla Basilica di San Gennaro fuori le mura, situata all’interno dall’ospedale di San Gennaro dei Poveri nel rione Sanità.

 

L’intero quartiere Sanità è dominato dalla cupola della Basilica di Santa Maria della Sanità, rivestita di  maioliche smaltate gialle e verdi . Fu costruita dai  Domenicani  tra il 1602 e il 1613 , su progetto di Giuseppe Donzelli detto Fra Nuvolo. E’ nota come la chiesa di San Vincenzo,detto o’ Munacone in onore del domenicano Vincenzo Ferreri,  uno dei tanti santi protettori della città. Una sontuosa scala a tenaglia, che porta all’altare maggiore, incornicia la cripta dalla quale  si accede alle nascoste catacombe paleocristiane di San Gaudioso, risalenti al V sec. d. C. dove fu sepolto Settimio Celio Gaudioso, vescovo di Abitine, una località non identificata dell’Africa proconsolare.

 La catacomba di San Gaudioso è il secondo cimitero paleocristiano di Napoli per ampiezza e importanza, dopo quello di San Gennaro. Ha subito trasformazioni, per cui è difficile definirne l’estensione o  l’esistenza di locali più antichi di quelli attuali. Fu abbandonato  all’ incirca nell’anno mille e in seguito le “ lave” lo invasero nascondendone l’ingresso.

 

In un’edicola nell’angolo nord della cripta, nel 1579 si scoprì un’immagine della Madonna alla quale iniziarono ben  presto a rivolgersi  alcuni devoti. È la più antica raffigurazione mariana dell’arte paleocristiana di Napoli, forse del V o VI secolo. La pittura è quasi svanita e la si nota osservandola da lontano: la Madonna, seduta e velata,  ha in braccio il Bambino che stende il braccio destro spiegando le prime tre dita della mano quasi per benedire o indicarela Trinità, mentre la mano sinistra è sul globo sormontato dalla croce e appoggiato sul ginocchio della madre. A questa Madonna si attribuirono una serie di miracoli e divenne oggetto di culto popolare e meta di pellegrinaggi. Un frate domenicano, Antonino da Camerota, in poco tempo raccolse elemosine per  costruire una chiesa in onore della Vergine. Fu accusato di superstizione, idolatria, raggiro ed estorsione di denaro  ma il processo fu insabbiato e nel 1581 il frate fu scarcerato e riabilitato. Ripresero i lavori di costruzione della chiesa che fu ultimata in pochi anni.

Caratteristica  delle catacombe di San Gaudioso sono le nicchie a forma di sedile, dette “cantarelle” che  servivano per una particolare tecnica di inumazione : il morto veniva sistemato nella nicchia dotata di  un vaso a due manici sottoposto e ricavato nel tufo ( da kantharos , coppa greca a calice con due anse,  da cui cantaro che nelle basiliche cristiane era la vasca per le abluzioni e da cui è derivato più prosaicamente il vocabolo napoletano o’ cantaro, cioè il vaso da notte). Il defunto veniva messo a “scolare”  fino alla decomposizione, così poi i suoi resti venivano deposti in un ossario comune o in una tomba privata .Si pensa che gli “schiatta muort”  in origine fossero coloro incaricati di incastrare i defunti in questi sedili  e dalle cantarelle sia derivato l’imprecazione napoletana “Puozze sculà!”,  che di fatto è un pessimo augurio. 

Sulle pareti dei cunicoli ci sono dipinti del VI secolo  e particolari effigi funerarie  del XVII  secolo: sotto i teschi veri, incorporati nel muro nel Seicento, i corpi venivano dipinti  con le vesti e i simboli del rango del defunto. Ai lati del cranio si segnavano le iniziali del nome e cognome del defunto, accompagnati da una citazione biblica. Qui trovarono sepoltura frati domenicani e aristocratici come il magistrato Diego Longobardo, morto nel 1632, le nobildonne Maria De Ponte e la principessa di Montesarchio Sveva Gesualda. Uomini e donne erano separati anche nella sepoltura eccetto due personaggi  le cui mani si intrecciano sui rispettivi cuori. Una credenza popolare vuole siano gli sposi  che morirono di crepacuore alla vista del fantasma del Capitano spagnolo, ossequiato da lei e offeso da lui nel Cimitero delle Fontanelle, che si presentò alle nozze.

Unico “ borghese” dipinto  è il pittore Giovanni Balducci, al quale si attribuiscono gli affreschi delle catacombe, il cui nome compare per esteso e viene raffigurato con una riga nella mano destra e una tavolozza nella sinistra. 

La morte domina sul tempo, che scorre inesorabile come la sabbia nella clessidra, e sull’ effimero potere dei mortali rappresentato dalla corona e dallo scettro. 

A Napoli si dice “ Basta a’ salute, tira a’ campà” perché  in fondo “a tutto c’è rimedio, tranne alla morte”. Saggezza popolare che spiega l’inconfondibile  vitalità e ilarità partenopea maturata  tenendo gli occhi aperti anche nelle tenebre, dove lo sguardo guarisce dagli affanni del mondo.

 

“Sono nato in Rione Sanità, il più famoso di Napoli.

La domenica pomeriggio le famiglie napoletane usavano riunirsi nelle case dell’una o dell’altra, e là chi suonava la chitarra, chi diceva la poesia, e chi cantava. I giovanotti guardavano le ragazze, gli tenevano la mano, si innamoravano”

 

 Il Principe Antonio De Curtis, in arte Totò

 

La lunga e incerta storia della pizza

E chi l’avrebbe mai detto che la pizza si ricollega alla guerra tra il bene e il male nell’antica mitologia greca? Quando  il dio delle tenebre Ade rapì la bella Persefone, figlia di Cerere, la dea afflitta  iniziò a cercarla e giunse in  incognito ad Eleusi. Qui il re Celeo e sua moglie Metanira piangevano per la triste sorte del loro  figlioletto Trittolemo che stava per morire perché privo del latte materno. Cerere donò  forza, vigore e immortalità  al piccolo per ricambiare dell’ospitalità ricevuta e, quando Metanira  le offrì una coppa di dolcissimo vino, chiese una bevanda fatta di farina e acqua aromatizzata con basilico.

 Pare che nel corso dei secoli questi ingredienti siano stati usati in dosi diverse e, con l’aggiunta di olio, abbiano poi dato origine alla plax , una sorta di focaccia.

Nell’antico Egitto si usava festeggiare il compleanno del faraone consumando una schiacciata condita con erbe aromatiche; nell’antica Grecia schiacciate e una sorta di focaccia di farina d’orzo, la cosiddetta maza, erano alimenti molto diffusi, come  nell’antica Roma focacce lievitate e non, tra le quali la placenta e l’offa impastata con acqua e farro. Proprio nelle botteghe di via dell’Abbondanza a Pompei furono scoperte scodelle per il cacio e la cuccuma per l’olio e addirittura una statuina del « placentario » conservata nel museo archeologico di Napoli. 

 In verità la pizza ha una lunga, complessa e incerta storia. La parola “pizza” risale al latino volgare di Gaeta nel 997 e di Penne nel 1200; nel ‘500 a Napoli si chiamava “ pizza” un pane schiacciato, dalla storpiatura della parola “pitta”. Tra il Cinquecento e il Seicento a Napoli si faceva una pizza soffice “alla mastunicola”, preparata con strutto, formaggio, basilico e pepe,  più tardi quella con i “cecenielli”, cioè bianchetti; mentre fu condita con il pomodoro forse a metà Settecento.

Più controverso ancora è l’arrivo dei bufali in Italia:per alcuni essi furono  importati  dall’Africa dai Romani e si ambientarono facilmente nella piana del Volturno e del Sele, per altri furono portati dai saraceni ma solo i longobardi li sfruttarono al meglio. Il pomodoro sbarcò a Napoli solo dopo la scoperta dell’America e presumibilmente nel 1550, in cucina anni dopo.

Sulle origini della pizza esistono diverse versioni, a volte un po’ fantasiose. In verità la pizza non ha un’unica paternità: si sa che è nata a Napoli dalle esperienze trasmesse di porta in porta, di vicolo in vicolo. Nel ‘700 la pizza veniva cotta in forni a legna per essere quindi venduta nelle strade e nei vicoli della città: un garzone di bottega, che portava in equilibrio sul capo una piccola stufa, consegnava a domicilio le pizze variamente condite, preannunciando il proprio arrivo con versi e richiami tipici. Tra il ‘700 e l’800 la pizza diventò un alimento largamente diffuso e apprezzato e quindi si affermò sempre più l’abitudine di gustarla presso i forni oltre che per strada o in casa. Nacquero quindi le pizzerie ove si cimentarono dinastie di pizzaioli. 

Prime notizie documentate sulle pizzerie risalgono alla fine del 1700: nel 1762 esisteva a Napoli, nella salita di santa Teresa degli Scalzi,  la pizzeria di “Ntuono Testa” frequentata anche dai  re Ferdinando I e Ferdinando II di Borbone.

Nel 1780 sorse nella salita S.Anna di Palazzo  la pizzeria “Pietro e Basta Così”, divenuta poi pizzeria Brandi , che ancora oggi è  una delle più famose pizzerie della città. Si trovava di fronte al palazzo Reale e da qui il cuoco Raffaele Esposito guardava spesso il tricolore con lo stemma sabaudo che sul balcone del palazzo informava della presenza dei reali. Il pizzaiolo, come l’intera città, si sentiva onorato della nascita del  piccolo Vittorio Emanuele III a Napoli ,voluta dal re Vittorio Emanuele II, e così decise di fare un dono alla regina Margherita  mettendo a frutto  la sua creatività gastronomica. Ispirato dai colori  del tricolore pensò di usare  il verde basilico, la bianca mozzarella e il rosso pomodoro  per condire  una pizza patriottica  alla quale diede il nome di  Margherita in onore della prima regina d’Italia.

Nel giugno del 1889 il pizzaiolo fu invitato alla reggia di Capodimonte perché preparasse le sue famose pizze alla regina che desiderava qualcosa di  nuovo. Una splendida occasione per fare conoscere la sua pizza margherita. Don Raffaele con la moglie Maria Giovanna Brandi si recò alla reggia su un carretto trainato da un asinello portando tutto il necessario per la sua nuova specialità. Preparò tre pizze: una bianca, con olio, formaggio e basilico, una con i cecenielle (pesciolini) e infine  una con mozzarella, pomodoro e basilico.

Tra lo stupore dei cuochi, inebriati dal profumo dei semplici e comuni ingredienti, la regina gradì molto la pizza tricolore, che in suo onore fu battezzata pizza margherita. Questa ottenne un certificato d’onore e ancor oggi la pizzeria Brandi in via Chiaia espone un documento firmato da Camillo Galli, capo dei servizi di tavola della reale casa dei Savoia, ove si attesta il merito della famosa pizza margherita.

 La più semplice e gustosa delle pizze, destinata a entrare nella tradizione culinaria di Napoli, nata per sopperire alla cronica fame del popolo napoletano conquistò ben presto una fama mondiale.

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