Il Carnevale a Napoli ovvero come le allegre usanze dai salotti sconfinarono nelle piazze.

La festa di Carnevale ha radici molto antiche, che si diramano un po’ ovunque, sia in Italia che all’estero.

A Napoli il 17 gennaio segnava l’ingresso del Carnevale e, in occasione della festa di Sant’Antonio Abate, si dava fuoco- pratica molto diffusa- a cataste di roba vecchia ( i cippi).Al più comune Carnevale, immaginato come un personaggio grasso e dedito a grandi abbuffate , si affiancava la “ Vecchia ‘o Carnevale”, dalle giovani e prorompenti curve, che trasportava a cavalcioni o sulla gobba un piccolo Pulcinella.

 Giovan Battista del Tufo racconta le tradizioni carnevalesche di Napoli in “Ritratto o modello delle grandezze, delle letizie e meraviglie della nobilissima città di Napoli”. All’epoca degli aragonesi il Carnevale era sontuosamente festeggiato dai nobili che ambivano gareggiare in tornei e giostre e partecipare a  grandiosi ricevimenti, indossando sfarzosi costumi e fulgide armature. Nel XVI secolo il gaudente popolo partenopeo si appropriò di questa festa, inscenando sguaiati canti e rappresentazioni in maschera lungo Via Toledo e nel Largo di Palazzo (l’attuale piazza Plebiscito). La festa, sovvenzionata dai nobili che vi si intrufolavano volentieri, era organizzata dalle Corporazioni delle Arti e mestieri. Ben presto l’allegra usanza di mascherarsi  scavalcò barriere sociali e sconfinò nelle strade e nelle piazze. Memorabile fu la mascherata promossa dal principe di Tarsia che per le vie della città fece sfilare accanto ai paggi, riccamente vestiti, la corporazione dei pescivendoli ornati di gioielli, prestati dagli orefici in cambio di pesce fresco.

Nel 1656 si allestirono carri allegorici, addobbati anche con prodotti mangerecci. Usanza molto gradita che si perpetrò negli anni successivi, grazie alla generosità del re e delle Corporazioni. I carri – cuccagna, che accompagnavano le cavalcate e le quadriglie dei baroni, dei cavalieri e delle Corporazioni delle Arti, venivano poi presi d’assalto dal sempre affamato popolo napoletano. Le maschere al seguito dei carri si esibivano in cartelli carnevaleschi propri, cioè canzoni dialettali scritte su pezzi di carta o di stoffa che scherzosamente decantavano le attività e i  prodotti delle corporazioni e infine venivano lanciati al pubblico e al re.

 

Poiché a volte il saccheggio dei carri provocò gravissimi incidenti, nel 1746  re Carlo di Borbone stabilì che i carri –cuccagna, invece di attraversare la città, fossero allestiti nel largo di Palazzo e fossero presidiati da truppe armate fino all’inizio dei  festeggiamenti.  I carri furono poi sostituiti da  più stanziali  cuccagne, allestite in sei giorni da una schiera di architetti e artigiani e, addobbate con caciocavalli, prosciutti, pollastri, capretti, quarti di bue, agnelli e vino, venivano poi offerte alla plebe durante le quattro domeniche di Carnevale. Dopo pochi minuti dallo sparo del cannone che dava il via all’arrembaggio, delle cuccagne ovviamente non rimaneva nulla. Nel 1764 ci fu una grave carestia , e la cuccagna fu una tentazione troppo forte per il deperito popolo che quindi assalì i soldati e portò via ogni cosa prima dell’inizio dei festeggiamenti. Si rese necessario l’intervento della cavalleria  per riportare l’ordine dopo un inevitabile spargimento di sangue. Così la cuccagna fu sospesa fino al 1773; l’ultima festa si ebbe nel 1778  con saccheggi e tumulti a volte qualche ora, a volte giorni prima dell’inizio. L’anno dopo la Gazzetta Universale annunciò che l’eletto del popolo D. Ferdinando Lignola aveva deciso di abolire questa forma di divertimento rivelatasi troppo pericolosa. Il re pensò bene di devolvere per il matrimonio di  venti povere ragazze la somma destinata al Carnevale.

  Al tempo dei Borboni la festa era annunciata al popolo con il prolungato suono di grosse conchiglie, dette tofe. E via per le strade si riversavano festosi e baldanzosi cortei che danzavano al ritmo di strani e rumorosi strumenti  detti  ‘o putipù,  ‘o triccaballacche e  ‘o scetavaiasse ( quest’ultimo- come dice il nome-poteva addirittura svegliare le volgari vaiasse, che pare sprofondassero in un sonno ristoratore dopo estenuanti fatiche).Una folla chiassosa di uomini,donne e scugnizzi invadeva ogni luogo, circondava le carrozze e ossequiava con coriandoli e uova piene di farina  i malcapitati nobili o abati. Gli aristocratici quindi si limitavano a lanciare coriandoli e fiori da balconi addobbati a festa. I signori preferivano festeggiare partecipando al ballo e al pranzo nel teatro San Carlo, che veniva trasformato per l’occasione . In verità alcune dame e cavalieri approfittavano del Carnevale per travestirsi e mescolarsi al popolo e poter  compiere, indisturbati, lascive trasgressioni.

Nell’800 l’allegra fantasia carnevalesca straripò in idee e costruzioni originali. Basti ricordare  l’insolita e divertente cavalcata di struzzi, che annunciavano il passaggio dei carri allegorici in Via Toledo, oppure i carri con  il cavallo impennato, simbolo della città, con l’immancabile e sorridente popolana al balcone, o la cornucopia dell’Abbondanza o  la seducente sirena Partenope.

Pian piano i festeggiamenti del Carnevale si ridussero a feste rionali. Su un carro troneggiava un  grasso Carnevale , ornato di provoloni, salsicce e prosciutti . Al seguito sfilavano donne in lacrime per il suo cattivo stato di salute, che recitavano le infelici diagnosi dei medici dei tre rioni più popolari di Napoli ( il Mercato, il Pendino e il Porto)  alle quali si  contrapponevano un generale e buon augurio di lunga vita.

E vui ca l’avite visto st’anno/

lu puzzate vede’a ca a cient’anne

(e voi che l’avete visto quest’anno, possiate vedere da qui  a cent’anni).

Interveniva quindi O’ mast’ e festa ( il maestro della festa) che girovagava per le botteghe per  fare la questua in nome del Carnevale e  racimolare qualcosa come rimborso delle spese sostenute.

 Ormai  del Carnevale è rimasto ben poco, se non le mascherate perlopiù dei bambini, e qualche piatto tipico, come la lasagna e la pizza di Carnevale. Il sanguinaccio, gustosa crema di cioccolata fatta – ahimè- col sangue di maiale,  è stato vietato da recenti norme sanitarie e sostituito dal più comune cacao.

 

 

I bambini nascosti e Irena Sendler

Durante l’Olocausto furono assassinati circa due milioni di bambini. Si stima che circa venti, trentamila bambini di età inferiore ai quattordici anni, tra i quali molti neonati, siano sopravvissuti alla guerra perché affidati dai genitori a persone di buon cuore  e a istituzioni cristiane o perché rimasero a lungo nascosti in vari rifugi . Alcuni bambini nascosti sopravvissero da soli nelle foreste e nei fienili, vivendo in un continuo stato d’allerta.

“Non eravamo come gli altri. Nessun altro poteva capire il nostro passato. Noi, i bambini dell’Olocausto, eravamo stati ignorati, le nostre parole troppo deboli per essere ascoltate. Invisibili, portavamo il nostro fardello in silenzio e da soli.

Avevo 12 anni nel 1942 quando, nel pieno della notte, dei soldati tedeschi a Żabno, in Polonia, dove vivevamo, mi puntarono addosso una pistola e mi chiesero dove fosse mio padre. Dissi che non lo sapevo. scesero nello scantinato dove mio padre si nascondeva e gli spararono a morte. Mia madre, mia sorella Rachel e io dovemmo fuggire in un fattoria nelle vicinanze…

La proprietaria ci fece rimanere controvoglia, ignorandoci totalmente. Rimanemmo lì per due anni e mezzo.In tutto quel tempo non ci diede mai nemmeno un bicchiere d’acqua…Potevo uscire solo quando non c’era la luna. Se mi avessero visto sarei stata spacciata…dovevamo bisbigliare – per due anni e mezzo non parlammo mai con un tono di voce più alto del sussurro! Né potevamo uscire con la luce del sole. Eravamo attaccati alla vita con un filo sottile, sempre infreddoliti, con la paura delle ombre, di corsa, in ascolto. Ogni giorno, ogni notte, portava del nuovo terrore. Era un’esistenza veramente terribile ma, nonostante fossi così spaventata, non ho mai pensato di darmi per vinta “(Ann Shore (Hania Goldman), in seguito divenne presidente della Hidden Child Fundation).

Ci furono però anche persone che si esposero in prima persona per aiutare i più indifesi, cioè le migliaia di bambini che morivano di fame, freddo e tifo nel ghetto di Varsavia. Dal 1939 al 1942 nel ghetto furono trasferite dai villaggi centinaia di migliaia di ebrei; nel 1941 c’erano oltre 400.000 persone, tra le quali tanti bambini, che si pensava di sterminare lentamente per fame. I più piccoli impararono ad uscire dal ghetto, spesso attraverso le fogne, per raggiungere la zona ariana in cerca di qualcosa da mangiare per sé e per gli altri, sfidando tanti pericoli e la sorveglianza dei soldati. Quelli rimasti orfani furono abbandonati a loro stessi per le strade. In seguito furono deportati nei lager, perlopiù a Treblinka. (informazioni  tratte da “Il futuro spezzato- i nazisti contro i bambini”, di Lidia Beccaria Rolfi e Bruno Maida.)

Un‘infermiera ed assistente sociale, Irena Sendler, ebbe il permesso di lavorare nel ghetto di Varsavia; spesso si spacciò per tecnico di condutture idrauliche per collaborare con la Resistenza polacca e portare in salvo circa 2500 bambini ebrei, nascondendo i più piccoli nella cassetta degli attrezzi e i più grandi in un sacco di iuta. Si avvalse del prezioso aiuto di un cane addestrato a stare nel camion e ad abbaiare per avvisare dell’arrivo dei nazisti o per coprire il pianto dei bambini. Quando fu scoperta, Irena subì la violenza dei soldati tedeschi che le spezzarono braccia e gambe. A guerra finita cercò di rintracciare i genitori sopravvissuti di quei bambini, dei quali aveva scritto i nomi veri accanto a quelli falsi in elenchi ben nascosti in barattoli sepolti sotto un albero del suo giardino; sistemò molti orfani presso famiglie affidatarie ed istituti. Al parlamento polacco che nel 2007 la proclamò eroe nazionale, Irena scrisse “Ogni bambino salvato con il mio aiuto è la giustificazione della mia esistenza su questa terra, e non un titolo di gloria”

Tempo fa è stata proposta per il premio Nobel per la pace, ma non è stata nominata. Nel 2008 è volata via all’ età di 98 anni.

 

Sugo alla genovese

La ricetta della carne alla genovese appartiene alla  tradizione culinaria  napoletana,  anche se il nome fa pensare a Genova. Sulla denominazione  “genovese” esistono varie interpretazioni. Forse questo piatto fu  ideato da un cuoco di cognome Genovese, o più probabilmente deriva dall’usanza genovese di cucinare in pentole di terracotta un pezzo di carne che, separato dal condimento, veniva servito come secondo piatto, importata dai marinai della Superba  a Napoli nel  XVIII secolo. Sta di fatto che “la genovese” è citata da Ippolito Cavalcanti, duca di Buonvicino  amante della cucina, nell’ opera  “Cucina teorico pratica” del 1837.

 Questa ricetta unisce i sapori della  ricca carne e delle più povere, ma gustose, cipolle in un’unica  salsa, utilizzata per condire sia la carne che la pasta. Ne esistono  più varianti, come vuole la fantasiosa creatività gastronomica. Riporto quella di mia mamma, che tra gli ingredienti mette una punta di peperoncino piccante ma non  il vino che, a suo dire,  indurisce la carne.  Le dosi sono per 6 persone e si possono ridurre o aumentare a seconda del numero dei commensali.

 

 Ingredienti:

 2 kg circa di cipolle bionde

2 carote

una costa di sedano

1 kg circa di sottopaletta (taglio di spalla) o girello

olio di oliva (1 dl circa)

2 cucchiai di salsa di pomodoro

un  peperoncino piccante

sale q.b.

500 g di pasta grossa e rigata ( penne rigate, tortiglioni, paccheri)

 Preparazione.

 Sbucciare e lavare le carote e  cipolle, cercando di non piangere troppo, e tritarle col sedano. Ammiro i  cuochi provetti che si cimentano con la mezzaluna ma, per facile lacrimazione ed incapacità, io ricorro ad un ipercollaudato, superveloce e più sicuro robot da cucina.

In una pentola dal fondo largo, versare l’olio di oliva per rosolare la carne a fuoco basso. Calare le verdure, aggiungendo due cucchiai di salsa di pomodoro, che dà colore, un po’ di sale e una punta di peperoncino piccante. Lasciare cuocere lentamente, aggiungendo due bicchieri di acqua per evitare che il sugo si attacchi sul fondo della pentola. Mescolare di tanto in tanto in modo che la carne  trasferisca il suo umore, il suo “sentimento” alla salsa, che deve risultare color ambra, né troppo liquida, né troppo densa ma  “azzeccosa” quanto basta per legarsi con la pasta grossa e rigata. Quando la carne è ben cotta, estrarla e lasciarla raffreddare. Volendo, frullare il sugo col mix per renderlo più cremoso. Tagliare la carne a fette sottili e rimetterla nel sugo per insaporirla. Cuocere la pasta, preferibilmente penne rigate, rigatoni, paccheri  da condire con “la genovese” e da servire con un po’ di parmigiano grattugiato. Come secondo piatto, la carne col sughetto alla genovese si accompagna bene con le patatine fritte.

 

L’Enigma svelato sulla facciata del Gesù Nuovo di Napoli

Una scoperta musicale, risalente ormai a circa due anni fa,  mi è venuta in mente passeggiando nel centro storico di Napoli. Sul bugnato della facciata del Gesù Nuovo sono incisi strani segni, di circa dieci centimetri, che fino a qualche tempo fa si credeva  fossero i simboli delle diverse cave, da cui provenivano le pietre  utilizzate per le bugne a forma di diamante, oppure, secondo un’altra interpretazione, si pensava che rivelassero segreti alchemici, capaci di caricare la pietra di energie positive dall’esterno verso l’interno dell’edificio. 

 

In verità questo attirò energie negative, forse perché gli operai non posero correttamente le pietre. Ultimato nel 1470 da Novello da San Lucano come civile abitazione per i potenti Sanseverino, l’edificio subì una serie di sciagure: fu confiscato da Pedro di Toledo nel 1547, perché i Sanseverino appoggiarono la rivolta popolare contro l’Inquisizione, fu poi donato ai gesuiti che lo trasformarono da palazzo in chiesa. Anche la chiesa, però,  non ebbe buona sorte: prima fu incendiata, poi più volte crollò la cupola e infine ne furono cacciati i gesuiti. Solo durante la seconda guerra mondiale, fortuna volle che una bomba, caduta sul soffitto di una navata, non esplodesse.

Sta di fatto che più di recente  lo storico dell’arte rinascimentale napoletana, Vincenzo De Pasquale, e  i  musicologi ungheresi Csar Dors e Lorànt Réz hanno capito che quei segni erano lettere dell’alfabeto aramaico, corrispondenti a note musicali. In pratica il bugnato è un pentagramma sul quale è scritta una melodia musicale per strumenti a plettro, che si legge da destra a sinistra e dal basso verso l’alto, dura circa tre quarti d’ora (qui per ascoltarla). Gli studiosi hanno deciso di intitolarla “Enigma”.

Lo storico De Pasquale ha spiegato che  i Sanseverino già fecero incidere note musicali nel loro palazzo a Lauro di Nola e che queste note in aramaico furono dimenticate forse per effetto della Controriforma che dettò rigide norme per l’arte, cancellando tutto ciò che di terreno potesse contrastare con le verità trascendenti del cattolicesimo. I gesuiti s’adoprarono  in tal senso ma, ironia della sorte, il padre gesuita Csar Dors, esperto di aramaico, ha contribuito a scoprire il segreto musicale della facciata del Gesù Nuovo.

 Un altro mistero svelato in una città d’arte dalla storia infinita. 

La storia infinita del presepe napoletano: i tetri personaggi del presepe, ormai scomparsi.

 Nel  Complesso Monumentale di San Lorenzo Maggiore in Piazza San Gaetano a Napoli ( nei pressi di San Gregorio Armeno, sede delle botteghe degli artigiani del presepe), nel dicembre del 2009 ebbi l’occasione di visitare l’interessantissima mostra “Tradizione in azione- un percorso d’arte tra tradizione e contemporaneità”,  realizzata dai fratelli Scuotto, dalla quale ho molto appreso sulla storia e sull’arte del presepe.

Da anni i fratelli Scuotto trasformano l’artigianato in arte pura.  Ideatori e creatori della bottega “La Scarabattola” e dell’Associazione culturale EsseArte, dal 1996 svolgono un lavoro curato, ironico, fedele alla tradizione ma altamente innovativo dell’arte presepiale che, sin dal ‘700, da semplice espressione folkloristica di successo del popolo si elevò a raffinata espressione culturale di Napoli. Documentandosi sui testi “Il Presepe popolare napoletano” e “Le storie e i racconti dei dodici giorni di Natale” del Maestro Roberto De Simone, hanno  scoperto che il presepe nasconde dei simboli straordinari, esoterici e interessanti. 

De Simone  ha recuperato e riproposto  il patrimonio culturale, teatrale e musicale della tradizione popolare campana, riscoprendo e diffondendo anche la tradizione napoletana del Natale. “…La tradizione come scrigno della memoria, ma anche specchio che riflette in modo oggettivo le mutevolezze della nostra identità nel sovrapporsi delle epoche…. il Natale ha  origini arcaiche risalente a  epoche antecedenti e pagane. Timorosi per il futuro, buio e spoglio paventato dall’inverno, i popoli primitivi esorcizzavano le loro paure con rituali propiziatori al ritorno della luce e del calore oppure, più tardi, alla rottura simbolica del tempo con la speranza di arrestare gli eventi nefasti e rigenerare un tempo nuovo, più equo e giusto. Di questo si può intravedere qualche traccia,ormai sbiadita, nell’usanza di tagliare a pezzi il capitone o l’anguilla e nel consumo dei tipici struffoli o del susamiello , dalla caratteristica forma serpentina. (Roberto De Simone:  da “Personaggi di terrore, demoniaci e magico religiosi della tradizione natalizia meridionale-2008)

 Il presepe è quindi la rappresentazione tangibile e visibile della tradizione, non solo come devozione per il Salvatore , ma anche come espressione di tutti i simboli del codice onirico della tradizione (quali il ponte, il pozzo, la fontana, il mulino, il fiume, l’osteria)  vissuti da personaggi tipici di leggende, credenze,superstizioni popolari in una commistione di sacro e profano, magia e religione.                                

Tra i personaggi del presepe napoletano c’erano figure un po’ tetre, alcune demoniache, ritenute depositarie di messaggi terrificanti e perciò, probabilmente, pian piano sono scomparse ma sopravvivono nella costante presenza del pozzo, del ponte e dell’acqua. 

Tra questi personaggi, grazie ai fratelli Scuotto, rivive la mostruosa Maria ‘a Manilonga: nell’Avellinese i bambini devono stare lontani dai pozzi nelle sere delle festività natalizie perchè Maria, essere demoniaco, li cattura (Roberto De Simone) trascinandoli nelle profondità delle acque sotterranee, negli Inferi. Il pozzo rappresenta gli abissi e quindi la comunicazione col mondo dei morti.

Forse non a caso, già nell’intuizione popolare, alla Madonna si contrapponeva  Maria ‘a Manilonga che potrebbero essere  aspetti dell’ambivalente  sentimento materno di madre-matrigna, amore e odio originato dalla doppia e conflittuale soggettività delle madri, il cui figlio vive e si nutre del loro sacrificio. Un sentimento naturale- come sostiene  Umberto Galimberti in “ I miti del nostro tempo” ed. Feltrinelli- sempre esistito, testimoniato dalla mitica Medea, e sempre ripudiato con terrore collettivo  perché intacca la sacralità della vita. L’abisso della solitudine può  trasformare la madre in matrigna con potere di vita ma anche di morte quando quel figlio è troppo distante dai suoi desideri e sogni.

 

 

Mamma Sirena: è il personaggio di una favola che narra di un giovane  pastore che,  lungo la riva del mare, intonava  un canto per favorire il ritorno della sorella dagli abissi marini in cui era tenuta prigioniera. Le pecorelle, mangiando le perle che cadevano dai capelli della fanciulla, acquistavano poteri vaticinanti, svelavano arcani misteri e davano infallibili oracoli.

 

 

Il ponte dei carmelitani: in riferimento al segno del  ponte a Grottaglie e a Napoli, nel giorno dell’Epifania il presepe si arricchiva di una scena singolare. Vale a dire che lì, dove è situato un ponte tra due dirupi, si collocavano dodici figurine di monaci scalzi ed incappucciati, che si rifanno alla Madonna del Carmelo, che è appunto la Madonna delle anime del Purgatorio. Mostravano il pollice della mano sinistra fiammeggiante: essi rappresentavano i mesi morti o i dodici giorni del periodo natalizio che, al seguito dei Magi, ritornavano nell’aldilà .

 

 Il ponte consente il  transito tra il mondo dei vivi e quello dei morti . È un  luogo di manifestazioni magico-fantastiche, rappresentate per esempio dal lupo Mannaro e da Mafalda.

A mezzanotte meno dieci Zi Michele procedeva col suo carretto  in direzione di un crocevia e , da lontano,scorse una strana figura. Giunto al crocevia non lo vide più. Esclamò “Mamma mia, l’ho visto un momento fa. Ma sto sognando, o che mi sta succedendo? ” Non appena attraversò il crocevia, gli si presentò il mostro, il famigerato lupo Mannaro.

Sotto il ponte invece compariva,  in veste di  monaca, il fantasma di Mafalda o, per alcuni  della Principessa Cicinelli, che appartiene alla tradizione campana e pugliese. Suo  padre le  aveva vietato di vedere il paggio di cui si era innamorata  e voleva che si ritirasse in convento. “Quando giunse la sventurata giovane, raccolse piangendo il capo mozzo del suo amato , lo depose nella bisaccia e si trafisse con lo stesso pugnale che il padre aveva lasciato per terra.” (Roberto De Simone).

 Ecco sul ponte il tempo che passa, sotto il mondo dei morti con Mafalda in basso a sinistra.

La tradizione riproposta  con un linguaggio artistico libero, come deve essere sempre l’arte, (Salvatore Scuotto) rivive nella passione artistica  e nella creatività dei fratelli Scuotto.

 

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La tombola napoletana

 

Le feste natalizie sono per tante famiglie un’occasione per ricomporsi, rivedersi, riunirsi e trascorrere insieme la Vigilia e il  Natale. Dopo baci e abbracci, conversazioni che  aggiornano sui cambiamenti avvenuti nella cerchia di parenti e conoscenti , preparativi e rituali della cena della Vigilia e del pranzo di Natale, tanti si rilassano- si spera- giocando a tombola o a carte.

La tombola è un gioco da tavolo. Il suo nome può derivare da tombolo per  l’originaria forma del panariello (bussolotto), da tumulo per quella attuale, che è piramidale , oppure dal verbo tombolare (fare roteare o capitombolare i numeri).

 

Un giocatore dispone di un tabellone sul quale colloca 90 numeri estratti uno alla volta dal panariello. Annuncia il numero uscito agli altri giocatori che su una o più cartelle (schede), precedentemente acquistate, coprono la casella corrispondente con finestrelle di plastica o fagioli, pasta, pezzi di carta. Le cartelle sono raggruppate in quattro serie di sei cartelle, diverse una dall’altra, e in ogni serie i numeri da 1 a 90 capitano una sola volta. Tutti, compreso colui che estrae i numeri, pagano ogni cartella in base ad un costo concordato e la somma accumulata viene distribuita in vari premi di importo crescente. Lo scopo del gioco consiste nel fare tombola cioè coprire tutti i 15 numeri presenti su una cartella ( tutti i cinque numeri delle tre righe). Prima però si premiano l’ambo, il terno,la quaterna e la cinquina  ( copertura di due, tre, quattro, cinque numeri sulla stessa riga). A volte si definisce un premio di consolazione, detto tombolino, per chi riesce a fare una seconda tombola.

 

Esiste una tombola napoletana dove ogni numero viene associato a un’immagine, tratta dalla smorfia napoletana, e quindi l’annuncio del numero si accompagna alla citazione del significato intrinseco, talvolta allusivo o scurrile.

La tombola napoletana nacque nel 1734 per una controversia sorta tra re Carlo III di Borbone, che voleva ufficializzare il gioco del lotto nel Regno per rimpinguare le casse dello Stato, e il frate domenicano Gregorio Maria Rocco, che lo riteneva un amorale ed ingannevole divertimento per i suoi fedeli. Il re l’ ebbe vinta ma a condizione che nella settimana di Natale il gioco fosse sospeso perché il popolo non fosse distratto dalle preghiere. Allora il gaudente popolo partenopeo escogitò il gioco della tombola che da pubblico assunse carattere familiare. I numeri furono racchiusi in un panariello di vimini e disegnati su cartelle .

Ecco di seguito i novanta numeri della tombola napoletana e il loro significato:

1 L’Italia
2 ‘ A  piccerella (la bambina)
3 ‘A jatta (il gatto)
4 ‘O puorco (il maiale)
5 ‘A mano (la mano)
6 Chella che guarda ‘nterra (letteralmente “ quella che guarda per terra”, cioè l’organo sessuale femminile.)
7 ‘O vase (il vaso)
8 ‘A Maronna (la Madonna)
9 ‘A figliata (la prole)
10 ‘E fasule (i fagioli)
11 ‘E suricille ( i topi)
12 ‘E surdate ( i soldati)
13 Sant’ Antonio
14 ‘O mbriaco (l’ubriaco)
15‘O guaglione (il ragazzo)
16 ‘O **** (il deretano)
17 ‘A disgrazia (la disgrazia)
18 ‘O sanghe ( il sangue)
19 ‘ A resata (la risata)
20 ‘A festa (la festa)
21 ‘A femmena annura (la donna nuda)
22 ‘O pazzo (il pazzo)
23 ‘O scemo (lo scemo)
24 ‘E gguardie (le guardie)
25 Natale
26 Nanninella (diminuitivo del nome Anna)
27 ‘ O cantero (il vaso da notte)
28 ‘E zzizze (air bag femminile)
29 ‘O pate d‘‘e criature (letteralmente significa il padre delle creature cioè l’organo sessuale maschile)
30 ‘E palle d‘‘o tenente ( le palle del tenente- a completamento del 29)
31 ‘O padrone ‘ e casa (il proprietario di casa)
32 ‘O capitone (il capitone)
33 Ll‘anne ‘ e Cristo (gli anni di Cristo)
34 ‘A capa (la testa)
35 L‘aucelluzz (l’uccellino)
36 ‘ E ccastagnelle ( le nacchere )
37 ‘O monaco (il frate)
38 ‘E mmazzate (le botte)
39 ‘A funa ‘nganna (la corda la collo)
40 ‘A paposcia (l’ernia)
41 ‘O curtiello (il coltello)
42 ‘O ccafè (il caffè)
43 ‘Onna pereta ‘ncopp‘‘ o balcone (la donna al balcone)
44 ‘E ccancelle (il carcere)
45 ‘O vino bbuono (il vino)
46 ‘E denare (i denari)
47 ‘O muorto (il morto)
48 ‘O muorto che parla (il morto che parla)
49 ‘O piezzo ‘ e carne (la  carne)
50 ‘O ppane (il pane)
51 ‘O ciardino (il giardino)
52 ‘A mamma (la mamma)
53 ‘O viecchio (il vecchio)
54 ‘O cappiello (il cappello)
55 ‘A museca (la musica)
56 ‘A caruta (la caduta)
57 ‘O scartellato (il gobbo)
58 ‘O paccotto (il cartoccio)
59 ‘E pile (i peli)
60 Se lamenta (si lamenta)
61 ‘O cacciatore (il cacciatore)
62 ‘O muorto acciso (il morto ammazzato)
63 ‘A sposa (la sposa)
64 ‘A sciammeria (la marsina)
65 ‘O chianto (il pianto)
66 ‘E ddoie zetelle (le due zitelle)
67 ‘O totano int‘‘a chitarra (il totano nella chitarra)
68 ‘A zuppa cotta (la zuppa cotta)
69 Sott‘e‘ncoppa (sottosopra)
70 ‘O palazzo (il palazzo)
71 L‘ommo ‘e m**** (l’ uomo senza princìpi)
72 ‘A maraviglia (la meraviglia)
73 ‘O spitale (l’ospedale)
74 ‘A rotta (la grotta)
75 Pullecenella (Pulcinella)
76 ‘A funtana (la fontana)
77 ‘E riavulille  (i diavoletti)
78 ‘A bella femmena (la prostituta)
79 ‘O mariuolo (il ladro)
80 ‘A vocca (la bocca)
81 ‘E sciure (i fiori)
82 ‘A tavula ‘mbandita (la tavola imbandita)
83 ‘O maletiempo (il maltempo)
84 ‘A cchiesa ( la chiesa)
85 Ll’aneme ‘o priatorio (le anime del purgatorio)
86 ‘A puteca (il negozio)
87 ‘E perucchie (i pidocchi)
88 ‘E casecavalle (i caciocavalli)
89 ‘A vecchia (la vecchia)
90 ‘A paura (la paura…fa novanta)

 Mi vengono in mente animate giocate a tombola , che meritano un post a parte.

E voi giocate a tombola?

Di che pasta sei?

… fra questo ceto c’è il maccheroncino,

Riccio di foretana e tagliarello

Cannarone di prete e fidelino

Cappelluccio, spaghetto e vermicello;

Lingua di passero e paternostrino

Di prete orecchio e scorza di nocello,

Lagana, tagliolino e stivaletto

Lasagna grossa e piccola, e anelletto:

Poscia le punte d’aghi, le stelline,

Che van più di mille in un boccone,

E le grate a mangiar rose marine

Li ditali e semenze di mellone,

Li tacchi e di scarola le semine,

Lo gnocchetto e di zita il maccherone

Acinetti di pepe e laganelle,

Seme di peparoli e tagliarelle.

Ma però, come diss’io, il primo vanto

Porta fra tutti quanti il maccherone.

 

(Antonio Viviani,  “ Li maccheroni di Napoli”- 1824)

 

Ebbene sì, lo confesso: dopo aver letto questi versi, in piena notte fortissimamente resistetti  alla tentazione di preparare  un piatto di pasta… mi sarei accontentata anche di  un po’ di pastina, sciuè sciuè.

 Quante curiosità sulla storia della pasta !

I pastai producevano un nuovo formato di pasta in onore di  re, regine, nobili e personaggi illustri che andavano a Gragnano per visitare i pastifici.

Nel luglio del 1845 re  Ferdinando II con moglie, figli e corte al seguito, scortati da ben quaranta cavalieri, visitò gli opifici di paste lunghe e  gradì molto i maccheroni, così dispose che durante il suo soggiorno nel Real sito di Quisisana (presso Castellammare di Stabia)  i pastai di Gragnano gli fornissero la pasta, che per l’occasione fu detta  “  i maccheroni del Re” 

Nel 1885 il re Umberto I di Savoia e la Regina Margherita inaugurarono una  linea ferroviaria che avrebbe agevolato l’esportazione  della pasta collegando Gragnano con Castellammare di Stabia, quindi con Napoli e Caserta. Per l’occasione i pastai di Gragnano crearono le margherite ( pasta minuta) e  le tagliatelle  smerlate di diversa larghezza dette mafalde e le mafaldine .

 

I vari formati di pasta hanno nomi di curiosa derivazione  che rispecchiano l’inesauribile  fantasia  dei pastai .

Orecchiette, linguine, gomiti, occhi, capellini, ricci richiamano il corpo umano.

Oggetti di uso comune hanno dato origine a ruote e rotelline, anelli, crocette, quadretti,  puntine, penne (lisce e rigate), spaghetti e candele, mentre il coltello è indirettamente ricordato nei maltagliati, tagliatelle e tagliolini. L’abbigliamento ha ispirato il nome di fettucce, trenette, maniche e mezze maniche ( mancano gli scamiciati), nocchette, creste, stivaletti, perline, fiocchi, pennacchi, fibbie, guanti e  cappelletti.

Dal cilindro o dall’idraulica sono derivati i tubetti, i tubettoni e  i cannelloni,  dalla forma attorcigliata le eliche, i fusilli, gli stortini,i tortiglioni. I solchi esterni hanno dato il nome alla famiglia di  rigatoni, rigatoncelli  e millerighe.

Fatti storici sono ricordati in tripoline, assabesi, bengasini, mentre la famiglia Savoia  fu onorata con le succitate  mafalde,  mafaldine e margherite.

Paternostri e  avemarie furono prodotti per i devoti  in quanto il loro  tempo di cottura bastava  giusto giusto per recitare una preghiera. I fidelini non s’ispirarono alla fede, bensì al verbo arabo fâd che significa crescere.

Flora e fauna si sono riversate in tanti formati di pasta. Basti pensare alle lumache, farfalle, galletti,  conchiglie, corallini,  calamarata, occhi di lupo, di elefante e di pernice ( da non confondere coi calli), acini di pepe, semi di melone e di mela, risi e risoni, gramigna, sedani.

 Della lasagna , dei vermicelli e  degli ziti o maccheroni della zita, cioè della sposa,  ne avevo parlato qui. Mi fa sorridere l’etimologia  dei paccheri,  che sono maccheroni giganti. In napoletano i  paccheri indicano  i sonanti  schiaffoni a mano aperta ( pare che il nome derivi dal greco “ pan” e  “keir” , cioè tutto e mano) . Per alcuni  il rumore prodotto da un solenne ceffone  richiama quello dei paccheri gustosamente “schiaffeggiati” dalla salsa quando sono rimescolati nella zuppiera, per altri  i paccheri , ben  conditi e magari pure farciti di ricotta, stordiscono  i sensi .

 

Dopo questa indigestione di pasta lunga, corta e minuta, vorreste aggiungere qualche altro formato di pasta? E quale  preferite?

 

Sulla storia della pasta

La pasta ha origini  remote e si può fare risalire a  quando l’uomo riuscì a  mantenere compatto nell’acqua bollente l’impasto di acqua e farina; inizialmente la pasta, strappata in piccoli pezzi, veniva aggiunta a minestre di legumi e verdure, poi  iniziò ad essere modellata con le dita. Nel I sec a. C.  si cuocevano in acqua o in olio i lagana, strisce di schiacciata di farina , citate da Cicerone e Orazio, da cui discendono le lasagne.

Di antica origine sono anche  i vermicelli e gli ziti . I primi, fatti a mano, erano corti, storti e simili a vermiciattoli ,  invece gli ziti , detti anche zite o maccheroni della zita ( cioè della sposa) erano preparati per il pranzo nuziale. Controversa è l’origine dei maccheroni, derivante dal genovese macaròn o dal siciliano maccaruni. In verità maccheroni e vermicelli erano prodotti in Liguria, Sardegna e poi in Campania, ma si ritiene che fino al XV secolo fossero una produzione siciliana acquisita  tramite gli arabi che fecero conoscere la pasta secca ai popoli coi quali commerciavano. Ben presto la pasta fu apprezzata come alimento non deteriorabile e facilmente trasportabile. Sin dal Medioevo la pasta era un piatto riservato ai  ricchi ma, viaggiando da Nord a Sud e viceversa, si esportavano anche cibi e ricette così i  maccheroni  trionfarono  a Napoli  come piatto tipico, gradito quotidianamente dai lazzari, borghesi e nobili .

All’inizio del Cinquecento maccheroni e vermicelli erano largamente  diffusi nel napoletano per cui si resero necessari interventi  legislativi per  regolamentarne la produzione e la vendita e per riconoscere le categorie  dei vermicellari, poi dei maccheronari.

Nel Seicento i napoletani attuarono una vera e propria rivoluzione gastronomica e da mangiafoglie (mangiatori di minestre di verdure)  divennero mangiamaccheroni. La pasta, importata dalla Sicilia e dalla Sardegna che coltivavano grano duro, nella prima metà del Seicento fu prodotta a Napoli e dintorni (Gragnano, Torre Annunziata e località costiere le cui condizioni climatiche ne favorivano l’essiccazione) . Nella Valle dei Mulini , presso Gragnano, sorgevano  trenta mulini ove si macinava il grano e si produceva la semola. Poichè i mulini erano distanti dalle abitazioni, le donne di casa  preparavano i  maccheroni e tutti insieme, padroni e lavoranti, li consumavano a pranzo . Ben presto una clientela sempre più allargata iniziò a recarsi ai mulini per  comprare i maccheroni . Dalla macinazione del grano si passò quindi ad  una produzione artigianale e poi industriale della pasta. Dal primo pastificio , fondato da Montella e Garofalo nel 1789, Gragnano  arrivò ad averne  un centinaio nell’Ottocento, grazie anche al  re Francesco I che promosse lo sviluppo dell’industria pastaria  con sistemi che rendevano più organizzata e igienicamente sicura la produzione della pasta.

 

 

Il popolo  prediligeva i maccheroni “vierdi vierdi”, cioè duri come i frutti acerbi , a differenza dei nobili che li lasciavano cuocere anche per un paio di ore per consumarli scotti, fino a quando in “Cucina teorica-pratica”  del 1837 il nobile gastronomo napoletano Ippolito Cavalcanti Duca di Buonvicino ufficialmente sancì la regola della cottura al dente. Se i ricchi potevano permettersi di condire la pasta con burro, zucchero, cannella e spezie, il popolo mangiava i maccheroni in bianco, poco sgocciolati, con un po’ di pepe, a volte formaggio (pecorino o caciocavallo), oppure un filo d’olio d’oliva o strutto. Solo nel Seicento nel Regno di Napoli si iniziò ad usare il pomodoro come condimento per la pasta , superando pregiudizi radicati in molti paesi fino al Settecento perché si riteneva che lo sgargiante  pomodoro fosse velenoso ed utilizzabile solo per decorazioni o preparati medicinali. Nell’Ottocento il sugo al pomodoro fu finalmente apprezzato come condimento ideale per la pasta,  insaporito anche con olio, cipolla, aglio,basilico, peperoncino.

Re Ferdinando IV, (poi I), amava la pasta e molto poco la formalità tant’è  che soprannominò “lasagnone” il figlio Francesco. Alla sua  corte si consumavano di frequente ravioli, vermicelli al burro , tagliolini e maccheroni con salsicce o pomodoro e ad ogni pranzo di gala non mancava l’ ipersostanzioso timballo di maccheroni, che tutt’oggi vale per primo, secondo e contorno.

Il re sposò la plebea  consuetudine di mangiare i  maccheroni portandoli alla bocca con le mani e rivolgendo gli occhi al cielo  perché “ ‘O maccarone se magna guardanno ‘ncielo!” . In verità questo gesto era  quasi un invito a ringraziare Dio per la bontà concessa, sebbene suscitasse lo sdegno della raffinata sua consorte, la regina Maria Carolina.  Ben presto questa pratica da unti e bisunti  si trasformò in   un’attrazione turistica (della serie:  vedi un po’ ch’a s’adda fa’ pe’ campà) e i “maccaroni eaters” ( mangia maccheroni)  guadagnarono con la loro fame cronica una fama internazionale.  Comunque sia, grazie ad attori napoletani, maccheroni e vermicelli sbarcarono in Francia con  la maschera popolare dell’affamato Pulcinella, esperto “abbrancatore” di pasta.

La pasta però si diffuse all’estero anche  per merito di grandi cuochi come  Francesco Leonardi che, dopo avere servito  re e nobili del Bel Paese e non solo, con le sue ricette a base di pasta conquistò la corte  di Caterina II Imperatrice di tutte le Russie.

“I maccheroni sono un’acuta invenzione della miseria. Essi costituivano la più semplice, la più razionale, la più essenziale utilizzazione del grano. Si mangiavano verdi e sciularielli.

Se ne prendeva un ciuffo con tre dita e si facevano cadere in bocca: la bocca li assorbiva, li succhiava, quasi senza colpo di dente ( ecco perché  in napoletano si dice sciularielli )…

 

Il maccaronaro era lo snack -bar dei lazzari…

 

Lo stato di animo di Pulcinella, il suo permanente stato di animo, è la fame; il suo sogno costante, e mai del tutto appagato, i maccheroni; i maccheroni che erano già nel sei, nel sette e nell’ottocento il piatto unico, la pietanza nazionale dei napoletani…

 

I maccheroni sono la spina dorsale della gastronomia della libertà. I maccheroni chiedono una salsa o un complemento”

 

(Alberto Consiglio, Sentimento del gusto ovvero della cucina napoletana)

 

La pasta al pomodoro ormai è un piatto conosciuto in tutto il mondo. Oggi la fantasia culinaria di piatti a base di pasta si sbizzarrisce in sempre nuovi abbinamenti con salse ed alimenti di origine animale o vegetale che sono una nutriente ed energetica tentazione gastronomica, ma anche una conquista dell’estro creativo che amalgama sapori,colori, odori e buon gusto  senza porre limiti alla storia della pasta.

Notizie tratte da “Maccheronea” di Lejla Mancusi Sorrentino- Grimaldi & C.  Editori ( un libro da divorare!), immagine dal web.