Mea culpa (prima parte)

Ah, nessuno insegna a fare il genitore! Lo si diventa così , più o meno volutamente, ma una cosa è appagare il naturale desiderio di maternità e paternità, altra cosa è fare il genitore. In effetti parlo per esperienza mia personale che però ho riscontrato esser comune a tanti. Quando si diventa biologicamente genitori non si pensa a tutto ciò: si è troppo impegnati in una sorta di narcisistico compiacimento a contemplare il primogenito, rivendicato nella somiglianza fisica e caratteriale da chi parla aggiornando in soliloqui il pubblico, inizialmente interessato poi magari esasperato, sulle fasi di crescita e sui normali progressi del neonato, vissuti come eccezionali.
Finchè il bambino è piccolo, condiziona soltanto coi suoi ritmi. Sin dall’inizio fa capire che sarà cosa ardua accudirlo, soprattutto se non dorme la notte perché ha l’orologio biologico da sincronizzare. Con istintiva dedizione i neogenitori non desistono e, assonnati e barcollanti come zombi dopo nottate insonni, continuano a svolgere il rituale di un corretto allevamento della prole dettato da manuali di pedagogia e dall’onnisciente mammà perché il bebè cresca sano, forte e vivace. Col passar del tempo cercheranno di sopravvivere …!
Il bebè mette a dura prova la pazienza della coppia , che spesso deve limitare la vita sociale e le uscite serali un po’ perché siffatte mansioni stancano, un po’ perché sente il bisogno e il piacere di starsene a casa col piccolo, soprattutto se di giorno è affidato ad una baby sitter. La pazienza è la virtù dei forti… soprattutto quando il bebè non mangia ma trattiene per un’ ora la pappa in bocca a mò di criceto.e la mammina si strema a furia di mimare l’aeroplano che vooooolaaaa o l’automobilina di papi che entra nel garage, nella speranza che deglutisca (mentre in cuor suo avrebbe l’incoffessata voglia di stringergli le narici e farlo boccheggiare). A nulla serve lasciarlo a digiuno illudendosi che, affamato, reclami il cibo, se non ad alimentare sensi di colpa nella genitrice che si sente madre snaturata ed irresponsabile ( e guai se lo venisse a sapere la supermatronissima suocera !). Quando finalmente il cucciolo d’uomo ha mangiato tre cucchiaiate di pappa, perché il resto è spiaccicato tutto intorno, è quasi ora di cena. La neomamma si prepara per il rientro del capotribù, invocando il genio di Mastro Lindo e inveendo contro la pubblicità ingannevole .
Il paterfamilias, stanco della giornata lavorativa, il più delle volte esordisce con : “Ciao cara, tutto bene? Come sta il mio piccoletto?” “Si caro,tutto bene!” E lui, il piccoletto, si esibisce in una serie di gorgheggi festosi che seducono entrambi. Intanto da sposina bradipescamente ammaliante, la mamma si sveltisce istericamente, si organizza calcolando i minuti necessari per conciliare i rari appuntamenti dal parrucchiere e dall’estetista con le esigenze del bebè . Il suo orologio biologico ha un’accelerata che la rende ansiosa di riuscire a fare tutto. Rinuncia a preparare manicaretti, torte e cenette ma diventa esperta nel preparare piatti sbrigativi grazie alla santa pentola a pressione e al beatissimo microonde, per avere più tempo libero per sé. Non ha ancora capito che più diventa efficiente, più avrà da fare.

 

Diviene una multi tasking ambulante e ipercinetica, anche quando porta per ore a passeggio il piccolo, sperando che si stanchi, corre freneticamente e si consola pensando che almeno la salutare passeggiata le abbia fatto perdere qualche etto del sovrappeso accumulato in gravidanza e per i pasti trangugiati ad opera di mammà o in piedi davanti al frigo.

mafalda2

Più tardi il piccolo inizia a gattonare e a scoprire – chissà perché – innanzitutto le cose più pericolose che possono esserci in una casa: prese elettriche in cui si divertirebbe a infilar le dita se non fosse fermato da un ululato “NO”, il water dove poter fare sguazzare i giocattoli, con sommo gaudio dell’idraulico che per pietà fa tariffe da abbonamento per sturare i tubi, i fornelli perché il clic clic dell’accensione automatica lo intrigano ; poi, consolidandosi sulle gambette, inizia a camminare e ad arrampicarsi. All’ improvviso sta seduto trionfante su un tavolo, intento a giocare con le caramelle di un porta bon bon situato là sopra …così taaaaaaaante , belle e colorate da volerle ingoiare con la carta. Si esercita a stare in piedi nel seggiolone e sul passeggino dopo aver buttato all’aria calzini e scarpette divenendo un appartenente alla tribù dei piedi nudi. Il novello Speedy Gonzales si intrufola dappertutto, come un gatto: negli armadi, sotto i letti, nel ripostiglio. Esplora il mondo circostante col quale si sente un tutt’uno: solo così scopre ed impara. Impara, per esempio, che tutto ha un suono, e poco importa se rompe i timpani di chi è nei paraggi…le pentole, i piatti e i giochini che lascia cadere di continuo .

Si accorge che anche lui emette suoni diversi, dai dolci trilli, pronunciati all’orsacchiotto al quale sorride allegramente, alle urla selvagge, qualora sia contrariato . Insomma l’ adorabile figlio dà conferma che sarà un’impresa “addomesticarlo” e la mater amabilis si assuefa sempre più alla sua creatura, inconsapevole dell’incipiente sua metamorfosi. Di rado percepisce le sue grida e lo lascia scorrazzare in attesa di captare il primo sbadiglio di stanchezza nella speranza che cada in un sonno ristoratore…per entrambi . Il Papà condivide amorevolmente le gioie del piccolo e lo accudisce di sera o nel tempo libero; talvolta invece inizia a sentirsi trascurato dalla moglie e preferisce trovarsi qualche altro amabile diversivo ( la partita a calcetto o il dopocena con gli amici è un classico). Di qui scatta una molla che si ripercuoterà come un pugnale qualche decennio più tardi nella vita della coppia. Poi il piccolo inizia a parlare e diventa più semplice comunicare con lui: si spiega molto bene anche a forza di nghin-ghì e nghèn-ghè che un genitore attento sa ben interpretare come richiesta di soddisfacimento di bisogni primari (urge pannolino pulito, voglio il ciuccio , sono stanco, pappaaa!), espressione di un complimento o di un modo scherzoso per attirare l’attenzione. Trascorso il periodo di iniziale accudimento, la mamma riprende a lavorare .Tragici sensi di colpa la attanagliano e sferrano un inevitabile primo taglio all’ invisibile cordone ombelicale che la legano alla sua naturale appendice. Allora telefona spesso alla baby sitter per sapere come sta il bebè e gli parla per telefono, aggiorna di continuo i colleghi /e delle novità del baby prodigio quasi per non interrompere la sua naturale devozione e sentirlo lì con lei…ma soprattutto per esorcizzare il suo senso di colpa.

Cerca di concentrarsi sul lavoro ma non aspetta altro che precipitarsi a casa, dopo aver fatto una gimkana tra i carrelli del supermercato. Si completa la metamorfosi: è divenuta una vera e Italica mammà, quella che detronizza il marito e al vertice delle priorità mette il figlio: Lui , la luce dei suoi occhi, l’eletto, il reuccio di casa, il più bello bravo , buono e speciale che possa esserci perché è così “et nunc et semper et in saecula saeculorum”. Nondimeno il papà è orgoglioso dell’erede, per aver assicurato discendenza alla sua famiglia, e ne è fiero perché è intelligente e forte come lui. Lo accontenta in tutto perché il bambino non deve subire le privazioni che ha patito lui da piccolo e diviene il più delle volte il suo compagno di giochi, abdicando al suo ruolo di educatore. Sembrano trascorsi secoli dall’occhiata più che eloquente di mia madre che proclamava perentoriamente “Stasera vi chiarite con vostro padre” per interrompere lo snervante contenzioso in corso tra me e mio fratello maggiore cui , da buona sorellina “rompi…” tenevo testa per godere della stessa sua libertà in nome di un’antesignana par condicio. Nella trepida attesa di chiarirmi a quattr’occhi col paterfamilias mi placavo a lungo. Il più delle volte tutto si risolveva in un’ animata e dibattuta , spesso ironica e riconciliante tavola rotonda.

Intanto il bambino cresce, inizia a frequentare la scuola: si confronta in un contesto nuovo , non esclusivamente ludico, e in una prima comunità allargata di pestiferi. Le maestre sono le virago , quelle che impongono regole di convivenza tra coetanei, non sempre condivise dalla famiglia ignara del gene l’unione fa la forza e inizialmente incapace di capire la differenza che intercorre tra la scuola e casa propria popolata da uno o due o tre pargoli ( ma si ricrede dopo che i compagnetti di scuola hanno giocato a frisbee coi piattini di patatine e popcorn e letteralmente smontato pezzo per pezzo la casa durante quella che doveva essere un’allegra festa di compleanno) . Dopo massacranti saggi di danza e tornei di basket, lunghi anni di catechismo, festeggiamenti vari a cadenza fissa nei week-end, visite pediatriche e odontoiatriche, periodici richiami di vaccinazioni e pluricollezioni di figurine e pupazzetti, i bambini maturano e i genitori- si spera-  arrivano al primo giro di boa…

La signora Gioconda

Gioconda si chiamava così in onore della famosa opera del Ponchielli, tanto amata  da suo padre.  Sua madre era una donna molto bella ma forse anche un po’ agguerrita: ebbe infatti tre mariti. Rimasta vedova dei primi due, osò ripudiare il  terzo, che aveva preferito volar dietro ai commerci e alla bella vita, e diventò un’abile amministratrice. Gioconda era la figlia tanto attesa, nata dall’ ultimo matrimonio, ma ben presto divenne la  testimone dell’ennesima solitudine affettiva; ne pagò quindi le conseguenze con un’infanzia trascorsa sì nell’ agio, ma anche in solitudine e in un  ruolo troppo stretto, dettato dalla società dell’epoca. Era figlia del suo tempo anche nella sottomissione alla volontà materna e nella precoce saggezza,  frutto della rigida educazione che le fu impartita. L’intima sofferenza dell’anima spesso rende perspicaci: percepì sempre la colpa di esser figlia di un uomo, a lei descritto come ingrato, che le lasciò il nome e un vago ricordo.Il suo più grande atto di ribellione quindi consistette nel parlarne di rado.

 La sua giornata scorreva nell’ alternanza di un rosario, lettura di libri, che uno zio le prestava di nascosto, e sporadiche visite a parenti. Ogni tanto si interrompeva per soffermare lo sguardo davanti a sé, verso le colline cosparse di aranceti che si intravedevano dalla finestra, in cerca di nuovi orizzonti. Forse ripeteva mentalmente qualche verso o inseguiva qualche pensiero ed emozione dentro di sé. Probabilmente gli stessi che non sfuggivano a quella bambina, nata nel suo stesso giorno  ma circa sessant’anni più tardi, che riposava sul suo lettone e la osservava furtivamente, con discrezione. La piccola spostava poi lo sguardo verso i dolci profili del tondo della Sacra Famiglia, non a caso il quadro preferito di Gioconda.

 In età avanzata la signora non era bella, come dicevano fosse stata in gioventù, ma conservò  un sorriso dolcemente contagioso e una pronta ironia che la rendevano aggraziata ed interessante. Le stesse qualità che anni prima catturarono il cuore di un giovane, tanto ambito dalle ragazze del luogo. Lui aveva occhi azzurri, un sorriso sincero, un  portamento sicuro e un’aria distinta che non passavano inosservati. La notò e iniziò a scriverle dopo aver chiesto il permesso a sua madre. Tra i due iniziò una fitta corrispondenza con missive che  riassumevano gli impegni della giornata. Ogni lettera, sigillata da una promessa d’ amore e da una dichiarazione di fede nella Provvidenza, era accompagnata da una foglia di edera in quelle di lui e da una rosellina o un fiore di campo in quelle di lei. Lo scambio epistolare si svolgeva grazie al fidato mulattiere o qualche fornitore che avvicinava la tata di Gioconda. Le giornate trascorrevano nella trepida attesa di quelle lettere,  finchè furono annunciate le nozze. Un grande e atteso evento, cui parteciparono anche gli zii lontani, compreso quello che viveva a Londra.

 Così Gioconda finalmente potè uscire da sola e iniziò a sperimentare l’amore e la vita, anche quando lui partì per la seconda volta per  il fronte. Altre parole scritte custodivano un legame profondo che nessuna vicenda personale e storica poteva scalfire. Tra le due guerre ebbero sette figli ma sopravvissero solo le ultime quattro figlie. Durante la seconda guerra lui fu richiamato alle armi, ma per poco tempo perché, ammalatosi, fu mandato a casa dove  ben presto decise di occuparsi anche dei tanti nipoti, rimasti orfani di entrambi i genitori. Gioconda, all’insaputa del marito che era al fronte, vendette il corredo ricevuto in dote e i gioielli di famiglia che non indossava mai. Inoltre dovette cedere il suo appartamento al comando angloamericano, mentre aitanti giovanotti dormivano giù  nel deposito che, prima dello smantellamento, era riservato ai cani da caccia e agli attrezzi agricoli. Insieme alla cognata vigilava quando i soldati sbirciavano le ragazze più grandi, ostentando sorrisi maliziosi e smaglianti senza osare più di tanto. Le sue figlie erano ancora bambine e la più temeraria  un giorno osò dire “ no meat (to) dogs, meat to me” perché la fame si faceva sentire, più del freddo e della mancanza di abiti e scarpe. La spontanea “sfrontatezza” le procurò un piatto di polpette. Gli ufficiali  stimavano quelle donne energiche che in tempi difficili fronteggiarono in silenzio i lutti, le difficoltà e gli stenti della guerra, industriandosi  come potevano tra figli piccoli da accudire, faccende domestiche  e parenti sfollati dalla città colpita dai bombardamenti.

Nell’atrio del portone montagne di divise e cappotti smessi giacevano a testimoniare giovani vite spezzate. Un giorno anche quei ragazzi partirono, lasciando l’eco di parole straniere e di risa sonanti. A Montecassino la storia interruppe il corso della loro vita. La guerra finì. L’azienda di famiglia, già caduta in bassa fortuna durante il fascismo, naufragò  insieme ai velieri dediti al commercio marittimo oltreoceano.

 Gioconda aveva il suo da fare quotidiano e acquisì senso pratico e determinazione, più per necessità che per scelta.  Con il marito si impose perché tutti i nipoti e le figlie studiassero, e possibilmente in scuole  pubbliche. Egli non si oppose per gli studi classici, teologici, tecnici e magistrali ma ebbe qualche resistenza per il liceo artistico in città dove poi iscrisse una delle figlie. Del resto anche uno zio era pittore e i suoi  quadri di scene e cani da caccia ne erano testimonianza. Apparentemente distaccato, con quella figlia era in sintonia anche se  la rimproverava perché troppo esuberante ed estroversa, perché andava sempre in bicicletta e giocava a tamburello meglio dei ragazzi del paese, che facevano a gara per sfidarla nel gioco e conquistarla in amore. Quella figlia straordinaria, formatasi in città, in seguito con ironia e sobrietà dimostrò che la vera libertà  non necessita né di conferme affettive né dei consensi  di una società all’epoca limitante, se non quelli della propria coscienza; preferì non sposarsi e trasmettere ad alunni e nipoti l’amore per le arti, il bello, la natura, il nuoto, la vita nella sue varie sfaccettature. E Gioconda, se si rammaricava per le sue mancate nozze, in fondo si compiaceva dell’anticonformismo di quella figlia, con la quale visse in simbiosi fino alla fine.

 Sin da ragazza  amava la musica e il canto, che le permettevano di interpretare emozioni sul fluire delle note. Anche in età avanzata si concedeva il lusso di andare ai concerti serali di Ravello con la figlia e la bambina, che  trascorreva le vacanze estive a casa sua. Per l’occasione indossava uno scialle e il vestito buono, poco difforme da quello solito, sempre a piccoli pois o fiorellini azzurri su fondo nero o blu. La bambina contemplava davanti a sé le sfumature violacee che univano mare e cielo nel crepuscolo, poi congiungeva le stelle in disegni immaginari ispirati dalla musica . “ La musica si ascolta a occhi chiusi. Vibra dentro e trascina” e così si rannicchiava sotto il suo scialle. Rientravano a notte fonda con la 500 dalla capote abbassata. Talvolta cantavano, finchè la bimba si addormentava sul sedile posteriore, cullata dalle curve tortuose della costiera amalfitana. 

 Gioconda credeva. Chissà se per convinzione o  per bigottismo. Aveva comunque approfondito  la dottrina .Ogni settimana contattava un prete per le messe da celebrare nella  cappella, che divenne un punto di riferimento per tutto il vicinato, amici e parenti. La fede non le tolse mai il sorriso e la capacità di accettazione, anche quando dovette affrontare la lunga malattia del marito e lutti prematuri. Se la fede fu per lei un sostegno costante, invece la generosità divenne una regola di vita verso chi le chiedeva consiglio o si trovava in difficoltà e non osava chiedere. Divideva quel poco che aveva: un pacco di zucchero, pasta e caffè, a volte un piatto di frittelle di fiori di zucca, ortaggi appena raccolti nell’orto, accompagnati dall’immaginetta di qualche santo e Madonna, che di buon ora la bambina consegnava a persone sconosciute, percependo il significato di quel gesto da cordiali saluti e ringraziamenti o da sguardi tacitamente riconoscenti.

 La sua casa era il ritrovo di tanti… delle figlie, dei nipoti, pronipoti  e cognate/i partiti per le missioni, per mare e terre lontane in cerca di fortuna nel dopoguerra, per scelta o vocazione. Quella casa era sempre aperta a tutti e la  porta non era mai chiusa a chiave. La domenica mattina gli uomini si riunivano per discutere di politica con suo marito, costretto a letto; di pomeriggio i  bambini giocavano in cortile fino a sera inoltrata, quando qualche mamma non li chiamava dal balcone. Allora la grande sala da pranzo si animava  di donne, che improvvisavano la cena, e di uomini che rientravano dal lavoro. Intanto Gioconda ascoltava dai più piccoli il resoconto della giornata oppure organizzava con due figlie le attività di ricamo per la mostra di  beneficenza.

  La gente del paese andava periodicamente a farle visita . La bambina disponeva su un vassoio i bicchieri che poi portava camminando pian piano per timore di farli cadere. Offriva sciroppo di amarene, nocino, amaro di mirto o giulebbe di limone che aveva aiutato a preparare, selezionando i frutti migliori, filtrando e travasando più volte con garze sottili. Mentre giocava  con uno dei tanti gatti di casa, osservava gli occhi e i gesti degli ospiti. Ascoltava i loro aneddoti, racconti, i frammenti di saga familiare cercando di districarsi nella sua mente infantile tra gli intrecci genealogici, in cui spesso si smarriva, e di ricostruire logicamente  la storia dei fatti e degli affetti .

 In tarda età Gioconda usciva di rado ma a un rituale estivo non rinunciò mai. Ogni estate doveva fare sette, otto bagni  al mare. Quando la 500 gialla, con la capote sempre alzata, arrivava nel borgo marinaro, i vecchi pescatori uscivano dai munazeni e le andavano incontro per salutarla. Le ricordavano i figli, ormai uomini e perlopiù naviganti, e le presentavano le nuore e i nipoti.

La bambina rideva  quando assisteva ai preparativi per l’immersione in mare perchè Gioconda non indossava un normale  costume da bagno, ma una palandrana di cotone nero, lunga fino al ginocchio, abbottonata sul davanti e con le mezze maniche. Mutandoni neri, una sorta di bermuda, completavano l’abbigliamento da spiaggia. Come riuscisse a  galleggiare, era un mistero! Teneva il mento in alto e la testa diritta, cercando di non bagnare i capelli raccolti, e muoveva le mani in fuori per spostare leggermente l’acqua. Si beava  nel mare  limpido e fresco sotto i costoni rocciosi ed esortava la bambina a tenersi a distanza, forse perché temeva di bere o di affondare trascinata giù dalla pesante palandrana. La piccola  la precedeva, nuotava sott’acqua fingendo di cercare conchiglie e stelle marine sul fondale. In realtà era incuriosita da quella specie di elegante manta nera che avanzava lentamente .Un giorno un anziano pescatore volle portarle in barca a remi . La superba costa alta che si stagliava nel cielo terso, le acque cristalline e la nostalgia indussero Gioconda a  rivivere un passato ormai remoto nella rievocazione ironica di famiglie e personaggi, che con i loro soprannomi e aneddoti popolano la storia di ogni paese.

  L’estate trascorreva placidamente tra persiane socchiuse per mantenere un po’ di fresco nell’antica casa durante la siesta pomeridiana. La bambina giocava tra le ante a specchio dell’armadio: si divertiva a congiungerle quanto più poteva per vedere la propria immagine riflessa per decine di volte, all’infinito. Correva alla finestra non appena sentiva suonare il campanello, sperando di dover calare giù il cestino. Aveva imparato, dopo qualche disastro, a mollare pian piano la corda arrotolata e a tirarla su ancor più lentamente per non farla oscillare e rovesciare  la bottiglia di latte fresco che una vicina consegnava ogni sera. Altri passatempi consistevano nella preparazione di infusi di erba e petali di fiori nell’alcool per ottenere miscele colorate o nell’usare il macinino per tritare i chicchi di caffè. Appena poteva, sgattaiolava con il cane in giardino per andare su una bicicletta sgangherata e giocare con i cugini, contendendo poi l’amaca per riposarsi. Il divertimento più spassoso però era nell’orto: trascinava  a fatica la pompa lungo il viale e poi innaffiava tutto. Bagnata e sporca di terra, fiera rientrava in casa portando un cesto pieno di pomodori, basilico, prugne ammaccate e trovate in terra,  fiori freschi recisi maldestramente (…tanto i santi non avrebbero notato questo particolare). Gioconda non la sgridava ma l’ aiutava a ripulirsi. Se invece era esausta per una giornata trascorsa al mare, alle prodezze domestiche la bambina preferiva il riposo sul lettone e, dietro un giornalino,  spiava sottecchi . Lei stava seduta al tavolo tondo intarsiato mentre lavorava all’uncinetto; all’improvviso con tono teatrale improvvisava uno spiritoso dialogo con il  Signor Gatto di turno che partecipava miagolando, fuseggiando e spingendo la testa sotto la sua mano per farsi accarezzare. Entrambi alludevano  alla bambina e le facevano  capire che l’avevano scoperta. Nell’ultimo periodo interrompeva il lavoro, stava immobile e osservava in silenzio davanti a sè. Forse si smarriva in una preghiera, un ricordo o un presentimento…

La Signora Gioconda capiva più di quanto non desse a vedere, non si adirava mai e quando doveva dire qualcosa di importante o serio, affrontava con indiretta ironia l’argomento, ricorrendo a  metafore, aneddoti e domande. Con la sua presenza trasmetteva una serena fermezza e con la sua compostezza un  apparente distacco dalle umani passioni.

Pareva che vivesse in un mondo suo, dipinto dalla garbata gentilezza, da una taciuta  forza d’animo, dalla coerenza e fede ai principi, dalla discreta e  pudica ritrosia a esternare impulsivamente le emozioni più forti e i pensieri più profondi.Un mondo fermo ed immutabile nel tempo, in una casa senza orologi. Tempo scandito dai fiori di stagione e tralci di edera raccolti in giardino, dai racconti, dai quadri, dai mobili, dagli affetti.

Un mondo di radici mai strappate che mi appartiene, come il patrimonio interiore di  cose semplici e belle che mi ha donato nonna Gioconda.

 

La mitica pastiera

La pastiera è un dolce di antiche e leggendarie origini, tipico della cucina napoletana e del periodo pasquale.

Si narra che in primavera la sirena Partenope emergesse dalle acque del Golfo di Napoli  per salutare con canti di gioia le genti della costa. Un giorno sette belle fanciulle furono inviate per omaggiarla  con  preziosi e semplici prodotti della terra e del lavoro dell’uomo: farina, ricotta, uova ( simbolo della vita), grano, inebriante acqua di fiori d’arancio, seducenti spezie del lontano Oriente e  infine zucchero. Partenope  pose questi doni ai piedi degli dei che la ringraziarono amalgamandoli magicamente in una pastiera, più  dolce del suo canto che incantava uomini e dei.

“L’antica pastiera dall’apparenza casalinga, onesta, sincera, color del legno stagionato, decorata col suo modesto traliccio incrociato di pasta frolla. Intanto è un dolce a metà. Il suo sapore è delicatissimo, composto come è dai chicchi di grano primaticcio ammorbiditi e ammollati, da una buona ricotta, da pezzetti di cedro, umida e fragrante d’acqua di fior d’arancio. È un dolce che sa di primavera e di nozze, di innocenza e d’infanzia, di sole e di serenità, un dolce d’altri e forse più felici, almeno più tranquilli tempi (da “Breviario della cucina napoletana” di Mario Stefanile)

 

Un dolce talmente  squisito, da ridare  il sorriso a tutti…

A Napule regnava Ferdinando

Ca passava e’ jurnate zompettiando;

Mentr’ invece a’ mugliera, ‘Onna Teresa,

Steva sempe arraggiata. A’ faccia appesa

O’ musso luongo, nun redeva maje,

Comm’avess passate tanta guaje.

“A Napoli regnava Ferdinando (Ferdinando II di Borbone) che passava le giornate “zampettando”; mentre invece sua moglie, donna Teresa ( Maria Teresa d’Austria) stava sempre arrabbiata. La faccia triste, il muso lungo, non rideva mai, come se avesse passato tanti guai…”( e ci credo… dopo 12 figli e un consorte allegramente zampettante al fianco)

 Finchè un giorno la cameriera propose alla regina un dolce nuovo, che piaceva a uomini , donne e bambini. La pastiera addolcì la regina tanto da strapparle un sorriso. Il re esclamò:

“E che marina!

Pe fa ridere a tte, ce vò a Pastiera?

Moglie mia, vien’accà, damme n’abbraccio!

Chistu dolce te piace? E mò c’o saccio

Ordino al cuoco che, a partir d’adesso,

Stà Pastiera la faccia un pò più spesso.

Nun solo a Pasca, che altrimenti è un danno;

pe te fà ridere adda passà n’at’ anno!”

“E che marina! Per farti ridere ti ci vuole una pastiera? Moglie mia, vieni qua, abbracciami. Questo è il dolce che ti piace? E ora che lo so, ordino al cuoco che, a partir da oggi, faccia più spesso ‘sta pastiera. Non solo a Pasqua, chè altrimenti è un danno: per farti ridere deve passare un anno!”

 Probabilmente la pastiera, come la conosciamo oggi, nacque dall’estro culinario di un’ignota suora, una delle tante dedite alla preparazione di dolci che allietavano le tavole imbandite  di nobili e ricchi borghesi.

 I piatti tipici della tradizione napoletana hanno il pregio o il difetto di non rispecchiare mai un’unica ricetta: sono spesso “insubordinati” nelle dosi e negli ingredienti. Non solo, ma ogni famiglia custodisce gelosamente quella variante che rende il piatto speciale e diverso dalla ricetta base. Come ad esempio la pastiera di cui si trovano ricette con uova e ricotta, con crema pasticcera oppure  con i tagliolini.

 La pastiera mi è cara perché l’ associo a mia madre. Premetto che a tutt’oggi non si cimenta nei dolci se non negli struffoli e nella pastiera, che merita effettivamente un plauso anche per le irregolari strisce incrociate di pastafrolla che sono la sua inconfondibile firma.Mamma dedica un’uscita speciale solo per acquistarne gli ingredienti. Qualche giorno prima di prepararla, mette il grano a mollo nell’ acqua. Il giorno successivo lo cuoce nel latte. E al terzo giorno assisto alla vera resurrezione di mamma. Per soddisfare le richieste di amici e conoscenti, per un giorno intero inforna e sforna dolci di vario diametro, e non vuole essere assolutamente  disturbata in un rituale che le appartiene e al quale ha rinunciato solo due volte in vita sua, a causa del  terremoto e di un grave lutto familiare.

Alla pastiera sono legati aneddoti indimenticabili nella storia della mia  famiglia.Una volta mamma mi telefonò chiedendomi  di ritirare la spesa nel negozio di fronte casa sua e la cosa mi parve alquanto strana perché ha sempre, ma sempre fatto tutto da sola. Non appena mi vide, il salumiere esclamò: “Signora, ho preparato le uova per sua madre. Mi scusi , ma a che cosa servono 60 uova?” Ignara di tutto, capii che erano iniziate le grandi manovre pasquali da pastiera. Fu così che anche il salumiere si guadagnò il suo piccolo e dolce tributo pastieresco.

Poiché le specialità gastronomiche di famiglia si trasmettono ancora di generazione in generazione  (ebbene sì), per anni le ho chiesto la ricetta  della pastiera. In effetti non l’ho mai ricevuta perché lei, come mia suocera, dosa tutto ad occhio e  io non potevo permettermi, in tempo e disponibilità, di cimentarmi in un dosaggio da 60 uova.

Finalmente un giorno ho scoperto la ricetta della bisnonna Sofia e ho imparato a cucinarla, finchè un  bel giorno mio padre in buona fede osò dire che la mia pastiera era buona quasi come quella di mamma. Non l’avesse mai detto! Si sfiorò un incidente coniugale dopo circa 40 anni di matrimonio perché  lei si adombrò; da allora le lasciai volentieri il primato e ancor più volentieri la fatica.Di recente ho ripreso a prepararla con  quel piccolo segreto di mamma che la rende speciale.

Per noi tutti,  la pastiera rappresenta un po’ l’energia, la sostanza e la dolcezza di mia madre. 

Pastiera della bisnonna Sofia.

  Ingredienti:

 

500 g di grano

½  l. di latte

100 g. burro

3 cucchiai di zucchero

1 bastoncino di cannella

100 g di cedro candito tagliato a pezzetti

1 kg di zucchero

1 kg di ricotta

12 uova

buccia  di limone grattugiata

un bastoncino di cannella

essenza di fior d’arancio (una fialetta)

 

Mettere il grano in acqua tiepida e sale per almeno mezza giornata, dopo averlo pulito e sciacquato a lungo.Calarlo in un litro e mezzo d’acqua fredda e lasciarlo bollire (altrimenti comprare il grano già ammorbidito).Cuocere a fuoco lento il grano, già ammorbidito, nel latte, burro, cannella, zucchero e un po’ di sale finchè non si scuoce .

In due terrine battere separatamente i tuorli e gli albumi d’uovo, poi unirli.In un’altra terrina lavorare la ricotta con lo zucchero e versarvi poi il grano cotto nel latte.Aggiungere le uova sbattute, il cedro a pezzetti, il bastoncino di cannella e la fiala di fior d’arancio. Lasciare riposare un po’.

 

Ingredienti per la crema pasticcera

 

300g zucchero

2 uova intere + 4 rossi d’uovo

1 l di latte

120 gdi farina o amido

 un bastoncino di vaniglia ( in alternativa uso una bustina di vanillina)

 buccia grattugiata di limoni verdi .

 

In una pentola lavorare le uova con lo zucchero.Aggiungere un po’ alla volta la farina continuando a mescolare, poi il latte, la buccia di limone e la vaniglia e amalgamare.Cuocere a  fuoco basso mescolando di continuo con un cucchiaio di legno per evitare che la crema si attacchi e si formino grumi. Fare addensare la  crema .

Versare  la crema nell’impasto precedente, lasciar raffreddare  e infine unirvi anche mezzo bicchierino di whisky e qualche goccia di angostura ( variante mia e di mamma che dà un po’ di colore). Mescolare delicatamente. Togliere i bastoncini di cannella.

 Pastafrolla ( ma di solito uso quella surgelata).
 250-300 g di farina

125-150 g di 

zucchero a velo

150 g di burro o strutto

3 tuorli d’uovo

un bicchierino di rum

Mescolare  e lavorare la  farina,lo zucchero e il burro. Aggiungere i tuorli e il rum, comprimendo delicatamente.Foderare una teglia con la pasta frolla, versare l’impasto della pastiera.Preparare strisce di pasta frolla, larghe1-2 cm, da incrociare sull’impasto.

Cuocere a 180° C per un’ora e un quarto circa. Lasciare raffreddare la pastiera e infine cospargere di zucchero a velo.

Come eravamo…a Carnevale

Da bambina mi travestivo sempre da pellerossa , armandomi di scudo e pugnale  rigorosamente finti, per rivendicare con i cugini e mia sorella l’appartenenza  alla Tribù dei Piedi Scalzi e la libertà, almeno a Carnevale, di urlare, correre a piedi nudi nel giardino e dipingermi il viso col rossetto e i tappi di sughero bruciati. Negli anni dell’adolescenza, in cui ero piuttosto disorientata sui miei naturali cambiamenti e sul mio futuro da grande, abbandonai l’usanza del travestimento per non complicarmi ulteriormente la vita col dilemma di un’identità carnevalesca.  

Ormai ventenne, apparentemente con le idee più chiare, iniziai ad accettare inviti a feste in maschera, pur non sapendo assolutamente come fare. Non  potendo  permettermi di noleggiare un costume, decisi di confezionarli  con ciò che trovavo negli armadi e con l’aiuto di una zia che sapeva cucire. La prima volta indossai  una giacchetta di raso rossa, ottenuta in prestito, pantaloni e top nero. Un cilindro o bombetta, il trucco e le pailettes  mi aiutarono a fare la mia sporca figura. L’anno successivo ero piuttosto agguerrita e quindi mi vestii da rivoluzionario francese, con tanto di mantello e tricorno nero, camicia extralarge bianca e  stivali fuori dai pantaloni. Il cerone bianco mi dava un’aria esageratamente pallida, se non funerea, ma anche  misteriosamente tenebrosa.La terza volta mi improvvisai  esploratrice in Africa: riciclai pantaloni estivi e sahariana beige, i soliti stivali e, dopo una supplica di giorni, riuscii ad indossare l’originale cappello da esploratore inglese appartenuto a nonsochi e scovato in uno dei tanti armadi della nonna. Ma non ci fu verso di completare il travestimento portando a spasso il fucile del nonno.

 Sono poi balzata ai Carnevali dei miei figli. Trasformai la primogenita in una paffuta Paperina dal becco arancione e candide piumotte, e più tardi in una tenera Primavera finchè, ormai in grado di intendere e volere almeno un costume carnevalesco, lei ne scelse uno da zebra. Sì, proprio da zebra,e lo indossò per un bel po’di anni. Anche quando divenne troppo piccolo, ne reclamò un altro che dovetti far cucire di proposito. Sin da piccola preannunciava lo spirito di tifosa giuventina e un’autostima altalenante dalle stelle alle stalle, dal bianco al nero senza sfumature intermedie.

 Il secondogenito, dopo una breve parentesi da Peter Pan, fedele sempre fu- taratàn zambù- all’Uomo Ragno. In tutto. Non solo nelle collezioni di pupazzetti e figurine, ma soprattutto nell’abilità ad arrampicarsi dappertutto. Imparò presto, ancor prima di camminare, a scalare  tutto ciò che poteva pregiudicare la sua incolumità. Il suo esordio fu sul tavolo con le rotelle, poi prudentemente smontate per evitare che slittasse nella cristalliera di fronte, per dare l’arrembaggio al porta bon bon che regalmente vi trionfava. In seguito passò alle sbarre del lettino che scavalcava di notte in cerca dei ghinghin , cioè i tre ciucciotti che misteriosamente sfuggivano dalla barriera dei paracolpi. Memorabile fu la conquista della vetta del pitosforo nel giardino della scuola materna sul quale rimase appollaiato un bel po’, fino a quando le maestre trovarono una scala e lo fecero atterrare tra i comuni bipedi umani.

Dopo una fase dark, semi reale, e un’altra horror, per fortuna solo carnevalesca, anche i figli hanno smesso di travestirsi. Guai se oso associare al Carnevale il loro estroso look serale. Meno male che ignorano il mio che, alla loro età, ne vantavo uno indescrivibile…tutti i giorni. 😉

 E voi che cosa ricordate del Carnevale?

 

La logica dell’errore

Un giorno  scoprii mia madre che si arrovellava con  un cruciverba. Mancava una sola parola per completarlo. Mi chiese aiuto  perché, secondo lei, c’era un errore nelle definizioni. Così controllai le risposte scritte che s’incrociavano in quel punto morto. Tutte parevano esatte, finchè lessi la definizione: “Sono degni di lode” cui corrispondevano sei caselle da riempire. Invece di meriti, aveva scritto mariti. Uno scambio di vocali impediva  l’inserimento dell’ultima parola.

Quell’errore però aveva una sua logica, rispecchiava una sua certezza …tant’è vero che quando le dissi che  i meriti sono generalmente degni di lode, lei mi rispose che lo erano anche i mariti.

Alla mia replica “Sì potrebbero esserlo anche i mariti, ma non tutti, a differenza dei meriti  che invece sono rigorosamente degni di lode” obiettò “Dipende da come li raggiungi”.

 

Anche questa era una risposta logica. 😉

 

Memorandum di una madre di figli adolescenti

 

I figli crescono  e me ne accorgo sempre più.L’affetto di mammà italica regna sovrano con qualche ansia, soprattutto serale, rapportata alle loro recenti, più frequenti e legittime  esperienze.Così ho stilato un memorandum: sono ben accetti i pareri di coloro che hanno esperienze diverse. 

  1. Dovevaiconchivaiacheoratorni è il minimo che una mater possa fare prima che i figli  escano di sera.  A che serva, non saprei. Se non a lanciare il sottinteso: “Mi raccomando! Io son qui che  vi aspetto.”
  2. Considera  sempre che possono rispondere quel che vogliono. Va bene lo stesso. Purchè si riesca   poi a ricostruire la loro serata e relazioni interpersonali dal successivo e spontaneo resoconto.
  3. Il consiglio precedente è nullo se il figlio è introversamente muto. In questo caso il classico “Non mi ricordo” oppure “Ma cosa vuoi sapere?” suona peggio di un’inesorabile mannaia. È auspicabile rinviare eventuali analisi del sangue, previste per il giorno dopo, perché i valori potrebbero risultare alterati da stress genitoriale.
  4. Nel caso succitato la mammà italica è in stato d’allerta. Nei giorni seguenti  raddrizza le antenne e cerca di captare, con orecchie da volpe del deserto, ogni piccolo cenno ad amici o a riferimenti spazio temporali della trascorsa serata  per sincerarsi che è tutto ok.
  5. La fiducia è basilare, ma non è mai troppa. Ci sono in giro tanti marpioni /e, e   ci sono sempre stati. Forse oggi più di prima o sono solo più emergenti nell’immaginario della genitrice?
  6. Evita il pedinamento a meno che non si abbia la certezza che stiano deviando. Se c’è sentore di allupati/e (oggi c’è par condicio) che abbiano troppi  anni più di vostra figlia/o, inizia a suonare lo scacciapensieri in un doingdoingdoing dinghidinghi e ad indossare un basco siciliano…sperando che il nuovo look sortisca l’effetto sperato.
  7. In caso di certa conferma, dopo avere ragionato invano con i piezz ‘e core, dedica almeno cinque giorni  ad allenamenti di corsa e di  lancio del giavellotto per avere abbastanza fiato e mira.  Non per sbraitare, ma  per rincorrerli  brandendo un bel battipanni o matterello. I vecchi rimedi funzionano sempre.
  8. Se i figli tardano eccessivamente, un paio di volte si può tollerare .Fai capire però che il tarlo della  preoccupazione procede con le lancette dell’orologio e che è ben accetta una loro telefonata rassicurante in caso di ritardo.
  9. Non angosciare con telefonate continue durante la loro uscita. Se il telefono non squilla, vuol dire che è tutto a posto.
  10. È opportuno dire che devono esser reperibili, qualora si voglia rintracciarli. Se il loro cellulare è sempre irraggiungibile, è meglio non ridursi ad avere anti estetiche occhiaie fino a metà guancia…con modi garbati e sorriso serafico sii sempre pronta ad accoglierli al rientro e poi sfogati pure con una defenestrazione – del cell , non dei figli-, visto che se ne servono  solo quando fa comodo.
  11. Il detto questa casa non è un albergo, è sempre attuale. L’ideale sarebbe pure che non fosse una stalla, perlomeno  la loro camera, dopo la lunga e caotica vestizione serale e frettolosa svestizione notturna. Ma hanno bisogno dei loro spazi, per cui fingi di non vedere fino a quando non c’è sentore di un controllo  dell’ASL. Al loro dolce risveglio, fai  trovare periodicamente ben allineati, in assetto da parata, scopa, straccio, detersivi e secchio d’acqua per provvedere. Qualora siano recidivi,  ottimo deterrente al soqquadro potrebbe essere  una catapulta per  sgomberare il pavimento dalle pezze sparse.
  12. Quando rientrano, se non sei già tra le braccia di Morfeo (che può essere pure uno pseudonimo), ogni tanto con la scusa di augurare la buonanotte e baciarli, annusa l’alito e controlla le pupille. Lo scotto di mammà possessiva val bene come controllo indiretto o prevenzione.
  13. Scatta come una molla  dal letto se per caso si affacciano in camera dicendo: “Mamma devo parlarti…” ; accomodati su un divano evitando di sbadigliare, ascolta e  conta fino a venti prima di rispondere.
  14. Prima di andare a dormire , spiega bene al cane o al gatto di casa che sarebbe opportuna la loro collaborazione. Come ti svegliano alle sei di mattino, mettendo il muso o allungando la zampa sul letto per ricordarti gli impegni della giornata, così devono avvisare quando i figli rientrano ad ora troppa tarda, al di là di quella pattuita. Altrimenti niente pappa. In famiglia tutti devono cooperare.
  15. Viceversa avvisa i pappagallini che se osano strepitare, saranno liberati al freddo e al gelo l’indomani.
  16. Se il figlio/a prende l’auto, il controllo del contachilometri dà utili indizi sugli annunciati spostamenti della serata. Se mente, pur sapendo di mentire, basta lasciare il serbatoio della benzina vuoto …altrettanto il portafogli.
  17. Se  tradiscono la vostra fiducia, medita col consorte una strategia educativa condivisa soprattutto a riguardo del contenuto e dei toni del ragionamento che vorrete intraprendere.
  18. Se il consorte fa lo gnorri, compra un bel biglietto per ignota destinazione nel week end e lascia che si assuma le sue responsabilità di paterfamilias. Le tue di matermatronissima bastano e avanzano.
  19. Rimuovi eventuali  sensi di colpa; pensa alla tua  adolescenza valutandone i pro e contro alla luce della sopraggiunta maturità ( anche se Peter Pan scalpita nel profondo io).
  20. Non disdegnare eventuali loro tatuaggi, purchè non cancellino dalla mente un tatù più consapevole “che mamma e papà sono i loro genitori, a rischio di passar per ansiosi e anacronistici caudilli, protagonisti e destinatari del sempiterno  scontro generazionale, e che non si preoccupano che facciano esperienze, ma esperienze senza ritorno”.

 

Vignetta tratta da “Tutta Mafalda” di Quino- ed. Bompiani.

I figli sono le ancore della vita di una madre ( Sofocle).

Quante persone  hanno inciso nella mia vita, chi più, chi meno: alcune sono state  stelle di passaggio, altre stelle fisse. Una mi ha dato l’imprinting dalla nascita. È  la cara mamma con la quale a tutt’oggi vige un rapporto di odio amore: una madre forte, quasi  granitica, che  mai si abbandona ad un complimento, una tenerezza, un’introspezione personale se non quando volutamente ce la porto io col mio fare diretto e a volte ironicamente  provocatorio Esiste  però anche un’altra mamma, detta mammà, cioè  la suocera. È la madre acquisita, cui voglio bene e che stimo per la sua vitalità ed ironia e con la quale ho instaurato  un rapporto schietto, nonostante ci siano state iniziali  incomprensioni, sanatesi poi in modo saggio …del resto era prevedibile visto che abbiamo due caratterini determinati ai quali, ancor oggi ,mi chiedo come sia sopravvissuto mio marito.

 Capirete che il rapporto suocera e nuora è ben diverso tra quello intercorrente tra suocera e genero. Il genero di solito è tollerato e  se ne sta in disparte;  con lui la suocera mantiene rapporti affettuosamente formali di squisita cortesia e  di solito è bendisposta nei suoi riguardi, ben sapendo  che gli  dovrebbe erigere un monumento in segno  di riconoscimento per avere avuto l’ardire di  impalmare e sopportare la  figlia. Generalmente,se le cose non vanno bene  nella coppia, la madre di lei  non affronta mai l’argomento col genero, MAI…ma  poi in privato  si chiarisce a squarciagola e senza troppe attenzioni con la figlia. Il matrimonio va salvato a tutti i costi: piuttosto la mamma di lei si sdraia sull’uscio di casa immolandosi ad un eventuale calpestìo dei coniugi in crisi  La più grande ferita inferta è quando la coppia , ormai scoppiata, si disaccoppia per sempre per cui, vita natural durante, la figlia sarà ritenuta responsabile del fallimento del matrimonio o, in casi eccezionali, di avere comunque fatto una scelta sbagliata, di non avere capito che pasta  d’uomo potesse essere il consorte . Su di lei graverà l’onta di avere sciolto un vincolo indissolubile. 

 Ah le donne di una volta!  Ostentavano fieramente sulla cervice le impalcature  del papà di Bambi  insieme alla fierezza di essersi sacrificate per l’unità della famiglia,votate al  dignitoso silenzio e sopportazione .Chissà  se in privato facevano scontare  al marito fedifrago e concubino le sue scappatelle e mancanze di rispetto per esser volato dietro a qualche compiacente e frivola sottana. La matermatronissima  si sarebbe   incatenata davanti alla porta di casa pur di non far andare via il paterfamilias in un momento di rabbia, debolezza  o sconforto,cementandolo  su un piedistallo  agli occhi dei figli come onesto lavoratore e padre esemplare, cui si poteva , anzi  si doveva perdonare qualcosa.

Questo  perchè una volta c’erano le Mogli Santissime, regine del focolare e osannate sul trono della sacra famiglia, mentre  fuori del regno familiare vagavano  le altre  comuni  ed insignificanti mortali.

 Merita però un discorso a parte  mammà…anzi MAMMÀ, l’unica e vera  presenza dominante della famiglia di lui, cioè la madre  del marito. Mammà è colei  che fa tremare le vene ai polsi a qualsiasi ragazza, dai 18 ai  60 anni, che si accinga  a conoscere i genitori di lui. Qualsivoglia  lei è in soggezione,  preoccupata quando per la prima volta si avvicina con timore riverenziale alla futura suocera.. Supermammà con un fare un po’ distaccato o cerimoniosamente gentile  scruta la rivale, colei che osa spodestarla dal cuore e dalla testa del figlio, colei che inoltre  lo spinge con arti seduttive a  uscire dal nido e a tagliare il cordone ombelicale. In una frazione di secondo la  genitrice  già immagina il suo bambino in versione casalinga , mentre affaticato porta sacchetti della spesa e della spazzatura,  consola pargoli febbricitanti  e piagnucolosi, pensieroso fa i conti con le bollette da pagare e di sera ,con  modi un po’ servili, cerca d’ingraziarsi la moglie stanca.

 Mammà ben sa di appartenere ad un’altra tempra, ad un’altra generazione,  quella dedita solo a casa e famiglia,le cui uniche divagazioni sono  tappe a cadenza prefissata  in  chiesa, nel  supermercato e  nel mercatino rionale; la più grande trasgressione vacanziera  è un viaggetto una tantum organizzato dalla parrocchia.

Mentre si svolgono i convenevoli di presentazione solitamente con invito a pranzo a  casa di lui, la fidanzata viene “scannerizzata” dagli occhi fissi e penetranti di mammà che si chiede pensierosa “ Sarà all’altezza di rendere felice mio figlio? Sarà seria? Sarà in grado di garantire progenie per il perpetuarsi della specie?” Perciò ,giovani fanciulle, non preoccupatevi per il vostro bell’apparire, per il trucco sbavato ed il look poco consono: mammà va oltre, punta direttamente alla sostanza del vostro essere.

 La futura suocera è colei che sa cucinare di-vi-na-men-te, che già al primo incontro vi  informa delle preferenze gastronomiche  del figlio perché -si sa- l’uomo si prende per la gola ( se solo immaginasse  quali sono i veri appetiti del suo  bambino!), e non riesce a capire che sarebbe ora di svezzarlo. È colei che stira benissimo, soprattutto le camicie, ricorda tutte le ricorrenze e non si sgomenta se deve preparare un pranzo  per 25 persone. È l’amministratrice delegata della grande azienda familiare, che dirige dal  ponte di comando  con  incredibile  maestria, mentre il suocero –ombra acconsente silenzioso purchè sia lasciato in pace a leggere il quotidiano e guardare la tv . Mammà  è sempre in ordine: va dalla parrucchiera in occasione delle feste comandate, usa da almeno trent’anni lo stesso profumo e  a stento mette un po’ di rosa sulle guance o un filo di rossetto. Indossa vestiti sobri che sembrano una divisa, comodi e poco appariscenti. Idem per le scarpe, adatte per ogni occasione e per repentini sprint d’attacco.  Legge qualche settimanale e  si diletta in parole crociate che fa quadrare con somma abilità  scrivendo  anche due letterine nella stessa casella. Segue tutte  le trasmissioni di cucina  ma predilige quelle  strappalacrime dove può commentare a viva voce o fare  il tifo per chi ha ragione in base alle emotive pulsioni del  suo grande cuore. È aggiornata sui fidanzamenti, separazioni e divorzi di tutti i personaggi del mondo dello spettacolo, dello sport e delle dinastie  regnanti, fino alla terza generazione ascendente.

 Quando finalmente  i piccioncini  arrivano allo stato coniugale,giuridico o di fatto, per la sposina inizia il vero rodaggio di convivenza…non con lui, ma con la mamma di lui.

Mammà  va raramente a farle  visita, per non dare fastidio( in effetti non sopporta il disordine cronico della casa degli sposi che potrebbe svelare qualche dettaglio della loro felice intimità) . Preannuncia il suo arrivo cinque minuti prima di una sua eventuale visita, per fare “scavezzacollare” meglio gli sposini in un riordino last minute .  Non appena la nuora apre la porta, la  fissa negli occhi per capire come stanno le cose col figlio. Attenzione se fa troppi complimenti del tipo “Come  sei bella e radiosa oggi!” (sottintende: Vi ho sgamati! – se c’è  bonaccia , oppure “Non è che qualcun altro ti ronza intorno?”, se spira vento di tramontana).

La suocera avanza come un Panzer quando  viene alla luce la progenie ,cioè quando finalmente la discendenza è stata garantita…Olè, supermammà in mille faccende affaccendata,s’adopra indaffarata come  supervisore perché i pargoletti crescano bene, educati, sani e forti. Giorno e notte aiuta  la neomamma inesperta,  nutrendola con cibi sostanziosi ( ecchissenefrega dei chili in più) perché produca latte in abbondanza e  dispensando consigli che si tramandano da generazioni sull’allevamento della specie umana. In tal caso assecondatela, altrimenti ve la farete nemica per sempre.

Chissà perché  i  nipoti somigliano sempre al papà o al nonno, alla zia e alla sorella di lui, mai alla mamma naturale. Puta caso  il pargolo abbia  i capelli sfacciatamente rossi come la madre, mammà zittisce il neopapà che osa rilevare questa somiglianza  dicendo:”Ma no,che dici! Nella nostra  famiglia c’era un trisavolo detto Peppiniello Il rosso …”

 Care ragazze e care signore, perdete ogni speranza se avete intenzione di belligerare con vostra  suocera: lo scontro tra due titani  è controproducente per l’armoniosa sopravvivenza della coppia…rischiereste entrambe di affondare come il Titanic, perdendo  l’amato e conteso bene ( il lui che gongola, non sempre beato, tra  l’incudine e il martello  fingendo spesso di non vedere e non sapere delle vostre schermaglie).

A meno che  non vi siano ragioni più che gravi, fate buon viso a cattivo gioco, ma solo dopo aver magistralmente ed educatamente definito il vostro ruolo, campo d’azione  e ambito di competenza. Contate fino a 300 prima di risponderle  per le rime, ricordatevi  che Lei lo fa perché nutre un amore viscerale per suo figlio e si preoccupa per lui, e non per fare dispetto a voi.

Pensate  che forse un giorno anche voi diverrete suocere: immaginate  per un secondo se vostro figlio, per la legge del contrappasso, un giorno vi presenterà o sceglierà una compagna eccessivamente disinibita, con le gonne troppo corte e troppo sorridente , ambiguamente solare,…una che vi sembrerà una gattamorta, magari plurilaureata ma che pare  non sappia  spiccicare due parole con un senso logico, e che vi risulti cordialmente antipatica per il semplice motivo che dentro di voi- non l’ammetterete mai- siete semplicemente rose dal maledetto, atavico e inguaribile  tarlo della  gelosia che s’annida in ogni  mammà!